AUTODIFESA DI UN ERETICO

di Pierpaolo Zamorani


(A proposito di Plebe Genti Esercito, un Corso di lezioni sulla plebe romana)

in: ARCHIVIO GIURIDICO - Volume CCXIX - Fascicolo III/IV - 1999

 

1. Certo potrà apparire strano che io abbia atteso più di dieci anni dall'uscita del mio corso sulla plebe (1) per rispondere ai miei critici. Ma ho qualche motivo di giustificazione.

In un primo tempo sono stato trattenuto dal farlo sùbito soprattutto per evitare che la mia risposta potesse assumere toni risentiti o polemici, cosa che sarebbe facilmente potuta avvenire se si tiene conto che una delle due recensioni che il libro ha ricevuto sembra appartenere più alla letteratura pamphlettistica che a quella scientifica. Poi l'attesa si è prolungata non tanto per meglio meditare contenuti e toni delle risposte da dare, quanto per la speranza, rivelatasi quasi del tutto vana, che alle due recensioni si aggiungesse, negli anni successivi, qualche ulteriore presa di posizione relativa al mio lavoro, presa di posizione da mettere a profitto o da discutere: insomma, mi attendevo (perché negarlo?) che la mia ricerca sulla plebe ottenesse maggiore risonanza ed attenzione da parte dei Colleghi (e non parlo certo di consenso, giacché di questo avevo poche aspettative).

Del resto, attacchi anche violenti mi erano stati predetti da un romanista tanto insigne quanto esperto quale Gian Gualberto Archi che, riconsegnandomi il dattiloscritto che Egli aveva accettato in lettura, aveva pronosticato critiche feroci dalle quali avrei faticato a difendermi. Ed invece, una volta tanto, il professore Archi si sbagliava. Pochi critici, pochi giudizi, ma piuttosto quello che si usa ironicamente definire un "fragoroso silenzio".

Ora, quando un lavoro, del quale tutto si potrà dire tranne che non sia innovativo, provoca reazioni così contenute (e l'aggettivo è senza dubbio eufemistico), la cosa non può essere casuale. Io ho fatto al riguardo qualche ipotesi, alcune delle quali sono talmente malevole da non potere nemmeno essere scritte; infine ne ho scelta una che non è necessariamente la più credibile, ma che almeno mi consente di sopravvivere alla sua formulazione (e di fare sopravvivere il mio lavoro) e di "rilanciare". Citerò, per spiegarmi forse poco rapidamente ma in maniera (spero) efficace, il brano di un libro che tutti conosciamo per averlo letto o nella nostra infanzia o (come è il mio caso) in età giovanile: Il Piccolo Principe.

Il Piccolo Principe vive su un minuscolo corpo celeste del quale Antoine de Saint-Exupéry scrive: «Ho una serie di ragioni per credere che il pianeta da dove veniva il piccolo principe è l’asteroide B 612. Questo asteroide è stato visto una sola volta al telescopio da un astronomo turco. Aveva fatto allora una grande dimostrazione della sua scoperta a un Congresso Internazionale d'Astrologia. Ma in costume com'era, nessuno lo aveva preso sul serio». (2)

Bene. Io ho il sospetto che il mio lavoro sia stato nella sostanza ignorato dai più semplicemente perché preso poco sul serio. Forse sono stato immaginato calcare in testa il fez (o altro folcloristico copricapo) durante la sua stesura per celare la mia vistosa calvizie; forse, uscendo di metafora, il tono piano, lo stile scevro di neologismi, talune consapevoli semplificazioni (e certo altre inconsapevoli), i testi riportati in (sola) (3) lingua italiana, l'assenza di riferimenti bibliografici (tutte cose rese consigliabili dalla sua destinazione ad un pubblico di studenti della fine degli anni 80) sono state interpretate (insieme all'indubbia arditezza delle idee avanzate) come manifestazioni di disimpegno intellettuale.

Se così, affannarsi ad assicurare che le cose scritte sono state pensate (forse male, certo in modo non sufficientemente approfondito e comunque adeguato all'importanza del tema, ma pensate) non ha molto senso. La sola cosa che posso per ora fare è rispondere a chi del mio lavoro si è interessato, sperando che questo "rilancio" possa, in un futuro non troppo remoto, suscitare qualche risposta.

È quanto passo immediatamente a fare.

2. In due pagine (il mio libro ne conta oltre cinquecento, ma molte sono occupate da citazioni di testi, in particolare di Livio e Dionigi di Alicarnasso, sui quali non cade il dissenso) Giovanni Lobrano pronuncia su Plebe Genti Esercito una condanna senza appello. Di tutte le affermazioni che il libro contiene, una sola egli condivide: quella secondo la quale la ricerca è solo agli inizi (4) . Naturalmente il significato che Lobrano ed io attribuiamo a questa affermazione è assai diverso, sicché questo (sia pur minimo) punto di accordo è soltanto apparente: il dissenso tra noi è totale.

Ma i conti cominciano subito a non tornare: una recensione di due pagine in totale dissenso con l'opera recensita che, di pagine, ne conta qualche centinaio, o è il frutto di sovrumane qualità di sintesi del suo autore o viene meno (nei confronti del lettore e dell'autore recensito) a quello che io ritengo (ma Lobrano deve essere evidentemente di diverso avviso) il primo e più elementare dovere del recensore dissenziente: quello di motivare adeguatamente il proprio dissenso (5) .

Posto che, pur senza difettare di capacità di sintesi, Lobrano non ne possiede nella misura ipotizzata, io ho la sensazione di trovarmi di fronte ad un prodotto letterario assai discutibile il cui autore, lungi dall'avere raffrontato (nel modo più equanime possibile) le proprie idee con le mie, si è limitato a bocciare alcune delle mie osservazioni (quelle che costituiscono il risultato di tutta l'indagine) stimandone non raggiunta la dimostrazione (meglio: stimandole semplicemente assurde), senza fornire nemmeno una minima giustificazione o, per meglio dire, senza fare un accenno, sia pur minimo, al "percorso" da me seguito per giungere a quelle conclusioni.

In tutta franchezza, io non ritengo che questo sia un modo corretto di fare una recensione: Lobrano, a mio avviso, avrebbe potuto dare sfogo alla propria riprovazione ed al proprio stupito dolore (6) per le cose che si è trovato costretto a leggere solamente dopo avere messo in luce l'erroneità di tutta una serie di interpretazioni da me date alle testimonianze storico-letterarie. Più concretamente, la tendenza centrifuga della plebe ed il separatismo che ne consegue, il separatismo gentilizio, l’unionismo per converso professato da un terzo ceto (identificato, pur con una certa oscillazione terminologica, ne convengo, con quello militare), in ordine ai quali Lobrano ha pronunciato la propria condanna inappellabile e la propria disapprovazione più che severa, non costituiscono il frutto di divagazioni oniriche o di fugaci impressioni di lettura (anche se il mio recensore mostra e scrive di ritenere il contrario (7) ). Ad esse sono pervenuto dopo avere letto (e meditato: mi creda Lobrano) fenomeni quali la secessione plebea del 494-3, la vicenda di Spurio Cassio, l'impresa dei Fabi al Cremera, il decemvirato legislativo, l’episodio della fanciulla di Ardea del 443 a.C., il periodo del cosiddetto tribunato militare, il decennio che sfocia nel compromesso licinio-sestio, i plebisciti Genuci (tanto per citare i passaggi più importanti della mia ricerca). Non è lecito a nessuno (ed ha errato Lobrano quando ha ritenuto che per lui lo fosse) valutare i risultati della mia ricerca senza valutare preliminarmente, assumendo in relazione ad essi una posizione motivata, gli episodi sopra esposti. Dopo (ma solo dopo) avere fatto questo, Lobrano avrebbe potuto pronunciare la severa condanna che la pronunciato: ed allora sarei stato lieto e onorato di discutere con lui. Ma prima non ha alcun diritto di farlo. Questo a me è stato insegnato e ritengo che questo sia un atteggiamento al quale un recensore non può sottrarsi.

Detto ciò, preciso subito (anche se dovrebbe essere superluo farlo) che io sono ben lontano dal ritenere inattaccabili i risultati del mio lavoro: anzi, penso esattamente l’opposto. Lo ho affermato in prefazione e in conclusione del Corso (dando a Lobrano l'occasione per fare sfoggio di sarcasmo), riconoscendone la prematura pubblicazione e la provvisorietà e l'aleatorietà dei risultati. E in quelle sedi mi domandavo come Lobrano avrà letto, se c'erano studiosi disposti sì a criticarmi, ma anche a suggerirmi e consigliarmi. Se dovessi giudicare solo dalla risposta che il romanista sassarese mi ha dato, dovrei concludere che si rinviene facilmente chi è disposto a svolgere la prima attività, ma non le altre.

3. La seconda (ed ultima, a mia scienza) recensione dedicata al mio lavoro porta la firma di Elio Dovere (8) , allora studioso giovanissimo e allievo del mio stesso Maestro.

Anche Dovere non mi risparmia critiche (della cui costruttività e del cui garbo lo ringrazio) ma, al contrario di quanto ha fatto Lobrano, cerca pure di motivarle; non soltanto: Dovere affronta anche, ed era la prima cosa che si doveva fare la questione metodologica: con lui è quindi possibile una discussione pacata e franca, anche se al termine di essa ciascuno di noi resterà (ma questo importa ben poco) della propria idea.

La questione metodologica, dicevo. È questo il grande (non l’unico, certo) nodo da sciogliere prima di passare al considerazione dei problemi specifici. Ecco in merito il pensiero di Dovere relativo alla mia sfiducia nelle fonti storiche, o, per meglio dire, all'idea da me espressa secondo la quale motivazioni fornite dagli storici agli accadimenti narrati divergerebbero ampiamente da quelle reali.

Prima ancora che un dato di ragione, la fiducia nelle fonti (e il loro non essere "ipotesi di storia", così come io stesso ho scritto) è un dato di necessità; ché, in caso contrario, "su cosa mai, allora, lo studioso moderno potrebbe esercitare i propri strumenti critici e, quindi, l’attitudine all'analisi e i tentativi di sintesi? Certo non su avvenimenti reali, ma su fantasie, ‘falsi d'autore’! Cadrebbe dunque ogni ragione di ‘fare storia’; anzi, quest'attività, fra le più concrete dell'ingegno umano, qualora trovasse ancora qualche cultore, si trasformerebbe nell'ipotizzare su ipotesi... Orbene,... partendo dunque da una supposizione così radicalmente negativa (si negano, appunto le "linee generali' delle antiche referenze), sarebbe maggiormente opportuno manifestare un non liquet piuttosto che proporre nuove ipotesi .... Per quel che riguarda il mio pensiero... non credo sia consentito discostarsi proprio da quelle "linee generali" che Zamorani, invece, ritiene semplicemente ipotesi". Qui, per il momento, mi arresto, malgrado il discorso di Dovere che segue sia inscindibilmente legato a quanto precede: ma lo faccio solo per comodità di esposizione.

Io noto anzitutto che, ove si giungesse a "scoprire" (ma il termine è certamente troppo "forte": diciamo "a nutrire qual­che sospetto") che le motivazioni di quanto ci è pervenuto attraverso le narrazioni degli antichi storici relative alla prima repubblica sono opinabili, potrebbe (anzi: dovrebbe) con ancor maggiore alacrità continuare a ‘farsi storia’. E una inda­gine che ponesse in discussione e si discostasse dalle linee generali delle antiche narrazioni non sarebbe una storia apocrifa, inventata, eretica, basata su fantasie o ‘falsi d'autore’:sarebbe (anzi: è) una storia con dignità del tutto pari a quella delle opere che seguono la falsariga delle narrazioni antiche, se è vero (come è vero) che entrambe le metodologie di studio hanno di mira il raggiungimento di uno stesso fine ultimo. E all'amico Dovere che non ritiene sia lecito discostarsi dalle linee generali delle narrazioni antiche, io suggerisco di rileg­gere quali sono le linee generali delle narrazioni sovietiche coeve al periodo staliniano, di quelle tedesche coeve al perio­do del nazismo, di quelle che i ragazzi delle scuole italiane nel periodo del "ventennio" leggevano sui loro libri di scuola e relative alla conquista delle terre africane o a talune di quelle (drammaticamente vicine) degli "anni di piombo" ita­liani. Anche queste (almeno rapportate ad oggi) potrebbero dirsi narrazioni "antiche": ma non sarà forse lecito (doveroso, direi) discostarsi da talune (o molte, o tutte) di esse? (9) Ancora: Dovere è certo al corrente che, negli Stati Uniti ed in Germania, vi sono studiosi (e non tutti di scarso rilievo) che pubblicano lavori che revocano in dubbio la storicità dell'olocausto del popolo ebreo. Non sarà legittimo, io mi domando, rifiutare queste "storie"? E la legittimità del rifiuto di molte di esse non poggia forse sul compimento di un'indagine storica? Non è anche questo impegno (meglio: particolarmente questo impegno) un ‘fare storia’?

E tuttavia, forse alla base di quanto ha scritto Elio Dovere (e altri hanno pensato) sta un equivoco, equivoco del cui sorgere mi addosso ogni responsabilità, ma che una interpretazione meno letterale delle mie parole avrebbe forse potuto evitare; d'altro canto, lo stesso prosieguo della recensione di Dovere smentisce nella sostanza che categoricamente egli rifiuti quanto sopra riportato. Io ho scritto, a proposito delle storie di Dionigi e di Livio, che esse sono "ipotesi di storia": debbo essermi evidentemente espresso male, ma che non intendessi affermare che le opere degli antichi autori siano mere fantasie, `falsi d'autore' (così come interpreta Dovere), risulta ampiamente dall'impostazione metodologica chiarita al capitolo III del mio Corso, che pure Dovere ha letto con attenzione e conosce assai bene. Qui io ho impostato, forse un po' rozzamente (10) - ne convengo - , la distinzione fra "fatto" e "spiegazione del fatto" (altri ha preferito parlare, certo con maggior eleganza, di "elementi strutturali" ed "elementi sovrastrutturali" della narrazione): ebbene, non credo di dire cosa azzardata o provocatoria, ma il mio corso è quasi certamente (e malgrado possa apparire esattamente il contrario) uno dei lavori più conservativi della tradizione storica comparsi negli ultimi anni. E non dico questo per desiderio di essere paradossale o provocatorio: nel mio lavoro gli episodi la cui storicità viene negata (e ricollegata all'invenzione di qualche annalista) sono pochissimi. Non ho creduto all'esistenza di un plebiscito Canuleio del 445 (11) , ma ho ammesso che un tribuno di nome Canuleio, di tendenza unionista, abbia potuto operare allo scopo di far venire meno il disposto di quella legge valerio-orazia che (secondo la testimonianza di Diodoro) aveva tolto il conubium con la plebe ai patres; non ho creduto alla dittatura di Camillo del 368 a.C., ma bisogna ammettere che essa ha ottime probabilità (indipendentemente dalla mia tesi) di essere il prodotto di un atteggiamento agiografico. Insomma, e malgrado il rimprovero che da entrambi i miei recensori mi viene mosso (e cioè di avere, in sostanza, riscritto la storia di Roma) io ritengo al contrario di avere assunto nei confronti degli episodi che gli autori antichi riportano un atteggiamento molto rispettoso: do fiducia praticamente ad ogni aspetto della tradizione, anche là dove altri (ritenuto assai più rispettoso e conservativo di me) si comporta diversamente. Anche qui cito solo pochi esempi: ho creduto ai due decemvirati, laddove dell'esistenza del secondo si dubita; ho creduto a tutti i plebisciti Genuci, di cui Livio dice di avere rinvenuto menzione solo in certi annali; ho creduto all'esistenza di personaggi che, dalle fonti, emergono con contorni quasi leggendari, quali Coriolano e Spurio Cassio; e potrei citare molti altri casi di questo genere.

Il campo dove ho molto spesso (meglio: quasi sempre) esercitato la vasta e radicale critica che mi viene rimproverata è quello delle motivazioni e delle cause di questi fatti. Debbo qui ripetere (anche se per sommi capi) cose già scritte nel Corso di lezioni (12) .

Noto dunque quanto segue.

a) Il modo attraverso il quale gli annalisti (e penso evidentemente ai primissimi annalisti, Fabio Pittore in testa) avevano notizia degli avvenimenti antichi era, nel migliore dei casi, la consultazione degli Annales Maximi; la tradizione orale, oltre ad essere assai più inaffidabile, ha anche un maggior grado di manipolabilità;

b) ancorché noi sappiamo benissimo (perché ce lo dicono gli autori antichi) qual era il modo in cui gli Annales venivano redatti (e a questo scopo si veda in particolare Cic. de orat. 2.12.52-53) (13) , evitiamo da ciò di trarre la necessaria conseguenza; e cioè che, per quanto riguarda l'epoca più antica (e quindi anche i primi due secoli della repubblica, per i quali, oltretutto, manca pure l'ausilio della storiografia greca) le motivazioni degli accadimenti, le cause dei "fatti" dovettero per necessità di cose essere elaborate degli annalisti. Ciò non sta, ovviamente, a significare che, di conseguenza, l'annalistica più antica abbia sempre dato motivazioni erronee o tendenziose, ma piuttosto che esiste la possibilità (se non addirittura la probabilità) che esse non siano veritiere;

c) se poi si tiene conto del fatto che la storiografia romana nasce, con Fabio Pittore, all'insegna della propaganda politica estera, dovendosi presentare Roma ai popoli del bacino del Mediterraneo dove l'Urbe si apprestava a sostituire Cartagine come potenza egemone (e quindi in una dimensione "unificante"), io non vedo perché Fabio Pittore non abbia potuto, indirizzandosi a non Romani con i suoi annali scritti in greco, liberarsi dello scomodo "scheletro nell'armadio" costituito dal separatismo plebeo che per oltre un secolo e mezzo aveva caratterizzato le vicende di Roma e di quello gentilizio, per la verità assai più breve, e fornire una narrazione che, pur non stravolgendo i "fatti", ne forniva una spiegazione diversa e sostituire al Leitmotiv delle lotte plebee per mantenere la propria autonomia politica (che evidentemente non poteva essere narrato a quanti ci si apprestava a sottomettere) quello dei tentativi plebei di elevarsi al livello dei migliori Romani, che era quanto Roma prometteva; del resto, chi (per spirito nazionalistico o pigrizia mentale) fosse colto dalla tentazione di affidarsi ciecamente al modello di storia che, per comodità, chiamo semplicemente "fabiano", farà bene a leggere e a meditare quanto del senatore romano scriveva Polibio in 3.9.1-514 (14) ;

d) ribattere che Fabio, in questa operazione, sarebbe stato facilmente sbugiardato da altri autori (a lui successivi e non assillati dai fini pratici che l'opera sua si proponeva) è fin troppo facile; se l’esempio fabiano poté trovare in patria numerosi continuatori, opere diversamente orientate "debbono" esservi state ché, in caso contrario, noi non saremmo in grado di rinvenire, in particolare nell'opera liviana, numerosi accenni ad esse riconducibili. Non posso qui ripetere cose già scritte (15) , ma Liv. 6.39.1-2 non può, a mio sommesso avviso, risalire alla stessa corrente di pensiero che Livio solitamente segue: qui, subito dopo (affermazione che i progetti di Licinio e Sestio incontravano fra la plebe grande favore, ci viene detto che il concilio della plebe, posto di fronte ai tre progetti di legge (rectius: plebiscito) elaborati da Licinio e Sestio, è disposto ad approvare le due disposizioni di contenuto economico ma non quella di contenuto politico. E questo atteggiamento non denota - come pure è stato scritto – indifferenza e disinteresse della media e bassa plebe verso la questione consolato plebeo che, in fin dei conti; riguardava solo i primores: se così fosse stato, il concilio avrebbe, proprio perchè disinteressato, approvato rapidamente anche la disposizione di carattere politico, pur di vedere alleviate le condizioni economiche del ceto plebeo. Se il concilio, ove gli fosse stato permesso, avrebbe respinto la lex de consule plebeio, ciò può essere dovuto solo alla circostanza che, al console plebeo, era contrario.

e) io non so dire in quale percentuale le due diverse ricostruzioni della storia romana fossero seguite in Roma; nella mia ipotesi, ho concluso che esse hanno convissuto e che a noi sono pervenute le storie di autori appartenenti al filone "fabiano". La storia di Livio, in particolare, mi è parsa costruita su due piani, non tuttavia nel senso che esista una storia più antica (prefabiana) cui si è sovrapposta quella di ispirazione fabiana (questa sì sarebbe pura fantasia); quanto: piuttosto nel senso che, qua e là, a causa del metodo di lavoro di cui lo storico patavino fa uso, hanno modo di introdursi nella sua narrazione elementi estranei che - se così posso esprimermi - "forano" il coerente modello seguito e si offrono alla nostra conoscenza.

In ogni caso, questo breve excursus sulle fonti mi è stato utile per rendere manifesto che ogni tentativo di accordo o di mediazione fra la mia ipotesi e quella dominante è destinato a naufragare dal momento che nessuno si dichiara disposto a mettere in discussione l'inquadramento tradizionale, che viene rifiutato in base a vaghe (e per me piuttosto oscure) considerazioni da Lobrano e, per quanto concerne Dovere sulla base di una vera e propria impossibilità.

Ma soffermiamoci ancora sulla mia "incauta" frase, secondo la quale le antiche narrazioni che hanno per autori Livio e Dionigi di Alicarnasso sarebbero mere “ipotesi di storia”. Neppure per un attimo, credo, dalla lettura del mio corso si potrà ricavare l'impressione che io ponga sullo stesso piano quello che scrivo io e quello che hanno scritto gli storici antichi. Vero è anzi il contrario: tutto quello che io affermo ha come punto di partenza la testimonianza delle antiche fonti (fatti salvi casi assai rari, dove il loro conforto mi mancava del tutto); dalle fonti antiche ho sempre preso le mosse, magari per poi discostarmene, cercando di fornire una spiegazione per me più soddisfacente. Se veramente (ma come avrei potuto?) avessi considerato tutta la storia di Livio un'ipotesi, che senso avrebbe avuto procedere nel modo sopra descritto? Ma, più in generale, che senso avrebbe avuto procedere? È evidente che quella che io chiamo ipotesi liviana è qualcosa di ben diverso dalla mia ipotesi. Che poi, come scrive Dovere, le ipotesi “antiche siano i veri fatti dell’Urbe” non è affermazione che io sia disposto a condividere. Prendiamo ad esempio Liv. 4.7.2 ove lo storico ci informa che, secondo altri storici antichi, al tribunato militare si sarebbe fatto luogo per l'insufficienza numerica dei consoli a fare fronte al grande numero di guerre; di conseguenza, questi storici non conoscevano una richiesta plebea di partecipazione ai potere né, tanto meno, una legge che la rendesse possibile. Come è noto, Livio non discute l’idea dell'origine militare del tribunato e imbocca risolutamente, senza più abbandonarla, la via della spiegazione "politica". Posso io non essere sfiorato dal dubbio che, nella fattispecie, la "ragione" stia dalla parte degli ignoti autori (e questo soprattutto quando ho già altri motivi per dubitare che la plebe agognasse la condivisione del potere con i patrizi)? Allora, senza immediatamente sposare la tesi che maggiormente mi "fa comodo", sono molto scorretto se metto a confronto la testimonianza liviana con la variante che lo stesso Livio mi fa conoscere e le considero entrambe due ipotesi da verificare? A me francamente non pare. E poiché di alternative del genere la storia di Livio ne offre più di una (e taluna di importanza addirittura capitale) sarà forse irriverente, ma non arbitrario, dare natura ipotetica alla storia (ma meglio direi alle motivazioni addotte) di Livio.

Quando, dunque, con "espressione forte", qualificavo "ipotesi di storia" l'opera liviana (o, quanto meno, la narrazione relativa ai primi due secoli della repubblica), il termine di paragone con cui intendevo confrontarla non era tanto la "mia" ricostruzione, quanto quel che dalla stessa opera liviana traspare e che lascia intendere l'esistenza, in Roma, di opere storiche diversamente orientate. La sostanza delle cose non cambia, lo so: il dubbio nei confronti del racconto liviano continua ad essere radicale; ma, almeno per quel che appare da alcune frasi di Dovere, vorrei non far sorgere il dubbio in chi mi legge che io mi consideri una sorta di “moderno Livio”: in realtà, io mi sono solamente riproposto di dare voce a quelle storie che non sono entrate, proprio perché non in linea con quanto la comunità romana voleva sapere di sé, a far parte del monumento storico liviano. Dovere descrive assai bene il clima politico e culturali nel quale le opere storiche di Livio e Dionigi furono scritte: tanto bene, che io non trovo di meglio che citarlo testualmente: “Le opere di Livio e di Dionigi, negli anni in cui si andavano componendo, rispondevano ad alcune esigenze alllora intimamente e generalmente sentite; non a caso, per esempio, l'opera liviana veniva pubblicata man mano ch'era composta, per gruppi di libri, e sviluppantesi secondo il ritmo di vita e di progresso dei cives romani. In quel tempo esisteva, tangibile, la sensazione che un'epoca della storia umana fosse definitivamente chiusa, e che, dunque, l'avvento del principe consigliasse di stendere un bilancio conclusivo: Livio si occupava a una storia di Roma, ma così pure faceva per gli anni fino alla prima guerra punita il greco Dionigi; Diodoro di Agirio preparava una storia universale in lingua greca, altrettanto realizzava, in latino, Pompeo Trogo (né va dimenticata l'opposizione culturale, per il vero assai incerta, dello storico greco Timagene o quella delle Historiae scritti Caio Asinio Pollione.

D'altro canto vi era la necessità che la vitalità romana, uscita miracolosamente indenne dal grande sconquasso delle più che ventennali guerre civili, avviasse una ricerca proprie radici per capire il presente. In sostanza, e nonostante le deformazioni poetiche, le antinomie politiche delle posizioni assunte dagli autori, gli ‘errori’ sin troppe volte evidenziati dalla critica moderna, le opere degli annalisti ‘augustei’ rispecchiavano con fedeltà quanto i Romani fossero consapevoli d'appartenere a un grande organismo, che in tanto vive­va in quanto risultato di tutte le generazioni che erano già state. Livio e Dionigi, ma anche i cosiddetti storici minori (e quindi, in definitiva, i ceti dirigenti), furono in tutto e per tutto uomini del loro tempo. Quand'anche non si rifecero strettamente al documento, rifiutando un certo gusto antiquario, non poterono che sentire le esigenze coeve e vivere lo spirito del tempo, tanto diverso da quello a noi contempora­neo e, certo (nonostante i dubbi sollevati in quest'occasione da Zamorani in base alla lettura di Polyb. 3.9.1-5), assai più vicino a quello presente negli avvenimenti narrati nelle loro opere.

Ebbene, se questi antichi operatori culturali, pur con tutti i limiti che si vogliono, rappresentano (esperienza della loro epoca poiché denotano lo sforzo di porre in luce, per il trami­te dei fatti riferiti, un solo vero personaggio, Roma, si delinea la distanza, incolmabile, fra le loro "ipotesi" e quelle moderne. Queste ultime è sicuro che siano tali, le altre, invece, quelle antiche, sono i veri ‘fatti’ dell’ Urbe”.

Fino all'ultimo capoverso di questo brano io potrei sottoscrivere quanto molto bene quanto Dovere scrive: incolmabile è inve­ce la diversità che mi separa dal mio recensore quando egli scrive l'ultimo periodo. Dalla consapevolezza di appartenere a un grande organismo quale Roma, dall'essere uomini del loro tempo (del tempo, cioè, in cui Roma intraprese l’opera più sublime di celebrazione di sé stessa) io traggo conclusioni diametralmente opposte a quelle che trae Dovere: la storia che Livio e Dionigi scrivono è esattamente quella che i ceti dirigenti romani avrebbero voluto leggere. Nulla di strano, in questa luce, che i due grandi storici li abbiano accontentati.

Dato questo contrasto, per così dire, pregiudiziale, la pur accurata ed analitica esposizione del contenuto del mio volume che Dovere fa, scema grandemente di importanza: ed io pure convengo che molte delle mie conclusioni sembrano piuttosto gratuite se con me non si ammette la (possibilità di una) vasta alterazione concernente i motivi che stanno alla base degli accadimenti storici, alterazione che la natura fondamentalmente propagandistico-celebrativa che l'opera storica poteva avere in Roma rese possibile. Peraltro, vorrei qui compiere anche qualche precisazione in ordine a talune (non gravi) distorsioni del mio pensiero che Dovere fa.

Così Dovere (16) mi rimprovera di avere abbassato troppo (alla metà del IV secolo) la data a partire dalla quale si trovano plebei aventi interessi comuni con i patrizi: per la verità non ho mai detto questo. Ho indicato la data (convenzionale, ne convengo) del 366 a.C. come quella in cui comincia a formarsi la nobilitas plebea (e Dovere chiaramente lo riporta), ma (pur senza essermi interessato in modo dettagliato della questione) ho accettato come genuina la composizione del secondo decemvirato, che contava tra i suoi membri tre plebei secondo Dionigi, cinque addirittura secondo me. Ottime quindi le precisazioni di Dovere, ma non ho mai pensato che "la indubbia divisione esistente all'interno dell'ordine plebeo intorno alla metà del quarto secolo [sia] un evento recentissimo (17) ". Anch'io ho citato (dando loro anzi ampia rilevanza perché particolarmente significativi a sostegno della mia ipotesi) i brani in cui i principes plebis, i primores lamentano di non essere sostenuti dalla plebe in occasione delle elezioni (18) .

Mi spiace un poco che Dovere riporti in modo così succinto la mia analisi del racconto liviano del compromesso licinio-sestio, nonché degli eventi successivi allo stesso, in particolare la rivolta del 342 a.C. ed i suoi esiti normativi e la legislazione di Quinto Publilio Filone. Ho trattato questi argomenl all'inizio del corso (sconvolgendo il criterio rigidamente cronologico) proprio perché ritenevo (e tuttora ritengo) di disporre per i temi in questione di argomenti particolarmente solidi: impressione che è stata successivamente confermata dall'approfondimento da me fatto nei pochi contributi usciti successivamente al Corso. La circostanza che, dei risultati di questa parte dell'indagine, non si dia conto colloca su basi assai fragili la parte successiva.

Trovo per la verità un po' singolare questo periodo di Dovere (19) : "... a me par senz'altro fuori di dubbio che, nel 367, a uscire con la palma della vittoria dal celebre compromesso dovessero essere i patres e i prìncipi della plebe; l'entusiasmo delle giovani leve patrizie, attestato dalle fonti, ne costituisce la conferma incontrovertibile (...). Tuttavia sul fatto che esistesse in ogni momento, e insanabile - per così dire in maniera ‘endemica’ - una spaccatura all'interno della plebe non mi pare ci possa essere altrettanta certezza..."

Al che noto. Può ben essere che, tutto proteso nel tentativo di trovare conferme alla mia ipotesi, io abbia qua e là (o addirittura spesso) accentuato un contrasto interno alla plebe che potrebbe invece avere avuto toni più sfumati. Può essere, ripeto. Però quel che Dovere nota e condivide (la vittoria dei patres unitamente a quella dei primores plebis) ha un necessario corollario: e cioè la sconfitta di chi, fra i plebei, ai primores non appartiene. Proprio nell'episodio che Dovere esamina ve ne è traccia, giacché la gioia dei giovani patrizi è preceduta dal rifiuto degli edili plebei di contribuire alle spese per l'indizione dei giochi. E come poteva non crearsi, allora, una spaccatura interna alla plebe? E come poteva questa spaccatura, che verteva su una questione di fondamentale importanza come la partecipazione della plebe al consolato, essere, per così dire, episodica? Non voglio fare parlare Dovere pro domo mea, ma quando egli non ha difficoltà a riconoscere (citando il contrario parere di De Martino) che a vincere fu, accanto alla plebe ricca, anche il cosiddetto patriziato (e questo malgrado tutto quello che Livio scrive), non dice cosa dissimile da quella che io ho scritto nel mio Corso.

Tralasciando i punti per i quali Dovere manifesta apprezzamento per quanto scrivo, mi soffermo (com'è naturale) su quelli in ordine ai quali egli esprime il proprio dissenso. Fra questi punti c'è la mia affermazione secondo la quale Livio e Dionigi ci presenterebbero due tradizioni diverse in ordine alla secessione del 494-3 (20) : Livio, a mio avviso, parla di una secessione-ricatto (una sorta di sciopero generale, è stata anche scritto), laddove Dionigi presenta la secessione come (il progetto di) una migrazione di massa. Anche in questo caso, naturalmente, non è possibile a Dovere vagliare analiticamente tutte le mie argomentazioni, sicché egli si limita al solo racconto dei due storici. E qui, mi pare, siamo in presenza di una radicale diversità di "sentire" il racconto: se, malgrado i frequentissimi accenni nell'ampio racconto di Dionigi alla volontà della plebe di andarsene definitivamente da Roma e di trovare accoglienza presso qualche popolo vicino, Dovere preferisce scorgere in ciò una diversità di contenuti solo "parziale", ma soprattutto una diversità di "tinte" rispetto al racconto liviano, io non posso che ribadire le mie posizioni, che mi sono sforzato di rendere attendibili adducendo tre esempi di fenomeni migratori (in senso lato) aventi come meta Roma di comunità ostili ai Tarquini, cui farebbe da contrapposto la migrazione da Roma della filotarquinia plebe (ma più precisamente si dovrebbe dire di strati della plebe "urbana"). Del resto, che lo stesso Dionigi avverta che le tradizioni sono diverse, lo si evince dalla "conversione" che egli fa compiere alla plebe, allorché a Sicinio si sostituisce Lucio Giunio Bruto (21) . Né intendo contestare l'efficacia delle secessione come strumento di lotta, tanto che, osserva Dovere, essa venne ripetuta anche nell'anno 449 a.C. (e questa "secessione" non è certo un tentativo di migrazione): sennonché, a me pare che, quello del 449 a.C., sia comportamentc assai diverso rispetto a quello del 494-3. In quest'ultima occasione, infatti, la plebe non "cerca" nessuno all'interno della città, laddove, quarantacinque anni dopo, vuole l'incontro con i due personaggi con i quali, durante l'intero arco della vicenda decemvirale, ha stabilito un solido rapporto di collaborazione: Valerio ed Orazio.

Successivamente alla secessione, Dovere passa ad esaminare la mia ricostruzione delle vicende di Cneo Marcio Coriolano e di Spurio Cassio. Quanto al primo argomento (22) , non ho difficoltà a riconoscere che, mentre sembra francamente impossibile aderire al racconto fatto dai nostri storici (lo scrive anche Dovere) (23) , è peraltro del tutto congetturale quanto scrivo io: appigli nelle fonti che lo suffraghino direttamente non se ne trovano. Forse sarebbe stato meglio chiudere gli occhi di fronte a tanta oscurità e passare oltre: io non ne ho avuto il coraggio. Peraltro, ricercare un "solido aggancio nelle referenze antiche" dopo aver convenuto che "è senz'altro possibile condividere le conclusioni circa (inattendibilità dei racconti annalistici" (24) mi pare un po' contraddittorio.

Per quanto concerne la mia ricostruzione dell'anno 486 a.C. e del progetto di Spurio Cassio (25) , dal breve resoconto che ne dà Dovere traspare la sua incredulità: in realtà, qui come in altri luoghi, non sono riferite quelle che sono le rationes dubitandi del racconto tradizionale, sicché la mia ricostruzione appare, ancora una volta, quasi dettata da un innato spirito di contraddizione piuttosto che basata su non superficiali riflessioni. Io trovo troppo strano per prestarvi fede che la plebe (filomonarchica, si ricordi) rifiuti l'offerta di terra di Spurio Cassio perché preoccupata delle mire tiranniche del console o perché a partecipare alla spartizione sarebbero state chiamate altre popolazioni (cosa che suscita in me - e non soltanto in me - molti dubbi (26) ); trovo troppo strano che, già l’anno successivo, la plebe inizi a rimpiangere Spurio Cassio e, con (andare degli anni, finisca per ritrovarsi accanto quelle gentes che le erano state al fianco nel respingere il progetto cassiano (due esponenti delle quali, anzi, avevano fisicamente eliminato Spurio Cassio); trovo troppo strano che, favorevole alla plebe e alla sua richiesta di terra, si schieri anche la gens Emilia, i cui legami con la Fabia non necessitano di essere sottolineati; trovo poi strano (ma altamente indicativo) che, allorché la plebe ottiene il territorio anziate (tramite la cosiddetta "deduzione della colonia di Anzio") vengano a cessare le sue richieste di terra (circostanza che mi fa ritenere che la plebe se ne ritenga soddisfatta, malgrado quel che scrive Livio). Insomma, una molteplicità di indizi mi induce a ritenere che, dal 485 a.C. in avanti, quel che la plebe chiede non sia la realizzazione del progetto cassiano del 486, ma piuttosto la realizzazione di quello migratorio del 494-3 e che in questa posizione, come si era trovata a fianco le grandi gentes nel contrastare il console del 486, se le ritrovi ancora a fianco fino al 467 a.C., cosa che mi fa ritenere che il separatismo plebeo cerchi (trovandola) l'alleanza del separatismo gentilizio nelle occasioni in cui si tratta di ottenere qualcosa di gradito per entrambi i ceti, ovvero di contrastare qualcosa ad entrambi sgradito.

Un esempio macroscopico di questa alleanza fra plebe e gentes si ha in occasione della loro comune lotta al decemvirato (stando alle fonti, al solo secondo decemvirato). Ecco: il decemvirato (27) .

Sono giunto a quello che considero il vero baricentro di tutta l'indagine; al punto in cui, a mio sommesso avviso, trovano conferma molte affermazioni che parevano avere natura del tutto arbitraria. E tale conferma è tanto chiara che io provo veramente difficoltà ad accettare che un cumulo di argomentazioni di tale chiarezza sia tenuto in non cale.

Mi domando: si può negare che, malgrado tutto quel che scrive Livio (che, tra l'altro, non "può" scrivere diversamente) il senato sia sostenitore del decemvirato? Non si è forse notato che esso lo sostiene in ogni occasione (contro Valerio e Orazio nel corso della prima seduta senatoria, convocata per risolvere le difficoltà create dalla guerra portata da Sabini ed Equi; contro Virginio, il cui ritorno a Roma si tenta di bloccare; contro Icilio e Numitorio, i cui aneliti rivoluzionari il senato vorrebbe soffocare; nuovamente contro Valerio e Orazio - pur se si tratta di un sostegno "postumo"; poiché il decemvirato è ormai caduto - cui si nega il trionfo: e Valerio e Orazio sarebbero dovuti essere innalzati sugli scudi per essere stati fra gli artefici della cacciata dei tiranni!) ? Non si è riflettuto sull'episodio della fanciulla di Ardea del 443 a.C. (28) , episodio che ricalca perfettamente quello di Appio Claudio e Virginia e che scopertamente depone per la scelta endogamica (e perciò, nel mio linguaggio, separatista) della plebe ardeate, allorché i tutori (plebei) della ragazza (plebea) preferiscono il candidato plebeo perché sono in ea quoque re partium memores (29) ? E che dire della legislazione valerio-orazia (30) , il cui carattere fortemente separatista è in modo assai chiaro sottolineato (tra le altre cose) dal plebiscito del tribuno della plebe Duilio, che si affianca alla lex de prouocatione, ribadendone il contenuto per i destinatari plebei? (31)

Potrei dilungarmi nell'elencazione di punti meritevoli di discussione (e che certo non potevano essere discussi nell'ambito di una sia pur vasta recensione) ma finirei, fatalmente, per ritrovarmi di fronte allo stesso muro insormontabile: (incredulità che la storia della prima repubblica romana nella narrazione di Livio (e di Dionigi, e di quanti seguono il loro indirizzo) abbia potuto subire lo stravolgimento da me ipotizzato. E sto cominciando a realizzare che, nella fattispecie, non si tratta tanto di una questione di scienza, ma piuttosto di fede. Mi riesce un po' oscuro perché io, secondo Dovere (32) , avrei sottovalutato il dettato di Liv. 3.55.13 (33) : ma il mio recensore è un po' laconico sul punto ed io non sono riuscito a spiegarmi la sua frase.

Il dettagliato (e preciso) resoconto di Elio Dovere continua con un accenno al tribunato militare con potestà consolare, alla vicenda di Spurio Melio in occasione della carestia del 440-439 a.C. (ove si può rinvenire una delle pochissime inesattezze di cui si rende responsabile il mio recensore, solitamente assai attento, allorché (34) attribuisce alla "strategia politica unionista" la nomina di Spurio Melio a "prefetto dell'annona" plebeo - io penso esattamente il contrario (35) ) e alle vicende della presa di Velo e della conseguente migrazione plebea nella città etrusca in seguito all'invasione gallica. Con riferimento a quest'ultimo punto, in particolare, a me pare francamente difficile negare che ci si trovi di fronte ad un movimento migratorio (36) in piena regola, per fare accettare il quale si assiste ad un minuzioso lavorio annalistico teso ad avvalorare l'idea di (come l'ho chiamata) una "follia collettiva". A me pare veramente singolare come gli storici (anche quelli più critici) accettino senza battere ciglio il cumulo di incongruenze che la narrazione liviana propina: a chi presta fede al "misterioso terrore" che si sarebbe impossessato dei soldati romani all'avvicinarsi dell'esercito dei Galli, posso solo ribattere che esso durerebbe il non breve periodo di sette mesi (da luglio a febbraio dell'anno successivo) e che i rapporti fra due tronconi dell'esercito (quello stanziato a Veio che pare lietissimo di trovarsi nella città etrusca e neppure sfiorato dall'idea di portare aiuto agli assediati - e quello asserragliato nella rocca capitolina) i rapporti sembrano essere tutt'altra che amichevoli (vedi il caso delle vestali che portano a Cere, e non a Veio; le cose sacre che non sarebbe stato prudente tenere a Roma (37) ).

Questi, e molti altri punti ancora, mi sarebbe piaciuto discutere con i Colleghi che mi hanno recensito o ai quali è capitato di leggere il mio lavoro. Mi sono invece troppo spesso trovato di fronte alla pregiudiziale secondo la quale Livio, in linea di massima, dice il vero. E, con questo presupposto, ogni discussione è destinata ad una fine scontata.

4. Ho scritto sopra di avere la sensazione che il mio lavoro non sia stato preso molto sui serio: i critici più benevoli ne hanno apprezzato (a voce) alcune "originalità", taluno ne ha sottolineato (a voce) il contenuto "provocatorio", ma quanto a credibilità esso è stato giudicato (per iscritto) al di sotto di un livello accettabile. Questa sostanziale sottovalutazione di un contributo che, malgrado i dubbi di Lobrano, è frutto di molte riflessioni e non dell'improvvisazione (anche se taluni suoi aspetti formali, già sopra messi in luce, contribuiscano a presentarlo sotto una luce forse un po' dimessa) è certo la cosa che più mi spiace fra i giudizi che esso ha provocato; se a ciò si aggiunge che, fra quanti mi sono parsi sottovalutare la mia fatica, vanno annoverati due Maestri napoletani degni della stima e dell'ammirazione di tutti (alludo a Francesco De Martino e ad Antonio Guarino) si potrà comprendere il mio imbarazzo nel tentarne la difesa.

La segnalazione che Guarino fece di Plebe Genti Esercito nel Tagliacarte di Labeo (38) lasciava per la verità presagire un maggiore interesse dell'autore nei confronti del mio lavoro: a parte la critica per avere io riportato i testi di Livio e Dionigi in sola lingua italiana (rilievo al quale ho risposto non appena mi è stato possibile) (39) , Guarino pareva quanto meno interessato alle molte novità che il Corso presentava, se è vero che lo qualificava espressamente «un libro tutto da leggere». E tuttavia, l'incitamento di Guarino non pare essere stato raccolto, se è vero che non soltanto il mio volume non è stato ritenuto dai più «un libro tutto da leggere», ma nemmeno «un libro da leggere tutto». Lo stesso Guarino, per di più, dalla cui presentazione era lecito attendersi un atteggiamento, se non di approvazione, almeno di attenzione, dà un saggio di come ci si passa "liberare" con la consueta arguzia, ma con inconsueta levitas, di una delle mie affermazioni che giudico maggiormente fondata.

L'osservazione è quella secondo la quale la lex Publilia. Philonis de auctoritate, che rese preventiva l'auctoritas patrum alle delibere del comizio centuriato da successiva che era, costituì un rafforzamento del potere del senato e che, cosa che qui ci interessa, essa non fu il frutto di un atteggiamento antisenatorio del dittatore del 339 a.C. Per dimostrare l'assunto facevo uso di diversi argomenti (40) , uno dei quali era costituito dall'innegabile constatazione che, successivamente all'emanazione di questa legge, l'atteggiamento del senato nei confronti di Publilio Filone fu tutt'altro che ostile, anzi fu di aperto sostegno (egli divenne, con l'esplicito appoggio del senato, il primo pretore plebeo (41) nonché, ancora per desiderio del senato, il primo magistrato che ebbe prorogato il comando militare (42) ): questi "favori" (43) , scrivevo, non si spiegherebbero ave Publilio avesse privato il senato di un potere di controllo della legislazione di straordinaria efficacia, rendendolo privo di pratica rilevanza (44) . Se è vero che questa argomentazione non è una "prova", è altrettanto vero che la risposta di Guarino (45) per aggirarla è una semplice battuta di spirito. Il constatare che i "favori" non si fanno solo agli "amici" (e che pertanto ben sarebbe potuta esservi inimicizia grave fra il senato e Publilio Filone, malgrado le decisioni senatorie a quest'ultimo favorevoli) non scalfisce l'argomentazione, ma sembra quasi tradire una certa "ansia" di Guarino di evitare una risposta.

Ed anche qualora valore di "risposta" le si volesse attribuire, rimangono in ogni caso in piedi gli altri argomenti che io adducevo, da uno dei quali, almeno mi pare, sono da trarre ovvie e neppure tanto implicite conseguenze.

Si tratta di Cic. Brut. 14.55: Possumus M. Curium (suspicari disertum) quod is tribunus plebis, interrege Appio Caeco, diserto homine, comitia contra legem habente, cum de plebe consulem non accipiebat, patres ante auctores fieri coegerit: quod fuit permagnum, nondum lege Maenia lata.

Per il commento a questo testo rimando al mio già citato (46) articolo; in questa sede posso ripropormi l'interrogativo che già mi ponevo allora: si può negare che la prestazione di un'auctoritas preventiva consenta a Manio Curio (e, cosa che qui ci interessa, ai patres) di realizzare ciò che decine di prestazioni di auctoritas successive non avrebbero consentito?

Continuo a sperare che qualcuno mi aiuti a trovare una risposta all'interrogativo.

Anche Francesco De Martino non è stato certo tenero nella valutazione della tesi di fondo di Plebe Genti Esercito. Ma non è di questa durezza che mi lagno. Lo ripeto: attendevo critiche dure e, soprattutto, attendevo critiche, perché è compito dei Maestri esercitare la propria opera di correzione delle idee che essi giudicano errate. Una precisazione però vorrei farla. De Martino ha scritto (47) : «Nel corso di questa lotta si forma uno strato più elevato nel seno della plebe, che partecipa effettivamente al governo e dà vita alla nobiltà patrizio-plebea, subentrata all'antico monopolio patrizio. Questo non rappresenta una sconfitta storica della plebe, come si è sostenuto, ma la sua piena integrazione nella città-stato».

Ebbene, io mi domando: è questa una vittoria plebea, ovvero (e non è la stessa cosa) la vittoria di uno strato fortemente minoritario della plebe, che agisce in stretta relazione con i ricchi patrizi? Perché (e non si deve dimenticarlo) gli uomini della plebe che "partecipano attivamente al governo" non hanno ormai più nulla di plebeo: e che vittoria può mai essere, allora, quella plebea se, in séguito ad essa, il grosso della plebe si ritrova ad essere dominato non più solo dai cosiddetti patrizi, ma da una nobilitas mista patrizio-plebea? Perché proprio questo accade: ed è sufficiente considerare l'operato del console plebeo Caio Marcio Rutilo in occasione della rivolta plebea dell'anno 342 a.C. per cominciare ad avere dubbi che l'ottenimento del posto di console da parte dei ricchi plebei abbia potuto significare per gli altri un miglioramento politico o economico (48) ; ed ancora: un sereno esame (49) dell'operato del console plebeo Quinto Publilio Filone dovrebbe portare ad escludere, malgrado le parole di Livio, che la sua legislazione dell'anno 339 a.C. sia secundissima plebi, aduersa nobilitati; ed infine è sufficiente valutare cosa accade al tribunato della plebe (50) dopo la asserita "vittoria" dei plebei (quando questi ultimi vengono espropriati della loro magistratura, che tutela ormai gli interessi del senato) per placare gli entusiasmi e ridimensionare la visione ottimistica che Livio tramanda. La plebe (il grosso della plebe, intendo dire: la sua parte economicamente più debole, ma politicamente più significativa) fu sconfitta nella sua lotta e proprio la sua "piena integrazione" nella città-stato ne è il sintomo: non sono forse stati pienamente integrati nella città-stato altri nemici di Roma dopo la loro sconfitta? (51)

Infine, in chiusura di questo che, più che una risposta a recensioni e rilievi, comincia sempre più ad assomigliare a un cahier de doléance (e la cosa non mi piace), vorrei citare una circostanza un po' buffa che può, tuttavia, costituire una significativa testimonianza del rifiuto che le mie opinioni hanno suscitato nei Colleghi, tanto da spingerli ad una inconsapevole opera di "rimozione". Gabriella Poma ha studiato i provvedimenti normativi conseguenti alla rivolta dell'anno 342 a.C. e i suoi studi (apprezzabilissimi) hanno trovato espressione in quattro (altrettanto apprezzabili) lavori (52) ; anch'io, in PGE, avevo affrontato con una certa ampiezza questi temi. E, dal momento che i quattro articoli sono tutti successivi al mio Corso, esso risulta citato e garbatamente criticato in taluno dei lavori della Collega, che preferisce spiegazioni diverse dalle mie. Nulla da eccepire, ovviamente.

Mi lascia però perplesso quanto scrive (53) , a proposito del plebiscito Genucio relativo al divieto di iterazione intradecennale di una magistratura, Gabriella Poma, allorché prende in esame le osservazioni di Münzer circa l'operatività di detto plebiscito (54) : «L'elemento di maggior rilievo è tuttavia un altro. Le iterazioni, di cui si è visto, riguardano consoli patrizi; in un solo caso, quello di Caio Plauzio, si ha per un plebeo l'iterazione del consolato in violazione dell'intervallo decennale (347 e 341). Ma anche il caso, che rappresenta l'eccezione per i plebei, del console Caio Plauzio può avere una sua giustificazione, se si ipotizza che i comizi consolari per il 341 fossero già avvenuti all'atto del voto dei plebisciti, ipotesi che può trovare la sua conferma nella anomala conclusione dell'anno consolare. Livio (VIII,3,4-5) segnala come la coppia consolare fu invitata abdicare se magistratu prima della normale scadenza.»

La perplessità è dovuta al fatto che io avevo scritto (55) : «Dalle sopra riportate tabelle (scil. di Miinzer) si deduce... una circostanza di ben maggior peso: dal 342 al 330 (ma il periodo potrebbe essere allargato fino a ricomprendere il 321) mentre taluni patrizi iterano il consolato entro il decennio, nessun plebeo (se si esclude Caio Plauzio, cos. 347 e 341) lo fa. Il che sta a significare, mi sembra, che solo i plebei osservavano il plebiscito, il quale, pertanto, solo essi riguardava. Il caso di Caio Plauzio, poi, potrebbe non costituire affatto una eccezione a quanto testé affermato: è ben vero, infatti, che Livio afferma che i plebisciti furono approvati nel 342, tuttavia essi non dovettero riuscire ad esplicare la loro efficacia che a partire dalle elezioni consolare per il 340, come la lista dei consoli plebei pare confermare. È sufficiente infatti supporre che, allorché furono votati i plebisciti Genuci, fosse già stata eletta la coppia di consoli per il 341, della quale il plebeo è appunto un Plauzio, cioè un appartenente ad una delle quattro stirpi che, sole, avevano espresso i consoli nel periodo 355-342. Né la cosa sarebbe stupefacente, posto che, di norma, si procedeva alla nomina dei nuovi consoli assai per tempo rispetto all'uscita di carica dei vecchi. Questa coppia consolare del 341, comunque (e, segnatamente il console plebeo), in quanto espressione di un compromesso ormai superato, non dovrebbe avere avuto vita facile nella conduzione dello stato. E non è certo casuale, allora, che la coppia consolare del 341 sia stata costretta a dimettersi prima della scadenza della carica...»

Nella sostanza, i due periodi sono perfettamente identici. Speranzoso ho ricercato, nel lavoro della Collega bolognese (che pure, come ho sopra scritto, ben conosce il mio corso sulla plebe), un consolatorio rinvio bibliografico ad esso. Ma di esso non vi è traccia.

Dimenticanza? Rimozione inconscia, come sopra scherzosamente ipotizzavo? O, Dio non voglia, damnatio memoriae?

© Pierpaolo Zamorani
Università degli studi di Ferrara


Note:
1 Alludo a Plebe Genti Esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-339 a.C.) Lezioni, Milano, 1987 (d'ora in avanti citato PGE).
2 Qui si arresta, purtroppo per me, la possibilità di richiamare Saint-Exupéry, giacché il brano così prosegue: “Fortunatamente per la reputazione dell'asteroide B 612, un dittatore turco impose al suo popolo, sotto pena di morte, di vestire all'europea. L'astronomo rifece la sua dimostrazione nel 1920, con un abito molto elegante. E questa volta tutto il mondo fu con lui”. Con riferimento ai contenuti e alle conclusioni della mia ricerca, infatti, "il mondo non è con me".
3 Antonio Guarino, nella brevissima segnalazione data del mio volume nel Tagliacarte di Labeo 34 (1988) p. 104 s., scriveva che, da questa circostanza, la lettura del libro veniva facilitata «anche troppo». Pure se questa annotazione costituiva per il Maestro napoletano un neppure troppo velato rimprovero, io non me ne sono sentito colpito. A Guarino ho risposto ne Il plebiscitum ne quis eundem magistratum. intra decem annos caperet e il divieto di reficere consulem, in AUFE N.S. Sezione V, Scienze Giuridiche, 4 (1990) p. 1 nt.2.
4 Vedi, rispettivamente, PGE p. 511 e LOBRANO, in IURA 38 (1987) p. 211. Nel quadro delle opinioni manifestate da Lobrano, debbo convenire che la battuta è felice.
5 Non ho la pretesa di insegnare nulla a nessuno, ma quel che io intendo per recensione critica in dissenso (o in adesione) Lobrano (e chiunque altro) potrà constatarlo dando una anche fugace occhiata rispettivamente a Ancora sul problema. dei patrizi e dei plebei in epoca. repubblicana, in SDHI 57 (1991) p. 302-334 (re. di MITCHELL, Patricians and Plebeians, The Origin of the Roman State, Ithaca and London, 1990) e a Il magister populi, in Index 23 (1995) p. 381-404 (rec. di VALDITARA, Studi sul magister populi. Dagli ausiliari militari del rex ai primi magistrati repubblicani, Milano 1989). Per quanto concerne la prima delle due recensioni, mi piace ricordare che essa fu (per così dire) "promossa sul campo" da Gabrio Lombardi, che me l'aveva commissionata. Lombardi infatti non la volle pubblicare nella parte della Sua rivista riservata alle Recensiones librorum, ma in quella delle Notae, e ciò a motivo della sua ampiezza e dei ragguagli che forniva sul lavoro di Mitchell.
6 L'espressione è mia, ma dipinge con una certa esattezza l'atteggiamento di cui dà mostra il mio recensore, suo malgrado costretto alla lettura delle «oscenità scientifiche» (e l'espressione è ancora mia) di cui mi sono reso responsabile.
7 LOBRANO, p. 211: «Le oltre cinquecento pagine di testo che integrano il lavoro (praticamente prive di riferimenti alla dottrina) appaiono una sorta di immediata registrazione delle prime considerazioni via via sollecitate all'autore da una lettura delle fonti (sopra tutto Livio e Dionigi di Alicarnasso) sul conflitto patrizio-plebeo". II corsivo è mio. Il periodo riportato è uno dei pochi scritto al modo indicativo: la maggior parte dei periodi che Lobrano mi ha dedicato sono (allo scopo evidente di creare un clima di irrealtà nel quale si vuole che il lettore si immerga) scritti al condizionale.
8 DOVERE, Partes, populi e ideologia cittadina, in Labeo 36 (1990) pp. 285-301.
9 Né si ribatta che della falsità di codeste narrazioni può oggi fornirsi fa­cile prova solo che le si ponga a confronto con altre narrazioni, formatesi al di fuori dei regimi di cui le prime erano espressione: se, infatti, questi regimi non fossero crollati assai per tempo e delle narrazioni "attendibili" si fosse perduta la traccia (come, a mio avviso accadde per Roma) di qui a qualche secolo gli studiosi non si troverebbero di fronte ad una storia "ufficiale" di quei paesi infarcita (noi bene lo sappiamo) di colossali falsificazioni? E se, di qui a qualche secolo, qualcuno tra le pieghe, si ponga, dell’Enciclopedia Sovietica, rinvenisse motivi di dubbio circa la veridicità della narrazione, dovrebbe forse essergli negata la legittimità di un'indagine, e negata a quest'ultima la dignità di "storica" per il fatto che, come scrive l'amico Elio Dovere con riferimento a Roma, le ipotesi "antiche siano i veri fatti dell'Urbe?"
10 Ma in aderenza alla terminologia delle antiche fonti: cfr. il brano di Gellio citato alla nt. 13.
11 Ma non deve avervi creduto nemmeno Dionigi di Alicarnasso che, pur menzionando Canuleio, lo fa intervenire solo sulla questione dei tribuni militum consulari potestate.
12 Vedi PGE p. 55 ss.
13 Si vedano inoltre i testi riportati in PGE p. 57 ss., cui è da aggiungere in particolare Gell. n.a. 5.18.8,9: «Verum inter eos inquit qui annales relinquere voluissent et eos qui res gestas a Romanis perscribere conati essent, omnium primum hoc interfuit. annales libri tantummodo quod factum quoquo anno gestum sit, ea demonstrabant, id est quasi qui diarium scribunt, quam Graeci ™fhmer…da vocant. nobis non modo satis esse video quod factum esset, id pronuntiare, sed etiam quo consilio, quaque ratione gesta essent demonstrare». Paulo post idem Asellio in eodem libro: «nam neque alacriores inquit ad rem publicam defendendam neque segniores ad rem perperam faciundam annales libri commovere quicquam possunt. Scribere autem bellum initum quo consule et quo confectum sit et quis triumphans introierit, quae in bello gesta sint non praedìcare aut interea quod senatus decreverit aut quae lex rogatiove lata sit neque quibus consiliis ea gesta sint iterare: id fabulas pueris est narrare, non historias scribere».
14 Vedi PGE p. 60; secondo DOVERE, p. 288, il testo sarebbe stato da me sostanzialmente sopravvalutato.
15 Vedi PGE p. 46 s.
16 DOVERE, p. 289
17 Così DOVERE, p. 289.
18 Vedi PGE p. 405 ss., 409 ss.
19 DOVERE, p. 290.
20 Vedi PGE p. 165 ss.
21 Dion. Hal. 6.70.2; vedi PGE p. 171 s. La plebe rinuncerebbe allora ad andarsene, procrastinando la propria permanenza al di là delle mura di Roma al solo scopo di "alzare il prezzo" del rientro.
22 Vedi PGE p. 187; DOVERE, p. 293.
23 DOVERE, p. 293.
24 DOVERE, p. 293.
25 Vedi PGE p. 213 ss.
26 Vedi PGE p. 223.
27 Vedi PGE p. 305 ss.; DOVERE, p. 295.
28 Vedi PGE p. 368 ss.
29 Liv. 4.9.5: ... tutores in ea quoque re partium memores ad suum (scil. pretendente plebeo) tendere.
30 Vedi PGE p. 343 ss.
31 Vedi PGE p. 351 s.
32 DOVERE, p. 295.
33 Liv. 3.55.13: Hae consulares leges fuere. Institutum etiam ab iisdem consulibus ut senatus consulta in aedem Cereris ad aediles plebis deferrentur, quae antea arbitrio consulum supprimebantur vitiabanturque. Vedi PGE p. 349 s.
34 DOVERE, p. 295. Espressione della strategia unionista fu (a mio avviso) la nomina di Minucio a praefectus annonae cittadino, e non già quella di Spurio Melio a praefectus annonae plebeo.
35 Vedi PGE p. 444 ss. Alla strategia unionista si deve (a mio avviso) la nomina non di Spurio Melio, ma di Lucio Minucio.
36 Allo stanziamento dei soldati a Veio segue, poco dopo, quello degli inermi: anche se la cosa non è esplicitamente affermata da Livio, essa si evince tuttavia chiaramente da quanto lo storico afferma in 5.40.4-6 e 5.43.4; si veda quanto scrivo in PGE p. 487.
37 Liv. 5.40.7 ss.; vedi PGE p. 488.
38 Labeo 34 (1988) pp. 104 s.
39 Cfr. retro nt. 3.
40 Vedili in La lex Publilia del 339 a.C. e l'auctoritas preventiva, in AUFE N.S. Sezione V, Scienze Giuridiche, 2 (1988), segnatamente p. 6 ss.
41 Liv. 8.15.9.
42 Liv. 8.23.10 ss.
43 Il temine non è mio: qui lo uso solamente perché esso è usato dallo stesso GUARINO, Novissima de patrum auctoritate, in BIDR 91 (1988) p. 131 (= Pagine di diritto romano, vo1.III, Napoli 1994, p.207 ss.). Le citazioni successive rimandano alle pagine del BIDR.
44 Ho altrove cercato di chiarire (cfr. La lex Publilia del 339 a.C. e L'auctoritas preventiva, p. 16 ss.) come sia potuto nascere l'equivoco che sta alla base della (contraria) communis opinio.
45 GUARINO, Novissima de patrum auctoritate, cit. p. 131.
46 La Lex Publilia del 339 a.C. e l'auctoritas preventiva, cit. p.13 s. A Guarino l’argomento (non il testo, che lo studioso ben conosce ed utilizza allo scopo di fissare una datazione della lex Maenia; GUARINO, Novissima de patrum auctoritate, cit. p. 129 s.) deve essere sfuggito, forse a causa di una certa premura di togliersi di fronte "certe... pagine" (anche così lo studioso napoletano indica il mio lavoro a p. 117) e di ribadire risultati da lui raggiunti. Del resto, va onestamente rilevato come il Maestro napoletano consideri quanto da me scritto solo come occasio peccandi, vale a dire solo come pretesto per ritornare su idee già da lui espresse e, può sottintendersi senza sforzo, ben altrimenti fondate. E tuttavia, a me pare che la posizione di GUARINO, cit. p. 140, che qualifica «vistoso paradosso» la mia affermazione secondo la quale l’auctoritas preventiva avrebbe rafforzato la posizione del senato (patrizio) presti il fianco al rilievo che ben difficilmente Cicerone avrebbe potuto definire permagnum il risultato ottenuto da Manio Curio se (anticipazione dell’auctoritas avesse in sostanza significato un indebolimento della posizione dei patres. In altre parole: se Appio Claudio non sì arrestava di fronte al diniego dell’auctoritas successiva da parte del senato (cosa che avrebbe vanificato la sua opera), perché si sarebbe dovuto arrestare di fronte alla prestazione dell’auctoritas preventiva, che (secondo quanto comunemente si pensa) non avrebbe influito sull’esito delle elezioni?
47 DE MARTINO, La costituzione della città-stato, in Storia di Roma (a cura di Momigliano e Schiauone), I, Torino, 1988, p. 357.
48 Vedi PGE p. 113.
49 Vedi PGE p. 129 ss.
50 Vedi PGE p. 132 ss.
51 Questo già notavo ne Il plebiscito ne quis eundem magistratum intra decem annos caperet e il divieto di reficere consulem, cit. p.2 nt.5.
52 Si tratta di Lex quoque sacrata militaris lata. est... (Livio VII, 41, 4), in RSA, 17-18 (1987-1988) p. 97 ss; Il plebiscito Genucio ne fenerare liceret (Liv., VII, 42, 1), in RSA 19 (1989), p. 67 ss.; Il plebiscito ne quis eundem magistratum intra decem annos caperet (Liv., VII, 42, 2), in RSA, 22-23 (1992-1993), p. 43 ss.; Il plebiscito ne quid duos magistratus uno anno gereret, in RSA, 24 (1994) p. 49 ss.
53 In Il plebiscito ne quis eundem magistratum intra decem annos caperet (Liv., VII, 42, 2), cit. p. 49.
54 Così come, peraltro, io avevo già fatto in PGE p. 118 ss.
55 PGE p. 119.