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Grandezze e miserie del giudizio

di Bernardo Albanese

Per saperne di più: Colonna, Scriba cum rege sedens, Mélanges Heurgon, I, Roma, 1976. pp. 187 ss.

Palermo. Museo Regionale: Cippo da Chiusi con re assiso

in tribunal con augure e scriba. Età di Porsenna (500 a.C. circa)

 

Questa breve comunicazione non toccherà, se non alla fine e sommariamente, temi attinenti al campo dei miei studi. Non tratterò del “giudizio” nel mondo del diritto romano, e neppure nel mondo del diritto in generale - pur se tutti sappiamo l'enorme rilevanza che il giudicare ed il giudizio hanno sempre avuto e hanno nella sfera giuridica. Invece, esporrò alcuni pensieri isolati che sono nati in me dalla riflessione sul fenomeno del giudicare in senso generalissimo.

Tra le prime e più evidenti acquisizioni cui si perviene se ci si pone a riflettere sul giudizio, sull'atto umano del giudicare, è che quell'atto costituisce una operazione interiore assolutamente necessaria e continuamente ricorrente nell'esperienza d'ogni uomo, quale che sia il suo livello di cultura o di intelligenza.

In effetti, il giudizio, nella sua portata più ampia, che qui giova sottolineare, può definirsi - senza nessuna pretesa di originalità e di approfondimento - come l'atto con cui qualifichiamo alcunché in termini di valore, e quindi, almeno nella maggior parte dei casi, in termini di approvazione o disapprovazione, di positivo o negativo. In questa sua generalissima valenza, il giudicare appare in modo evidente come un'attività interiore inseparabile dal vivere d'ogni creatura umana. Vivere da persona umana, infatti, è impensabile senza un incessante ímpegno di valutazione, cioè senza giudizio. Prima di tutto nella sfera empirica delle continue scelte necessarie per il proprio operare materiale; poi, sempre nell'ambito empirico, nell'altrettanto continuo e necessario confronto con l'operare degli altri con i quali vivendo si viene in contatto; infine, naturalmente, nel campo non empírico della riflessione consapevole e sistematica. Comunque, anche per uomini che non si sollevassero mai al di là dell'esperienza pragmatica, che non acquistassero mai l'abitudine alla riflessione, alla meditazione su se stessi, sugli altri, sull'esistenza - per uomini, insomma, del tipo (alquanto astratto e teorico, naturalmente) dei "bestioni" vichiani - giudicare, come che sia, anche rozzamente, è necessario per vivere così come è necessario a respirare. E ciò nella preistoria, nel presente, nel futuro.

E’, vero però che nella maggior parte dei casi, vivendo, non ci accorgiamo neppure di formulare di continuo giudizi sui nostri atti e su noi stessi, sugli atti altrui, sugli altri uomini, e su mille e mille altre realtà. Ma di regola non ci accorgiamo neppure di respirare. Se si vuole, può accadere all'uomo di configurarsi come M. Jourdain, il borghese gentiluomo di Molière, che scopriva attonito di "fare della prosa", ogni volta che apriva bocca. Così scopriamo che, spesso senza saperlo, siamo tutti giudici.

Non c'è bisogno di insistere molto sulla responsabilità connessa a questo ruolo di giudici cui siamo condannati consapevolmente o inconsapevolmente. Giudicare è, per qualche verso, atto di affermazione di superiorità rispetto al quid che si giudica. E’ un porsi al di fuori, anzi al di sopra, di quel che si giudica. In ogni minimo giudizio vi è la dignità che Manzoni delinea a proposito di Napoleone posto tra due secoli: «Ei fe' silenzio ed arbitro / s'assise in mezzo a lor». Si può citare, sia pur forzandone la portata, un celebre detto di San Paolo: «L'uomo spirituale giudica tutto e non è giudicato da nessuno» (Cor. 2, 15); si potrebbe utilizzare questa difficile frase per sottolineare la responsabilità del giudizio e la sua grandezza, affermando che bisogna attribuire al nostro inevitabile e continuo giudicare una dignità che ci renda sempre degni d'essere qualificati “uomini spirituali”.

Una seconda evidente acquisizione, cui si giunge immediatamente non appena ci si ponga a riflettere sull'atto umano del giudicare, è che esso, paradossalmente, pur necessario e continuo com'è, secondo quanto si è detto, ci appare, per qualche verso, del tutto innaturale.

Che io sappia, nessuno ha espresso quel che voglio ora rilevare in una forma più sintetica ed efficace di quanto abbia fatto, in una ammirevole pagina, Salvatore Satta, parlando di ciò che egli chiamava «il mistero del processo». Satta, grande gíurista e grande artista, intitolò il suo romanzo più bello Il giorno del giudizio: e proprio sul giudizio egli meditò a fondo senza sosta. Leggiamo la parte essenziale della sua ríflessione (Solíloqui e colloqui di un giurista, Padova 1968, p. 11).

Veramente processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno scopo. Paradosso? No, non è un paradosso; è un mistero, il mistero del processo, il mistero della vita. Se noi contempliamo il corso della nostra esistenza, esso ci appare come un susseguirsi, un intrecciarsi, un accavallarsí di azioni […]: la vita stessa anzi non è altro che l'immenso fiume dell'azione umana […] Ed ecco, ad un dato punto, questo fiume si arresta; anzi, ad ogni istante, ad ogni momento del suo corso si arresta, deve arrestarsi se non vuole divenire un torrente folle che tutto travolga e sommerga: l'azione si ripiega in se stessa, e docilmente, rassegnatamente si sottopone al giudizio. Perché questa battuta d'arresto è proprio il giudizio: un atto dunque contrario all'economia della vita, che è tutta movimento, tutta volontà e tutta azione, un atto antiumano, inumano, un atto veramente - se lo si considera, ben inteso, nella sua essenza - che non ha scopo.

Fin qui Salvatore Satta; e si intende subito che egli vuol dire che il giudizio non ha scopo, nel senso che esso non ha uno scopo pragmatico dello stesso tipo di quello delle tumultuose azioni concrete su cui si erge, appunto per superarle e trascenderle.

Non è questa l'occasione per cogliere nelle parole che ho citato gli echi di altri grandi spiriti; ad esempio Pascal (con il suo insistere sull'uomo come "canna pensante", cioè giudicante), di Bergson (con la sua attenzione approfondita per l'esperienza della durata e per il lampo dell'intuizione), di Pirandello (con la sua incessante angoscia per l'impossibilità di razionalizzare il "non si sa come" della vita negli schemi dei giudizi).

Non credo affatto di tradire il senso profondo della concezione che Satta proponeva per il giudizio, se aggiungo che, proprio in quanto atto senza scopo, antiumano, inumano, il giudizio, ogni giudizio ha in sé una scintilla di sovrumano, anzi di divino. Con Pascal dirò che «l'homme depasse infiniment l'homme», massimamente allorché egli giudica. Insomma, in qualche modo nega la sua natura.

Grandezze del giudizio, quindi. E tuttavia, inseparabile da quelle grandezze, vi è spesso nel giudizio, e anzi quasi alla radice dell'atto del giudicare, la minaccia di un'ombra oscurissima, portatrice di profonde miserie: moltissimi giudizi infatti, per le stesse coordinate elementari della nostra struttura psicologica, rischiano di configurarsi come affermazioni di potere.

In termini più semplici, si può dire che spessissimo il giudizio è esposto al rischio di configurarsi come atto di condanna o assoluzione. Ciò è particolarmente evidente, è ovvio, allorché oggetto del nostro giudizio sono gli altri e le azioni degli altri, anche se molte delle cose che dico possono applicarsi, con specificazioni che qui non è il caso di approfondire, anche al nostro giudizio sui nostri atti e su noi stessi.

Il veleno che insidia sovente il giudizio si manifesta, in sostanza, quando la superiorità sull'oggetto, che abbiamo visto essere intrinseca all'atto stesso del giudicare, si configura come affermazione di potere, o come arbitrio (del resto - e ciò è più significativo di quanto comunemente si creda - iudex e arbiter, nell'antica esperienza giudiziaria romana, erano figure equivalenti, e differenti solo per campo tecnico di attività).

A questa amara radice che può tanto spesso corrompere la nobile pianta del giudizio si riferisce ovviamente il grande comandamento del Vangelo: «Non giudicate». Non si pone in guardia l'uomo, naturalmente, rispetto al grande compito dell'arrestare la corsa precipitosa del reale per riflettere e valutare (un compito inevitabile e, come si è visto, sovrumano, in quanto dote dello pnemautikòj 'anqropoj, dello spiritualis homo di cui parlava Paolo), quanto piuttosto rispetto alla sua triste inclinazione ad affermare la propria superioriorità sul prossimo, inclínazione che con tutta naturalezza ci induce a presumerci forniti di qualche autorità sugli altri.

E’ chiaro che precisazioni particolari - ma non radicali mutamenti di prospettiva - andrebbero proposte in relazione all'attività di giudizio dei soggetti cui la collettività organizzata, ed in particolare lo Stato, affida il compito di giudicare e di condannare o assolvere. Mi limito a dire che anche per i giudici di professione sussiste, a mio parere, un particolare dovere di sottrarsi al rischio di concepire il proprio giudizio prevalentemente in termini di potere, e non di valutazione. Ma di questo non posso e non voglio discorrere ora.

Per concludere, vorrei esporre una breve riflessione suggerita dall’antica esperienza giuridica romana.

Premetto che, come tutti sanno, il vocabolario del "giudicare" è direttamente connesso, nelle lingue neolatine (e però anche in altre, in particolare in inglese), all'esperienza linguistica romana. Ius dicere e iudex, iudicare, iudicatum e iudicatio sono termini in cui si è concretata gran parte dell’'esperienza romana' specie nella sfera dei rapporti giuridici privati. E da quell’antica esperienza è stata ed è ancora, profondissimamente influenzata la moderna esperienza giuridica, anche nel linguaggio.

Ora è interessante notare come, nella sfera specifica del diritto, il termine iudicium (la cui valenza originaria possiamo solo congetturare, per mancanza di fonti), quando lo incontriamo in età progredita (III-II secolo a.C.), presenta un fascio di significati tecnici tanto disparati da non poter esser ricondotti facilmente ad un'idea unitaria. Tecnicamente è iudicium il processo nella sua interezza, tecnicamente è iudicium la sola fase processuale particolare in cui viene pronunziata la sentenza, tecnicamente è iudicium addirittura il formulario pretorio di verba in cui vengono riassunti i termini di una lite, e via dicendo. Mi pare che in siffatta curiosa situazione semantica di impossibilità di riduzione ad un unico valore, si possa individuare un'eco dell'intrínseca misteriosità del giudicare; un'eco, cioè, di quello che poco fa abbiamo predicato come intrico paradossale di necessarietà e di innaturalità del giudizio.

Ancora più interessante è rilevare come la più antica accezione tecnica del sostantivo iudex che ci sia sicuramente nota, in fase ancora precedente alle XII Tavole, rinvia a figure di detentori del potere politico supremo. I decemviri, cui la tradizione ascrive la composizione delle xn Tavole negli anni 451-450 a. C., e però anche (ed è cosa di maggior rilievo) la titolarità del sommo potere politico in luogo delle magistrature ordinarie, temporaneamente soppresse, secondo la tradizione, erano designati tecnicamente come iudices decemvíri (Livio VI 44, 9). Lo stesso Livio attesta (III 55, I2) che in età assai risalente, anche se non all'origine, i consoli erano qualificati tecnicamente come iudices, notizia confermata da una citazione varroniana (de lingua Latina, VI 88), dai commentarii consulares, e da una norma riportata in forma arcaizzante da Cicerone (de legibus, III 3, 8). Per il pontifex maximus possediamo una celebre definizione in cui egli è qualificato come maximus iudex vindexque, nell'ambito delle cose pertinenti alla sfera sacrale e religiosa, di fronte alla contumacia (cioè 'disubbidienza") di privati e magistrati. Ed è del tutto ragionevole credere che anche il rex (che ebbe certo supremi poteri politici e religiosi: il tardo rex sacrorum conserva ancora il primo rango tra i sacerdoti, superiore anche al pontefice), è del tutto ragionevole, dicevo, supporre che anche il rex agli inizi di Roma fosse qualificato come iudex vindexque.

Ora, sembra certo che una attività processuale tecnica di ius dicere fosse svolta fin da epoca remota dal rex (le fonti parlano di iura reddere o dare, per il rex: Ovidio, Metam., XIV 805-6, 823; Livio I 41, 5; Ovidio, Fasti, I 203 e III 62), e poi dai magistrati supremi (Livio II 27, 1 parla di ius dicere de creditis pecuniis da parte dei consoli del 495 a.C.). E però non sembra probabile che i più antichi magistrati della repubblica romana - consoli e decemviri, per limitarci a quelli considerati nelle fonti che abbiamo citato - abbiano tratto quel loro nome di iudices solo dalla loro attività giudiziaria. Insomma, in origine, iudex dovette essere termine riferito ad un potere più ampio di quello giudiziario.

Abbiamo in ciò un valido spunto per congetturare quel che dovette essere il primitivo valore del ius dicere e del iudicium (altre realtà, va notato, furono espresse con i termini iudicare, iudicatio, iudicatum: vi è una distinzione essenziale tra il dicere di ius dicere e iudicium, ed il dicare di iudicare, iudicatio e iudicatum). Con ogni probabilità si trattò dell'esercizio d'un potere supremo ancora non differenziato nelle sfere del processo, dell'impero militare, della potestà amministrativa, ecc. Forse, nella remota accezione del termine iudex si rivela come, alla radice stessa d'ogni giudizio, vi sia quella che ho chiamato insidia del potere.

 

(da: Atti del Convegno Internazionale "Sul Giudizio". Palermo, ottobre 1997, Il Giudizio. Filosofia, teologia, diritto, estetica, a cura di Salvatore Nicosia, ed. Carocci, Roma, 2000, pp. 25 - 30)

 


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