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Potere e consenso
nell'esperienza costituzionale repubblicana

di Gaetano Mancuso

in AUPA 41 (1991), pp. 209-222 = Esercizio del potere e prassi della consultazione, Atti dell’VIII Colloquio Internazionale Romanistico-Canonistico, 10-12 maggio 1990, Utrumque Ius, Collectio Pontificiae Universitatis Lateranensis, Città del Vaticano, 1991, pp. 217-227

Il termine "consensus"(participio sostantivato di "consentio", composto di "sentio") (1) , esprime l’idea di una comunanza di opinioni, di una comune mozione psicologica: "sentire cum", ossia provare insieme il medesimo sentimento.

 

Questo valore semantico si manifesta nel linguaggio comune, come dimostrano numerose testimonianze offerteci dalle fonti letterarie (2) . Così, ad esempio, tra le più risalenti, quella di

Plauto, Pseud. 539: "Quid si hisce inter se consenserunt... », e, tra le più recenti, quella di Cicerone, de div. 2, 14, 34: « ...qua ex coniunctione naturae et quasi concentu atque consensu, quam Graeci sump£qeian appellant... ».

 

Questo significato permane anche in quegli impieghi che, pur tratti dal linguaggio comune, fanno riferimento a concetti e nozioni afferenti al diritto e, in genere, all'esperienza costituzionale romana, arricchendosi, peraltro, di nuove coloriture e più articolate connotazioni.

 

In questa prospettiva appare fondamentale il pensiero di Cicerone, manifestato attraverso un complesso di testimonianze   alcune delle quali, scelte tra le più significative, esamineremo tra poco, che assumono, a nostro giudizio, valore paradigmatico nei riguardi del pensiero politico repubblicano e dell'ideologia che se ne pone alla radice. Questo per due ragioni fondamentali: da una parte. perché, sfortunatamente, non ci sono pervenute significative testimonianze di altri pensatori dell'epoca repubblicana in materia; dall’altra perché è soltanto in Cicerone che si manifesta una speculazione politico costituzionale complessa, ricca di contenuti e organicamente articolata nelle sue molteplici connotazioni e nei suoi numerosi riferimenti a vicende e strutture che contraddistinsero l’esperienza costituzionale repubblicana.

 

Nel de re publica il consensus è l’elemento che caratterizza il populus, quale centro di imputazione di potere, e vale a distinguerlo dalle aggregazioni umane contingenti e disorganizzate. Nella celeberrima definizione offertaci nel primo libro, il populus è, in effetti, la comunità dei cittadini organizzata sulla base del diritto e della comune utilità.

 

Cic., de re publ. 1, 25, 39: « Est igitur... res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus ».

 

In altra occasione abbiamo sostenuto la tesi che il consensus si ponga, nel pensiero ciceroniano, come elemento strutturale del vincolo associativo che stringe tra loro i cives, configurando il populus come iuris societas, e più precisamente come societas consensu contracta (3) .

 

In questa prospettiva, nella quale la comunità politica repubblicana si organizza sul modello della consimile societas privatistica, della quale conserva gli elementi strutturali (4) , il consensus si riveste della forma iuris, e si pone come fascio omogeneo di mozioni psicologiche, le quali confluiscono in una manifestazione di volontà collettiva (5) . Questa volontà se, da una parte, è tecnicizzata dal ius   che nella definitio ciceroniana sopra trascritta vien dato come presupposto  , per altro verso è essa medesima produttiva di ius, e pertanto è attraverso il consensus che il populus si pone quale soggetto produttivo di « ordinamento »; ciò val quanto dire che il consensus, ossia, in definitiva, il pactum, venga considerato come la fonte di una specifica obligatio, e precisamente della obligatio societatis che vincola reciprocamente i cives (contraenti) (6) . E', per l’appunto, un pactum   nella specie il pactum societatis((7))  , l’elemento che si pone alla radice della comunità politica, la quale subentra alla originaria condizione naturale degli uomini. Cicerone si muove, in questa prospettiva, sulla medesima linea in cui, in altri suoi scritti, sostiene che il pactum sia da annoverare tra le fonti del ius rivestendosi di un valore positivo, ossia costitutivo di situazioni giuridiche, come possiamo rilevare, ad es., da

 

Part. orat. 37,130: « Scriptorum autem privatum (scil. ius) aliud est, publicum aliud. Publicum lex, senatus consultum, foedus; privatum tabulae, pactum, conventum, stipulatio ».

 

Ma è tempo di tornare al nostro tema.

 

Se il consensus si pone, quindi, alla radice della societas coetus, ossia, in definitiva, del populus; se esso è l’elemento strutturale che costituisce in populus una comunità formatasi, per così dire, accidentalmente e tenuta insieme da elementi occasionali e contingenti, ne deriva che, per l'appunto, sulla base del consensus, il populus possa essere signore di sé medesimo e si ponga come unico titolare di potere.

 

In altri termini è in virtù del consensus che il populus può dirsi, sia pure con terminologia non romana, «sovrano». Non è, al riguardo, senza significato che Cicerone usi di frequente la locuzione «maiestas populi» per esprimere la pienezza del potere che si incentra nel populus (8) .

 

Possiamo, inoltre, sulla base di quanto siamo venuti dicendo, intendere appieno come nella legge, nella quale Cicerone identifica il vinculum societatis (9) , non si manifesti unicamente il consensus del popolo, ma, in definitiva, la summa potestas populi, ossia quella « sovranità » del populus cui or ora si è accennato (10) .

 

In questa prospettiva lo Stato ciò che i Romani designano mediante la locuzione « res publica », si manifesta realmente come res populi. La conseguenza è che allorquando il populus cessi di appartenersi, ma divenga oggetto, res, del potere altrui, - ciò che avviene fondamentalmente nella tirannide -, non si possa, a rigor di termini, discorrere di res publica né, in definitiva, di consensus. Al riguardo Cicerone si esprime in termini inequivocabili:

 

de re publ. 3, 31, 43 : «Ergo ubi tyrannus est, ibi non vitiosam... sed... dicendum est plane nullam esse rem publicam ».

 

In effetti, la res publica è configurata da Cicerone come res populi, - le due locuzioni sono sinonime -, sulla base del consensus e della manifestazione normativa di questo consensus, ossia della legge, nella quale Cicerone identifica, come si è detto, il vinculum societatis. Nella legge, infatti, non si manifesta solamente il consensus del popolo, ma, in definitiva, la summa potestas populi, ossia quella « sovranità » del populus cui prima si è accennato.

 

Ma la legge si pone anche come vinculum iuris, vera e propria obligatio che stringe i cives in una societas. E la societas civium - lo abbiamo poc’anzi ricordato -, altro non è che il populus, con il quale, per l'appunto, si identifica. Al riguardo è nettissima la testimonianza che Cicerone ci fornisce nella parte iniziale del medesimo brano poc'anzi esaminato:

 

de re publ. 3, 31, 43: « Ergo illam rem populi, id est rem publicam, quis diceret tum cum crudelitate unius oppressi sunt universi, neque esset unum vinculum iuris nec consensus ac societas coetus, quod est populus» (11) . La tirannide, il dominatus - è questo il termine usato da Cicerone -, è la negazione del consensus, e quindi della legge e della stessa societas civium, ossia del populus. Di fronte al dominus - si ponga mente alla pregnanza di significati espressa da questo termine -, non vi sono cives, sibbene res, schiavi, e quindi non vi è spazio per il consensus, così come non vi è spazio per la iuris communio. E' il consensus che fonda e costituisce la libertas populi.

 

Viceversa, il concetto del rispetto della legge, anzi la servitù nei riguardi della legge, è ciò che contraddistingue la libertas populi. Lo afferma incisivamente Cicerone in un lapidario brano dell'orazione pro Cluentio.

 

53,146: « ...legum ministri magistratus, legum interpretes, iudices, legum denique idcirco omnes servi sumus ut liberi esse possimus ». Cicerone riprende e arricchisce, in questo passo, un concetto che già era stato espresso da Platone nella « Repubblica » e ribadito nelle « Leggi »: la necessità che tutti, magistrati e cittadini, siano doÚloi tîn nÒmwn, ossia « schiavi delle leggi ».

 

Questa fedele e assoluta osservanza della legge è, in effetti, la conditio sine qua dell’esistenza medesima della libertas populi e, quindi, in ultima analisi, del consensus.

 

In questa prospettiva le esperienze costituzionali che, nell'arco della storia plurisecolare della civitas, si concretano nella negazione della libertas, si risolvono, in altri termini, nella negazione del consensus. Questo avviene già nei primi tempi della storia costituzionale repubblicana ad opera dei tentativi compiuti da Spurio Cassio, Marco Manlio, Spurio Melio, volti ad acquisire ed esercitare una perpetua potestas in populum.

 

Peraltro, non mancano, nella storia della libera res publica, altre esperienze costituzionali molto più recenti, le quali sono caratterizzate dalla rottura tra potere e populus in termini di consenso. Ci riferiamo, in particolare, alla dittatura sillana e alla esperienza di potere che ebbe per protagonista M. Antonio.

 

Per quanto riguarda la prima, Cicerone la qualifica in termini inequivocabili. Nella tertia oratio de lege agraria egli così definisce la lex Valeria de Sulla dittatore creando, rogata dall’interrex L. Valerio Flacco, nell’anno 82 a.C., ai comizi centuriati:

 

de lege agr. 3,2,5 : « Omnium legurn inìquissimam, dissimillimamque legis esse arbitror eam, quam L. Flaccus interrex de Sulla tulit, ut omnia, quaecumque ille fecisset, essent rata. Nam cum ceteris in civitatibus tyrannis institutis leges omnes exstinguantur atqtte tollantur, hic rei publicae tyrannum lege constítuit » .

 

Il regime istaurato da Silla non ha nulla in comune con l’antica dittatura, ma è, invece, una tirannide e, per di più, una tirannide che ha ottenuto il crisma della legalità - meglio, una parvenza di legalità -, mediante la legge. Si potrebbe pensare, a questo punto, che l'investitura legislativa operata da Flacco non avesse escluso il consensus populi nei riguardi di Silla, ma si trattava di un’investitura soltanto apparente e neppure ineccepibile sotto il profilo formale: sappiamo, infatti, da altre testimonianze, che la lex cui allude Cicerone fu sollecitata dallo stesso Silla, e intervenne a cose già fatte, con l’unico scopo di legalizzare a posteriori le riforme costituzionali e gli atti già posti in essere dal dittatore. Questa legge non solo istituiva un tyrannus, ossia un dominus (rex iniustus), ma parificava la volontà di Silla alla legge, sostituendo alla volontà collettiva del populus la manifestazione della volontà normativa di un solo. Al riguardo è assai illuminante il commento dello scoliaste gronoviano al brano che abbiamo testè esaminato:

 

Schol. Gronov. 314, 125 (Ed. Stangl): « Valerius Flaccus praetor (sic) Sullanis temporibus fuit. Hic tulit legem: quicquid Sulla dixisset, lex esset ». Vien fatto di pensare al disposto della c. d. lex de imperio Vespasiani, la quale ratificava in blocco, com’è noto, gli acta compiuti dal princeps - e, per quanto riguarda l’equiparazione della volontà di Silla alla legge -, alla omologa teorizzazione compiuta dalla giurisprudenza della tarda età classica nei riguardi della volontà del princeps (cfr. Ulpiano, l. primo inst., D. 1,4,1, pr.).

 

Ma, tornando a Siilla, abbiamo testè veduto come la sua esperienza di potere, nella rappresentazione che ne offre Cicerone, venga considerata quale tirannide.

 

Peraltro, Cicerone non esita, in altre testimonianze, a identificarla col regnum, ricollegandosi, in questo modo, a quel che aveva già sostenuto nel de re publica. Così, ad esempio, in ad Att. 8, 11, 2: « Genus illud Sullani regni iam pridem appetitur, multis qui una sunt cupientibus... ».

 

e ancora in Phil. 5,6,17: « ...quod neque reges nostri fecerunt, neque ii qui, regibus exactis, regnum occupare voluerunt. Cinnam memini, vidi Sullam, modo Caesarem: hi enim tres post civitatem a L. Bruto liberatam plus potuerunt quam universa res publica (12) .

 

Il significato di queste testimonianze è univoco: il potere di cui Silla appare munito si pone in contrasto con la res populi e si pone altresì come negazione della libertas e, in definitiva, del consensus.

Non diversamente stanno le cose quanto ad Antonio.

Scorrendo le Filippiche, in diversi passi emerge la discrepanza tra il potere esercitato da Antonio e l’assetto costituzionale della Repubblica.

Così in Phil. 3, 4, 8 9: « Neque enim Tarquinio expulso maioribus nostris tam fuit optata libertas quam est depulso Antonio retinenda nobis. Illi regibus parere iam a condita urbe didicerant, nos post reges exactos servitutis oblivio ceperat... L. Brutus regem superbum non tulit; D. Brutus sceleratum atque impium regnare patietur ! »,

Phil. 5, 16, 44: « Illius (scil. Pompei) opibus Sulla regnavit, huius (scil. Gai Caesaris) praesidio Antoni dominatus oppressus est », Phil. 8, 4, 12: « Quae causa iustior est belli gerendi quam servitutis depulsio? », e, infine, in Phil. 13, 8, 17: « Nam si ipse servire poterat, nobis dominum cur imponebat? et si eius pueritia pertulerat libidines eorum qui erant in eum tyranni, etiamne in nostros liberos dominum et tyrannum comparabat? ».

 

Da questi brani risulta evidente un contesto che dimostra come il regime istaurato da Antonio null’altro sia se non una species di dominatus, ossia un regnum vero e proprio. Con Antonio rivive, in effetti, il regnum ma, si badi, non il iustum regnum delle origini, sibbene il regnum iniustum, che, come si è detto, si identifica con la tirannide.

 

In effetti, il regnum - che pure è considerato uno status rei publicae, ossia una modalità organizzativa della comunità politica -, non costituisce una forma civitatis che si opponga, in linea di principio, alla libertas del populus, a patto che il rex, beninteso, non si trasformi in un dominus (iniustus).

 

Questa degenerazione del regnum si manifesta, conformemente alla tesi platonico-aristotelica, ogni qual volta il rex non governi nell'interesse dei governati, sibbene nel proprio interesse; ossia, in altri termini, ogni qual volta il rex non conformi il suo potere alla legge. Nel momento in cui ciò avviene, la forma civitatis che si identifica nel regnum degenera nella tirannide (dominatus iniustus), e si concreta nella negazione della libertas. Ciò si induce, a contrario, da quel che Cicerone osserva nei riguardi del regnum, là dove afferma in de re publ. 2, 23, 43: « ...desunt omnino ei populo multa qui sub rege est, in primisque libertas, quae non in eo est ut iusto utamur domino, sed ut nihilo... ».

 

E ancora, la qualifica di « iniustus dominus » che Cicerone assegna al rex, vale a meglio precisare il processo degenerativo che trasforma il regnum in tirannide: il tiranno è, in effetti, un dominus iniustus, ossia che non conforma il suo potere al ius.

 

A questo punto occorre rilevare, peraltro, che a una netta orientazione del suo pensiero in materia non corrisponde, in Cicerone, una terminologia altrettanto rigorosa: lo dimostra l'uso non univoco del termine « dominus », che è talvolta riferito al rex iustus, talaltra al rex iniustus, ossia al tiranno, come avviene, ad esempio, in de re publ. 2, 26, 47: «Videtisne igitur ut de rege dominus extiterit, uniusque vitio hoc genus rei publicae ex bono in deterrimum conversum sit? hic est enim dominus populi quem Graeci tyrannum vocant ... »,e in de re publ. 2, 27, 49: « Habetis igitur primum ortum tyranni; nam hoc nomen Graeci regis iniusti esse voluerunt... ».

 

Queste considerazioni impediscono di ravvisare alla base del potere esercitato da Antonio un consensus del populus.

 

Al contrario, il populus è caduto, ancora una volta, in una dura servitù, simile a quella cui venne ridotto dall’ultimo Tarquinio e, in seguito, da quanti si arrogarono, esercitandolo nella parvenza di una formale legalità repubblicana, un potere dispotico: Cinna, Silla, Cesare. Gli exempla di iniusta regna che questi uomini introdussero in Roma, con la violenza e con l’arbitrio, rivivono ora nel dominatus istaurato da Antonio. Al populus non rimane che servire: non vi è, ormai, posto per la libertas, ossia per la partecipazione consapevole e responsabile di tutti i cives alla gestione della res publica.

 

Le opinioni espresse da Cicerone trovano riscontro puntuale in alcune notazioni di Livio, sebbene quest’ultimo identifichi senz'altro il regnum col dominatus, e definisca come servitus la condizione del populus sottoposto al potere del rex.

 

Al riguardo Livio ci offre una testimonianza ineccepibile, descrivendo gli eventi prodottisi in seguito alla scomparsa di Romolo e all’istituzione dell’interregnum: 1, 17, 7: « ...fremere deinde plebs, rnultiplicatam servitutem, centum pro uno dominos f actos... », e, d’altra parte, il regnum viene opposto alla libertas populi, come avviene in 1, 17, 3: « ...in variis voluntatibus regnari tamen omnes volebant libertatis dulcedine nondum experta ».

 

Viceversa, il tema del consensus, inteso quale manifestazione della volontà collettiva del populus, appare anche in Livio, allorquando, narrando dell'avvento al regno del primo Tarquinio, afferma (1,35,6) « eum (scil. Tarquinium) haud falsa memorantem ingenti consensu populus Romanus regnare iussit ».

 

La res publica è ormai divenuta una imago sine re, un mero flatus vocis: non a caso Cicerone, rimpiangendo i tempi d’oro della costituzione repubblicana, discorre di una res publica amissa: de re publ. 5, 1, 2: « ...rem publicam verbo retinemus, re ipsa vero iam pridem amisimus... ».

 

L’opposizione talvolta violenta del populus mira, in effetti, a recuperare la libertas e, insieme con questa, il consensus; mira, in altri termini, a rendere il populus signore di sé medesimo. In questo caso ben può affermarsi che il popolo torni ad occupare la sua res, come attesta Cicerone in de re publ. 3, 32, 44: « ...populi nulla res erat, immo vero id populus egit ut rem suam recuperaret ».

 

Il tema della recuperatio libertatis, del recupero della res populi, ritorna in più luoghi delle Filippiche. Così in Phil. 3, 8, 19: « Quae sunt predita consilia? an ea quae pertinent ad libertatem populi Romani recuperandam? », e in Phil. 3, 11, 29: « Quapropter, quoniam res in id discrimen adducta est utrum ille (scil. Antonius) poenas rei publicae luat an nos serviamus, aliquando... patrium animum virtutemque capiamus, ut aut libertatem propriam Romani et generis et nominis recuperemus aut mortem servituti anteponamus », e ancora in Phil. 4, 5, 11: « ...sic ego vos (Quirites) ardentis et erectos ad libertatem recuperandam cohortabor…», », e infine in Phil. 5, 12, 34: « Haec si censueritis, patres conscripti, brevi tempore libertatem populi Romani... recuperabitis ».

 

Il mancato recupero della libertas populi non ha altro esito che la servitus. Per questa ragione la condotta politica di Cicerone nei riguardi di Antonio è ispirata a questa esigenza fondamentale: la difesa della libertà repubblicana, il recupero del consensus e della conseguente concordia ordinum.

 

In questa prospettiva deve intendersi il sostegno dato a quanti hanno impugnato le armi contro Antonio, siano essi magistrati o semplici privati, e il favore accordato, sin dall'inizio della sua azione politica, a Gaio Cesare Ottaviano, il futuro princeps.

 

L'opera di costoro ha, infatti, conseguito il risultato più ambito: la liberazione del populus da una pesante e ingiusta servitù.

 

In questo ordine di idee non potrebbe rivelarsi più signifi­cativa la mozione rivolta al senato, all’indomani della vittoria del 15 aprile 43, con la quale Cicerone propone che vengano tri­butati ringraziamenti e ampie lodi ai vincitori di Antonio   « eo­rum virtute, imperio, consilio, gravitate, constantia, magnitudine animi, felicitate populum Romanum f oedissima crudelissimaque servitute liberatum ».


© Gaetano Mancuso


Note:

1 Cfr. ERNOUT MEILLET, Dictionnaire étymologique de 1a langue latine, Paris, 1953, s.v. « Sentio ».
2 Cfr. FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, I, s.v. «Consentio», 800 s; Thesaurus Linguae Latinae, IV, s.v. « Consensus », cc. 390 ss.; circa la carica semantica del termine cfr., per tutti, Cic., de div. 2, 14, 34: «...qua ex coniunctione naturae et quasi concentu atque consensu, quam Graeci sump£qeian appellant ... ».
3 Cfr., al riguardo, il nostro breve scritto « Sulla definizione ciceroniana dello Stato, in Sodalitas, Scritti in onore di A. Guarino, 2, Napoli, 1984, 609 ss.
4 Ci riferiamo, in particolare, anche alla communis utilitas e alla par condicio dei socii cives, cui pure fa riferimento Cicerone (de re publica 1, 32, 49).
5 Così De Ruggiero, Dizionario epigrafico di antichità romane, 2, p. I, Roma, 1900, s.v. « Consensus », 605.
6 Non deve, peraltro, pensarsi che questa costruzione, la quale è a un tempo filosofica e giuridica, sia il prodotto originale del pensiero ciceroniano. Essa, in verità, si ritrova ancor prima nel pensiero politico greco, sebbene formulata con connotazioni esclusivamente filosofiche. Già i Sofisti avevano individuato nella legge la causa prima del costituirsi di una comunità politica, e nella legge, per l’appunto, avevano ravvisato il prodotto di una mera convenzione (sunq»kh).
Cfr. ARIST., Polit. 3, 9, 1289 b: « Altrimenti la comunità cittadina diventerebbe un'alleanza militare differente da quelle summenzionate, solo per la posizione geografica dei contraenti, la legge sarebbe una mera convenzione e, come disse il sofista Licofrone, una garanzia dei mutui diritti, ma non sarebbe in grado di rendere buoni e giusti i cittadini ». Seguiamo qui la traduzione che, del brano aristotelico, accoglie Viano, Aristotele, Politica e Costituzione di Atene, Torino, 1976, rist., 147.
Questa tematica venne, in seguito, ripresa da Epicuro e fu, a sua volta, rimeditata in chiave romana da Lucrezio. 11 contratto sociale si pone, quindi, in queste correnti del pensiero filosofico greco, alla radice non solamente delle prime aggregazioni umane   configurandosi, cioè, come pactum societatis  , ma altresì alla radice della legge positiva, del sistema normativo che ciascuna polis si è data, configurandosi, questa volta, come pactum subiectionis, ossia come subordinazione consensuale al dettato della legge. Nella prospettiva del pensiero greco, come pure, in definitiva, di quello romano, i due pacta   societatis e subiectionis finiscono con l'identificarsi, risolvendosi in un'unica e medesima manifestazione di volontà collettiva. Più tardi, col mutare dell'ambiente culturale e politico, e per influsso dell'insegnamento cristiano e della comparsa di esperienze politico culturali tipiche del mondo germanico, l'ambito concettuale e, insieme, operativo dei due pacta verrà meglio precisandosi, attraverso la comparsa della distinzione teoretica tra «contratto sociale» e «contratto politico». Questo avviene già nella speculazione politica medievale manifestandosi, in seguito, organicamente, nel pensiero politico illuminista e razionalista dell'età moderna.
7 Ci serviamo della locuzione « pactum societatis » al solo scopo di rendere più comprensibile il pensiero politico ciceroniano, consapevoli, peraltro, che siffatta locuzione   al pari della correlativa « pactum subiectionis  , appartiene al linguaggio tecnico delle dottrine filosofiche dell'età moderna, alle quali si deve ascrivere la formulazione della nozione di contrattualismo. Cfr., al riguardo, per una prima e sommaria informazione, Matteucci, v. « Contrattualismo », in Dizionario di politica, Torino, 1976, 234 ss.
8 Così, ad es., in pro Sest. 38, 43: « ...si maiestas populi Romani revixisset... ».
9
Cfr. Cic., de re publ. 1, 32, 49.
10 Questa summa potestas populi è la condizione necessaria perché la civitas sia libera: Cic., de re publ.
1, 31, 47.
11 Cfr. Cic., Phil. 1, 6, 13.
12 Il medesimo concetto si ritrova in Phil. 2, 42, 108: « Memineramus L. Cinnam nimis potentem, Sullam postea dominantem, modo Caesarem regnantem videramus ».

 


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