Mattanza dalla riva secondo il sistema antico (da Sánez Reguart, Madrid 1791)

Liberum mare”, acque territoriali e riserve di pesca nel mondo antico

 

In: Colloque internazionale "Ressources et activites maritimes des peuples de l'Antiquite", Université du Littoral Côte d’Opale, Boulogne, 12-14 maggio, 2005 = AUPA, 49, 2004

 

Si tratta della sovranità greca e romana sul mare e sulle spiagge, della nascita della tonnara medievale, del demanio marittimo e delle acque territoriali.

Per la natura non "patrimonialistica" del mare e delle spiagge, lo Stato romano non appaltava diritti di pesca (diverso è il caso delle saline). Neppure in Grecia, in Oriente o in Egitto, poiché mare e spiagge erano comuni di tutti. Solo le acque interne furono date in concessione ed i proventi statali della  pesca marina furono percepiti come portoria, dazi cioè d’importazione sul pesce pescato professionalmente.

Dunque CIL XIII, 8830 da Beetgum non riguarda concessioni di pesca nel Mare del Nord in età imperiale romana, come comunemente si ripete. Alcune Novelle di Leone il Saggio mutarono però tale situazione determinando la nascita della tonnara medievale ed il successivo sviluppo del demanio marittimo e delle acque territoriali.

 

 

Il principio della libertà del mare - “che da secoli si è abituati a considerare come fondamento del diritto internazionale marittimo”[1],  in base al quale si afferma che lo Stato non possa ostacolare o precludere l’uso degli spazi marini per scopi pacifici ad imbarcazioni di altri Stati - è opinione dominante che sia principio moderno[2]. “Esso si è affermato solo tra il Sei e il Settecento per impulso degli Olandesi”, sostiene il Vismara opponendosi all’opinione proposta nel corso di quella che è stata definita la “battaglia dei libri”[3] dal Bynkoershoek, mirante a collegare direttamente ormai agli inizi del Settecento il regime della libertà del mare con il principio della territorialità delle acque costiere. Per il giurista olandese vi sarebbe stata nel XVII sec. simultaneità nell’estensione della sovranità territoriale dello Stato alle acque adiacenti e nella rivendica del regime della libertà della navigazione in mare aperto.

Anche se alla dottrina razionalistica del Settecento può certamente esser riconosciuto il merito della chiara elaborazione dei concetti di mare territoriale e di mare libero, la storia della zona di mare assoggettata al dominio esclusivo di uno Stato è assai più antica del XVII sec. e, per un autorevole storico del diritto intermedio come Vismara, “può essere fatta risalire al momento della costituzione di una pluralità di Stati sulle sponde del Mediterraneo accanto al decadente impero romano”[4]. Già la rottura dell’unità politica del Mediterraneo, conseguente al crollo dell’impero romano ed il persistente stato di conflitto nel bacino che un tempo era stato mare nostrum avrebbero determinato, nella suddetta ricostruzione storica, la contrapposizione tra il pelagus - mare aperto, spazio ora aperto anche ad ogni violenza - e le aquae nostrae, ambiti marini costieri sottoposti a controllo e soggetti alla giurisdizione di Stati particolari; rivendicati come esclusivi, avrebbero potuto essere preclusi alle imbarcazioni straniere mediante divieti di navigazione, dazi di transito e limitazioni di pesca, o sfruttati in senso patrimoniale dalle entità statali attraverso concessioni o addirittura alienazioni di beni pubblici. La fascia costiera litoranea era destinata a divenire negli Stati più moderni demanio necessario inalienabile.

Utilizzando i risultati delle ricerche di Lombardi sul ius gentium[5], Vismara ha infatti ritenuto che il pensiero giuridico classico, partendo dall’iniziale e ristretta considerazione del civis romanus, ben presto sia stato in grado di riconoscere che anche al di là dei confini dell’impero potesse sussistere un’umanità degna di considerazione. La concezione universalistica dell’impero romano e la classificazione del mare come cosa comune enunciata da Marciano nel III sec. d.C. procederebbero allora congiuntamente, in sintonia con l’affermarsi del concetto di humanitas, riuscendo infine a trasformare il repubblicano e civico concetto di mare nostrum in un patrimonio comune a tutti gli uomini. Ma nel Medioevo, con il frazionamento del Mediterraneo e la nascita degli Stati costieri, il mare comune sarebbe stato  oggetto, nell’ipotesi di Vismara, di privatizzazione e, nella fascia litoranea, sarebbe stato sottratto all’uso dei sudditi di ogni altro Stato ed assoggettato allo sfruttamento e controllo di ogni piccola entità marinara di nuova formazione. 

Che la suggestiva ed articolata ipotesi non colga tuttavia nel segno, lo indicano, a mio avviso, diverse circostanze: in primo luogo la concezione del mare come cosa comune a tutti gli uomini, per il diritto romano, risale ad una età precedente a quella in cui visse Marciano[6] e probabilmente, come vedremo, alla media età repubblicana. Sembra quindi che il riconoscimento del “libero mare” non fosse limitato al diritto romano dell’età dei Severi, ma normalmente ammesso anche nel diritto greco, almeno dal III sec a.C., nonostante l’opinione in contrario espressa da J. Dumont e, generalmente in maniera tralatizia, accolta[7]. In secondo luogo, accettando l’ipotesi di Vismara, l’elaborazione dottrinaria del concetto di acque territoriali apparirebbe con molto ritardo rispetto alla frantumazione dell’impero romano: non nell’alto medioevo, come sarebbe lecito attendersi, ma nell’età moderna. In realtà, è noto che già nel XIV sec. in Bartolo da Sassoferrato, con la teoria del districtus, è operante una teorizzazione del concetto di acque territoriali. Sembra infatti che l’estensione della iurisdictio dalla terra al mare e l’idea stessa di mare territoriale siano stati il prodotto di una lenta elaborazione dottrinaria che dal XIII sec., con l’attribuzione prima della fascia di mare adiacente al territorio costiero (mare districtum), poi con l’assegnazione nel XV sec. del mare adiacens al territorio dello Stato, abbia finito per riconoscere, sia il dato geofisico della naturale estensione della piattaforma continentale sotto il livello del mare costiero, che il predomino politico da tempo esercitato da alcune entità statali marinare[8].

Infine la ricostruzione storica di Vismara non prende in considerazione l’antica frammentarietà del bacino del Mediterraneo, ancor prima della conquista romana e dell’unificazione in un unico impero. Anteriormente alla conquista mediterranea di Roma  taluni ritengono che potesse sussistere un mare territoriale greco[9] che, come certamente avveniva nel mondo antico per le acque interne, avrebbe potuto essere dato in concessione dallo Stato. A mio avviso, invece, come non si può coniugare la frammentarietà degli Stati mediterranei prima della conquista di Roma con il concetto di territorialità delle acque, così dopo la dissoluzione del potere romano occorre escludere l’esistenza di “acque territoriali”, di “demanî marittimi”, di riserve di pesca e di concessioni statali di zone in mare. Non fu dunque la disgregazione dell’impero tardo antico a determinare la nascita o la rinascita della territorialità del mare.

Il problema della territorialità del Mediterraneo antico e dello sfruttamento in senso patrimoniale da parte di singole entità statali prima della conquista romana si collega ai risultati, pienamente condivisibili, ai quali ora perviene per il diritto romano l’indagine di M. Fiorentini che ritiene di poter escludere che sia il mare, che le spiagge, a causa della loro specifica natura non "patrimonialistica", potessero essere oggetto di concessioni esclusive di sfruttamento da parte dello Stato romano[10]. I numerosi testi, comunemente addotti nel diritto romano per dimostrarne l’esistenza, riguardano infatti acque interne, appalti di pesca in lagune costiere, fiumi o laghi, ma mai tratti di mare aperto. Ovviamente, non solo la corresponsione di un’imposta sui proventi della pesca non può essere intesa come una sorta di canone di affitto di un bene pubblico, ma le uniche due fonti addotte dai sostenitori della natura “patrimonialistica” del mare in diritto romano (CIL XIII, 8830 da Beetgum e D. 47, 10, 13, 7) non sembrano costituire valide prove in tal senso: dubbia è l’originaria pertinenza all’area di rinvenimento, e dunque al mare, dell’epigrafe olandese che menziona dei conductores piscatus[11], così come non si riferiva al mare, ma alla tutela interdittale dei luoghi pubblici dati in concessione, l’anonimo interdetto concesso dai veteres ai conductores in D. 47, 10, 13, 7[12].

Per quanto riguarda però il mondo greco o orientale e la situazione egiziana, si è sostenuto che il mare e le spiagge avrebbero potuto costituire oggetto di concessione da parte delle poleis greche, anche se poi si è riconosciuto che, l’effettiva appropriazione degli spazi marittimi da parte delle città – stato non era collegata ad alcuna rivendicazione di sovranità e che rispondeva alla sola finalità di reperire risorse fiscali per le città o per i santuari. Quando i Romani si impadronirono a vario titolo dei territori greci, in genere non avrebbero innovato il sistema di riscossione fiscale, ma avrebbero continuato a riscuotere quanto in precedenza era stato percepito dalle città – stato assorbite nell’imperium Romanum, fatti salvi i casi in cui fosse stato consentito alle città di continuare a percepire in proprio tali imposte[13].

La prassi greco orientale e quella egiziana, come si cercherà di dimostrare, sembrano in generale in sintonia con la concezione romana non patrimonialistica del mare e delle spiagge. In base alle testimonianze attualmente disponibili, appare infatti possibile riconoscere la persistenza in tutto il bacino del Mediterraneo antico - tanto in Oriente che in Grecia, sia a Roma che in Egitto - della concezione del mare come cosa comune a tutti gli uomini fin da un tempo assai remoto. Sembra poi possibile contestare l’esistenza nell’ambito greco, orientale ed egiziano di un concetto astratto di sovranità sul mare e dunque di acque territoriali e di riserve di pesca, se non limitato alle acque interne, come è stato correttamente indicato per il mondo romano.  Infine è anche possibile valutare l’imposta sulla pesca, non come un’imposta fissa per l’uso di una zona di mare, un fovroı cioè, bensì come un tevloı[14], un’imposta sui prodotti della pesca in mare che fu percepita, quando professionalmente esercitata e non occasionalmente effettuata, quasi come un dazio di importazione nelle stationes dei portoria o come un’imposta sul prodotto venduto o posto in vendita sul mercato. Mare e spiagge non furono mai considerati come res publicae in patrimonio, beni tali cioè da poter esser dati in concessione da parte di entità statali, ma piuttosto come “res publicae in usu gentium”,  beni comuni cioè offerti alla fruizione degli uomini.

L’uniformità e la costanza nel tempo della valutazione antica del mare consente infine di ricostruire le non numerose e controverse informazioni delle fonti giurisprudenziali romane, non come unitariamente tendenti verso il graduale riconoscimento della dottrina marcianea del mare come cosa comune, ma in qualche caso in grado di riflettere dalla fine dell’età repubblicana in poi il contrastante gioco dei notevoli interessi economici sottesi dalle nuove opportunità di sfruttamento dell’ambiente marino.

In età bizantina, sotto Leone VI il Saggio, sarà appunto una nuova tecnologia di pesca di grande rilevanza economica, la tonnara con la camera della morte impiantata in mare aperto, a favorire la decadenza dell’antica concezione del mare come cosa comune[15], concorrendo così ad avallare le pretese di singoli e di stati territoriali ad aquae, ora rivendicate come nostrae, rendendo teoricamente possibile uno sfruttamento pubblico in senso patrimoniale dell’ambiente marino, prima ritenuto un vero e proprio abuso.

 

Se ai primi esploratori arcaici che solcavano le lontane rotte verso Occidente il mare ignoto appariva un mondo aperto e libero che si offriva alle scoperte e all’occupazione[16], la concorrenza nelle medesime navigazioni di gruppi nemici e la diffusione della pratica delle rappresaglie (sylai) non erano certo in grado di modificare un’istintiva e naturale concezione di libertà in mare, riflessa in un brano delle Leggi  di Platone[17] o in un frammento superstite del commediografo Fenicide di Megara in cui, nel III sec. a.C., si dichiara ancora come cosa ben nota, l’appartenenza esplicita del mare alla comunità umana (…t¾n mn q£lassan œlege koin¾n enai...),toÝj d' ™n aÙtÍ „cqàj tîn çnhsamšnwn” (“mentre il pesce che stava nel mare era solo di chi l’aveva comprato”)[18].  Tuttavia è stato sostenuto che il principio platonico e la battuta scherzosa di Fenicide operino a livello di meri enunciati morali, essendo al contrario “la liberté des mers … une notion inconue de la Grèce archaïque et classique”, ove comunità diverse potevano certo accordarsi con trattati per escludere reciprocamente la pratica della rappresaglia nei propri porti, ma non evidentemente in alto mare.

Se si valuta il principio della libertà del mare antico alla stregua di una moderna norma di diritto internazionale marittimo, è evidente che esso può oggi apparire un “mero enunciato morale” e, nel preconcetto dell’esistenza di acque territoriali, ci si può persino spingere a cercare nell’epigrafia giuridica della pesca greca “di porre gli horoi  di questa fluttuante chōra  delle acque”[19], senza giungere a delimitarne i confini.

Si tratta di stabilire, come ha proposto J. Velissaropoulos, “se tale possibilità di navigare sia mai stata eretta a principio o se, considerata come uno stato di fatto, sia rimasta al contrario al di fuori della sfera istituzionale, come affermava J. Hasebroek”[20].

Si è constatato che ogni violazione della libertà di navigazione in tempo di pace e senza valide giustificazioni venisse in Grecia ripresa, non tanto per il danno subito dalla vittima, quanto per il grave impedimento arrecato alla navigazione ed alla pesca nel “mare comune”[21]. Le violente ed immotivate violazioni della libertà della pesca o della navigazione in alto mare provocavano non solo disapprovazione morale, ma soprattutto reazioni nei rapporti internazionali per le illegittime attività nel mare di tutti[22].

E’ evidente che in un diritto concreto e fattuale come quello antico si cercherà invano la proclamazione del principio della “libertà dei mari”, nella prassi costantemente rispettato, pur in presenza di meccanismi contrastanti, come sylai e sequestri, operanti nell’ambito marino arcaico. Allo stesso modo non venne mai proclamato il principio della sovranità sul mare in  nome di una sola comunità, ma un controllo di fatto potè essere esercitato nominalmente nell’interesse di tutti, anche se poi per ragioni economiche e politiche in determinati momenti ed in zone particolari certamente esso venne espletato per il vantaggio di specifiche comunità statali greche ed orientali.

Ben noto è il problema sollevato dalla nozione di zone marittime protette, profondamente diverso da quello delle acque territoriali moderne[23], che si evidenzia attraverso le clausole di alcuni trattati internazionali o di regolamenti interni: i trattati tra Roma e Cartagine[24], le leggi di Eretria[25], di Thasos[26], di Creta[27]. Se il moderno concetto di acque territoriali oggi richiede un riconoscimento assoluto della comunità internazionale, nel mondo antico tali zone marine protette derivavano talvolta da accordi con comunità determinate o scaturivano da particolari necessità di difesa, di polizia fiscale in zone particolari, che non modificavano il generale riconoscimento della libertà di navigazione in alto mare e che non implicavano uno sfruttamento patrimoniale attraverso pubbliche concessioni.   

Uno dei più antichi e ricorrenti testi invocati a sostegno della possibilità di uno sfruttamento patrimoniale del mare da parte degli stati greci o orientali è un brano pseudoaristotelico[28] che fornisce la notizia, attribuibile al VI sec. a.C., che gli abitanti di Bisanzio, pressati da ristrettezze economiche, ricorsero alla cessione di fondi pubblici, della pesca marittima e del commercio del sale, ma  nulla nel testo indica che ciò avvenisse proprio attraverso locazioni pubbliche di determinate zone di mare. Con molta chiarezza è stato sostenuto da un giurista del Cinquecento, Enrico Bocero (1561-1630) che “est enim aliud ius piscationum, aliud item reditus piscationum. Ius piscationum in mari et fluminibus publicis regale non est, sed iure gentium omnibus est commune, at reditus piscationum est iuris regalis...Per reditum autem piscationum eo loco significatur vectigal, quid ex piscationibus quae in mari et fluminibus publicis fiunt, fiscus Imperatoris capit[29]. Anche se è stato affermato che i diritti regalistici delle entrate della pesca “corrispondevano al concetto che le rive e il mare appartenevano allo Stato, che aveva il diritto di cederne l’uso”[30], è piuttosto probabile invece che ciò si effettuasse attraverso l’appalto della riscossione dell’imposta sulla pesca; imposta ampiamente diffusa fin da età antica nelle comunità greche (télos ichthyikès o aliéōn), riscossa allo sbarco o alla vendita del pesce nel mercato[31], e perpetuatasi fino all’età romana. Al tempo di Claudio, quell’imposizione sul pesce che per la città di Bisanzio era stata fonte di grandi ricchezze, essendo riscossa dai publicani come portorium, si era trasformata in un grave onere per la comunità[32].

Anche gli altri testi addotti[33] per vantare la patrimonialità delle acque territoriali greche risultano incongrui: talvolta si riferiscono ad appalti non di zone di mare ma dell’imposta sul pesce, come nel caso degli abitanti di Bizanzio sopra ricordato, o a pesca praticata in acque interne, come è stato già osservato in età romana per i diritti della colonia di Patrai, menzionati da Strabone[34] o per quelli ricordati in una notizia di Pausania collegata ad una sorgente d’acqua dolce (peghé), dedicata ad Hermes[35]. Né il versamento ai templi dei proventi della pesca di tonnare ateniesi o la corresponsione dei singoli pescatori alle comunità cittadine di parte dei benefici della loro attività, riescono a dimostrare l’esistenza di un dominio pubblico sul mare dato in esclusiva concessione, anche se i guadagni di stabilimenti antichi per la cattura e lavorazione del pesce sembrano talvolta essere stati suddivisi tra diverse comunità cittadine[36], operanti sulla riva in stretta collaborazione[37]. Poteva anche essere oggetto di pubblico appalto il servizio di guardia a terra per l’avvistamento del tonno, derivante dalle particolari modalità di pesca di tale pesce, le quali richiedevano il controllo della zona di cattura per circondare il branco che veniva ucciso a riva. Desumere da tutto ciò una sovranità pubblica sul mare territoriale in diritto greco è certamente errato ed anche lo stesso Dumont è costretto a concludere: “la souveraineté halieutique n’est pas absolue. Elle est limitée à son object et n’emporte pas incorporation au territoire civique. Elle devient très vite un simple support fiscal”. Ci si chiede, però, come una specifica zona di mare avrebbe potuto esser data in appalto da una comunità statale, senza implicare incorporazione al proprio territorio civico.

Occorre dunque focalizzare meglio l’attenzione sull’imposta sulla pesca e sulla sua natura, in quanto essa appare come un tevloı, un’imposta sui prodotti della pesca in mare importati in terraferma, più che come un fovroı, un’imposta fissa prevista per l’uso di una determinata zona di mare.

E’ possibile dunque che, fin dalle origini la pesca professionale - e non quella ovviamente effettuata ad proprium usum - fosse assoggettata a pratiche analoghe a quelle  del portorium, esercitate negli stessi luoghi della riscossione dei dazi doganali, consistenti originariamente in donativi che i naviganti offrivano all’autorità cittadina per il permesso di stazionare in un porto e di esercitare attività commerciali introducendo prodotti[38], tra i quali il pesce, ed ottenendo al tempo stesso protezione con la sospensione delle sylai[39].

Frequente è l’associazione tra “gabella dei pesci” o “dei pescatori” e dazi doganali nel mondo greco e romano. A Cizico esisteva ad esempio una compagnia locale di pubblicani specializzata nell’appalto della pesca fin dall’epoca ellenistica, ancora operante sotto la dominazione romana[40]. E’ probabile che tali diritti sulla pesca, come si vedrà per le città di Istria ed Efeso, fossero percepiti proprio sotto forma di dazi d’importazione[41].

La presenza nel muro nella stazione di dogana di Cauno, antico possedimento rodio, della lex Cauniorum de piscando oltre al cd. regolamento sulle importazioni ed esportazioni,  è certo un dato assai significativo, anche se solo per il periodo compreso tra il I ed il II sec. d.C.[42]

Il caso della città di Histria, alle foci del Danubio riguardante ancora una volta la pesca nel fiume fino al mare, e dunque in acque interne, è di particolare interesse. Una lunga iscrizione bilingue riferisce di una controversia tra la comunità di Histria, che vantava privilegi di pesca nel ramo meridionale del delta del Danubio (e sul legname e la resina di pino dell’isola interna di Peukè) e nella connessa laguna di Halmyris (terreno salmastro), ed i pubblicani[43]. Sembra infatti che i pubblicani, subito dopo la creazione nel 46 d.C. del distretto doganale della Ripa Thraciae[44], siano entrati immediatamente in contrasto con la città per il diniego opposto dagli abitanti di corrispondere alcunché per la pesca e per i prodotti provenienti dai luoghi suddetti. Un primo conflitto si verificò tra il 46 ed il 49 d.C., ma l’epistula di Flavio Sabino, legato di Mesia, nella quale si riconoscevano i privilegi degli Histriani (ll. 9-15), non valse a sedare il conflitto; riaccesosi nel 50, dette luogo ad una seconda epistula di Sabino (ll. 15-27). Di nuovo nel 51 (epistula di Pomponio Pio, ll. 28 – 37), nel 52/53 (epistula  di Plauzio Eliano, ll. 37-48), ancora nel 54 (epistula  di Tullio Gemino, ll. 49-61) si riaprì la controversia, conclusasi infine nel 100 d.C. con una definizione di confini (horothesía) del legato Manio Laberio Massimo (ll. 1-7 e ll. 62-72)[45].  Sembra che un’altra mutila iscrizione della città di Histria faccia egualmente riferimento ad un conflitto tra i pubblicani e la città[46]. Ma quale poteva essere la ragione di tale accanimento degli esattori del dazio che determinava le protratte tribolazioni degli abitanti di Histria? L’illegittima cupidigia, ipotizzata da alcuni studiosi[47], non ha convinto De Laet, sostenitore dell’ipotesi che “la barriera doganale della Ripa Thraciae fosse installata sulla riva meridionale del Danubio; tutti i prodotti provenienti dai territori oltre il fiume (dunque anche il legname dell’isola di Peukè) o dal fiume stesso (il pesce), dovevano dunque attraversare tale sbarramento per arrivare alla stessa città di Histria. Il télos che i pubblicani  volevano esigere dagli Istriani era dunque il portorium”.

Il portorium allora non solo veniva richiesto giustamente per il pesce proveniente dal mare, ma anche per quello pescato nella laguna di Halmyris o intorno all’isola di Peuké, che avrebbe dovuto essere riservato invece alla comunità cittadina. Infatti in questa foce, come in altri casi del genere, non doveva apparire oggettivamente facile determinare con esattezza sia i confini del territorio cittadino, includente o meno la laguna, che i limiti della foce e l’inizio della spiaggia marina[48]; tutto ciò costituiva certo la fonte di continui contrasti tra la città ed i conductores publici portori ripae Thraciae, conclusi dopo più di mezzo secolo con la determinazione dei confini doganali, della laguna e della foce fino al mare, riconoscendo cioè intatte agli Histriani le frontiere ancestrali (ta tōn progónōn hória), il territorio originario che era stato assegnato a Histria al momento del passaggio sotto il dominio romano[49], comprendente la laguna di Halmyris e l’isola di Peuké, sino alla riva del mare. Quindi il pesce pescato dagli Histriani nella foce non sarebbe stato assoggettato al dazio romano, diversamente da quello preso in mare. Naturalmente per i viaggiatori che provenendo dall’interno attraversavano la barriera doganale della Ripa Thraciae, il portorium sarebbe stato richiesto dopo l’attraversamento delle acque interne nelle stationes di dogana del territorio istriano. Insomma per gli abitanti di Histria la decisione finale si configurava come una sorta di atéleia per il pesce ed il sale della laguna, il legname e la resina dell’isola “della pece” (Peuké).

Un’altra lunga controversia tra un procurator vectigalis, questa volta dell’Illirico, ed una comunità cittadina posta in una ampia foce di fiume, il Tyras (oggi il Dniester), ebbe per oggetto privilegi cittadini, vantati su imprecisate importazioni poste in vendita, il cui riconoscimento avrebbe potuto ridurre il fructum Illyrici[50]. La questione si protrasse almeno da Antonino Pio sino al regno di Settimio Severo e Caracalla prima di essere definita in favore della città; nulla in effetti indica che il contrasto fosse relativo alla pesca  nella foce del fiume, ma certamente la situazione appare, anche topograficamente, assai simile a quella di Histria[51].   

L’imposta sul pesce invece, menzionata ad Efeso in un’iscrizione su di un altare dedicato da una donna al tempo di Nerone e richiamata ancora al tempo di Antonino Pio[52], si riferiva certamente a pesca praticata in acque interne, cioè nel fiume Caistro, e non in mare[53]. Il tempio di Artemide ad Efeso infatti  traeva grandi guadagni dai proventi della pesca nella laguna costiera di Selinusia ed in quella adiacente alla foce del Caistro[54], redditi molto antichi che erano stati confiscati dagli Attalidi, ma che erano stati restituiti dai romani all’istituzione templare[55]. Anche in questo caso, come in quello della Ripa Thraciae, i pubblicani avendo contestato l’attribuzione di tali proventi agli Efesini se ne erano impadroniti, ma un certo Artemidoro di Efeso, inviato in ambasceria a Roma, secondo quanto narra Strabone, era riuscito ad ottenerne la restituzione[56]. E’ assai probabile che ancora una volta l’esatta determinazione dei confini marini - che legittimavano l’esazione del dazio sul pesce - ed il limite delle lagune assegnate al tempio fosse oggettivamente controverso, per la conformazione geografica dell’ampia foce[57].  

Due diverse clausole del Monumentum Ephesenum (ll. 20 e 122), il regolamento dei dazi asiatici ritrovato ad Efeso, sono state  riferite all’imposta sul murice, importante conchiglia marina necessaria per la produzione della porpora, che veniva assoggettata a dazio d’importazione percepito dai pubblicani. Si è rilevato in proposito che il documento concerneva un solo reddito pubblico: il portorium d’Asia[58] e che la ‘tassa’ sulle conchiglie raccolte o pescate in mare doveva essere pagata al momento dello sbarco.  “Questo telos è pressocchè un portorium[59].

E’ probabile che il prodotto assoggettato al controllo dei pubblicani nel Monumentum Ephesenum non fosse soltanto la conchiglia del murice, fonte di grandi guadagni in quanto necessaria per la fabbricazione della porpora, ma anche tutto il pesce di mare fresco e di qualsiasi tipo, purchè non proveniente da acque interne. 

Alla l. 20 infatti si legge:

 

Ð …cqÚi kogcul…wi qalass…wi nearîi crèmenoj tÕ e„kostÕn mšroj tšlouj didÒtw

 

Ed alla l. 122, in una clausola che avrebbe dovuto essere innovativa, formulata intorno al 5 d.C.[60]:

Ð kogcul…wi Ñstr…wi „cqÚi qalass…wi nearîi crèmenoj...

 

Praticamente aggiungendo soltanto il nuovo termine Ñstr…wi, non previsto in precedenza.

Volendo assoggettare a dazio soltanto il murice, la semplice espressione kogcul…wi non solo sarebbe stata sufficiente ad individuare il prodotto, come avviene in numerosi testi nei quali figura da sola[61], ma - non esistendo alcun murice d’acqua dolce – non vi sarebbe stata necessità alcuna di specificare che il prodotto assoggettato a dazio avrebbe dovuto essere “ittico, marino e fresco”. Quest’ultimo termine “fresco” appare ancora più incongruo, se si ricorda che Plinio vantava proprio la straordinaria vitalità del mollusco del murice che, estratto dal mare, a suo dire, poteva resistere per oltre cinquanta giorni ripiegato nella conchiglia, alimentandosi con la sua stessa saliva[62].

In un testo di Vitruvio[63] ostro è detto ciò che viene estratto dalla conchiglia marina del murice nel corso della lavorazione della porpora[64]. Gli editori del Monumentum Ephesenum hanno quindi ipotizzato che anche con l’aggiunta del  nuovo termine Ñstr…wi si alludesse sempre all’imposta sulla porpora, ma non hanno comunque chiarito se nella nuova clausola la tassazione avrebbe dovuto intendersi estesa anche al prodotto semilavorato, che evidentemente fresco (nearos) non avrebbe potuto più esser detto.

Sembra invece che sia decisamente da preferire l’interpretazione delle due clausole del Monumentum Ephesenum come riferite ad una varietà di prodotti del mare, ad una molteplicità di specie ittiche comprendenti anche le ostriche bivalvi e non il solo murice che presenta una struttura a coclea.

In definitiva, la lex portus Asiae - attenendosi al tenore letterale del testo -assoggettava a tassazione la pesca - tutta la pesca - restando evidente inteso che, se era sottoposta a dazio la conchiglia di murice appena pescata, certamente veniva tassato anche il colorante di porpora costituito dal mollusco semilavorato.

La condizione del pescato, di essere cioè esentato dal dazio solo se destinato al consumo personale (ad proprium usum), come avviene per le species ad vectigal pertinentes[65], può forse giustificare l’incertezza ed un conseguente senso di colpa che sembra talvolta gravare sui pescatori[66]. Significativo è  il caso dibattuto in una satira di Giovenale[67] nella quale si narra che sotto Domiziano un pescatore aveva catturato “innanzi al tempio di Venere sorretto dalla dorica Ancona” un enorme rombo ed invece di venderlo, per paura dei delatori, era stato indotto a donarlo - per evitar rischi - tutto intero al Pontefice Massimo. Costui lo aveva poi consegnato  all’imperatore che addirittura aveva convocato un consiglio composto da alti dignitari ed eminenti giuristi per decidere le modalità della preparazione culinaria. Al di là della veridicità dell’episodio e della satira, il testo, prospettando anche il sospetto della fuga dell’animale da vivai imperiali posti nei dintorni[68], consente forse di ipotizzare la cessione dei proventi cittadini sulla pesca in favore dell’istituzione templare (…ante domum Veneris, quam Dorica sustinet Ancon…)[69], come in casi analoghi di città greche[70]. Si giustifica poi il comportamento del pescatore che, per non pagare il dazio, non avrebbe potuto certo sostenere che la cattura di una così grande preda fosse necessaria per il proprio sostentamento (ad proprium usum) o che il pesce: “ipse capi voluti[71].

 

Resta dunque assodato che in nessun caso nel mondo greco ed orientale - e poi nel romano - è attestata la concessione statale del mare o del lido, ma solo la possibilità di ricavare proventi da prodotti marini, attraverso dazi la cui riscossione avrebbe potuto essere data in appalto o concessa anche ad istituzioni religiose, oltre che essere gestita da publicani romani o da comunità locali. L’assenza del mare e del lido dall’elenco fornito da Polibio delle res publicae oggetto di appalto da parte dei censori in età repubblicana è significativa: fiumi, lagune, terreni, miniere; non spiagge, né specchi d’acqua marina, che - se fossero stati beni pubblici patrimoniali e non res in usu populi - avrebbero dovuto essere menzionati[72]. Ancora più convincente è la circostanza che nella vendita di un fondo litoraneo non venisse computata nel modus la spiaggia, poiché nella superficie da vendere non erano comprese le cose che iure gentium omnibus vacant, come le vie pubbliche, i luoghi sacri e religiosi, oltre ai litora[73]. Decisiva al fine di negare ogni  possibilità di locazioni pubbliche di pesca in mare in età romana è la critica mossa all’interpretazione corrente di CIL XIII, 8830[74]:

 

Deae Hludanae

conductores

piscatus mancipe

Q. Valerio Secu-

ndo v(otum) s(olverunt) l(ibenter) m(erito).

 

Non solo l’iscrizione non sembra riferirsi ai membri di una compagnia di conductores pubblici che avrebbero ottenuto dallo Stato romano  un appalto della pesca in un braccio di mare in Frisia, località di rinvenimento dell’epigrafe, in un momento imprecisabile tra la fine del I ed il III sec. d.C., ma il luogo di giacitura primaria appare essere stato diverso, essendo il territorio in questione fuori dal controllo romano almeno dall’età flavia. Inoltre il testo avrebbe potuto facilmente riferirsi a conduzione di pesca in acque interne, come sembra indicare la stessa dedica ad una divinità che è stata piuttosto considerata una “Mutter Erde”, che una divinità marina[75].  

A questioni diverse dalla locazione del lido o del mare si riferisce invece il caso delle saline, che insistendo necessariamente in zone non battute dalle onde non rientranti nel concetto di lido – comprendente questo come limite interno il massimo flutto invernale[76] - avrebbero potuto essere pacificamente sfruttate da privati e date in locazione da comunità, come attestano numerose iscrizioni[77]. Utilizzando un testo di Giavoleno si è cercato invano di distinguere nel periodo che va dal I sec. a.C. al I sec. d.C. due porzioni del lido[78]: una pubblica, coperta dal massimo flutto, ed una privata, estendentesi al di là di tale limite. Ma giustamente è stato osservato che “il lido o è pubblico o non è più lido”[79] e dunque per tale ragione le saline, non comprese nello spazio del lido avrebbero potuto essere oggetto di rapporti patrimoniali.

La scarsa utilità nel regime romano classico di locazioni statali di tratti di mare o di spiaggia risulta poi evidente se si tien conto che a chiunque era possibile utilizzare il mare ed il lido, indipendentemente dalla proprietà del fondo rivierasco antistante, con il solo limite di rendere possibile l’uso comune di tutti, giungendo persino ad ammettersi che fosse legittimo edificare in mare o sul lido con la conseguenza che l’edificio in tal caso sarebbe divenuto oggetto di proprietà privata dell’edificante e, demolita la struttura, il luogo sarebbe stato ripristinato nella sua primitiva condizione di bene comune [80]. Dichiarava Pomponio in D. 1, 8, 10 che:

 

Aristo ait, sicut id, quod in mare aedificatum sit, fieret privatum, ita quod mari occupatum sit, fieri publicum.

 

Ma ha osservato Biondi: “E’ manifesto il contrasto fra le due enunciazioni. Se il fondo privato occupato dal mare diventa publicus, è evidente che tutto il mare è publicum; ma se il privato acquista il dominium della parte del mare che ha occupato, vuol dire che il mare è nullius e non publicum. Quindi anche Aristone afferma che il mare sia publicum,  ma quando si tratta dell’acquisto del dominio per occupazione presuppone sempre che si tratti di res nullius[81] e non del popolo romano! Per Fiorentini dunque “una conclusione pare obbligata: Aristone guarda alla condizione giuridica del mare con la stessa prospettiva che sarà poi di Marcianco. La pubblicità del mare appare qui sinonimo di res nullius occupabile che, con l’occupazione, è sottratta momentaneamente agli usi comuni”[82].

Nel tentativo di risolvere la crux posta dal testo - tanto difficile da far dire a Biondi che “siamo proprio in presenza di una di quelle bizzarre contradizioni che sono state sempre un vero martirio degli interpreti”[83] – si è proposto di interpretare al dativo il termine mari nella seconda parte del brano di Pomponio (ita quod mari occupatum sit, fieri publicum)[84], ritenendo che qui si voglia alludere a quello spazio sottratto al mare stesso per l’avanzamento della linea di costa, che perderebbe così “la natura di res communis omnium per acquistare quella di res publica [85]. Si rileva tuttavia che in tal modo non solo si perderebbe “un eloquente parallelismo” tra i due simmetrici ed inversi mutamenti di status[86], ma anche apparirebbe insolita la costruzione del verbo occupari con il dativo[87]. Inoltre la coesistenza nella prima parte del testo di un ablativo in mare con e con un presunto ablativo (a) mari con la i, nella seconda parte, è apparsa “una vera e propria incoerenza linguistica”[88], anche se poi si deve constatare che proprio Pomponio in D. 41, 1, 30, 4 ha utilizzato nello stesso passo prima l’espressione in mare e subito dopo quella in mari.  Non si può dunque in tale condizione affermare che “la i di mari della seconda parte è proprio in contrapposizione con quella e, per sottolineare il dativo e la diversità dei concetti espressi”.  Appare piuttosto preferibile contrapporre alla temporanea occupazione da parte del privato nella prima parte del testo, l’occupazione da parte del mare nella seconda parte e tentare quindi di conciliare il carattere pubblico del mare con il fatto che chi vi edifica ne diviene proprietario. L’unica via d’uscita consiste nell’ammettere che qui publicum indichi una res in usu populi.

Comunque sia, non sembra che da D. 1, 8, 10 si possa in alcun modo desumere la natura di bene pubblico patrimoniale del mare o del lido.

Neppure da D. 47, 10, 14 (Paolo, 13 ad Plautium) si può in alcun modo ricavare la natura di res publicae in patrimonio del mare e del lido, oggetto di pubbliche concessioni[89]. Il testo infatti che allude ad un ius proprium maris tutelato con l’interdictum uti possidetis non contiene un riferimento indiretto alla tutela interdittale nel caso in cui il richiedente esercitasse un diritto di pesca esclusivo su un tratto di mare, come frequentemente è stato ripetuto[90], poiché come si è osservato nel caso di turbativa all’esercizio di una publica conductio, avrebbe dovuto essere utilizzato il de loco publico fruendo e non l’uti possidetis,  che tutelava solo la situazione possessoria, cioè il pacifico godimento dell’immobile[91]. In base a varie considerazioni, pienamente condivisibili, la fattispecie in oggetto si riferiva a casi di occupazione di fatto di tratti di mare, non tali da determinare quegli impedimenti all’uso pubblico del mare che avrebbero legittimato la reazione dei terzi[92]. E’ noto infatti che in base a D. 41, 1, 50 (Pomponio 6 ad Plautium) i terzi avrebbero potuto spingersi ad esperire la prohibitio manu per impedire la costruzione di un manufatto pregiudizievole ai propri commoda ed all’usus publicus.  Ma l’occupazione di fatto di un tratto di mare, in assenza di un danno lamentato da terzi, non solo avrebbe sottratto la superficie del mare agli usi pubblici facendola rientrare nell’ambito privato (privata causa), ma sarebbe stata ritenuta “legittimante all’esperimento dell’uti possidetis contro gli atti di turbativa diretti ad impedire al richiedente l’esercizio del suum ius[93]. Tale occupazione di specchi d’acqua marina avrebbe potuto, a mio avviso, riguardare soprattutto l’attività, economicamente assai apprezzabile, degli allevamenti di ostriche o di mitili e quella, altrettanto importante come vedremo, dell’impianto in località determinate di reti fisse di sbarramento dei flussi di migrazione del tonno, le quali, una volta realizzate con dispendio e senza grave disturbo per l’uso collettivo dei terzi, non avrebbero certo potuto essere poi turbate da un singolo pescatore.

 

Anche la situazione dell’Egitto appare in sintonia con quanto finora rilevato: tutto ciò che conosciamo – non poco, rispetto ad altri territori, per la ricchezza della documentazione papiracea e di ostraka[94] – riguarda le acque interne e mai il mare[95].

Un documento di fondamentale importanza è costituito dal P. Tebt. 701, che contiene appunti giornalieri del 235 a.C. di un economo dell’Arsinoite sui proventi della pesca nel Fayum[96]. La pesca in acque pubbliche come il lago Moeris, fu assoggettata ai Tolomei che ne avevano il completo monopolio, controllando la cattura e la vendita del pesce[97], il cui consumo era del tutto vietato alla classe sacerdotale[98]. Alla popolazione, che si asteneva dal consumo di alcuni pesci di mare[99], era poi espressamente proibita la cattura ed uccisione solo di alcune specie sacre alla divinità, tipiche delle acque interne[100]. I diritti di pesca furono locati a telōnai che stipulavano contratti, non frequentemente rinvenuti nei papiri[101]. E’ possibile consultare meno di una diecina di papiri del I/III sec. d.C., pubblicati a partire dal 1967 e tutti provenienti dal nomo dell’Ossirinchite, riguardanti dunque acque interne[102]. I pescatori professionisti nell’Egitto ellenistico corrispondevano  al sovrano la tetárte alieíon o ichthyikōn[103], oltre a tasse minori, per poter vendere il pescato da acque pubbliche interne a rivenditori del pesce sotto controllo statale[104] ed anche in età romana la pesca interna rimase monopolio statale[105] controllato da ispettori (epitēretai) delle pescherie[106], anche se in maniera meno pressante rispetto all’età tolemaica[107]. Non solo continuò la pratica della locazione dei diritti di pesca in acque interne[108], ma addirittura veniva prestato il giuramento di non maltrattare particolari pesci sacri d’acqua dolce[109] ed in certe zone venne vietato l’impiego dell’amo, che avrebbe potuto determinare la morte del pesce, consentendo solo l’uso della rete che permetteva al pescatore di rilasciare indenne il pesce sacro, eventualmente impigliatosi. In tal modo, l’incauto pescatore avrebbe potuto sfuggire alla pena di morte, prevista addirittura per l’uccisione del divino pesce ossirinco nella regione dell’Ossirinchite[110]. Sono attestati frequenti contrasti tra pescatori di località vicine per la pesca e la frequentazione di determinate spiagge, ma si tratta di luoghi interni dell’Egitto che potevano essere oggetto di appalto o assegnazione[111]. Così come è attestato il pagamento di un canone (fovroı) per la pesca in acque interne nel III sec. d.C.[112]. Dei papiri che ricordano pescatori e pesce in età romana pochissimi provengono da località marine, come Alessandria, e quei pochi talvolta specificano che il riferimento è relativo a pescatori di fiume[113].

Anche in Egitto si trattava dunque o di locazioni di acque interne o comunque di imposizioni sui prodotti della pesca e non vi è traccia alcuna di concessioni statali del mare o del lido, tanto in epoca ellenistica che romana.

 

Alla luce di quanto si è detto possiamo tentare di dare una valutazione complessiva dell’assetto della pesca e degli spazi marini nel diritto romano.

Se già dal tempo di Plauto si affermava che il mare “commune certo’st omnibus[114], palesando un’opinione corrente nel mondo romano già dal III sec. a.C. e generalmente ammessa con continuità in tutto il Mediterraneo[115], la presunta novità, introdotta nel III sec. d.C. da Marciano, della classificazione del lido e del mare nella nuova categoria delle res communes omnium[116], preannunciata attraverso il riconoscimento di un uso comune di alcune res in Ulpiano[117], secondo cui il mare commune omnium est et litora, sicut aer[118], deve essere notevolmente ridimensionata.

Certamente eccessiva appare la tesi di Bonfante[119], che, ritenendo che res communes omnium fosse espressione tecnica, formulata per la prima volta solo da Marciano, in pratica finì col farne l’unico responsabile della creazione della categoria[120]. Tale presunta novità, a mio avviso, potrebbe non essere altro che il frutto della frammentarietà della tradizione testuale e di un antico equivoco tra i termini publicum e commune.

La fungibilità di tali termini, rapportata alle res publicae e communes omnium, si collega ad una antichissima tradizione che Grozio[121] aveva addirittura cercato di recuperare per paralizzare le conseguenze che i giuristi portoghesi volevano ricavare da un frammento di Celso in D. 43, 8, 3 pr.[122] L’appartenenza delle spiagge al popolo romano avrebbe, secondo l’esegesi lusitana, legittimato un ius prohibendi in ordine alle navigazioni degli Olandesi nell’Estremo Oriente. Se con Grozio si ammetteva la piena equivalenza tra publicumcommune, si finiva per riconoscere però la piena libertà del mare e delle conquiste nell’Estremo Oriente, in sintonia con l’antico regime celsino del mare comune a tutti, previsto nella seconda parte del testo.

Secondo una recente esegesi di Fiorentini che si discosta dall’interpretazione proposta da Biondi, secondo la quale il lido sarebbe al contempo pubblico e communis omnium[123], il testo di Celso avrebbe voluto separare invece lo status del lido da quello del mare, riconoscendo alle spiagge, in base ad un’opinione personale del solo Celso (arbitror), un’effettiva condizione pubblica in senso patrimoniale, in quanto esse sarebbero state per la prima volta valutate res populi Romani e dunque, a differenza del mare, sarebbero state così suscettibili di essere date in concessione[124]. Si coglierebbe in tal modo una netta divergenza di opinioni, all’interno della stessa scuola proculeiana, con Nerazio Prisco che invece affermava la regola tradizionale ribadendo che “litora publica non ita sunt, ut ea, quae in patrimonio sunt populi, sed ut ea, quae primum a natura prodita sunt et in nullius adhuc dominium pervenerunt[125].

E’ possibile, secondo Fiorentini, che in tal modo, attraverso l’isolata opinione di un giurista, in conseguenza del grande sviluppo assunto dal patrimonio costiero e marino già dalla fine dell’età repubblicana[126] si cominciasse a percepire l’importanza dell’inclusione, prima del lido e poi del mare, non più tra i beni in publico usu o communes omnium, ma in pecunia populi. Ma è pure possibile, a mio avviso, aderendo ad una linea esegetica radicata nel tempo, che Celso nella prima parte del dibattuto testo intendesse solo sottolineare gli aspetti pubblicistici[127] e non privatistici delle spiagge romane o delle diverse entità statali in genere, idealmente contrapponendole al vasto mare ed ai lidi sconosciuti, astrattamente comuni a tutti gli uomini. Sembra infatti che il brano fosse stato originariamente incluso nella trattazione celsina della lex Cornelia de captivis e colà utilizzato per alludere al postliminium concesso ai prigionieri romani che riuscivano a raggiungere le coste romane.

Seguendo un poderoso filone esegetico che risaliva a Bartolo e prima ancora a Piacentino, Azzone e, secondo una leggenda, ai quattro doctores discepoli di Irnerio che avrebbero risposto al quesito an imperator mundi dominus sit, che tale dominium del potere politico poteva sussistere solo quoad iurisdictionem e non quoad proprietatem, ancora nel ‘500 Rodrigo Suarez  per giustificare l’esistenza dei diritti di regalia sul mare e sui porti avvertiva che essi colpivano mediante il pagamento di un tributo il solo reddito derivante dalla vendita del pescato, senza intaccare minimamente il carattere di res communes omnium dell’attività di pesca e dell’uso del mare: spettava al potere politico solo la protectio e la iurisdictio, quel complesso cioè di aspetti pubblicistici che avrebbero potuto essere richiamati proprio nella prima parte del controverso testo di Celso (Litora, in quae populus Romanus imperium habet, populi Romani esse arbitror…), ma non certamente il potere di proibire o concedere alcunchè per il loro uso, come si indicava nella seconda parte del brano (Maris communem usum omnibus hominibus, ut aëris…)[128].

Comunque sia, anche in seguito a Celso, venne concordemente affermato dai giuristi del II e III sec. d.C. che il privato acquistasse per occupazione il dominium di quel tratto di mare in cui avesse edificato[129], confermandosi così una delle tante diversità di regime giuridico tra i loca publica inoccupabili ed il mare; diversità che ha indotto alcuni studiosi a valutare quest’ultimo come una res publica del tutto peculiare, una res publica, cioè, in publico usu e dunque in qualche modo assimilabile alle res communes omnium[130].

L’uso in comune del mare concesso a tutti dalla natura è ancora richiamato da Ulpiano nell’unico testo del Digesto riguardante la piscatio thynnaria:

 

D. 8, 4, 13 pr. (Ulpiano VI Opinionum):

    

      Venditor fundi Geroniani fundo Botriano, quem retinebat, legem dederat, ne contra eum piscatio thynnaria exerceatur, quamvis mari, quod natura omnibus patet, servitus imponi privata lege non potest, quia tamen bona fides contractus legem servari venditionis exposcit, personae possidentium aut in ius eorum succedentium per stipulationis vel venditionis legem obligantur.

 

Il reiterato esame al quale è stato sottoposto il brano anche recentemente[131], se è valso ad inquadrare le principali problematiche in un’ottica non più marcatamente interpolazionistica, non sembra comunque aver risolto la questione di fondo, se si trattasse di un’altra servitù prediale.

Il testo di Ulpiano[132] appare innanzitutto in assoluta contraddizione con il principio dell’inopponibilità delle obbligazioni ai terzi; inoltre “l’esclusione che la clausola possa essere interpretata come modo di costituzione di una servitù è stranamente giustificata con il fatto di essere costituita su di un bene quod natura omnibus patet come il mare”[133]; e non sulla motivazione che ci aspetteremmo, cioè che, essendo la servitù oggetto di una clausola contrattuale, non sarebbe stata istituita con gli appositi negozi costitutivi. Inoltre come avrebbe potuto una servitus thynnos non piscandi, all’apparenza riguardante il mare, gravare invece su di un fondo litoraneo?

Alcuni studiosi hanno valutato il testo - che potrebbe essere collegato alle problematiche giuridiche suscitate dalle attività degli antichi stabilimenti per la lavorazione del pesce assai diffusi in Nord-Africa, Spagna, Sicilia e meridione della penisola italica[134] - in rapporto alla conoscenza da parte dei romani delle servitù industriali e dei patti di non concorrenza commerciale.

Superando antiche diffidenze interpolazionistiche e collocando in provincia il rapporto in questione, si è ora osservato che la pactio et stipulatio era certamente idonea a costituire in territori di tal sorta situazioni rapportabili a diritti reali, risolvendo così “la difficoltà costituita dall’enunciata opponibilità ai successores del rapporto costituito per stipulationis vel venditionis legem, dato che esso avrebbe avuto comunque un contenuto reale e non meramente obbligatorio”[135]. Inoltre si è rilevato che il solo argomento proposto dalla dottrina per l’inquadramento della questione trattata tra le clausole di non concorrenza sembra riposare nella formula utilizzata nella lex venditionis: ne contra eum piscatio thynnaria exerceatur, alludendo così ad una presunta volontà del venditore di impedire all’acquirente la concorrenza nella pesca del tonno praticata nello stesso braccio di mare.

Ma si è notato che contra eum in D. 8, 4, 13 pr. allude non al venditor, ma sicuramente al fundum e già Solazzi aveva ricordato che le servitù industriali “giovano all’azienda, cioè all’attività dell’industriale, non al fondo, che è sede e strumento dell’industria, ma non produttore diretto ed indipendente delle merci”. Se dunque una lettura modernizzante ed “anticoncorrenziale” di D. 8, 4, 13 pr. non sembra a molti  giustamente sostenibile[136], appaiono pure eccessive le motivazioni volte a giustificare la previsione di tale clausola contrattuale come derivante da “un bisogno di ‘Ruhe’ da parte del venditore, che non avrebbe voluto esser disturbato dall’inevitabile confusione generata da un’attività così complessa come la pesca del tonno”[137]. Oggi molti, in verità, ancora accorrono per assistere alle ultime mattanze in Sicilia e Nordafrica, ma anche se non è certo possibile stabilire con certezza la specifica volontà del venditor fundi Geroniani, è assai improbabile che alla luce dei grandi guadagni della piscatio thynnaria e delle relative controversie, il testo di Ulpiano si riferisse proprio ad un raro caso di un dominus in cerca di assoluta tranquillità.

L’identificazione più plausibile del fondo Botriano - a differenza di quella non facilmente determinabile del Geroniano - sembra  sia da collocare in Nord Africa, a circa sessanta chilometri a sud di Sfax in Tunisia, nel sito della moderna cittadina di Acholla, l’antica Botria[138]. In tale località è ubicata una villa attribuita ad un tal Asinio Rufo, senatore e console nel 184, sotto Commodo, nella quale si riscontrano numerosi mosaici con soggetti marini. Anche se non si può certo stabilire se il dominus fundi Botriani sia stato proprio quell’Asinio Rufo, il caso è comunque significativo per rappresentare una delle tante grandi ricchezze che avrebbero potuto poggiare sui proventi derivanti dalla proprietà di stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce. La vicenda trattata  in D. 8, 4, 13 pr. è poi relativa ad una controversia giuridica che sarà una delle più frequenti ragioni di contrasto tra tonnare in età medioevale e moderna: quella della posizione delle reti di sbarramento della corsa dei tonni. Nonostante una puntigliosa disciplina medievale e moderna che prevedeva esatta collocazione e distanza, erano assai frequenti le liti tra tonnare adiacenti proprio per tale motivo. E’ francamente assai improbabile che nell’unico testo del Digesto riguardante la pesca del tonno la riserva del venditore, nonostante i grandi interessi economici in gioco, derivasse solo da un’esigenza di  quiete e non da un probabile conflitto di grandi interessi economici in gioco.

Se così stanno le cose – che cioè la clausola fosse indirizzata “to prevent competition” a favore del fondo Botriano, rimasto nella titolarietà del venditore, per i grandi guadagni derivanti dalla cattura, lavorazione e vendita del tonno e che la questione riguardasse una sorta di servitù provinciale di non facere, prevista pactionibus et stipulationibus – come spiegare che le attività avrebbero dovuto svolgersi (o meglio non svolgersi) nel mare antistante ai fondi, e non piuttosto sui fondi coinvolti in una sorta di servitù?

Ravvisato - pur con qualche difficoltà -  il requisito dell’utilitas per un’attività di pesca che iniziava con l’avvistamento dei branchi da un fondo dominante limitrofo al mare, resta l’anomalia che il non facere sarebbe stato relativo all’obbligo di non calare reti di sbarramento, azione che avrebbe potuto effettuarsi nel mare antistante al fondo servente, e non proprio nel fondo. Di poi la corretta esclusione da parte di Ulpiano di una servitù costituita sul mare (…quamvis mari, quod natura omnibus patet, servitus imponi privata lege non potest…) finiva in pratica nella seconda parte del testo per essere di fatto ammessa, contraddicendo all’apparenza proprio al tenore della prima parte del brano (…tamen bona fides contractus legem servari venditionis exposcit, personae possidentium aut in ius eorum succedentium per stipulationis vel venditionis legem obligantur). 

Tali dubbi, risolti dalla dottrina interpolazionistica con il negare genuinità a parti diverse del testo secondo le più varie opinioni[139], non sembrano essere stati percepiti fino in fondo da chi di recente ne ha invece sostenuto la totale attendibilità, pur dividendosi poi nella valutazione della natura giuridica del caso[140]. Se il non facere riguardava una attività svolta non nei fondi, ma nel mare, il cui uso nelle convinzioni di Ulpiano sarebbe stato ormai comune a tutti gli uomini, come si sarebbe potuto pensare ad una servitù, per escluderla sì, ma poi di fatto per riconoscerla sotto la veste di una sorta di rapporto provinciale, idoneo a far nascere sul mare “situazioni rapportabili a diritti reali”[141]?

La soluzione del dubbio giuridico e testuale si trova, a mio avviso, nel fatto che nell’età medioevale e moderna si era ormai perduta la conoscenza di una tecnica di cattura del tonno tipica dell’età classica che implicava l’uccisione dei pesci, non in alto mare in una “camera della morte” come avviene oggi, ma proprio sulla riva del fondo litoraneo[142]. Gli unici impianti da pesca fissi che l’Antichità conobbe furono i labirinti di canne nelle acque basse (corrales), i recinti di reti e le postazioni di sbarramento della corsa dei pesci migratori[143].

Avvistati i branchi di pesci dalle torri lignee poste in terraferma, il corso dei tonni veniva dirottato da reti di sbarramento fisse, da tempo predisposte,  verso il fondo di un’insenatura della costa, ove gli animali venivano chiusi da altre reti a sciabica che - non calate questa volta in anticipo, ma solo dopo l’avvistamento dei pesci - erano tratte inizialmente da veloci imbarcazioni che navigavano da una sponda all’altra della cala e poi da uomini in terra.  Le opposte estremità della sciabica venivano infatti tirate dalla riva, ove i pesci per la ristrettezza dello spazio disponibile morivano per asfissia, per colpi di coda reciproci o per ferite d’arpione e di bastone. Il pescato, immediatamente ripulito e suddiviso sul medesimo lido, veniva poi posto in vasche fuori dalla portata delle onde per il definitivo trattamento e la salagione. La confusione tra la mattanza antica e la moderna sembra risalire al fondamentale e ben documentato studio di P. Rhode che - da filologo, più che pescatore - ha proposto d’interpretare la descrizione delle fonti come se si trattasse di una vera e propria tonnara moderna con “camera della morte” in alto mare[144]. Come frequentemente accade nella letteratura alieutica, la sua opinione è stata tralatiziamente ripetuta sino a tempi recenti, senza tener conto che l’uccisione dei tonni – come si ricava dalle fonti antiche - normalmente avveniva sulla riva e che chiaramente, a prescindere dalle reti fisse di sbarramento, le reti di tratta si dispiegavano dalla costa, tornando alla riva, solo dopo che il branco era stato avvistato, come con precisione è indicato in Eliano[145]. Non solo nelle raffigurazioni antiche si usavano fiocine e bastoni per uccidere il pesce[146], attrezzi invece non utilizzati nella “camera della morte” per non sciupare il pesce catturato, ma soprattutto, come si vedrà, la comparsa della tonnara con “camera della morte” fu un’innovazione tecnica esattamente databile intorno alla prima metà del IX sec. d.C., che consentiva di ridurre notevolmente la manodopera, aumentando nell’arco stagionale il numero delle catture e la resa degli impianti. Proprio tale novità (epoché) determinò la grande importanza assunta nell’età medievale e moderna dalla tonnara e dalla pesca del tonno.

La comparsa della tonnara con “camera della morte”, probabilmente con strutture più semplici delle attuali, sembra avvenire in Oriente, unico luogo in cui è attestata dalle fonti letterarie fino all’epoca medioevale. Tale dispositivo è descritto come spettacolo abituale in un testo medico del IX sec. d.C., di Teodoro il protospatario, che compara la testa attaccata al corpo alla solida piattaforma lignea fissata ad una estremità dell’epoché, nella camera alla quale adducevano due ali di reti dispiegate come il contorno di una figura umana[147]. Nel X sec., una struttura con quadro fisso per la cattura del tonno è descritto nella Vita di Luca lo Stilita, morto nel 979, ma l’innovazione dovette diffondersi già da prima, intorno agli inizi del IX sec., come dimostrano le novelle di Leone il Saggio, che più avanti esamineremo.

Se la mattanza in età classica si svolgeva sulla spiaggia, il non facere richiesto all’acquirente del fondo Geroniano avrebbe potuto allora consistere non solo nel non porre in mare una rete di sbarramento, ma anche nel non effettuare sulla riva, e proprio nel fondo venduto, le operazioni di pesca e di lavorazione del pesce. Il venditore del fondo Geroniano invece, intercettati in mare i tonni, avrebbe potuto liberamente pescarli sulla riva, incrementando così il valore dell’eventuale impianto per la lavorazione del pesce in terra ferma (utilitas fundi).  In quanto alcune operazioni si sarebbero dovute svolgere in mare e nel lido, giustamente Ulpiano avvertiva la necessità di precisare che “…mari, quod natura omnibus patet, servitus imponi privata lege non potest…”, anche se poi nella seconda parte del testo il giurista finiva per riconoscere una pratica provinciale, economicamente apprezzabile e diffusa.  Tale attività effettuata non solo in mare e sulla spiaggia, ma anche nel fondo litoraneo avrebbe potuto dar luogo a qualche controversia relativa ad una vera e propria “servitus thynnos non piscandi”. Non solo in Gaio II, 31[148] il rapporto costituito in provincia pactionibus et stipulationibus ha un contenuto reale e non meramente obbligatorio, ma sembra che già nell’età dei Severi i rapporti costituiti mediante pactio et stipulatio si siano cominciati a chiamare servitutes[149], purchè ovviamente fossero relativi ad attività effettuate sui fondi e non nel mare o sulla spiaggia, luoghi che restavano aperti all’attività di tutti.

 

La situazione della pesca del tonno era dunque destinata a mutare radicalmente in conseguenza dell’innovazione della cattura in una “camera della morte”, che ora consentiva di raccogliere con celerità e continuità i “frutti del mare”, proprio come se fossero i prodotti di un fondo in terraferma[150]. Ma la tonnara con un complesso di strutture fisse che culminavano nella suddetta “camera”, pur essendo ubicata in mare aperto e ben lungi dai fondi rivieraschi, necessitava ora di vasti impianti stabilmente appoggiati sulla terraferma antistante. L’incremento del guadagno ripetuto in breve tempo con poca fatica fu dunque causa dell’insorgere di continue liti tra pescatori e proprietari di fondi rivieraschi[151]. Non si trattava più infatti di qualche rete di sbarramento in mare e di una faticosa pesca volante di modesta entità che, salvo casi particolari come quello illustrato in D. 8, 4, 13 pr., avrebbe potuto pur essere tollerata dai proprietari dei fondi rivieraschi ed effettuata in un lido il cui uso da tempo immemorabile era comune a tutti gli uomini.

Si trattava di un’apparecchiatura costosa e complessa, che richiedeva ampio ricovero in terraferma nel periodo invernale, ma che poteva anche procacciare grandi guadagni, determinando un’accanita concorrenza. Per sedare le liti insorte in seguito all’uso di tale apparato di pesca, che - espressamente si dichiarava - i precedenti legislatori non conoscevano e dunque non avevano mai disciplinato[152], furono emanate cinque leggi da Leone VI il Saggio, tra l’886 al 912 d.C.[153].

La loro promulgazione è oggi non solo utile per datare con precisione l’introduzione in Mediterraneo del nuovo tipo di tonnara, le cui caratteristiche greco – arabe nella nomenclatura degli attrezzi trovano così adeguata spiegazione, ma soprattutto per spiegare la ragione della improvvisa modifica dei principi antichi sulla condizione delle spiagge e del mare. Assicurando ora ai proprietari dei fondi rivieraschi l’uso esclusivo e libero dei litorali e della fascia di mare adiacente al proprio territorio costiero (mare districtum), le suddette leggi bizantine vennero incontro agli interessi di latifondisti, di potenti, di istituzioni religiose e in più per la prima volta impedirono l’assegnazione del mare e del lido alla categoria delle cose comuni di tutti, interrompendo quella continuità che vi era stata tra mondo greco e romano[154].

E’ stato scritto, in maniera colorita, che i principi della giurisprudenza classica con queste nuove leggi finirono annegati nel Bosforo. Le nuove regole fecero sorgere tante di quelle contraddizioni che l’imperatore fu costretto a provvedere con altre disposizioni, che ben presto accrebbero ulteriormente la confusione[155].

La Nov . 56 di Leone VI il Saggio stabiliva che: “…ciascuno resti il padrone incontestato della propria riva ed abbia il diritto di respingere coloro che vogliono servirsi di tali spiagge senza autorizzazione”. Come il proprietario di una casa poteva allontanare dal vestibolo del proprio edificio gli intrusi, così il padrone di un fondo litoraneo avrebbe potuto scacciare i pescatori estranei. Si finiva in pratica per ammettere che i proprietari dei fondi rivieraschi, soggetti alle imposte annuali in quanto proprietari[156], potessero impiantare tonnare nelle acque circostanti, impedendo a tutti gli altri pescatori l’esercizio della pesca nei pressi e persino l’approdo sulla spiaggia.

La Nov. 57 fissava la distanza consuetudinaria di almeno 365 orgyiai (700 m.) tra le reti di diverse tonnare, trasformando una prassi in legge. Occorreva dunque poter disporre di un adeguato fronte marino, comprendente lo spazio di dispiegamento delle reti della vera e propria tonnara, oltre a 182 orgyiai e mezzo di spazio libero sia da un lato, che dall’altro, in modo che i proprietari di due fondi con tonnare adiacenti dividessero a metà la distanza, che era necessario rispettare tra le rispettive reti. Era fatto salvo il mantenimento delle situazioni preesistenti all’emanazione della Nov. 57.

Con la Nov. 102, l’imperatore Leone, resosi conto che non sempre era possibile rispettare la distanza prevista, si spinse addirittura a disporre una communio rerum coattiva tra proprietari di fondi adiacenti, nettamente in contrasto con i principi del diritto classico[157].

Ma ancora una volta le contestazioni lo costrinsero a tornare, con la Nov. 103, sui benefici di tale associazione, disponendo che essi non dovessero essere suddivisi in parti proporzionali al terreno posseduto, ma in parti eguali, “…poiché il pesce non sta sempre nello stesso luogo ad attendere il pescatore e, d’altra parte, la particella apparentemente più importante non presenterebbe alcuna utilità in assenza della più piccola”, non potendosi impiantare una tonnara in comune per mancanza dello spazio necessario. E’ stato osservato che in tal modo si finiva per dissociare l’impianto di pesca proprio dall’estensione della riva che ne aveva giustificato l’installazione[158].

La Nov. 104 infine fissava il termine di dieci anni per la prescrizione della contestazione relativa al mancato rispetto della distanza prevista, prorogandolo a venti inter absentes. Chiese, monasteri, istituzioni caritatevoli e fisco godettero del termine allungato di quaranta anni; i soccombenti per il compimento dei termini di prescrizione non furono destinati comunque a perdere “i guadagni della riva”, consentendosi l’impianto di una nuova tonnara in violazione delle distanze previste o la partecipazione a quella esistente[159].

Sono evidenti le ragioni dei conflitti sottesi alla privatizzazione di beni un tempo aperti all’uso di tutti. Le “skalai” di legno di Costantinopoli e dei dintorni, banchine lignee per l’approdo e la pesca assai numerose nel Bosforo, per consuetudine utilizzate in comune come avanzamenti nel mare e luoghi di scambio tra marinai e mercanti, venivano adesso riservate a grandi proprietari terrieri, monasteri, ospedali. Poco dopo, sotto Michele VII Dukas (1071/78), venne rivendicato su sollecitazione del sacellario imperiale,  il metropolita Balsamone, il ripristino della situazione preesistente alle riforme di Leone, “registrando i diritti marittimi della città”, ma la reazione non si fece attendere e Niceforo Botaniate (1078/81), l’imperatore “amico di Cristo” finì per rendere “a Dio ciò che era di Dio” e restituì a monasteri, fondazioni pie, ma anche a proprietari di fondi rivieraschi le skalai e le épochai, considerate “prolungamento naturale delle proprietà terriere”[160]. Secondo Michele Attaliate tale concessione dello Stato appariva tanto più meritoria e caritatevole, in quanto privava il fisco di prospettive di reddito importanti[161].  

Sembra dunque che mare e spiagge possano essere ormai privatizzati o dati in concessione; sfruttati dallo Stato secondo l’opportunità del momento, finiranno per essere rivendicati dal potere pubblico che vanterà la sovranità ed il rispetto di acque territoriali[162], ma anche l’esclusività di un demanio marittimo, che per il persistere di un antico retaggio, viene ancora oggi da tutti apprezzato come “necessario”[163], cioè inalienabile, in quanto ritenuto patrimonio comune di tutti i cittadini[164].

Il testo di Ulpiano sulla piscatio thynnaria  costituisce in conclusione una rara testimonianza dell’atteggiarsi nel III sec. d.C. degli interessi dei domini dei fondi litoranei in rapporto ad una pesca a sciabica del tonno effettuata sulla riva. Praticata in un lido il cui uso da tempo immemorabile era comune a tutti gli uomini, tale attività alieutica avrebbe potuto essere tollerata dai proprietari dei fondi rivieraschi finché non entravano in gioco interessi economici apprezzabili, come quelli coinvolti negli stabilimenti per la lavorazione del pesce nordafricani, iberici o siciliani dell’età imperiale.

Ancor prima dell’età dei Severi è dunque possibile che la servitus thynnos non piscandi, abbia trovato opportuno riconoscimento, anche perché si basava su di una astensione, che - mutate le tecniche di cattura del tonno - coinvolgeva direttamente attività da non effettuare in mare, ma in un fondo servente a vantaggio di un fondo dominante, ove tra terra e mare avrebbero potuto essere impiantate le vasche per la lavorazione del pesce, che procuravano ingenti guadagni. 

L’alto mare resta e resterà a lungo, almeno nelle aspirazioni, nonostante le seicentesche “battaglie dei libri”, un “demanio marittimo dell’umanità” affidato finalmente ad un’unica “Autorità Internazionale del Mare”[165], che tuttavia stenta a trovare adeguato e generale riconoscimento.

 

Palermo, 3 aprile 2005

                                                                                 Gianfranco Purpura

                                                                       Dipartimento di Storia del Diritto

                                                             Università di Palermo

 


 

[1] G. Vismara, Il diritto del mare, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 25, La navigazione mediterranea nell’alto medioevo (Spoleto, 14-20 aprile 1977), Spoleto, 1978, pp. 689-730 = Scritti di Storia Giuridica, VII, Comunità e Diritto Internazionale, Milano, 1989,  p. 449.

[2] J. Hasebroek, Staat und Handel im alten Griechenland, Tübingen, 1928, p. 126: “Das Prinzip der Meeresfreiheit, des ‘mare liberum’, und die Ausbildung einer eigenen Lehre von ihr ist nach langwierigen politischen und theoretischen Kämpfen erst ein Produkt der Neuzeit, und erst in unserer Zeit steht fast durchweg der freie Zutritt zu den Eigengewässern des Staates auch den Angehörigen fremder Staaten, stehen, wenigstens prinzipiell, alle Häfen derjenigen Staaten, die der Rechtsgemeischaft des Völkerrechts angehören, den Schiffen aller Staaten offen. Der freie Zutritt zu den gegenseitigen Gewässern ist von besonderen Verträgen der Staaten untereinander in unserer Zeit nicht mehr abhänging, wenigstens nicht bei Neuzeit gekannt”.

[3] Bynkoershoek, De dominio maris, in Opera Omnia, Lugd.-Bat., 1767, II, pp. 124 ss.

[4] G. Vismara, Il diritto del mare, p. 449 nt. 22.

[5] G. Lombardi, Ricerche in tema di ius gentium, Milano, 1946. 

[6] M. Fiorentini, Fiumi e mari nell’esperienza giuridica romana. Profili di tutela processuale e di inquadramento sistematico, Milano, 2003, pp. 53 e 434 ss.

[7] J. Dumont, Liberté des mers et territoire de pêche en droit grec, RHDFE, 55, 1977, pp. 53-57.

[8] C. M. Moschetti, Questioni di diritto pubblico marittimo negli scritti dei giuristi napoletani della prima metà del Seicento, Napoli, 1984, pp. XIII e 5 ss. 

[9] Hasenbroek, op. cit., p. 126 (cfr. supra, nt. 2).

[10] Fiorentini, Fiumi e mari, cit.

[11] Cfr. infra, p. 12. 

[12] M. Fiorentini, op. cit., pp. 475 e s. Tale interdetto, in caso di prohibitio all’esercizio della pesca in regime di concessione nei laghi o negli stagni pubblici, secondo M. Fiorentini, op. cit., pp. 458-460, non sarebbe stato il de loco publico, come ci si potrebbe attendere, ma l’ut in flumine publico navigare liceat, concesso in via utile. Sulle ragioni di tale anomalia cfr. M. Fiorentini, op. cit., pp. 474 e s. Seguono invece l’opinione tradizionale e ammettono senza riserve concessioni amministrative del mare e del lido per ultimi S. Castan Pérez-Gómez, Nuevas observaciones sobre la condicion jurídica del mar y sus litorales en el derecho romano, Estudios Yanes, I, Burgos, 2000, pp. 101 – 121; J. M. Alburquerque, La proteccíon o defensa del uso colectivo de las cosas de dominio público, Madrid, 2002,  pp. 158 – 171; G. Klingenberg, Maris proprium ius in D. 47, 10, 14, RHD, 72, 2004, pp. 37 – 60.

[13] M. Fiorentini, op. cit., pp. 461 e 463. 

[14] In Strabone IV, 5, 3 e Cassio Dione  47, 16 il phóros (tributo), imposta diretta e straordinaria, è contrapposto al télos (dazio), imposta indiretta ed ordinaria. Quindi l’imposta fondiaria è normalmente opposta alla télē, come sottolinea S. J. De Laet, Portorium. Étude sur l’organisation douanière chez les Romains, surtout à l époque du Haut-Empire, Brugge, 1949, pp. 51 e 62.  

[15] Leone, Novv. 56; 57; 102; 103; 104 emanate tra l’886 ed il al 912 d.C. (cfr. P. Noailles, A. Dain, Les novelles de Léon VI le Sage, Paris, 1944, pp. 212-215; 334-341).

[16] L’occupazione era certamente conosciuta in diritto greco (Klingenberg, Der Ring des Polykrates. Kannte das griechische Recht eine Dereliktion ?, in Festschrift f. A. Kränzlein, Graz 1986, pp. 43-52), anche se il fenomeno della derelizione sembra essere ignoto, persistendo sempre il diritto del proprietario (A. Biscardi, Diritto greco antico, Varese 1982, pp. 193 e 195).

[17] Platone, Leggi VII, 824 b.

[18] Koch, Com. Gr. Fragm., Phoenikides 5, p. 335 = Meinecke I, 481, 2, 5 = Ateneo 8, 345 e. Secondo              A. Marchiori in: Ateneo, I Deipnosofisti, II, Roma, 2001,  p. 852  nt.1, si tratta della parodia di un verso di Eschilo (Radt fr. 389): “La sorte è di tutti, la decisione è solo di chi l’ha presa”.

[19] Così Dumont, op. cit., p. 55.

[20] J. Vélissaropoulos, Les nauclères grecs. Recherches sur les institutions maritimes en Grèce et dans l’Orient hellénisé, Genève - Paris, 1980, pp. 128 ss.

[21] Così in Eschine, De falsa legatione 71. Cfr. J. Vélissaropoulos, op. cit., p. 128 nt. 3.

[22] J. Vélissaropoulos, l.c.

[23] Così in Vélissaropoulos, op. cit., p. 136.

[24] Cfr. Polibio III, 22, 5 per il I trattato del 509 a.C. e Polibio III, 24, 2; III, 24, 3-13 per il II trattato del 348 a.C. 

[25] IG XII, 9, 1273-4.

[26] IG XII, 347 suppl. II, ll. 8-9; ll. 14-15.

[27] Inscr. Cret. III, VI, 7, ll. 10-17; SEG XXIII, 1968, 589. Su queste epigrafi e quelle sopra cit. cfr. Vélissaropoulos, op. cit., pp. 136 – 140.

[28] Ps. Arist., Oecon. II,  2, 3  =  1346 b: “Quelli di Bisanzio, avendo bisogno di ricchezze, cedettero i fondi pubblici, quelli produttivi a tempo determinato, quelli improduttivi per sempre… Ai tiasoti cedettero altri terreni pubblici, quanti ce n’erano intorno al ginnasio e all’agorà o al porto. Lo stesso fecero per i luoghi del mercato, in cui si svolgevano le vendite, per la pesca del mare, e per il commercio del sale e <fecero pagare l’esercizio del mestiere> ai giocolieri, agli indovini, agli spacciatori di droghe e ad altri del genere: stabilirono che pagassero la terza parte del guadagno.” (trad. R. Laurenti, in Aristotele, Opere, IX, Roma - Bari, 1973, p. 295).

[29] C. M. Moschetti, op. cit., pp. 98 e s.

[30] Andreades, Storia delle finanze greche dai tempi eroici fino all’inizio dell’età greco-macedonica, Atene, 1928 (trad. it. di F. De Simone Brouwer, Padova, 1961), p. 173. 

[31] Erano assoggettati anche il pesce salato, le conchiglie di murice per la fabbricazione della porpora, forse le ostriche ed i frutti di mare in genere.  A Creta [Dittenberger, SIG 427 = IC III, VI (Praisos), 7 A ll. 6 e 7] l’imposta del porto (ellimenion) è associata a quella della porpora e sul pescato. Dittenberger, SIG 615 (Mikonos) accenna alla gabella dei pesci e a Colofone (IK IV, 31) è ricordata un’imposta dei pesci, ma non è chiaro se si tratti di pesci di mare. Imposte sulla porpora sono frequentemente ricordate, oltre che a Creta, a Delo, ove il santuario di Apollo godeva dei proventi dell’imposta sul murice. A Delo è attestata l’imposta dei pesci ed anche un tributo (upotrópion), interpretato come tributo sulla pesca.  Cfr. IG XI, 2, 161 A l. 26; 162 A l. 30; 199 A l. 16; 287 A l. 9 e Homolle, Comptes et inventaires des temples délies en l’anneée 279, BCH, XIV, 1890, p. 442 ; Andreades, op. cit., pp. 171 ss. ; J. Dumont, La Pêche dans le Fayoum hellénistique: traditions et nouveautés d’après le Papyrus Tebtynis 701, Chron. d’Ég., 52, 1977, pp. 137-140.  

[32] Tacito,  Annales XII, 63.

[33] Da Dumont, Liberté des mers,  cit., pp. 55 ss.

[34] Strabone, X, 2, 21. Fiorentini, op. cit., p. 462.

[35] Pausania VII, 22, 2.

[36] E’ il caso di Trezene nel II sec. a.C. che divide i proventi dell’imposta sulla pesca del tonno con una città confinante in IG IV, 941, ll. 7-8.

[37] E’ questa la spiegazione adesso accolta per il celebre garum sociorum. Non si pensa più ad una società di privati, ma a comunità cittadine dello Stretto di Gibilterra, alleate per la cattura e la produzione congiunta.

[38] Strabone (VIII, 6, 20 C 378) indica tale pratica esercitata a Corinto già sotto i Bacchiadi come una delle principali fonti di reddito cittadino. Andreades, op. cit., pp. 171 ss.; De Laet, op. cit., p. 46 nt. 1.  

[39] Purpura, Ius naufragii, sylai e lex Rhodia. Genesi delle consuetudini marittime mediterranee, Convegno "La protezione del patrimonio culturale sottomarino", Milano, 6 marzo 2002, AUPA, XLVII, 2002, pp. 275-292.

[40] T. R. S. Broughton, Roman Asia Minor, in T. Frank, An economic Survey of Ancient Rome, IV, Baltimora, 1938, pp. 566; 799; D. Magie, Roman Rule in Asia Minor, Princeton, 1950, p.   

[41] De Laet, op. cit., pp. 355 e s..

[42] SEG XIV, 638. Bean, Notes and Inscriptions from Caunus, JRS, 74, 1954, p. 85 n. 20 (lex Cauniorum de piscando); pp. 97- 105, n. 38 (regolamento doganale); Purpura, Il regolamento doganale di Cauno e la lex Rhodia in D. 14, 2, 9, AUPA, XXXVIII, 1985, pp. 273 – 331; G. Merola, Autonomia locale Governo imperiale. Fiscalità e amministrazione nelle province asiane, Bari, 2001, pp. 129 ss.; Fiorentini, op. cit., p. 463.

[43] AÉ, 1919, 10 = SEG I, 329 = F. F. Abbott  - A. Ch. Johnson,  Municipal Administration in the Roman Empire, New York, 1968 (Princeton1, 1926), n. 68 (Epistulae Laberi Maximi et aliorum de finibus Histrianorum), pp. 384 ss. Cfr. Fiorentini, op. cit., pp. 463 e s. 

[44] De Laet, op. cit., pp. 206 ss. e 235 e s.

[45] L’epigrafe contiene dunque una copia (exemplum) di una epistula del 25 ottobre del 100 d.C. relativa all’estratto (descriptum et recognitum) dal registro del legato di Mesia M. Laberio Massimo con la determinazione dei confini cittadini contestati da un tal Caragonio Filopalestro, conductor publici portori ripae Thraciae, che sosteneva che la Ripa Thraciae avrebbe dovuto estendersi da Dimum sino al mare e dunque sarebbero stati soggetti al portorium i prodotti provenienti dalla laguna d’Halmyris e dall’isola di Peukè, come pesce e legno di pino. Si riferivano dunque i precedenti costituiti da cinque epistulae: una lettera di Fl. Sabino del 49 d.C. che dava incarico ad un prefetto, Arunzio Flamma, probabilmente capo della coorte incaricato del controllo della frontiera in tale settore, di vegliare affinché il diritto degli abitanti di Histros sull’isola di Peukè fosse rispettato. In un’altra lettera di Sabino si affermava che i privilegi degli Istriani di pescare nella foce dalla riva dell’Histros fino al mare e di trasportare i pini dell’isola di Peukè senza corrispondere il dazio dovevano essere mantenuti. La medesima conferma in una lettera di Pomponio Pio del 51, che richiamava i precedenti di Sabino, ed in un’altra lettera di T. Plauzio Silvano Eliano del 52/53 d.C. Nel 54 il legato Tullio Gemino è costretto ancora una volta a tornare sull’annosa questione che si trascinerà sino alla decisione di Laberio Massimo del 100 d.C.

[46] De Laet, op. cit., p. 207 nt. 1.

[47] Cfr. ad es. Polaschek, RE,  XVII, 1047.

[48] Sull’esistenza di un ramo meridionale del Danubio, menzionato da Plinio, Nat. Hist. IV, 79, 7ss., la conformazione della laguna di Halmyris e dell’isola di Peukes cfr.: http://soltdm.tripod.com/geo/arts/delta_rz_e.htm.

[49] D. M. Pippidi, I Greci nel basso Danubio, Milano, 1971, pp. 173 ss.

[50] Epistula Imperatorum Severi et Caracallae ad Tyranos del 201 d.C. ( FIRA I, 86 = CIL III, 781; Cagnat, IGRR I, 598; Bruns 89; Dessau 423).

[51] De Laet, op. cit., pp. 209 ss.

[52] IK II, 267 A 11 l. 9; anche IK III, 788, 5 l. 9 = OGIS II, 496 è relativa al telos tes ichthyikes ad Efeso al tempo di Antonino Pio.

[53] Fiorentini, op. cit., p. 462.

[54] Fiorentini, l.c.

[55] De Laet, op. cit., p. 96 nt. 4.

[56] Strabone XIV, 1, 26.

[57] Strabone XIV, 1, 24.

[58] C. Nicolet, À propos du règlement douanier d’Asie: demosiônia et les prétendus quinque publica Asiae, in CRAI, 1990, 3, pp. 675-698 ed in Le Monumentum Ephesenum et les dîmes d’Asie, BCH, 115, 1991, pp. 465 -480, ha corretto l’opinione degli editori H. Engelmann, D. Knibbe, Das Zollgesetz der Provinz Asia, Epigraphica Anatolica (EA), 14 (1989) che il documento riguardasse i quinque publica Asiae.  

[59] Nicolet, op. cit., p. 468.

[60] T. Spagnuolo Vigorita, Lex portus Asiae. Un nuovo documento sull’appalto delle imposte, in Convegno “I rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione nell’esperienza storico-giuridica”, Torino 17-19 ottobre 1994, Napoli, Jovene (1996), p. 46.

[61] Galeno, De compositione medicamentorum XII, 633; Aetius med. Iatricorum VII, 114, l. 75. Nel PSI 18 fr. B 26 (Congr. XVII) una libbra di porpora è inserita in un elenco con tre once di conchiglie (di murice, evidentemente) senza che vi sia necessità di ulteriori chiarimenti.

[62] Plinio, Nat. Hist. IX, 126.

[63] Vitruvio VII, 13, 3 ss.: Ea conchylia, cum sunt lecta, ferramentis circa scinduntur, e quibus plagis purpurea sanies, uti lacrima profluens, excussa in mortariis ferendo comparatur, et quod ex concharum marinarum testis eximitur, ideo ostrum est vocitatum. Ostro è il prodotto della lavorazione del murice.

[64] Sulla lavorazione della porpora cfr. P. Fernández Uriel, La púrpura, más que un tinte, De la mar y de la tierra, XV Jornadas de Arqueología Fenicio-Punica (Eivissa, 2000), pp. 62 ss. e la lett. ivi cit. 

[65] De Laet, op. cit., pp. 428 ss. 

[66] W. Radcliffe, Fishing from the earliest time, Londra, 1921, pp. 116 ss. per un valutazione della pesca greca e romana.

[67] Giovenale.,  Sat. IV, 35.

[68] Forse nei dintorni di Pesaro. La raffigurazione del tempio di Venere appare nella colonna di Traiano per la partenza da Ancona dell’imperatore per la campagna dacica. Esso domina l’antico porto restaurato.

[69] Potrebbe dunque cogliersi un doppio senso nell’espressione, non soltanto riferita alla posizione dell’edificio sacro sul porto, ma anche alle rendite che consentivano la sussistenza dell’istituzione religiosa, in maniera simile a come avverrà nel Medioevo per chiese e conventi ai quali andranno i proventi delle tonnare.

[70] I conti dell’anno 279 a.C. del tempio di Apollo a Delo (IG XI, 161 A 25) con rendite derivanti dalla pesca sono stati, ad esempio, presi in considerazione da Homolle, op. cit., pp. 391-444. Cfr. anche Dumont, La Pêche, cit., pp. 137 e s. per Asklepio ad Epidauro, Priapo a Callipoli ed altri casi del genere. Indipendentemente dalla varietà dei tassi locali ed dal trascorrere del tempo, il meccanismo sembra essere abbastanza simile e diffuso.

[71] Questa è invece la giustificazione del dono all’imperatore, ma potrebbe ricordare l’ironica difesa del pescatore nei confronti delle pretese dei doganieri. Per una valutazione del testo nel quadro dell’occupazione delle coste in età imperiale cfr. M. Fiorentini, Sulla rilevanza economica e giuridica delle ville marittime durante la Repubblica e l’Impero, Index, 24, 1996, pp. 165 e 189 nt. 81.

[72] Polibio IV, 17, 2. Fiorentini, op. cit., p. 448 e s. interpreta il termine limen, presente nel testo come lago e non porto, che certamente non era oggetto d’appalto.

[73] D. 18, 1, 51 (Paolo XXI ad edictum). Fiorentini, op. cit., pp. 449 e s.

[74] Fiorentini, op. cit., pp. 468 ss.

[75] Queste ed altre argomentazioni in Fiorentini, l. c.

[76] Fiorentini, op. cit., pp. 436 ss.; 375 ss.

[77] M. R.Cimma, Ricerche sulle società di pubblicani, Milano, 1981, pp. 22 e  42,  in relazione a varie attività appaltate ai pubblicani, correttamente si riferisce all'appalto della pesca effettuata sempre in acque interne ed all’appalto di miniere e saline. Anche  i due casi a p. 119 nt. 106 riferiti a società di pubblicani in provincia per lo sfruttamento della pesca sono relativi ad acque interne. Cfr. Fiorentini, op. cit., pp. 465 e  468 ss.

[78] D. 50, 16, 112:  Litus publicum est eatenus, qua maxime fluctus exaestuat. G. Scherillo, Lezioni di diritto romano. Le cose, Milano 1945, p. 74, interpretando l’aggettivo publicum riferito a litus non come attribuzione, ma come predicato, ammetteva  che “oltre quel limite il lido non è più necessariamente pubblico, potendo dunque anche essere privato”.    

[79] Fiorentini, op. cit., p. 452. B. Biondi, La condizione giuridica del mare e del litus maris, Studi Perozzi,   Palermo, 1925, p. 277, acutamente rileva che l’aver avvertito l’esigenza di determinare il limite interno del lido, quello relativo al fondo litoraneo ed al massimo flutto invernale, e non il confine esterno della spiaggia verso il fronte marino, chiaramente indica che spiaggia e mare per la giurisprudenza romana godevano del medesimo regime.

[80] Per tutti A. Burdese, Manuale di diritto privato romano, Torino, 1964, p. 200 e D. 41, 1, 50.  

[81] Biondi, La condizione giuridica del mare, cit., pp. 279 e s.

[82] Fiorentini, op. cit., pp. 451 e s.

[83] Biondi, La condizione giuridica del mare, cit., pp. 280.

[84] Aloandro seguito da E. Costa, Le acque nel diritto romano, Bologna, 1919, p. 97 proponeva l’integrazione di quod mari in quod a mari.

[85] M. G. Zoz, Riflessioni in tema di res publicae, Torino, 1999, pp. 44 ss. 

[86] Fiorentini, op. cit., p. 451.

[87] Circostanza già rilevata da Zoz, op. cit., p. 45 nt. 142.

[88] Zoz,  l. c.

[89] D. 47, 10, 14: Sane si maris proprium ius ad aliquem pertineat, uti possedetis interdictum ei competit, si prohibeatur ius suum exercere, quoniam ad privatam iam causam pertinet, non ad publicam haec res, utpote cum de iure fruendo agatur, quod ex privata causa contingat, non ex publica. ad privatas enim causas accomodata interdicta sunt, non ad publicas.

[90] Per ultimo, G. Klingenberg, Maris proprium ius, cit., pp. 37 – 60; praecipue, p. 38.

[91] Fiorentini, op. cit., pp. 351 e s.

[92] Fiorentini, , l. c.

[93] Fiorentini, op. cit., p. 357.

[94] U. Wilcken, Griechischen Ostraka aus Aegypten und Nubien. Ein Beitrag zur Antiken Wirtschaftsgeschichte, I, Leipzig – Berlin, 1899, pp. 136 – 141; A. C. Johnson, Roman Egypt to the Reign of Diocletian, in Tenney Frank,  An economic survey, II, Baltimora, 1936, pp. 348; 374-8; 552 e s. presenta diversi documenti papiracei riguardanti la pesca in Egitto. Sulla pesca in Egitto cfr. ora l’opera fondamentale di H. Chouliara-Raïos, La Pêche en Égypte à la lumière des papyrus grecs, voll. I e II, Ioannina, 2003.

[95] Anche se Wilckenop. cit., p. 137, in sintonia con la tralatizia opinione dei grecisti, nel valutare la documentazione su ostrakon accenna oltre al Nilo al mare, la documentazione anche in tal caso sembra riferirsi ad acque interne.

[96] J. Dumont, La pêche dans le Fayoum hellénistique: traditions et nouveautés d’après le Papyrus Tebtunis 701, Chron. d’Égypte, 52, 1977, pp. 125 - 142.

[97] R. Taubenschlag, The Law of the greco-roman Egypt in the light of the papyri, 332 B.C. – 640 A.D., Varsavia, 1955, pp. 664 e s. Uno dei più importanti documenti per la pesca nell’Egitto ellenistico è costituito da UPZ II, 225 = W. Chr. 167 del 131 a.C.

[98] Erodoto II, 37;  P. Donati Giacomini, op. cit., p. 60.

[99] Plutarco, De Iside et Osiride 7 (Stephanus, p. 353 C) dichiarava che gli Egiziani “dai pesci di mare, non tutti da tutti, ma solo da alcuni si astengono, come gli Ossirinchiti si astengono da quelli presi con l’amo” Cfr. M. C. Besta, Pesca e pescatori nell’Egitto greco-romano, Aegyptus, II, 1, 1921, p. 67; H. Henne, PSI 901 et la police de la pêche dans l’Égypte gréco-romaine dans ses rapports avec la religion, Aegyptus, 31, 1951, pp. 189 e s. e P. Donati Giacomini, Il pesce nella letteratura antica, in: Pesca e pescatori nell’antichità (a cura di A. Donati e P. Pasini), Milano, 1997, pp. 60 e s.

[100] Erodoto II, 72;  P. Donati Giacomini, l. c.

[101] G. M. Parássoglou,  A lease of fishing rights, Aegyptus, 67, 1987, pp. 89 ss. 

[102] P. Oxy. XLVI, 3267 (ca. 27/41 d.C.); P. Turner 25 (28 dic. 161 d.C.); P. Lond. inv. 2143 (II d.C.); P. Oxy. XLVI, 3268 (II sec. d.C.); P. Harris II, 194 (183/4 o 215/6 d.C.);  P. Wisc. I, 6 = SB XII, 11234 (210/1 d.C.); P. Oxy. XLVI, 3269 (III sec. d.C.); P. Oxy. XLVI, 3270 (sett./ott. 309 d.C.) e forse P. Stras. 569 (27 luglio 162 d.C.).

[103] C. Preaux, L’économie royale des Lagides, Bruxelles, 1939, pp. 201- 207.

[104] Taubenschlag, op. cit., p. 665. 

[105] P. Ath. 35 del 153/4 d.C.; P. Goth. 3 del 215/6 d.C. Cfr. Taubenschlag, op. cit., p. 665.

[106] Il P. Oslo III, 89-91 del 138 d.C. contiene i rendiconti degli ispettori della pesca, che ogni cinque giorni venivano presentati allo stratega. Cfr. anche PSI 735 del 138 d.C. e PSI 160 del 149 d.C.

[107] H. Chouliara-Raïos, op. cit., II, pp. 545 e s.

[108] P. Oxy. XIX, 2234 del 31 d.C.; P. Giss. Univ. 12, l. 5 dell’87/88 d.C.; P. Tebt. 298, l. 33 del 107 d.C.; P. Hamb. 6, l. 11 del 129 d.C.; St. Pal. XXII, 183, l. 35 del 138 d.C.; P. Tebt. 329, ll. 8-9 del 139 d.C.; PSI 160, l. 8 del 149 d.C.; P. Oxf. 12, ll 8-9 del 153/4 d.C.; P. Amh. 100, ll. 3 ss. del 198- 211 d.C.;  PSI 798, l. 10 del II/III sec. d.C = SB XVI, 12495. Altri testi relativi a locazioni private di diritti di pesca in acque interne in Taubenschlag, op. cit., p. 665 nt. 45.

[109] Il PSI 901 (= Sel. Pap. 329), che risale al 46 d.C., contiene un giuramento di quattordici pescatori del Fayum di non essersi mai macchiati della colpa della cattura di esemplari di pesce ossirinco. Cfr.H. Henne, op. cit., pp. 184 – 191; Johnson, op. cit., p. 376.

[110] Il P. Yale 56 del 100 a.C. contiene il prostagma reale di Tolomeo Alessandro I per la protezione dei pesci sacri, comminando la pena di morte. Henne, op. cit., p. 190 e s.; J. Modrzejewski, RHD, 47, 1969, pp. 90-91; Dumont, La Pêche dans le Fayoum hellénistique,  cit., p. 133.

[111] P. Flor II, 275 del III sec. d.C. (Theadelphia): “…in Sathro, vennero innanzi a lui i pescatori, muovendo accuse circa i siti in contesa sulla spiaggia, così come tu mi hai già scritto altra volta intorno ad essi. Dunque mandò me con l’esattore Pota di Sentrepei e scoprimmo un altro pescatore sulla spiaggia al quale disse che non era lecito che un altro si aggiungesse in Sa(thro), ma che sarebbe stato conveniente pescare in altri luoghi, poiché là la spiaggia è di sei schenai”.  Anche il papiro BGU 1035 del V sec. d.C. contiene una relazione per le persecuzioni subite dai pescatori della spiaggia di Ossirinco ad opera di quelli di Kerkesis. Cfr. M. C. Besta, Pesca e pescatori nell’Egitto greco-romano, Aegyptus, II, 1, 1921, pp. 69 e s.

[112] BGU I, 220 (Fayum).

[113] Cfr. ad es. P. Tebt. 316 del I sec. d.C. Cfr. H. Melaerts, Pêche et pêcheurs à Tebtynis à l’époque romaine, Atti del Colloquio Internazionale “Egitto e Storia antica”, 31 agosto/2 settembre 1987, p. 561. La menzione del mare nell’opera di H. Chouliara-Raïos, op. cit., II, pp. 426 e s., appare marginale rispetto alla cospicua documentazione relativa alle acque interne.

[114] Plauto, Rud. 975 e 977.

[115] Cicerone, Pro Roscio Amerino 72 ; Ovidio, Metamorph. VI, 349-51; Virgilio, Aen. VII, 229-30; Seneca, De ben. IV, 28, 3.

[116] D. 1, 8, 2, 1 (Marciano, III institutionum): et quidem naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare et per hoc litora maris. Cfr. anche D. 1, 8, 4.

[117] D. 39, 2, 24 pr.

[118] D. 47, 10, 13, 7.

[119] P. Bonfante, Corso di diritto romano. II. La proprietà, Milano, 1966, p. 61.

[120] Fiorentini, op. cit., p. 434 nt. 13.

[121] U. Grozio,  Mare liberum sive De iure, quod Batavis competit ad Indicana commercia. Dissertatio, in Id., De iure belli ac pacis libri tres, Traiecti ad Rhenum, 1773, II, cap. VII, 37; M. Fiorentini, Mare libero e mare chiuso. Su alcuni presupposti romanistici dei rapporti internazionali nei secoli XVI – XVIII, Iuris Vincula. Studi M. Talamanca, III, Napoli, 2001, p. 319 - 353; Fiorentini, op. cit., p. 433 nt. 10.

[122] D. 43, 8, 3, pr. - 1 (Celso XXXIX digestorum): Litora, in quae populus Romanus imperium habet, populi Romani esse arbitror. Maris communem usum omnibus hominibus, ut aëris…

[123] Biondi, La condizione giuridica del mare,  cit., pp. 269-280.

[124] Il rapporto tra res publicae patrimoniali e provvedimenti di concessione è evidenziato in Fiorentini, op. cit., p. 374.

[125] D. 41, 1, 14 pr. (Nerazio V membranarum).

[126] M. Fiorentini, Sulla rilevanza, cit., pp. 143 - 198.

[127] In tal senso L. Guterrez-Masson, Mare nostrum: imperium o dominium?, RIDA, 40, 1993, pp. 303 e s.  

[128] C. M. Moschetti, op. cit., p. 54.

[129] D. 1, 8, 10 (Pomp. VI ex Plaut.): Aristo ait, sicut id, quod in mare aedificatum sit, fieret privatum…; D. 41, 1, 30, 4 (Pomp. XXXIV ad Sabinum): Si pilas in mare iactaverim et supra eas inaedificaverim, continuo aedificium meum fit, item si insulam in mari aedificaverim, continuo mea fit…; D. 41, 1, 50 (Pomp. VI ex Plaut.): …quamvis quod … in mari exstruxerimus, nostrum fiat…; D. 39, 1, 1, 18 (Ulp. LII ad edictum):  Quod si quis in mare…aedificet…sum facit…; Biondi, op. cit., p. 272; Fiorentini, Fiumi e mari, cit., pp. 360 ss. e 451 ss.      

[130] Fiorentini, op. cit., pp. 42 e s. Sulla non completa identità cfr. G. Zoz, op. cit., pp. 78 e s. Sull’equivoco tra res communes omnium e res publicae ed i suoi sviluppi nell’età intermedia v. A. Miele, “Res publica”, “res communis omnium”, “res nullius”: Grozio e le fonti romane sul diritto del mare, Index, 26, 1998, pp. 383–387 e N. Charbonnel, M. Morabito, Les rivages de la mer: droit romain et glossateurs, RHDEF, 65, 1987, pp. 23  – 44.

[131] B. Santalucia, I libri Opinionum di Ulpiano, Milano, 1971, II, pp. 253 ss.; J. Hallebeek, Legal problems concerning a draght of tunny. Exegesis of D. 8, 4, 13 pr., TR, 55, 1987, pp. 39-48;  M. Talamanca, Pubblicazioni pervenute alla Direzione, BIDR, 91, 1998, pp. 909 e s.; G. Provera, Servitù prediali ed obbligationi propter rem, Studi Volterra, II, pp. 15-48; W. Dajczak, L’uso della locuzione bona fides, RIDA, 44, 1997, pp. 71-84; Fiorentini, op. cit., pp. 422 ss.; G. Franciosi, Il divieto della piscatio thynnaria: un’altra servitù prediale?, RIDA, 49, 2002, pp. 101- 107. 

[132] Sulla questione della genuinità dell’opera cfr. B. Santalucia, op. cit.

[133] M. Fiorentini, Fiumi e mari nell’esperienza giuridica romana. Profili di tutela processuale e di inquadramento sistematico, Milano, 2003, p. 423 nt. 80.

[134] Sugli stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce cfr. G. Purpura, Pesca e stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce in Sicilia. I - S. Vito (Trapani), Cala Minnola (Levanzo), Sicilia Archeologica, XV, 48, 1982, pp. 45-60; Id., Pesca e stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce in Sicilia. I - S. Vito (Trapani), Cala Minnola (Levanzo), Sicilia Archeologica, XV, 48, 1982, pp. 45-60; Id., Pesca e stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce in Sicilia. III - Torre Vendicari (Noto), Capo Ognina (Siracusa), Sicilia Archeologica, XXII, 69 - 70, 1989, pp. 25-37; Id., Pesca e stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce in Sicilia. IV - Un bilancio, Atti V Rassegna di Archeologia subacquea (Giardini, 1990), Giardini, 1992, pp. 87-101.

[135] Fiorentini, op. cit., p. 424.

[136] Cfr. la critica di Fiorentini, op. cit., p. 425 nt. 87 a W. Dajczak, L’uso della locuzione bona fides nei giuristi romani classici per la valutazione del valore vincolante degli accordi contrattuali, RIDA, XLIV, 1997, p. 81.  

[137] A. Wacke, Wettbewerbsfreiheit und Konkurrenzverbotsklauseln im antiken und modernen Recht, ZSS, XCIX, 1982, pp. 212 ss., seguito da Fiorentini, l.c.

[138] J. Hallebeek, op. cit., p. 41; G. Franciosi, op. cit., p. 102 colloca i fondi i questione in Sicilia, ma non fornisce alcuna giustificazione per tale ubicazione.

[139] L’intero testo, ritenuto postclassico per la provenienza dalla opera sospetta delle Opiniones di Ulpiano, è stato rivalutato da B. Santalucia, op. cit. Vi è chi ha sostenuto l’aggiunta in età giustinianea di tutta la seconda parte, da quamvis alla fine (S. Perozzi, I modi pretorii d’acquisto delle servitù, RISG, XXIII, 1897, 8 = Id., Scritti giuridici, II, Milano, 1948, pp.204 e s.) e chi ha sostenuto che la soluzione originale di Ulpiano sarebbe stata volta a negare efficacia alla lex venditionis  (G. Provera, op. cit., p. 45). 

[140] Per B. Santaluciaop. cit., p. 256 ss. si tratterebbe di una servitù con effetti meramente obbligatori costituita in base al regime provinciale dei iura in re aliena; per J. Hallebeek, op. cit., pp. 39 ss. di una sorta di obligatio propter rem, senza tuttavia far espresso riferimento a tale categoria. Per M. Talamanca, op. cit., p. 910, non si tratterebbe di servitù che - “(come diritto reale) - era esclusa, in quanto non era stato usato – né poteva esserlo – un modo idoneo per la costituzione della stessa”, tuttavia non vi sarebbero stati ostacoli all’esplicazione degli effetti – meramente obbligatori – previsti pactionibus et stipulationibus, analoghi a quelli della servitù. Per Fiorentini, op. cit., p. 424 nt. 85, che tuttavia ritiene l’esegesi di Talamanca come la più fondata, la pactio et stipulatio avrebbe potuto avere in provincia “un contenuto reale e non meramente obbligatorio” in base a Gaio II, 31. Per G. Franciosi, op. cit., p. 106 infine si trattava di “una vera e propria servitù prediale negativa”.

[141] Fiorentini, op. cit., p. 424 e nt. 86.

[142] Oppiano III, 640; Eliano, XV, 5-6; E. G. Vargas, Pesca, sal y salazones en las ciudades fenicio-púnicas del sur de Iberia, in De la mar y de la tierra. XV Jornadas de Arqueología fenicio-púnica, Ibiza 2000 (Ibiza 2001), pp. 9 ss.

[143] Vargas, op. cit., p. 11 nt. 22 e p. 9 nt. 16: “La introducción de las almandrabas de buche” (la tonnara con “camera della morte” di tipo moderno) “en las costas andaluzas no se hizo hasta bien entrado el siglo XIX y no sin que encontraran una enconada resistencia por parte de los pescadores (J. Y. Regueira y E. Regueira, Túnidos y tunantes en las almadrabas de las costas gaditanas, Algeciras, 1993, p. 188)”.

[144] P. Rhode, Thynnorum captura. Quanti fuerit apud veteres momenti, Lipsia, 1890, pp. 47 ss (= Jahrbücher für Class. Philologie, Suppl. Band XVIII, Lipsia, 1892). 

[145] Vargas, op. cit., p. 10: “La identificación de la almadraba de Eliano como una arte de vista y tiro parece clara ante el hecho de que las redes se extienden immediatamente después de que el banco de peces sea avistado (T. W. Gallant, A fisherman’s tale, Miscelanea Graeca, 7, 1985, Gant)”  (non vidi). Cfr. G. Purpura, Pesca e stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce in Sicilia. V – Sull’origine bizantina della tonnara, Rassegna Internazionale di Archeologia Subacquea, Acitrezza, 30 sett. - 3 ott. 2004 (in preparazione).

[146] Un dipinto antico con la scena della cattura del tonno è descritto in Filostrato, Imagines I, 13. Un mosaico di Sousse del III sec. d.C. mostra l’uccisione di un grande tonno preso in una rete da un uomo in barca, non in una “camera della morte” in alto mare, ma  in prossimità della riva, come indica la presenza di piante e fiori. Cfr. Lafaye, DS, IV, 1, 489 ss., v. piscatio; P. Donati Giacomini, Il pesce nella letteratura antica, in: Pesca e pescatori nell’antichità (a cura di A. Donati e P. Pasini), Milano, 1997, p. 24, fig. 1 (in alto, a sinistra). 

[147] Cfr. G. Dagron, Poissons, pêcheurs et poissoniers de Costantinople, in C. Y. Mango, G. Dagron, Constantinople and its Hinterland, Papers from the 27th. Spring Symposium of Byzantine Studies, Oxford, aprile 1993, pp. 60; 62 e fig. 4.

[148] Gaio II, 31: Alioquin in provincialibus praediis sive quis usumfructum sive ius eundi agendi aquamve ducendi vel altius tollendi aedes aut non tollendi, ne luminibus vicini officiatur, ceteraque similia iura consituere velit, pactionibus et stipulationibus id efficere potest, quia ne ipsa quidem praedia mancipationem aut in iure cessionem recipiunt.

[149] Fiorentini, op. cit., p. 424 nt. 86.

[150] Così nella Nov. 56, 9 ss. di Leone il Saggio: “…e come in terra ferma non è consentito ad alcun altro di raccogliere i frutti senza la volontà del proprietario, ma se qualcuno percepisce i frutti di un fondo ciò avviene o grazie alla accondiscendenza del padrone o pagando il corrispettivo per l’uso del luogo, così decidiamo che avvenga egualmente sul mare.

[151] Nov. 56, 4 ss. di Leone il Saggio: “Sulle rive del mare. V’è una legge (D. 47, 10, 13, 7; Bas. 60, 21, 13) “che non sembra rispetti la giustizia  ed è quella che spoglia il proprietario del suo diritto sui fondi marittimi, o meglio sulle rive del mare, ma non solo ciò, sottopone inoltre ad azione d’ingiuria il proprietario che voglia allontanare coloro che vogliono utilizzare le rive per la pesca…”. Cfr. Dagron, Poissons, pêcheurs et poissoniers, cit., pp. 61 – 73.

[152] Nov. 57 di Leone il Saggio: “Sulla distanza delle epochai (tonnare). Nonostante vi siano numerose leggi regolanti la cattura dei pesci, non ve n’è alcuna che definisca questo tipo di pesca che si ha l’abitudine di chiamare epoché (tonnara), senza dubbio perché tale procedimento non era ancora conosciuto all’epoca in cui tali leggi erano state promulgate; noi vogliamo che una disposizione colmi tale lacuna…”.

[153] Novv. 56; 57; 102; 103; 104 di Leone il Saggio (P. Noailles, A. Dain, Les novelles de Léon VI le Sage, Paris, 1944). Ferrari delle Spade, Di alcune leggi bizantine riguardanti il litorale marino e la pesca nelle acque private, Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 42, 1909, pp. 588-596 = Scritti Giuridici, Milano, 1953, pp. 91- 98; K. Triantaphyllopoulos, Die Novelle 56 Leos des Weisen und ein Streit über das Meeresufer im 11. Jahrhundert, Festschrift P. Koschaker, III, Weimar 1939, pp. 309 – 323; G. Dagron, Lawful Society and Legittimate Power, in Law and Society in Byzantium. Ninth-Twelfth Centuries (a cura di A. Laiou e D. Simon),  Washington, 1994, pp. 47-50 e la lett. in tali opere cit.

[154] Triantaphyllopoulos, op. cit., pp. 309 – 323.

[155] Dagron, Poissons, pêcheurs et poissoniers, cit., p. 66.

[156] Da tale riferimento al pagamento di un’imposta fondiaria non può in alcun modo desumersi una demanialità del lido ed una sovranità bizantina sul mare. Sul punto si vedano le giuste osservazioni di Fiorentini, op. cit., pp. 378 e s. a G. Vismara, Il diritto del mare, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 25, La navigazione mediterranea nell’alto medioevo (Spoleto, 14-20 aprile 1977), Spoleto, 1978, pp. 689-730 = Scritti di Storia Giuridica, VII, Comunità e Diritto Internazionale, Milano, 1989,  pp. 445 e s. E’ molto probabile che i proventi ai quali lo Stato rinunciava secondo Michele Attaliate sotto Niceforo Botaniate, restituendo gli approdi e le banchine ai privati (v. infra), fossero quelli relativi ai diritti di ormeggio e non concernenti imposte per la concessione di tratti di mare o di lido.

[157] D. 12, 6, 26, 4 (Ulpiano 26 ad edictum): Nemo enim invitus compellitur ad communionem.

[158] Dagron, Poissons, pêcheurs et poissoniers, cit., p. 65 nt. 34.

[159] Così in Dagron, Poissons, pêcheurs et poissoniers, cit., p. 66.

[160] Si tratta di una evidente svista di Fiorentini, op. cit., p. 379 l’aver invertito l’attività e la successione in carica dei due imperatori.

[161] Si trattava soprattutto di proventi d’ormeggio e di scarico delle mercanzie. Cfr. Triantaphyllopoulos, op. cit., p. 313 nt. 3.

[162] Sul concomitante sviluppo in Occidente, proprio nel IX sec., dell’idea di un dominio esclusivo dello Stato su una certa estensione di mare antistante alle sue coste e le relative testimonianze cfr. Vismara, op. cit., pp. 446 e s.

[163] M. G. Zoz, Riflessioni in tema di res publicae, Torino, 1999, pp.  70 ss; cfr. anche  G. Impallomeni, La ammissibilità della proprietà privata sulle darsene interne, Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, pp. 366-390; Id., Le rade, i porti, le darsene e le opere a terra, Scritti di diritto romano, cit., pp. 582-599; Id., Demanialità accidentale nell’ambito marittimo ed idrico, con particolare riguardo a darsene e canali artificiali, Scritti di diritto romano, pp. 601-610; Sul dibattito nel XIX sec. in merito al patrimonio dello Stato e gli orientamenti della dottrina romanistica sul mare ed il demanio marittimo si veda Fiorentini, op. cit., pp. 25 ss.

[164] Cenni sull’attuale condizione del mare e delle spiagge in Spagna e le oscillazioni dottrinali tra res communes omnium e res publicae (o res publicae iuris gentium) in J. M. Alburquerque, La proteccíon o defensa del uso colectivo de las cosas de dominio público, Madrid, 2002,  pp. 162 ss.

[165] In base all’United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), Montego Bay, 1982; A. Miele, publica”, “res communis omnium”, “res nullius”: Grozio e le fonti romane sul diritto del mare, Index, 26, 1998, p. 283.