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Diritti di patronato e astikoi nomoi in P.Oxy. IV, 706

Bassorilievo della gens Licinia da Tusculum. A sinistra il  patrono con le insegne magistratuali e a destra il liberto con gli attrezzi servili

di Gianfranco Purpura


in: Atti del V Convegno Nazionale “Colloqui di Egittologia e Papirologia”, Firenze, 10-12 dicembre 1999, a cura dell’Istituto Papirologico “G. Vitelli", pp. 199-212.


L’esegesi del P.Oxy. IV, 706 dal momento della pubblicazione a cura di Grenfell e Hunt ai primi del Novecento, ha continuato a dividere la dottrina fino ai nostri giorni(1). Non nutro pertanto l’illusione di riuscire a definire una controversa questione relativa ad un processo riguardante i rapporti tra patrono e liberto dinnanzi al prefetto d’Egitto M. Rutilio Lupo che si svolse nel 115 d. C. e che ha finito per influenzare la valutazione dei contatti in Egitto tra la cultura giuridica indigena, la greca e la romana, tema del nostro incontro. Con la presente nota si vuole rimettere in discussione i risultati delle più recenti ricerche sui rapporti tra esperienze giuridiche diverse sotto la dominazione romana (nomoi ton Aigyption, nomoi tes choras e astikoi nomoi) e sull’atteggiamento che i conquistatori dell’Egitto assunsero nei confronti dei provinciali, nel caso in cui le disposizioni locali fossero risultate più benevole delle romane(2).

Se nella sostanza la ricostruzione del P.Oxy. IV, 706 appare plausibile, non sembra però che si possa condividere in tutto la particolare interpretazione fornita da Seidl e seguita da Modrzejewski(3).

Esaminiamo pertanto il P.Oxy. IV, 706:

… presso gli egizi…
i liberti ai patroni, che Eraclide
…avesse ricevuto da lui il denaro ed avesse
scritto il chirografo di non avere nulla a che fare
con lui, e Lupo avendo esaminato il chirografo ed
essendosi consigliato con gli amici, disse così:
“nelle leggi degli Egizi (tois ton Aigyptíon nómois) ( non v’è) nulla circa la
…e la capacità di coloro che sono stati liberati
…in conformità alle leggi civiche (astikoì nómoi)
ordino che Damarione al patrono Eraclide
… in base alla legge”. E a Damarione disse:
“Segui il patrono ed aggiungo che se ti lamenterai
di Eraclide disporrò che tu sia bastonato”.

Secondo Modrzejewski il patrono Eraclide, indigeno e non greco, avrebbe fatto perfidamente affidamento sulla riluttanza romana - e dunque del prefetto - ad ammettere che per coloro che fossero stati manomessi una prassi indigena potesse risultare più favorevole di un inderogabile principio romano prescrivente per il liberto l’obsequium e le operae nei confronti del patrono. Nonostante nel papiro si dichiari espressamente che nelle leggi degli Egizi (indigeni e greci, per Modrzejewski assimilati agli occhi dei romani) non fosse prevista limitazione alcuna della capacità dei manomessi, Eraclide avrebbe intentato la controversia contro il suo liberto contando sul fatto che il prefetto romano non avrebbe potuto porre il manomesso da un egizio in una condizione migliore di quella che gravava sugli schiavi manomessi dai cittadini romani e perciò esimerlo dall’obsequium e dalle operae.

L’unica difesa possibile per il convenuto Damarione sarebbe stata allora quella di affidarsi al chirografo, rilasciato dal precedente padrone al momento della manomissione quale quietanza del pagamento del prezzo del riscatto, nel quale si dichiarava espressamente l’insussistenza di ogni ulteriore pretesa nei confronti dell’ex-schiavo (…di non avere nulla a che fare con lui). Ma la difesa appariva palesemente inconsistente, in quanto il chirografo, esaminato dal prefetto e dal consiglio di amici giudicante, si rivelava esclusivamente pertinente al pagamento del prezzo del riscatto, nulla disponendo in merito alla condizione futura del liberto, clausola eventualmente prevista - noi notiamo - nell’atto agoranomico della manomissione e non in un semplice chirografo. L’inevitabile condanna sarebbe stata per Modrzejewski allora pronunziata in base agli astikoì nómoi - ius civile romano(5) e non leggi alessandrine, come comunemente ritenuto - poiché essi non avrebbero previsto alcuna paramoné ex lege, così come le pratiche indigene non avrebbero contemplato nessun gravame per il manomesso, quale elemento naturale della manomissione.

Le conseguenze di tale ricostruzione trascendono la specifica questione esegetica o di diritto privato greco-ellenistico e romano in merito ai rapporti tra patroni e liberti, in quanto si riflettono sull’interpretazione delle controverse e ricorrenti espressioni dei papiri: nÒmoj o nÒmoi tîn A„gupt…wn, tÁj cèraj, ™picèrioj nÒmoj, ™gcèria nÒmi<s>ma, ¢stikoˆ nÒmoi, sui rapporti giuridici in definitiva tra egiziani, greci e romani e sull’applicazione delle rispettive leggi nell’Egitto romano.

Secondo Modrzejewski, M. Rutilio Lupo avrebbe anticipato con la sua decisione un principio di grande portata enunciato intorno al 140 d.C. dal giurista Giuliano: tunc ius quo urbs Roma utitur servari oportet (6). Quasi un secolo prima della constitutio antoniniana de civitate, il diritto romano sarebbe stato applicato come parametro di riferimento ad indigeni e greci - indifferentemente sudditi egizii agli occhi dei dominatori - in caso di mancanza di regole da applicare o di “scandaloso” contrasto con principi romani, concorrendo così ad accelerare il processo di romanizzazione dei territori provinciali. Dunque, le espressioni riscontrabili nei papiri come nÒmoj o nÒmoi tÁj cèraj si riferirebbero al diritto indigeno o ai diritti locali, equivalenti invece per alcuni studiosi al nÒmoj o nÒmoi tîn A„gupt…wn(7), gli astikoi nomoi indicherebbero per Modrzejewski il ius Urbis Romae - e non il diritto alessandrino - e la legge degli egizii si riferirebbe, non al diritto indigeno di età tolemaica, ma ormai indifferentemente al diritto locale senza riguardo per l’origine greca o egizia di una regola giuridica: gli amministratori romani “n’ont pas suivi des cours de papyrologie juridique à la Sorbonne!”

Si spiegherebbe così il paradosso di Greci invocanti il diritto degli Egizii – come avverrebbe nel 186 d.C. nel dossier di Dionysia in riferimento all’aferesi paterna (8) – o di una “legge degli Egizi” frequentemente menzionata e nella sostanza greca. In assenza di un riferimento civico, istituzionale legittimante un autonomo ius civile, pratiche indigene e greche sarebbero state dai romani equiparate come mere consuetudini, determinando l’anomalia di leggi greche da applicare indifferentemente agli Egizi come “legge degli Egizi”.
Tutto ciò appare ancora più sorprendente in quanto recenti scoperte dimostrano la sopravvivenza in età romana di raccolte di pure consuetudini giuridiche indigene tradotte in greco, analoghe al c.d. Codice di Hermoupolis in demotico (9). Ed è stato ipotizzato che “prolungando una tradizione di cui il P.Hal. 1 costituisce nel III sec. a.C. il punto di partenza attualmente conosciuto, dei pratici locali avrebbero raccolto in opere private, le regole tratte dai diagrammata e dai prostagmata dei Lagídi, come anche le leggi delle città greche d’Egitto. La casualità dei rinvenimenti ha voluto che noi non avessimo che delle tracce indirette, sotto forma di rinvii” (10). Se dunque in età romana si perpetuavano raccolte di leggi indigene nettamente distinte da quelle greche, appare difficile giustificare l’approssimativa assimilazione sotto un’unica parificatrice espressione di “legge degli Egizi”, utilizzata dall’alto funzionario romano rivelando, come sottolineato dalla Montevecchi, “una notevole ignoranza della realtà etnica e culturale del paese” , una differenza tra le due culture che doveva essere evidente(11), soprattutto a chi in sede amministrativa e processuale era affidato il compito di rimarcare la differenza giuridica tra le diverse etnie(12).

Torniamo allora alla controversia del liberto Damarione citato in giudizio dall’ex-padrone Eraclide a prestare i suoi servigi, caso che già a quella data, 115 d.C., rientrava indubbiamente nella competenza giurisdizionale del prefetto, anche se solo dall’editto del 133 d.C. di Marco Petronio Mamertino in P.Yale II, 162, col. III, ll. 24 – 32 si ricava la specifica competenza prefettizia in materia (“Il prefetto giudicherà:… riguardo alle accuse che potranno presentare i patroni contro i loro affrancati, i genitori contro i figli…”). E’ evidente che questa parte di un testo, che sembra potersi ribadire come un possibile editto prefettizio giurisdizionale generale(13), non costituiva certo una novità del momento, ma era invece tralatizia. Similmente nella celebre Petitio Dionysiae si presupponeva una devoluzione di competenza giurisdizionale al prefetto dei rapporti tra padri e figli posteriormente alla data del Pap. Yale, che menzionava già tale attribuzione processuale, non come novità (14).

Se appare dunque accertata la competenza dell’organo giurisdizionale adíto, è invece incerta in dottrina la determinazione del tipo di diritto utilizzabile: adeguandosi infatti alla prassi della personalità del diritto, il prefetto avrebbe dovuto ricercare, come è noto, la soluzione della questione nel diritto greco o indigeno in rapporto all’appartenenza dei litiganti al relativo gruppo etnico.

Non tanto il riferimento agli Egizi nella parte iniziale, purtroppo assai lacunosa, del verbale giudiziario pervenutoci, quanto la stessa intenzione del prefetto di ricercare nella legge degli Egizi la regola da applicare al caso specifico ed il non averla trovata, potrebbe rivelare che si trattasse in realtà d’indigeni.

Infatti è fuori discussione che nell’antico diritto indigeno mancavano gravami di sorta per i manomessi. E’ incerto invece se nel diritto greco applicato in Egitto fossero esclusi obblighi verso i patroni naturalmente gravanti sui liberti all’atto della manomissione, come si è sostenuto per ricomprendere sotto l’unica espressione “legge degli Egizi” tanto indigeni, che greci.

In realtà è probabile che il dovere del liberto nei confronti di chi ha elargito il beneficio della libertà - implicante in diritto romano l’obsequium e le operae - si manifesti non difformemente anche nel diritto dei Greci - ed in particolare in quello applicato in Egitto - in una serie di obblighi gravanti naturalmente sui liberti, ma occorre distinguere da tali gravami la paramoné, l’obbligo cioè frequentemente previsto di restare a vivere da liberto con il patrono o con persona da costui designata per un periodo di tempo determinato o a vita(15), ma non naturalmente scaturente da ogni affrancazione. La confusione tra paramoné e diritti di patronato, oltre alla scarsezza della documentazione, ha provocato in dottrina esitazioni ad ammettere che dalle manomissioni agoranomiche(16) scaturissero doveri di devozione ed obblighi, che nelle manomissioni testamentarie(17) e nelle sacre (queste ultime piuttosto rare in Egitto(18) ) appaiono invece, con poca coerenza fuori discussione. La paramoné non era conseguenza automatica e naturale della manomissione, a differenza del diritto di patronato(19).

E’ evidente infatti che la paramoné - oltre ad essere pratica antica, non esclusiva della manomissione ma anzi relativa ad altri tipi di rapporto (come prestiti, garanzie, contratti di servizio)(20) dai quali fu nell’affrancamento mutuata(21) e pur apparendo tanto naturale, anche nel mondo romano, da essere ricordata già alla fine del III, inizi del II sec. a.C. nei Menecmi di Plauto addirittura come desiderabile per il manomesso(22) - non poteva certo essere considerata sotto l’impero come condizione normale ed obbligatoria dei liberti, basata su di una sorta di obsequium e prestazione di operae rafforzati dal continuo e inderogabile vincolo della convivenza, che avrebbe potuto essere d’impaccio pur allo stesso patrono. E’ assai dubbio se in diritto romano prima della fine del II sec. a.C. vi sia stato un tassativo obbligo per il liberto di coabitazione con il patrono, ma è comunque certa l’inesistenza di esso già alla fine del periodo repubblicano(23). Si deve riconoscere che sono frequenti le indicazioni di liberti con abitazioni autonome dal patrono in tale età e diffuse per tutto l’impero. Così in Egitto(24), ove era frequente il proposito di escludere la paramoné tra i greci, se prevista all’atto della manomissione, corrispondendo successivamente una somma in aggiunta al prezzo del riscatto, o inserendo nell’atto di manomissione un’esplicita clausola liberatoria(25). Si trattava infatti di un onere ben più gravoso della douleía e delle apophoraí dello schiavo manomesso, oggetto di un lascito alla vedova del testatore previsto in un papiro di Ossirinco del 156 d.C. (26), che non menzionando alcun obbligo di coabitazione, consente di distinguere i diritti di patronato, oggetto del lascito, dalla paramoné, oggetto di solito di una specifica riserva del dominus al momento della manomissione. Trattando della manomissione testamentaria e del suddetto P.Oxy. III, 494, si è dichiarato che “sussisteva una notevole differenza tra affrancamento peregrino e romano per quanto concerneva il patronato. In accordo alla legge peregrina il libertus testamentario era obbligato all’¢pofor£ e doule…a, mentre il diritto romano aveva esentato il libertus orcinus da tali prestazioni”(27). Già da tempo tale affermazione è stata ritenuta erronea(28), in quanto la condizione di liberto orcino nel diritto romano classico era caratterizzata dal fatto che il liberto aveva certamente il patrono all’Orco, ma non per questo era esentato, come dimostrano numerosi testi, dai iura patronatus nei confronti dei figli del defunto, al punto da esser qualificato libertus familiae(29). E dunque in rapporto al liberto testamentario non sembra che vi fosse apprezzabile differenza tra il diritto romano ed il diritto locale.

Da una chiara definizione della d…kh ¢postas…ou del lessicografo Arpocrazione deriva una netta distinzione nel diritto greco del I sec. d.C. tra paramoné e diritti di patronato: “Questa azione è data ai patroni contro i liberti se essi si separano da loro (…™¦n ¢fistînta… te ¢p'aÙtîn ...) o fanno iscrivere un altro come patrono o se essi non fanno ciò che la legge impone loro. Una condanna comporta la servitù; un’assoluzione la libertà completa”(30). Ancora una volta l’obbligo connesso alla paramoné appare distinto dai doveri che la legge imponeva (iura patronatus)(31) e questi ultimi in Platone - che significativamente non menziona la paramoné - sembrano consistere ad esempio nel presentarsi almeno tre volte al mese nella casa dell’antico padrone e nel mettersi a sua disposizione, nel non contrarre matrimonio senza la sua autorizzazione, nel non acquisire una fortuna maggiore del patrono, eventualmente donandogli l’eccedenza(32). E’ infatti certo che almeno in alcune città greche sussistevano nÒmoi ¢peleuqerikoˆ determinanti le obbligazioni dell’affrancato nei confronti del patrono(33) - non includenti l’obbligo della coabitazione, nonostante il caso assai discutibile di Calymna che ora esamineremo(34) - ed è significativo che l’espressione cwrˆj o„koàntej possa applicarsi ai liberti; che la circostanza di abitare a parte sia caratteristica proprio dell’affrancato, come è testimoniato in Demostene (35).

Alcuni studiosi hanno ipotizzato che a Calymna nel I sec. d.C. le leggi disciplinanti lo stato dei liberti, a differenza di tutte le altre città greche, regolarmente prescrivessero la paramoné come condizione conseguente alla manomissione, poiché hanno rilevato che nelle affrancazioni da tale località o si riscontra la clausola di coabitazione o quella riferentesi alla disciplina legale (kat¦ toÝj ¢peleuqerwtikoÝj nÒmouj) ed invece di supporre, come è naturale, che fossero relative ad obblighi distinti, hanno sostenuto che tali clausole fossero interscambiabili e per questo mai simultaneamente presenti(36), ricavando da ciò la convinzione che il regime dei liberti di Calymna si distinguesse dal resto della Grecia(37).

Ma torniamo in Egitto dopo esserci resi conto che il liberto (¢peleÚqeroj, e non ™leÚqeroj) in seguito ad una d…kh ¢postas…ou avrebbe potuto essere addirittura revocato in servitù per l’inadempimento dei doveri di patronato e che la previsione, al momento dell’affrancamento, di una punizione per una disobbedienza non avrebbe evidentemente comportato che, in caso di mancata menzione di essa, il liberto non sarebbe stato punito. Così la previsione della paramoné non implicava con certezza che in assenza di essa gli affrancati non fossero sottoposti ad alcun dovere di patronato, come è stato sostenuto. Libertà completa concessa dal padrone non escludeva ovviamente la persistenza di alcuni doveri fondamentali(38) - tra i quali non era però contemplata la paramoné - come l’obbligo di prestare gli alimenti al patrono indigente, previsto già in papiri di Elefantina del 243 a.C. (P. Eleph. 3; 4) e corrispondente all’analogo dovere giuridico del liberto in diritto romano(39); così era previsto, nel § 9 del Gnomon, che il patrimonio dei liberti degli ¢sto…, morti senza figli e senza testamento, venisse devoluto al patrono ed ai suoi figli, come in diritto romano.

E’ stato notato che di frequente si rilevano negli atti di manomissione clausole, in realtà superflue, illustranti il contenuto della libertà che si era sul punto di concedere, come l’esclusione in futuro di una vendita dell’ex-schiavo, la terzietà dell’organo giudicante in caso di controversia, il diritto di andare e fare tutto ciò che si desideri. E’ ovvio che dalla loro mancanza non poteva desumersi alcun mutamento dei diritti del liberto. Così vi erano clausole talvolta esplicitanti doveri, come gli obblighi di patronato, mancando le quali non poteva ricavarsi l’esistenza di una assoluta libertà. La mancanza della clausola della paramoné invece non implicava certo l’obbligo di una coabitazione, che era usuale, ma non doverosa.

Nel caso del processo dinnanzi a M. Rutilio Lupo, non siamo in realtà in condizione di poter stabilire con sicurezza se l’attore vantasse l’obbligo della coabitazione o semplici diritti di patronato, in quanto l’asciutta risposta del prefetto ([tù p£trwni ›p]ou, segui il padrone) potrebbe essere anche intesa in senso metaforico, alludendo ad una generica ubbidienza che i liberti devono ai patroni nel diritto greco. Ciò che più conta è che, sui doveri di patronato e gli obblighi connessi, diritto romano e diritto greco non differivano notevolmente e dunque gli ¢stikoˆ nÒmoi menzionati nel papiro avrebbero potuto essere le leggi alessandrine, che secondo un’ipotesi di Sturm si sarebbero potute applicare agli indigeni come una sorta di diritto suppletivo in assenza della regola da utilizzare(40). Dopo aver consultato il diritto indigeno sul punto muto (le leggi degli Egizi), il prefetto avrebbe applicato il diritto dei Greci (le leggi civiche)(41), al riguardo conforme alle pratiche romane.

Su di un punto cruciale tuttavia diritto locale e diritto romano probabilmente differivano: sull’ammissibilità di una convenzionale e totale esclusione dei diritti di patronato. In diritto romano non era infatti ammessa l’estinzione totale della condizione di liberto per rinunzia del patrono o per accordo tra patrono e liberto (Libertinae condicionis constitutis privatis pactis mutare statum non licere…), al punto che se l’accordo si estrinsecava in un processo per la proclamazione della libertà nel quale il dominus non faceva la dovuta opposizione fu consentito da un SC Ninniano dell’età di Domiziano di denunziare l’inganno e di far revocare la sentenza di libertà (42). La rigidità in materia, che si estendeva al punto da essere addirittura inefficace una posteriore arrogazione del manomesso da parte del patrono(43), era forse la conseguenza della peculiarità romana del conferimento all’ex-schiavo dello status di cittadino(44), che suscitava tra gli antichi, non romani, meraviglia ed ammirazione(45): celebre è la lettera di Filippo V agli abitanti di Larissa in Tessaglia del 214 a.C.(46) nella quale il re ricordava l’anomalo costume romano di accogliere gli schiavi manomessi nella civitas. Ma a frenare tale ammirazione ed a impedire che il liberto potesse convenzionalmente conseguire la completa libertà, svincolandosi totalmente anche dai iura patronatus, sussisteva il divieto del SC Ninniano, che non a caso è da Papiniano collegato al famoso principio dell’inderogabilità del ius publicum (Ius publicum privatorum pactis mutari non potest)(47). E persino Giustiniano, che ammise la rinunzia al diritto di patronato(48), lasciò sussistere il dovere di reverentia ed il diritto del patrono all’azione di revoca per ingratitudine.

E’ noto invece che nei papiri di età successiva alla Constitutio Antoniniana de civitate, è ammessa l’apposizione negli atti di manomissione della clausola liberatoria da ogni diritto o pretesa del dominus (…di liberare e sciogliere da tutti i diritti di patronato e da ogni potestà). E si è sostenuto che codesti tardi documenti - come PSI 1040, BGU 90 (III sec. d.C.), P.Oxy. 1205 del 291 d.C.(= CPJ 473) - non possano essere utilizzati per dimostrare l’esistenza del diritto di patronato nell’Egitto tolemaico, riflettendo certamente il diritto romano, in quanto posteriori alla concessione della cittadinanza(49). Ma già La Pira, acuto romanista fiorentino che in questa sede mi piace particolarmente ricordare, aveva notato l’estraneità di tali clausole al diritto romano, fornendo anche la ragione dogmatica del diverso regime: “mentre i diritti di patronato vengono considerati dal diritto classico come diritti agnatizi, e quindi non rinunziabili, essi vengono considerati nel diritto giustinianeo come diritti patrimoniali ai quali si può quindi perfettamente rinunziare”(50).

La vicenda infatti appare esemplare per illustrare un chiaro caso in cui Giustiniano - facendo salva la reverentia verso i patroni e la revoca della libertà per ingratitudine - accolse una pratica locale (51) alla quale Diocleziano aveva tentato di reagire con numerose costituzioni(52), ribadendo l’applicazione dei principi del diritto imperiale(53). Ma già nel 294 la revoca in servitù non poteva più dipendere solo dal mancato obsequium, ma piuttosto connettersi all’inadempimento di operae promesse(54), tra le quali anche la coabitazione, che restava tuttavia conseguenza eventuale – e non naturale – della manomissione (cum patrono habitare libertos iura non compellunt) (55).

Dunque i papiri del III sec. d.C. con clausola liberatoria dai diritti di patronato possono essere utilizzati non solo per testimoniare la differenza nel diritto dei Greci in Egitto tra paramoné – in essi non menzionata - e diritti di patronato, ma anche per dimostrare la possibilità di una esclusione totale e convenzionale nel diritto locale dei diritti di patronato, salva forse la debita reverentia e la revoca per ingratitudine; liberazione completa che solo per una casualità documentale, in conseguenza di un accentuato favor liberationis, appare nei papiri dopo il 212 d.C.

Soprattutto essi infine indicano la flessibilità di Rutilio Lupo e del suo consiglio, che si mostrano disposti ad esaminare un chirografo con una eventuale clausola invalida per il diritto romano e quindi appaiono propensi ad applicare ai locali pratiche estranee, ascrivibili ad un diritto dei Greci che lentamente tendeva a proporsi come “diritto degli Egizi”(56), giungendo - nel caso del diritto di patronato - a trovare applicazione nel diritto romano giustinianeo, in quanto corrispondente, non tanto a pratiche locali, quanto ad un più evoluto costume della società romano - cristiana.

Se posso infine concludere con una battuta, indubbiamente gli amministratori romani non avevano seguito corsi di papirologia giuridica alla Sorbona, ma certamente il diritto romano lo conoscevano!

© Gianfranco Purpura
Dipartimento di Storia del Diritto
Università di Palermo



Note:

1 Mitteis, Grundzüge u. Chrest., II, 2, Berlin, 1912, n. 81.
2 Modrzejewski, “La loi des Égyptiens”: le droit grec dans l’Égypte romaine, Proceedings of the XVIII Intern. Congr. of Papyrology (Athens 25 – 31 May 1986), II, Athènes, Greek Papyrological Society, 1988 (= Droit impérial et traditions locales dans l’ Égypte romaine, 1990, pp. 383 – 399.
3 Per primo Seidl, Rechtsgeschichte Ägyptens als römischer Provinz, Sankt Augustin, 1973, p. 133, esaminando la posizione dei liberti nell’Egitto romano ha affermato che: “1. Nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet… 2. Die Römer wollten ferner den Freigelassenen der Nichtrömer keine bessere Stellung einräumen als solchen der Römer”, proprio in riferimento al P. Oxy. IV, 706. In precedenza Mitteis, Grundzüge u. Chrest., cit., pp. 89 e s. - seguito da Taubenschlag, Die römischen Behörden u. das Volksrecht v. u. n. der C.A., ZSS, 49, 1929, pp. 115 ss. (Opera Minora, I, Warszawa, 1959, pp. 480 e s.) - aveva sostenuto l’applicazione di una regola alessandrina ad liberto di un egizio, divenuto alessandrino dopo la manomissione.
4 keleÚomen secondo Mitteis, Chrest., n. 81, l. 10, seguito da Harada, in ZSS, 58, 1938, p. 139.
5 Così già in Modrzejewski, La regle de droit dans l’Egypte romaine (Etat des questions et perspectives de recherches), Proceedings of the XIIth Int. Congress of Papyrology, American Studies in Papyrology,VII, Toronto, 1970, p. 336, accogliendo un’ipotesi di Wolff (RIDA, 7, 1960, p. 223 nt. 80 e di Seidl (SDHI, 27, 1961, p.485; Id., Rechtsgeschichte Ägyptens als römischer Provinz, Sankt Augustin, 1973, p. 133) suscitata anche dalle difficoltà interpretative del P. Oxy. IV, 706, ma rifiutata da Biezunska-Malowist, L’esclavage dans l’Égypte gréco-romaine, II, Wroclaw – Varsovie, 1977, p. 148 e Montevecchi, Aigyptios- Hellen in età romana, Studi Bresciani, Pisa, 1985, p. 347.
6 D. 1, 2, 32 pr.; Modrzejewski, La regle, cit., p. 336.
7 Wolff, Faktoren der Rechtsbildung im hellenistisch-römischen Aegypten, ZSS, 70, 1953, pp.42 ss.; Id., Neue Juristische Urkunden, VI. NÒmoj tÁj cèraj, nÒmoi tîn A„gupt…wn, ZSS, 96, 1979, pp. 268 ss.; Rea, The Oxyrhynchus Papyri, XLVI, 3285, Legal Code, Londra, 1978, pp. 30-38; Montevecchi, Aigyptios- Hellen, cit., pp. 347 e s.; Id., Greci: la coesistenza delle due culture nell’Egitto romano, Egitto e Società Antica, Milano, 1985, pp. 241 e s.; Bastianini, Le istituzioni pubbliche dell’Egitto romano, Egitto e Società Antica, cit., pp.197 ss.
8 P. Oxy. II, 237, col. VI, 17. La spiegazione dell’anomalia proposta da Montevecchi, Aigyptios- Hellen, cit., p. 348, che cioè il padre di Dionisia, sposato con una egizia, invocasse contro la figlia maritata con un egizio piuttosto la consuetudine giuridica egizia che dava, in caso di g£moj ¥grafoj, il diritto di riprendersi la figlia, analogo all’aferesi greca, è affrettatamente respinta da Modrzejewski, op. cit., p. 398 nt. 68, notando la grande rarità di questi matrimoni. Ma ciò non modifica in nulla la fondatezza della spiegazione proposta.
9 P. Caire dém. 89127-89130; 89137-89143; Mattha, Hughes, The Demotic Legal Code of Hermopolis, Le Caire, 1975 (IFAO, 45); P.Oxy. XLVI, 3285; Pestman, Le manuel de droit égyptien d’Hermoupolis. Les passages transmis en démotique et en grec, Textes et études de papyrologie grecque, démotique et copte, Leyde, 1985, (P.Lugd.Bat. 23), pp. 116 –143; Bresciani, Frammenti da un ‘prontuario legale’ demotico da Tebtuni nell’Istituto Papirologico G. Vitelli di Firenze, Egitto e Vicino Oriente, 4, 1981, pp. 201 – 215.
10 Modrzejewski, “La loi des Égyptiens”, cit., p. 397.
11 Montevecchi, Aigyptios- Hellen, cit., p. 348.
12 Significativa al riguardo è la disposizione del § 49 del Gnomon che vieta ai liberti degli Alessandrini di sposare donne egizie.
13 Purpura, KAQOLIKON DIATAGMA. Sulla denominazione dell’editto provinciale egizio, Studi Biscardi, II, 1982, pp. 507 ss. Diversamente in Modrzejewski, RHDEF, 69, 1982, pp. 495 e s.; Katzoff, Law as Katholikos, St. Schiller, 1986, pp. 119 – 126 e Martini, Su un preteso “Katholikon Diatagma” egizio, La codificazione del diritto dall’antico al moderno, Napoli, 1998, pp. 179 - 189. In realtà la qualifica di ƒerètaton (in BGU VII, 1578) non fu esclusiva di un editto imperiale, ma anche caratteristica di un editto prefettizio, come è dimostrato dal fatto che in SB XIV, 11980 così è denominata anche una Øpograf» del prefetto. D’altra parte è da ritenersi sicuro che lo stesso tribunale prefettizio fu per tutta l’età imperiale così qualificato, come risulta saldamente attestato nei papiri (P. Tebt. II, 434 = Mitt., Chrest. 51; Mitt., Chrest. 89; SB I, 4416; V, 7870; P. Hamb. I, 4 = FIRA III, 168; P. Mil. Vogl. III, 129; IV, 237; VI, 265; PSI VII, 806; P. Strass. IV, 196; P. Wisc. I, 33), e fu detto “sacro” nel medesimo papiro BGU VII, 1578. In proposito, ingiustificata è l’affermazione di Martini “che la frase ™pi tÕ ƒerÕn bÁma ™rcÒmenoj non possa in ogni caso spiegarsi pensando ad una richiesta di essere ammessi al conventus,…dal momento che…il nostro ØpÒmnema...parrebbe che fosse indirizzato al iuridicus, il quale nella specie fungeva anche da prefetto”, perché proprio in tale veste il funzionario avrebbe potuto presiedere il conventus ! Alla luce della circostanza che ƒerètaton è nelle fonti papiracee termine idoneo anche per l’editto del prefetto (Katzoff, Law as Katholikos, cit., p. 122 nt. 14), viene dunque superata la principale remora in dottrina ad ammettere che si tratti di un editto prefettizio e non imperiale (Lewis, Emperor or prefect, Le Monde Grec. Hommages à Claire Préax, Brussels, 1975, pp. 760 -765). La spiegazione proposta dell’anomala struttura del P. Yale II, 162 come editto prefettizio generale, non scossa dalle perplessità sollevate, continua a giustificare validamente, in assenza di una accettabile alternativa (non si tratta infatti di una nuova costituzione imperiale, come proposto da Seidl, Eine neue kaiserliche Konstitution über die Appellation, SDHI, 38, 1972, pp. 319 e s.; Id., Rechtsgeschichte Ägyptens als römischer Provinz, Sankt Augustin, 1973, p. 241, a causa della praescriptio edittale menzionante Petronio Mamertino e del riferimento a materie di giurisdizione prefettizia), sia la forma del documento (impersonale nella parte tralaticia, personale nelle effimere innovazioni di Mamertino), che i suoi contenuti, relativi ad una preventiva determinazione giurisdizionale, tanto civile che criminale, dei rapporti tra governatore d’Egitto ed amministrati, tipica di un editto de adventu. Ciò non esclude naturalmente che il termine kaqolikÒj, oltre che per l’editto, possa essere stato impiegato anche per indicare un precedente consolidato di generale validità ed applicazione, come sostenuto da Katzoff.
14 P.Oxy. II, 237.
15 Una rassegna della letteratura sulla paramoné e la sua natura (un tipo di contratto, una clausola contrattuale, una condizione attinente allo stato della persona) in Samuel, The role of Paramone clauses, JJP, XV, 1965, pp. 222 ss. e Waldstein, Operae Libertorum. Untersuchungen zur Dienstpflicht Freigelassener Sklaven, Stuttgart, 1986, pp. 92 ss. Adams, Paramoné und verwandte Texte. Studien zum Dienstvertrag im Rechte der Papyri, Berlin, 1964, estende molto il concetto di paramoné, come contratto di servizio. Cfr. Montevecchi, La Papirologia, Milano, 1988, p. 223. Cfr. per la paramoné in Grecia, oltre all’opera di Calderini, La manomissione e la condizione dei liberti in Grecia, Roma, 1965, Raedle, Untersuchungen zum griechischen Freilassungswesen, München, 1969, pp. 136 – 152; Albrecht, Rechtsprobleme in den Freilassungen der Böotier, Phoker, Dorier, Ost- und Westlokrer, Paderborn, 1978, pp. 189 – 200. Non ho potuto consultare Beauquier, Affranchissements et affranchis dans l’Égypte grecque et romaine, thèse de droit, Univ. de Paris II, 1979 (cfr. RHD, 57, 1979, p. 479). Ripetutamente Waldstein, Operae, cit., pp. 106 ss.; Id., Paramoné und operae libertorum, Festschrift Kränzlein, Graz, 1986, pp. 143 – 147, opponendosi alla tesi di Lambert (Les operae liberti, Paris, 1934), che tendeva ad assimilare la paramoné greco-ellenistica con l’obsequium romano, ha distinto nettamente la prima dal secondo sottolineando ad esempio la peculiarità della prestazione nel primo caso anche a soggetti estranei o la sua natura accidentale, non tutelata da specifica azione, ma seguendo un’opinione diffusa ha ritenuto che non vi sia prova di un obbligo relativo alle operae anche nel diritto ellenistico applicato in Egitto, trascurando non solo il P. Oxy. IV, 706 (cfr. Modrzejewszi, op. cit., p. 389 nt. 24; Id., JJP, XXI, 1991, p. 250), ma anche il P. Oxy. III, 494, che espressamente menziona douleia ed apophorai. Cfr. infra nt. 26.
16 P.Oxy. I, 48 dell’86 d. C. ; 49 (= Mitt.Chr. 359 = Meyer, Jur. Pap. 6) del 100 d.C.; 50 del 100 d.C.; IV, 722 del 91 o 107 d.C.(= Mitt.Chr. 358); P. Lugd. Bat. XIII, 24 del 98-117 d.C.; P. Oxy. II, 349 descr. (= SB I, 5616); P. Oslo III, 129 del III sec. d.C.; P.Oxy. IV, 723 del 138-161 d.C.; nella forma dell’omologia: P. Freib. II,10 (= Meyer, Jur. Pap. 7) del 195-196 d.C., proclamata da un araldo (come in P. Strasb 122 del 161- 169 d.C.); P. Strasb. 238 del 177- 178 d.C.
17 Ad es.: P. Petrie III, 8, col. I, 6-16; 8, col. II del 238-7 a.C.; P. Oxy. III, 494 (= Mitt.Chr., 305) del 156 d.C.; P. Lugd. Bat., XIII, 14 del II sec. d.C.; PSI XII, 1263 del II sec. d.C.; IX, 1040 del III sec. d.C.; P. Strasb. 264; 277. Un elenco in Montevecchi, La Papirologia, cit., p. 201.
18 Secondo Taubenschlag, Das Sklavenrecht im Rechte der Papyri, ZSS, 50, 1930, p. 165; Seidl, op. cit., p. 134 e Montevecchi, La Papirologia, cit., p. 201, “il liberto del gran dio Serapide” menzionato in BGU VII, 1564 del 138 d.C. dimostra che anche tale forma di manomissione fu impiegata in Egitto. Un altro caso sembra essere contemplato in P. Turner 26 del 193-8 d.C.
19 La paramoné è ad esempio prevista espressamente nella manomissione testamentaria riferita in PSI XII, 1263 del II sec.d.C.
20 Appare in papiri ed epigrafi a partire dal III sec. a.C.
21 Samuel, op. cit., p. 308.
22 Plauto, Menecmi 1032: Sed, patrone, te obsecro, ne minus imperes mihi, quam cum tuus servus fui. Apud ted habitabo, et quando ibis, una tecum ibo domum.
23 Fabre, Libertus. Recherches sur les rapports patron-affranchi à la fin de la répubblique romaine, Roma, 1981, pp. 131 ss.; praecipue, pp. 138 ss.
24 Nei testamenti romani frequentemente agli schiavi manomessi furono assegnate specifiche abitazioni. Cfr. ad es. il testamento di Longino Castore in BGU I, 326 del 191 d.C. In P. Oxy. XXII, 2349 del 70 d.C. un tal Dionisio appare come liberto del soldato romano C. Giulio Saturnilo, affrancato quando costui era ancora alessandrino (Biezunska-Malowist, Les affranchis dans les papyrus de l’époche ptolémaique et romaine, Atti XI Congr. Intern. Papirol., Milano, 1965, pp. 441 e s.). Per la gestione della cospicua proprietà terriera affidata a costui sarebbe stata indubbiamente più utile una residenza separata.
25 Così in PSI IX, 1040; BGU I, 90 del III sec. d.C.ed in P. Oxy. 1205 del 291.
26 P. Oxy. III, 494, l. 15.
27 Taubenschlag, The Law of Greco-roman Egypt in the light of the Papyri, Warszawa, 1955, pp. 100 e s.
28 Già rilevato da La Pira, Precedenti provinciali della riforma giustinianea del diritto di patronato, Studi Italiani di Filologia Classica, VII, 2, 1929, p. 151 nt. 1. Loreti Lorini, La condizione del liberto orcino nella compilazione giustinianea, BIDR, 1925, pp. 29 ss., ipotizza la sistematica interpolazione giustinianea di numerosi testi classici; cfr. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Roma, 1925 (rist. Milano, 1963, pp. 240 – 243), pp. 177 - 180.
29 D. 26, 4, 3, 3 (Ulp., XXXVIII ad Sabinumsed orcinus libertus effectus ad familiam testatoris pertinebit. In qua specie incipit tutela ad liberos patroni primos pertinere, quae ad patronos non pertinuit: quod quidem in omnibus orcinis libertis locum habet testamento manumissis); 40, 4, 48; 40, 5, 33 pr.; C. 6, 4, 4, 27; 7, 6, 1, 7; Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, p. 68 nt. 233.
30 Arpocrazione, Lexicon in decem oratores Atticos (p. 50): 'Apostas…ou: d…kh t…j ™sti kat¦ tîn ¢peleuqerwqšntwn dedomšnh to‹j ¢peleuqerèsasin, ™¦n ¢fistînta… te ¢p' aÙtîn À ›teron ™pigr£fwntai prost£thn, kaˆ § keleÚousin oƒ nÒmoi m¾ poiîsin. kaˆ toÝj mn ¡lÒntaj de‹ doÚlouj enai, toÝj d nik»santaj telšwj ½dh ™leuqšrouj. Sulla d…kh ¢postas…ou cfr. Lipsius, Das Attische Recht u. Rechtsverfahren, III, Hildesheim, 1966, pp. 621 ss.
31 Così in Foucart, De libertorum condicione apud Athenienses, Paris, 1896, p. 75 in base allo Schol. in Dem., C. Aristog. I, p. 792, 2 (¢postas…ou] aÛth d…kh ™stˆ kat¦ tîn ¢peleuqšrwn toÚtJ tù trÒpJ ginomšnh· e‡ tij Ãn ™leuqerèsaj o„kšthn, kaˆ êfqh prÕ toà crÒnou ¢nacwr»saj tÁj o„k…aj, ™gr£fou aÙtÕn ¢carist…aj, kaˆ e„ ¼lw, d…khn Øpe‹cen. ¢postas…ou d d…kh kat¦ tîn meto…kwn tîn m¾ ™cÒntwn pol…taj prost£taj. t¾n mhtšra oân toà 'Aristoge…tonoj æj doÚlhn ¡loàsan ™pwl»sate), debolmente contestato da Gernet, Droit et société dans la Grèce ancienne, Paris, 1955 (rist. 1964), p. 172 nt. 2, come “nota di data senza dubbio tarda, che sembrerebbe accordare il ricordo della paramon» - istituzione greca, ma non necessariamente ateniese – con l’idea più o meno precisa di una istituzione del diritto romano di epoca molto bassa, la revocatio in servitutem liberti ingrati”. Gernet, op. cit., p. 170 appare condizionato dall’ipotesi che la díke apostasíou non si riferisse ad accordi, come quello della coabitazione, ma esclusivamente a prescrizioni legali, che escludevano la paramoné.
32 Platone, Leggi XI, 915 a: ¢gštw d kaˆ tÕn ¢peleÚqeron, ™£n tij m¾ qerapeÚV toÝj ¢peleuqerèsantaj À m¾ ƒkanîj· qerape…a d foit©n trˆj toà mhnÕj tÕn ¢peleuqerwqšnta prÕj t¾n toà ¢peleuqerèsantoj ˜st…an, ™paggellÒmenon Óti cr¾ dr©n tîn dika…wn kaˆ ¤ma dunatîn, kaˆ perˆ g£mou poie‹n Ótiper ¨n sundokÍ tù genomšnJ despÒtV. ploute‹n d toà ¢peleuqerèsantoj m¾ ™xe‹nai m©llon· tÕ d plšon gignšsqw toà despÒtou. Sulla mancanza della paramoné in Platone v. Waldstein, Operae, cit., pp.102 - 105, che propone alcune spiegazioni.
33 Gernet, op. cit., pp. 169 ss., seguito da Biezunska-Malowist, Les affranchis, cit., p. 441 e da altri. Una nuova epigrafe gortinia relativa ad un decreto del II sec. a.C. sembra disciplinare la condizione dei liberti, che nel V sec. a.C. erano insediati in un quartiere cittadino determinato (Magnelli, Una nuova epigrafe gortinia in materia di manomissione, Dike, 1, 1998, pp. 97 e 112). Cfr. anche Helly, Lois sur les affranchissements dans les inscriptions thessaliennes, Phoenix, 30, 1976, pp. 153 – 156; Willetts, Freedmen at Gortyna, CQ, 47, 1954, pp. 216 – 219.
34 Segrè, Inscr. Cal., pp. 175 ss., seguito da Samuel, op. cit., 1965, pp. 291 ss.
35 Demostene, Or. Philippica I, 36. Altri testi in Gernet, op. cit. , p. 169 nt. 4.
36 Nonostante l’eccezione costituita dall’Inscr. Cal. n. 176, giustificata in base al mancato profitto del patrono (Samuel, op. cit., p. 292).
37 Calderini, La manomissione e la condizione dei liberti in Grecia, Roma, 1965, p. 283 nt. 2 ne desume quindi che a Calymna “non fosse data facoltà al liberto di liberarsi dalla paramona”. Per ultimo Babakos, ZSS, 81, 1964, pp. 37 ss., non seguito però da Kränzlein (TRG, 35, 1967, pp. 313 e s.) e Waldstein, op. cit., p 146 nt. 10, che rileva l’obbligo delle operae per i liberti municipali nella legge spagnola di Irni del I sec. d.C.
38 Sembra che Samuel (op. cit., pp. 226 ss.), nel tentativo di reagire a chi poneva i soggetti a paramoné in una condizione di semi-libertà, sia stato indotto a considerare gli affrancati esentati da ogni dovere di patronato.
39 Cfr. Albanese, Le persone, cit., p. 74 nt. 258.
40 Sturm, Droit suppletif en cas d’éviction de la regle normalement applicable, comunicazione presentata al Cairo nel dicembre 1983 alla XXXVII Sessione Internazionale della SIDA; cfr. il sunto nel rendiconto di Vigneron, in Labeo, 30, 1984, p. 121.
41 Gli ¢stikoˆ nÒmoi, le “leggi civiche”, se fossero state riferite ai romani avrebbero recato in Egitto, a differenza delle alessandrine, un’esplicita indicazione. Così Montevecchi, Aigyptios- Hellen, cit., p. 353 nt. 27. Diversamente Modrzejewski, “La loi des Égyptiens”, cit., p. 388 nt. 20.
42 C. VII, 20, 2 (a. 294); D. 40, 16, 1 (Gaio, II ad edictum praetoris urbani). Cfr. anche C. VII, 14, 8 (293); D. 40, 12, 37 (Callistrato, II quaestionum). Albanese, Le persone, cit., p. 28; p. 63 nt. 224; Wlassak, Der Gerichtsmagistrat im gesetzlichen Spruchverfahren, ZSS, 28, 1907, p. 93 nt. 2; Taubenschlag, Das röm. Privatrecht zur Zeit Diokletians, Bull. de l’Accadémie Polonaise des Sciences et des Lettres, 1919-1920, Cracovie, 1923, p. 151 (= Opera Minora, Warszawa, 1959, p. 15 e s.); Bartošek, De l’ingenuité en droit romain, Czasopismo Prawno Historycne, 3, 1959, pp. 12 ss.; Litewski, La retractatio de la sentence établissant l’ingenuitas, RIDA, 23, 1976, pp. 181 e s.
43 D. 1, 5, 27 (Ulpiano, V opinionum): Eum, qui se libertinum esse fatetur, nec adoptando patronus ingenuum facere potuit.
44 D. 38, 2, 1 pr.: …cum ex servitute ad civitatem romanam perducuntur.
45 Masi Doria, Civitas, operae, obsequium. Tre studi sulla condizione dei liberti, I, Civitas libertasque (= Zum Bürgrrecht der Freigelassenen, Festschrift Waldstein, Stuttgart, 1997, pp. 231ss.), Napoli, 1993, pp.1 ss.
46 Syll.3 543 = ILS 8763.
47 D. 38, 1, 42 (Papiniano, IX responsorum):…iuri publico derogare non potuit, qui fideicommissariam libertatem dedit. Sulla posizione del manumissore ex causa fideicommissi v. Albanese, Le persone, cit., p. 64 nt. 226.
48 C. VI, 4, 3 (529); cfr. VI, 4, 4, 1 (531); Albanese, Le persone, cit., p. 99 nt. 387.
49 Biezunska-Malowist, op. cit., p. 442.
50 La Pira, op. cit., p. 150. Analogamente Samuel (op. cit., p. 295) connette l’affrancamento in Grecia al concetto di proprietà. Libertà tuttavia non esclude doveri.
51 C. VI, 4, 3 (529); Bas. 49, 1, 28 [= C.VI, 4, 4 (531)]; Nov. 78, 2 (539). La Pira, op. cit., pp. 145 ss.; Harada, Der Verzicht auf den Patronat und das Gesetz Justinians in C. 6, 4, 3, ZSS, 58, 1938, pp. 136; Masi Doria, Bona libertorum. Regimi giuridici e realtà sociali, Napoli, 1996, p. 391 nt. 372.
52 C. VII, 20, 2 (a. 294); C. VII, 14, 8 (293).
53 D. 40, 12, 37 (Callistrato, II quaestionum); Albanese, op. cit., p. 28 nt.48; p. 99 nt. 387.
54 C. VII, 16, 30: Solo obsequii non praestiti velamento data libertas rescindi non potest. Così in Mitteis, Reichsrecht u. Volksrechte in den östlichen Provinzen des römischen Kaiserreichs, Leipzig, 1891, p. 392; Partsch, ZSS, 28, 1907, pp. 428 ss. (praecipue, p. 434); Taubenschlag, Das röm. Privatrecht zur Zeit Diokletians, cit., p. 227 (= Opera Minora, I, cit., p. 110). Cfr. anche Robleda, Il diritto degli schiavi, Roma, 1976, p. 49.
55 In C. VI, 3, 12 (293) (Qui manumittuntur, liberum ubi voluerint commorandi arbitrium habent nec a patronorum filiis, quibus solam reverentiam debent, ad serviendi necessitatem redigi possunt, nisi ingrati probentur, cum neque cum patrono habitare libertos iura compellunt) si è ritenuto interpolato l’inciso nisi ingrati probentur e si è affermato che Diocleziano non avrebbe innovato in tema di revocatio in servitutem estendendone ai figli del patrono l’esercizio contro il liberto ingrato. La novità, dovuta ad influenze greco-orientali sarebbe stata piuttosto di Costantino e limitata al solo patrono. Onorio invece avrebbe esteso la revoca agli eredi. Sul punto cfr. Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano, Milano, 1960, p. 115 e s. e la lett. ivi cit.
56 I casi della libertà del testatore e della costruzione su terreno altrui, sui quali Modrzejewski, op. cit., pp. 389 ss. e 394 ss., richiama l’attenzione, danno luogo ad una soluzione nel primo caso non accolta dai Romani, nel secondo senza contrasto tra diritto romano e diritti locali.