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IUS NAUFRAGII, SYLAI E LEX RHODIA.
GENESI DELLE CONSUETUDINI MARITTIME MEDITERRANEE




Convegno "La protezione del patrimonio culturale sottomarino"
Milano, 6 marzo 2002

In: Annali dell'Università di Palermo (AUPA), XLVII, 2002.

L'invito di Alberto Maffi - che ringrazio per avermi dato l'opportunità di partecipare a questo Convegno (1) - a riprendere la questione della lex Rhodia mi consente, non solo di tornare su quel tema affrontato in anni ormai lontani (2) , ma anche di approfondire ulteriormente le origini di un "problema maggiore della storia del commercio marittimo" (3) , di una legislazione che è stata ritenuta addirittura "l'unica legge greca che è giunta in forma vivente fino al mondo moderno" (4). Per restare aderente alle questioni trattate nel Convegno, ricordiamo che è stata proprio la legge rodia del mare ad essere infondatamente richiamata, non solo con un errore di datazione, nella sentenza del 24 marzo 1999 della Corte d'Appello degli Stati Uniti, IV circuito, menzionata da Tullio Scovazzi (5) , ma soprattutto in quanto legittimante una sorta di primitivo ius naufragii, il diritto d'impadronirsi dei relitti.
Non solo è inveterato, quanto errato, l'uso di considerare la legge rodia una sorta di contenitore di pratiche marine di qualsiasi tipo, ma se vi fu, come è assai probabile, una specifica legge rodia del mare, il suo intento era sicuramente contrario alla soluzione attribuita alla cd. "law of salvage".
Attraverso l'apporto delle fonti si può dimostrare l'infondatezza di tale legittimazione: in primo luogo una testimonianza di Tertulliano finora non adeguatamente valutata. In Adversus Marcionem (6) l'apologeta e giurista (7) ironizzava, richiamando la lex Rhodia, contro il suo avversario Marcione, eresiarca ed armatore di Sinope nel Mar Nero, che negava ogni autorità all'Antico Testamento e incorreva nell'errore giudaico di non riconoscere in Gesù il Cristo annunciato: come i Giudei, Tertulliano dice, certi che Cristo fosse uno straniero, lo respinsero e uccisero, non avendolo riconosciuto, così quell'armatore pontico si sarebbe attenuto, non alla mediterranea legge Rodia, ma proprio alla Pontica.
Se si tien conto del tópos antico che considerava il Ponto, regione marginale e selvaggia, zona di naufragatori e di pirati ove si era applicato il diritto d'impadronirsi dei relitti uccidendo o assoggettando a schiavitù i naufraghi stranieri (8), la contrapposizione tra legge inumana praticata nei confronti dei naviganti del Mar Nero e costume opposto ispirato all'ospitalità rodia, risalta con evidenza. Non solo, v'è ulteriore prova che la lex Rhodia riguardasse anche il diritto di naufragio per consentire però, come vedremo, l'approdo in caso di tempesta, ma sono numerose e concordi le testimonianze sulle pratiche pontiche, evidentemente non da intendere alla lettera come una vera e propria lex Pontica.
Un'altra testimonianza la rintracciamo nell'Anabasi di Senofonte (9) : "i Traci hanno posto delle stele che servono da confine e ciascuna tribù saccheggia i relitti che si arenano nella loro zona. Prima che fossero fissati tali limiti, spiegavano, molti di loro si uccidevano gli uni gli altri nel corso dei saccheggi". La zona di Salmydesso, infatti, sulla costa sud-ovest del Ponto, era da Eschilo denominata "matrigna di navi" (10) e della stessa nomea godeva il versante opposto della Bitinia pontica (11) . I trattati tra le comunità greche e pontiche denotano la necessità per i naviganti e gli indigeni di trovare soluzioni meno rudimentali. Nell'accordo tra il re pontico Sadala e la città di Mesambria, riferito in un'epigrafe del 280/270 a.C., sembra che la rinuncia alle pretese sui relitti e sulle navi di tale comunità greca si accompagni al versamento di un'indennità concordata di volta in volta sul valore, una sorta di riscatto (12) . Così intorno al 242 a.C. il dinasta bitinico Ziela concedeva protezione personale e reale, a tutti i greci approdati nel nuovo porto di Nicomedia (13), agli abitanti di Coos in particolare anche al di fuori della località indicata e se costretti ad uno scalo in territori vicini per avverse circostanze marine, il sovrano prometteva d'interessarsi affinchè i marinai non subissero alcuna ingiustizia (14).
Nell'età più antica la situazione era ancora più drammatica, poiché la pratica d'impadronirsi dei relitti, i "frutti del mare"(15), si applicava anche in Egeo, a Creta, a Schiro e forse nella stessa Rodi (16), non solo ai relitti spiaggiati o galleggianti, ma anche ai naufraghi e persino alle navi approdate integre senza autorizzazione, che avrebbero potuto essere sequestrate dall'autorità locale (17). In tale situazione primitiva sarebbe stato allettante per le popolazioni costiere accendere falsi fuochi sulla costa per determinare un dirottamento o un naufragio, o direttamente attaccare le navi in transito.
Occorre inoltre tenere conto dei diritti di rappresaglia, ampiamente praticati fin da età molto antica (18) : cioè delle sylai, che erano ritenute perfettamente legali e giustificate ancora nel V sec. a.C., come si legge in Erodoto VI, 101 (19), e che erano correlate ad un danno che la vittima cercava di evitare. L'atto presupponeva che l'autore e la controparte appartenessero a comunità, non legate da trattati giudiziarii che consentissero al danneggiato di adire tribunali della comunità dell'offensore. In genere in condizioni di reciprocità, comunità diverse avrebbero potuto con trattato garantirsi protezione, indicando un luogo determinato per gli scambi, una procedura, degli organi per la risoluzione delle controversie (20). In assenza di tutto ciò, il creditore insoddisfatto di uno straniero avrebbe potuto sequestrare i beni e la stessa persona in transito di un concittadino di colui che oggi indichiamo come debitore insolvente. Sul piano interno poi la vittima del sequestro avrebbe potuto ottenere eventualmente tutela e rivalsa. Sotto la protezione di un dio, in occasione di festività, in santuari denominati asili, luoghi appunto dove erano sospese le sylai, appartenenti a comunità diverse avrebbero potuto entrare impunemente in contatto, scambiando mercanzie prevalentemente nella forma di un commercio amministrato statale o intergentilizio, indipendente dalle leggi di mercato (21) . Ma anche sotto la protezione ed ospitalità di un potente straniero avrebbero potuto verificarsi un contatto e uno scambio che davano luogo alla diffusa prassi della frazione del symbolon ed alla possibilità per qualsiasi portatore dell'oggetto frazionato - riconoscibile solo unendo le due parti - di ottenere altrettanto (22). Nella valutazione dello straniero, come ospite sacro da proteggere o reietto maledetto dagli dei, le due pratiche, dell'ospitalità e della rappresaglia, determinarono fin dall'età più anticà un dualismo che proprio per tale antichità nnon è ascrivibile al progressivo affermarsi di istanze religiose o umanitarie nel mondo greco, come è stato sostenuto (23). Era evidente dunque che, non solo gli sbarchi dovevano avvenire in luoghi autorizzati ai pericolosi contatti con stranieri (santuari o emporia), delimitati da horoi (cippi di confine) e muri (kleistos limen) - che non servivano solo per difendere, ma anche per evitare la fuga imprevista - ma che inoltre fossero necessari accordi internazionali ed imprescindibile una soluzione per l'approdo forzato per avverse circostanze marine.
Sussistono numerose testimonianze epigrafiche di accordi che disciplinavano tra comunità diverse il diritto di rappresaglia, concedendo l'asylia in condizioni di reciprocità solo al porto presso la città (limen kata polin), come il trattato tra Oianthéia e Chaléion in Locride della fine del V sec. a.C. . (24) L'alta antichità di tali pratiche - non solo greche, ma generalmente mediterranee - che sopravvissero in certe zone in età storica, è indicata da numerose testimonianze: in un testo ugaritico, anteriore al 1185 a.C.(25), il re di Tiro informa il re di Ugarit che una sua nave in rotta per l'Egitto si trova a Tiro in seguito a naufragio per una tempesta torrenziale. Sono stati recuperati beni ed equipaggio e le mercanzie restituite ai naufraghi; che un'altra imbarcazione, evidentemente di un convoglio, è stata scaricata ad Acco. Sembra che il comportamento del re di Tiro si possa spiegare alla luce di un trattato del VII sec. a.C. tra un successivo reggente fenicio, Baal I, ed un re assiro (26), che consente l'applicazione alle mercanzie del ius naufragii, ma ammette, previa indicazione dei nomi, il rilascio dei naufraghi, ai quali non sarà fatto alcun male. Nel primo caso l'accordo prevedeva clausole più favorevoli, che nel secondo, ma in entrambi i casi si assicurava un'informazione altrimenti difficile a trasmettersi.
Il diritto di naufragio e il diritto di rappresaglia, sovente connessi in età antica, ma diversamente fondati (27) , appaiono nell'XI sec. a.C. nel papiro di Wenamun normalmente applicati ad una nave di Biblo sospinta dalla tempesta a Cipro (28). Il sacerdote egiziano che vi viene coinvolto in quanto imbarcato, subisce l'aggressione da parte dei locali, che vantano l'antico diritto di naufragio, e lui stesso pratica nei confronti della ciurma che lo trasportava analoga violenza e confisca, in base al diritto di rappresaglia (29). Nel relitto ritrovato ad Ulu Burun degli inizi del XIV sec. a.C., ad ulteriore riprova dell'alta risalenza di tali pratiche, un anello d'oro scisso a metà è stato ritenuto un sigillo intenzionalmente spezzato, ma potrebbe facilmente trattarsi di un symbolon, il più antico finora ritrovato (30). E' stato sostenuto che il Talmud di Gerusalemme, che ci consente in molti casi di risalire all'antica tradizione fenicia (31) , rechi traccia della primitiva concezione che ammetteva il ius naufragii: "l'oggetto salvato dalle zampe di un leone,…da una tempesta in mare… vi appartiene" (32), ma soggiungeva anche: "nel caso in cui il proprietario vi abbia rinunciato" (33) e tale postilla è stata ritenuta successiva ed ispirata alla nozione romana della derelictio, che ammetteva la perdita del dominio solo in presenza di una volontà in tal senso. Tuttavia il Talmud di Babilonia (34) non distingueva i resti del naufragio dagli oggetti abbandonati in seguito a iactus ed in entrambi i casi opponeva all'uso pagano di stimarli derelitti - e dunque soggetti all'inumano ius naufragii da debellare - la corretta pratica ebrea conforme al Digesto di considerarli sempre dell'antico padrone (35). Pare che in diritto greco il diritto di naufragio possa essere concepito come una occupazione di res hostium (36) , non di res nullius. Il fenomeno della derelizione sembra essere ignoto, persistendo il diritto del proprietario (37) . In base ad una legge di Solone l'invenzione di un tesoro implicava addirittura l'obbligo della pubblica denuncia sotto pena di morte (38) . La dottrina romanistica, fondandosi su concordi attestazioni nel Digesto, di Giavoleno, Giuliano, Gaio, Paolo Ulpiano, ha sempre negato l'esistenza in diritto romano del diritto di naufragio e ha sostenuto che i resti del naufragio (e pure le cose lanciate in mare durante una tempesta per alleggerire la nave) continuassero ad appartenere, ai legittimi proprietari (39) . L'antichissima usanza mediterranea sembra essere nettamente superata dagli orientamenti concordi della giurisprudenza ed anzi decisamente avversata da parte del governo romano(40) . Così ben radicato era in età classica il principio che le cose lanciate in mare per alleggerire la nave ed i relitti restassero dell'antico padrone, che Ulpiano non esitava a considerare la direptio ex naufragio un vero e proprio furto (41) e Cassio, seguito da Giavoleno, affermava che tutto ciò che è stato recuperato dal mare, non iniziava ad essere del recuperatore, se non dal momento in cui il padrone l'aveva dato per definitivamente perduto, essendo abbandonata qualsiasi speranza di recupero (42) . Poiché esistevano compagnie di sommozzatori per i recuperi (urinatores), la cui attività si è riscontrata ad esempio nel relitto del I sec. a.C. della Madrague de Giens ed è testimoniata in numerosi testi ed epigrafi (43) , nel caso di relitti e di res iactae ex nave l'apparenza delle circostanze obiettive non consentiva di per sé di valutare nella generalità dei casi, se il dominus li avesse o meno ritenuti per perduti definitivamente (44) . Per evitare che si potesse trarre giovamento da calamità di tal genere, l'acquisto era ammesso solo ove effettivamente il dominus avesse abbandonato del tutto ogni idea di recupero (45) . Significativo è il paragone che Giuliano istituisce tra le res ex nave iactae ed il fardello deposto per strada con l'intenzione di tornare a riprenderlo (46) . Sembra dunque che anche la nave galleggiante abbandonata dal proprio equipaggio ed i relitti fluttuanti - per i quali invece si è ipotizzato senza molta coerenza un regime diverso dai relitti spiaggiati o derivanti dal getto (47) e dunque la perdita della proprietà già all'atto dell'abbandono secondo la tesi sabiniana, o al momento in cui un soggetto se ne fosse impadronito, secondo i Proculiani (48) - si riconoscano, in generale nella valutazione della giurisprudenza, dell'antico padrone, se costui non ha abbandonato la speranza del recupero. Si poneva piuttosto il problema dell'accertamento in concreto di tale situazione, dell'onere della prova, se il rinvenitore potesse usucapire tali beni, eventualmente a che titolo, e in quali casi fosse proponibile l'actio furti. L'interpretazione dei testi relativi (49) , sulla scia delle Istituzioni giustinianee (50) , è stata tradizionalmente incentrata sull'individuazione dell'animus dereliquendi quale elemento essenziale della derelictio, la cui mancanza avrebbe impedito ai giuristi la possibilità di riconoscere nel getto delle merci in mare o nell'abbandono forzato della nave una vera derelictio (51) .
Solo Ulpiano si sarebbe discostato da tale opinione (52) , ma in realtà per escludere l'esperimento dell'actio furti nei confronti del rinvenitore in buona fede. Ma è stato osservato che gli elementi dell'abbandono materiale e dell'animus di non avere più la cosa come propria, cui fanno riferimento gli interpreti moderni quando valutano se il iactus sia o meno una derelictio, non risultano posti dai giuristi romani esattamente nei termini che si sono loro attribuiti (53) . Non solo il getto non era di solito effettuato dal padrone ed era scontato che non potesse apparire un abbandono, ma chiaramente l'attenzione dei giuristi appariva invece concentrata sulla questione se una res recuperata dal mare o respinta sulla spiaggia potesse apparire nella considerazione "normale" perduta definitivamente per il dominus (54) . Si escludeva quindi in tali circostanze la possibilità di acquisto del relitto da parte del rinvenitore, ammettendolo solo se costui fosse stato al corrente della circostanza che il padrone aveva abbandonato la cosa senza speranza di recupero. Era altresì escluso l'acquisto immediato al terzo, a meno che il getto o la perdita non fossero accompagnati effettivamente da animus dereliquendi, o esso non si fosse avuto successivamente. Solo da questo momento il terzo avrebbe potuto acquistare, ma alcuni escludevano la possibilità di usucapire. V'è chi però negava la possibilità d'esperire l'actio furti contro il terzo che si era impadronito del relitto, ma Ulpiano evidenziava che era necessario distinguere il caso di chi era al corrente dell'intenzione del dominus mirante al recupero, poiché in tal caso l'azione evidentemente sarebbe stata intentabile. Ma riteneva altresì che nella maggior parte dei casi la perdita si associasse alla convinzione dell'impossibilità del recupero e quindi che il rinvenitore potesse acquistare, non essendo naturalmente tenuto con l'actio furti, per cautelarsi però si usava emettere un libello in cui si affermava di aver rinvenuto la cosa e di esser pronto alla restituzione al legittimo proprietario(55) .
Nonostante l'opinione concorde della giurisprudenza, v'è chi ha sostenuto che in età imperiale sopravvivevano una molteplicità di consuetudini marittime contrastanti e che l'esempio più significativo di tale conflitto tra pratiche marittime diverse sia appunto costituito dal regime dei relitti (56) .
In materia, coesisterebbero tre diverse usanze: l'attribuzione del relitto a colui che se ne impadroniva; il sequestro e la vendita da parte di funzionari statali in base ad una prassi già adottata in età ellenistica; la restituzione al legittimo proprietario.
Pur non escludendo in genere, l'ipotesi della pluralità di consuetudini marittime vigenti nell'impero romano, sembra essere del tutto inesistente, tanto il presunto riconoscimento da parte dello stato romano del ius naufragii in alcune regioni, che il supposto diritto del fisco di sequestrare e vendere all'incanto i resti dei naufragi (57) .
I pochi testi addotti a sostegno di un sequestro fiscale possono essere facilmente spiegati, come conseguenza di una frequente contestazione relativa al mancato pagamento di dazi doganali d'importazione per le merci naufragate e recuperate (58) . In particolare, in D. 14, 2, 9 veniva richiamata la lex Rhodia proprio richiedendo l'esenzione doganale per le merci giunte in un porto, spinte dalla tempesta o per sfuggirvi e in Cicerone, ricalcando con ogni probabilità una fonte retorica rodia, si affermava che sussisteva una lex…apud Rhodios che prescriveva la confisca di una nave da guerra entrata in porto spinta dalla tempesta (59) .
Nel testo sembra quasi esservi un'eco della disposizione rodia, che esentava dal pagamento dei dazi doganali le navi mercantili sospinte in porto dalle intemperie, ipotizzata in base a D. 14, 2, 9, e che assoggettava invece a sequestro le navi da guerra (60) .
Una epigrafe incisa su di un muro della dogana dell'antico porto di Cauno (61) , città dei rodii, contiene un regolamento doganale che esenta da ogni tassazione, in base ad una legge pubblica, le navi spinte dalla tempesta nel porto o ivi facenti scalo per riparare le avarie o per svernarvi.
Tutta la storia della comunità rodia nell'età ellenistica è intessuta di episodi che rivelano l'importanza dei dazi doganali e l'assoluta necessità per i rodii di fissare una moderata ed equa regolamentazione doganale, volta a favorire i commerci e a reprimere, tra il III ed il II sec. a.C., la pirateria. È legittimo, allora, supporre l'esistenza di una precisa legislazione rodia sui dazi (portoria), nella quale si prevedeva l'esenzione doganale per le merci spinte in porto dalla tempesta e che essa fosse alla base della tradizione romana sulla lex Rhodia.
E' assai probabile che nel mondo egeo, nel momento in cui si rinunciò unilateralmente all'antico diritto di naufragio o all'applicazione delle sylai, per favorire gli scambi siano stati previsti da comunità più aperte, come la rodia, dazi d'importazione insieme ad una giurisdizione mercantile a parziale compenso delle perdite subite con l'abbandono del ius naufragii o delle sylai. Era da quel momento sicuramente ammesso il principio che la tempesta che costringe una nave da commercio ad un ingresso forzato in porto non implica una qualsiasi forma di assoggettamento, sia come pagamento del dazio, che come adempimento di una qualsiasi obbligazione. Così è nel VI sec. a.C. nel primo trattato tra Roma e Cartagine, nel III sec. a.C. nella concessione bitinica di Ziela, persino in età moderna la regola sarà mantenuta: alla fine del 1600 nel Regno di Napoli si afferma che la "navis vi tempestatis in Regnum appulsa, si exoneravit merces, non solvit gabellas neque tractas in hac Civitate, quia violenter venit" (62) . Quindi non gabellae neque tractae, né dazi e sequestri fiscali, né tratte e adempimento di obbligazioni, ancora rievocando le conseguenze del diritto di naufragio e delle antiche sylai.
Cicerone ricorda che: "…Rhodiorum…usque ad nostram memoriam disciplina navalis et gloria permansit" (63) , ma i problemi sollevati poi dalla lex Rhodia si presentano nelle fonti romane essenzialmente collegati all'avaria. Si pone allora la questione se la lex Rhodia sia stata un'unitaria "legislazione commerciale" elaborata in età ellenistica e recepita dai romani; o, piuttosto, una disposizione particolare greca di contenuto doganale, che contemplava però il principio della contribuzione in caso di avaria.
Il Digesto dedica un intero titolo alla legge rodia de iactu (64) e dimostra che l'interesse dei giuristi classici e dei compilatori di Giustiniano era soprattutto basato sul getto delle merci in mare ed sui problemi di ripartizione del danno tra i vectores. Sono poche infatti le questioni trattate nel titolo de iactu e, all'apparenza, non direttamente attinenti all'avaria (65) , ma facilmente ad essa riconducibili. Così è per un brano di Labeone (66) che sembrerebbe riguardare solo la corresponsione del nolo per lo schiavo morto in viaggio sulla nave, ma è possibile invece collegarlo alla pratica, in questo caso crudele, del iactus mercium. Cicerone nel De officiis, riferendosi al sesto libro dell'opera di Ecatone di Rodi, poneva cinicamente proprio la questione se fosse preferibile lanciare in mare uno schiavo di basso valore o un cavallo di gran pregio (67) . Non solo, come è noto, gli schiavi erano valutati alla stregua delle mercanzie, ma i padroni di nave avrebbero pur potuto prender parte alla ripartizione con i vectores per le perdite subite. Per fortuna, lo stesso Cicerone coglieva già la brutalità di pratiche siffatte e Paolo dichiarava per motivi umanitari che la perdita di uno schiavo per circostanze marine, sia che fosse stato lanciato in mare o morto per malattia nella nave o, addirittura, lanciatosi da se stesso in mare, non avrebbe dato luogo a contribuzione (68) . L'unica disposizione del titolo de iactu del Digesto non direttamente concernente l'avaria è D. 14, 2, 9, frammento fortuitamente sopravvissuto che consente di collegare la legge rodia alla disposizione doganale. Come si regolavano gli obblighi e le modalità di ripartizione degli oneri fiscali tra coloro che caricavano merci diverse su di una nave giunta a Rodi ed assoggettata al dazio, così nello stesso regolamento doganale avrebbero potuto essere disciplinate le modalità di ripartizione dei danni subiti dai mercanti che trasportavano merci su di una nave, rifugiatasi in avaria nel porto di Rodi, dove godendo dell'esenzione dai dazi e potendo riparare nei cantieri rodii i danni dello scafo, venivano scaricate sulla banchina le merci deteriorate e valutate le perdite, ripartendole tra i vectores.
L'antico principio fenicio (69) della spartizione dei danni, incentrato sul peso delle merci lanciate in mare, venne superato dalla probabile introduzione da parte dei rodii della spartizione delle perdite in base al valore delle merci, principio che fu fatto proprio dalla giurisprudenza romana.
Recentemente, in occasione di lavori di ristrutturazione del porto di Rodi, è stata scoperta una colonna in marmo bianco, insieme ad altre antichità oggi custodite nel Museo Archeologico (fig. 1). Ciò che distingue la colonna è un'epigrafe che menziona la lex Rhodia, citando il noto testo di Paolo tratto dal secondo libro dell'opera Sententiae, proprio come frammento d'inizio del titolo del Digesto de lege Rhodia de iactu (70) . Il bizzarro rinvenimento è stato ritenuto attendibile (71) e sembrerebbe a prima vista paleograficamente databile al II-III sec. d.C., anche se cautamente si afferma: "indipendentemente dal secolo di appartenenza della colonna che verrà definito dagli archeologi, per noi la presente scoperta è molto importante perchè è la prima volta che ci troviamo di fronte ad una testimonianza marmorea della lex Rhodia de iactu proveniente da un antico edificio portuale di Rodi".
L'epigrafe indica che chi voleva collegare il porto alla celebre legge, non essendo in grado di ricostruirne l'originario tenore, ha potuto tuttalpiù citare il celebre passo del giurista Paolo tratto da un'opera controversa e posto da Giustiniano in testa al titolo sulla legge rodia. E' accertato che a Rodi, ai primi del '900, una Missione Archeologica Italiana effettuò restauri di monumenti antichi (72) .
Si rileva comunque che se tutte le questioni marittime trattate nel titolo de lege Rhodia e nelle opere dei giuristi classici ivi inserite appaiono alla fin fine riconducibili al iactus (73) , tutto depone in favore del fatto che dell'antica disposizione doganale dei rodii la parte che più interessò i romani fu quella relativa all'avaria e che solo in età bizantina si verificò un ampliamento del riferimento alla legge per ogni tipo di pratica marina, nella compilazione redatta al tempo della dinastia iconoclasta (74) , il Nomos Rhodion Nautikos, che disciplinava il furto delle ancore tra imbarcazioni adiacenti o vietava addirittura di friggere pesci sulla nave, come misura di prevenzione per gli incendi; disposizioni queste, come altre, sicuramente indipendenti dal getto.
Restava tuttavia ancora vivo il ricordo esatto che la legge di Rodi che aveva favorito il commercio non era una sola, ma forse tante (75) , tutte però coerentemente connesse alla legge doganale applicata nel porto di Rodi, il demosionikòs nómos dell'epigrafe di Cauno, che stabiliva le formalità per l'ingresso in porto, l'ammontare dei dazi, i termini e le condizioni per l'imbarco e lo sbarco delle merci e le possibili esenzioni, soprattutto per cause marine.
Con il disfacimento dell'Impero romano e la disorganizzazione conseguente alle invasioni barbariche la vecchia pratica del ius naufragii era però destinata a tornare nel mondo occidentale (76) e ad influenzare poi in maniera indiretta una soluzione adottata dal Codice Napoleonico. Infatti in tema di relitti e di derelictio il Code Civil del 1804 non menzionava l'occupazione ed assegnava i beni senza padrone allo Stato (art. 713). Si trattava di un chiaro sintomo dell'avversione dei compilatori nei confronti della definizione del diritto di proprietà in chiave giusnaturalista e della resistenza a dare al diritto di proprietà un carattere dichiaratamente "civile"(77) . Ma in base all'art. 717 le c.d. épaves terrestri e marittime, delle quali non si conosceva il padrone, non venivano assegnate allo Stato, ma dopo la denuncia di rinvenimento ed il decorso di un termine di pubblicazione, avrebbero potuto essere attribuite al rinvenitore, giustificando l'anomalia con l'essere, non senza un padrone, ma con padrone ignoto. Dichiarava espressamente Proudhon: "Il diritto del relitto [d'épave, originariamente ex pave facta, cioè animali fuggiti per paura, quindi oggetti smarriti (Domat)] non è affatto venuto a noi dalle leggi romane… ma i signori esercitavano questo diritto, come altri, nell'ambito delle loro terre, sia in compensazione dei carichi d'amministrazione della giustizia, che d'indennità per gli alimenti forniti agli infanti abbandonati. L'anatema lanciato sul regime feudale dall'Assemblea Costituente il 4 agosto 1789 dovrebbe colpire il diritto d'épaves, come tutti gli altri diritti signorili…Ma si deve osservare che i relitti non si possono considerare come cose senza padrone, in quanto il loro padrone non è conosciuto al momento in cui sono trovati; e dunque non sono suscettibili né di occupazione, né di devoluzione a pieno diritto al fisco, come avverrebbe per le cose che non sono mai state nel patrimonio dell'uomo, o che sarebbero state positivamente abbandonate", ma "dopo i termini prescritti e le pubblicazioni disposte dai regolamenti, in quanto il padrone non si presenta per reclamare la proprietà, si presume che li abbia abbandonati ed allora solamente ricadono nella categoria di beni rimasti senza padrone", suscettibili di occupazione, diciamo noi.
Ne derivò l'esigenza d'introdurre l'occupazione e l'invenzione di cose perdute o derelitte nel nostro Codice Civile, come modo d'acquisto artificialmente distinto dall'occupazione, ma il Codice della Navigazione ricordava sempre l'obbligo di restituzione al proprietario, quando possibile (art. 510), devolvendo allo Stato gli oggetti d'interesse artistico, storico, archeologico, etnografico, etc... (art. 511).
L'assenza dell'occupazione nel Code Civil napoleonico ed il dominio eminente della Nazione sulle cose non in proprietà dei privati avrebbe dovuto invece coerentemente implicare l'assegnazione allo Stato. Se ciò non avvenne, non fu in ossequio ad una influenza romanistica, ma come espressamente dichiarato, per la sopravvivenza di un diritto di regalie feudali contrastanti con il diritto romano, cioè l'antico diritto di naufragio che si era perpetuato in età medievale e mantenuto in territorii ove meno forte o addirittura assente era stata la presenza statale, come in quelle acque, un tempo Mare Nostrum, successivamente non più soggette ad un'unica autorità.
Tertulliano, esperto di diritto, alla fine del II sec. d.C. si riferiva alla lex Rhodia come ad una legge contrapposta alla Pontica e dunque volta a favorire l'accoglienza dei naviganti stranieri, soprattutto in caso di necessità, superando le antiche pratiche del ius naufragii e delle sylai, ma imponendo la riscossione di dazi e disciplinando la ripartizione dei danni ed il sequestro di navi militari non autorizzate all'approdo. L'aver avviato a soluzione i due maggiori problemi che affliggevano il commercio marittimo antico (sylai e ius naufragii) attribuì a Rodi una fama marittima, che diede origine a quella che adesso possiamo considerare la "leggenda della legge Rodia del mare". Spetta ai giuristi romani il merito di aver creato una disciplina puntuale in tema di relitti e in tema di ripartizione dei danni derivanti dal getto, riconoscendo l'inidoneità dei relitti ad indicare l'intenzione o meno del proprietario al recupero. Non solo la legge rodia non fu una sorta di raccolta di usanze marine di qualsiasi tipo, ma il suo intento era sicuramente contrario alla prassi d'impadronirsi dei relitti, alla soluzione che si vuol seguire con la cd. "law of salvage", erroneamente ritenuta fondata su di una "venerabile legge del mare", su principi di diritto rodio e romano.


Gianfranco Purpura
Dipartimento di Storia del Diritto
Università di Palermo

 



Note:


1 L'articolo contiene una relazione presentata in occasione del Convegno "La protezione del patrimonio culturale sottomarino", Milano, 6 marzo 2002.



2 Purpura, Relitti di navi e diritti del fisco. Una congettura sulla lex Rhodia, Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo (AUPA), XXXVI, 1976, pp. 69 - 87; Id., Il regolamento doganale di Cauno e la lex Rhodia in D. 14, 2, 9, AUPA, XXXVIII, 1985, pp. 273 - 331.


3 Rougé, Recherches sur l'organisation du commerce maritime en Méditerranée sous l'empire romain, Paris, 1966, p. 398.


4
Tarn, Griffith, Hellenistic civilisation, Londra, 1952, p. 176.

5 Nel suo intervento in questo Convegno dal titolo: "The 2001 Unesco Convention On The Protection Of The Underwater Cultural Heritage".


6 Tertulliano, Adversus Marcionem, 3, 6, 1 - 3: "Cum igitur haeretica dementia eum Christum venisse praesumeret, qui numquam fuerat adnuntiatus, sequebatur, ut eum Christum nondum venisse contenderet, qui semper fuerat praedicatus; 2. Atque ita coacta est cum Iudaico errore sociari et ab eo argumentationem sibi struere, quasi Iudaei, certi et ipsi alienum fuisse qui venit, non modo respuerint eum ut extraneum verum et interfecerint eum ut adversarium, agnituri sine dubio et omni officio religionis prosecuturi, si ipsorum fuisset. Scilicet nauclero illi non quidem Rhodia lex, sed Pontica caverat, errare Iudaeos in Christum suum non potuisse, quando, et si nihil tale praedicatum in illos inveniretur, vel sola utique humana condicio deceptui obnoxia persuasisset Iudaeos errare potuisse, qua homines, nec statim praeiudicium sumendum de sententia eorum, quos credibile fuerit errasse".
Cfr. Martini, Tertulliano giurista e Tertulliano padre della Chiesa, SDHI, 41, 1975, pp. 109 e s.: "…del tutto ininfluente (e bislacco) appare il richiamo di Tertulliano alla lex Rhodia, contrapposta con chiari intenti retorici, ad una fantomatica lex Pontica (come legge, evidentemente, più importante perché di tutto il mare!)".



7
De Labriolle, Tertullien jurisconsulte, RHDEF, 30, 1906, pp. 8-27; Vitton, I concetti giuridici nelle opere di Tertulliano, Roma, 1924 (rist. Roma, 1972), p. 47; Herrmann, Tertullians Verfahrensrügen und die frühen Märtyrerakten, JJP, 15, 1965, pp. 151 ss.; Klein, Tertullian und das römische Reich, Heidelberg, 1968; Martini, op. cit., pp. 79-124, che nega l'identificazione con il giurista, ma ne riconosce la competenza giuridica; Beck, Rechtsgeschichtliche Bemerkungen zum Neudruck der Studien über Tertullian und Cyprian, Itinera Iuris, Bern, 1980, pp. 59-72; Reapsaet-Chalier, Tertullien et la legislation des mariages inégaux, RIDA, 29, 1982, p. 256 nt. 10, con altra letteratura.

8 Rougé, Le droit de naufrage et ses limitations en Méditerranée avant l'établissement de la domination de Rome, pp. 1472 ss. ; Vélissaropoulos, Les nauclères grecs. Recherches sur les institutions maritimes en Grèce et dans l'Orient hellènisé, Genève - Paris, 1980, pp. 157 ss.


9 Senofonte, Anabasi VII, 5, 12-13. Cfr. Vélissaropoulos, op. cit., p. 157.


10 Eschilo, Prometeo 727.


11 Senofonte, Anabasi VI, 4, 2.

12 Moretti, Iscrizioni storiche ellenistiche, II, 123; Rougé, Le droit de naufrage, cit., p. 1474 ; Vélissaropoulos, op. cit., pp. 160 e s.


13 Dittenberger, Syll3 I, 456. Rougé, Le droit de naufrage, cit., pp. 1474 e s.; Vélissaropoulos, op. cit., pp. 163 ss.



14 Dittenberger, Syll3 I, 456, ll. 41-45.


15 Gabrielsen, The naval aristocracy of hellenistic Rhodes, Cambridge, 1997, p. 108.


16 Plutarco, Cimone 8, 3; Inscr. Cret. IV, 184; Vélissaropoulos, op. cit., pp. 158 ; 160 ss.


17 Rougé, Recherches sur l'organisation du commerce, cit., p. 336 ; Vélissaropoulos, op. cit., p. 162: "la nozione di relitto… sembra aver avuto nell'antichità un significato molto più esteso che ai nostri giorni. In effetti, oltre ai resti di un bastimento naufragato, comprende anche tutte le navi salve ed intatte che, dirottate, approdano al di fuori del porto di uno stato straniero. Inoltre, la nozione di relitto non si limita ai soli oggetti materiali, ma si applica egualmente alla persona umana, naufragata o navigante a bordo della nave dirottata".



18 Dareste, Du droit des représailles principalment chez les anciens Grecs, REG, 2, 1889, pp. 305-320 = Nouvelles études d'histoire du droit, Paris, 1902, pp. 38-47; Ziebarth, Beiträge zur Geschichte des Seerabs und Seehandels im alten Griechenland, Hamburg, 1929, pp. 3 ss.



19 Vélissaropoulos, op. cit., pp. 146 ss.


20 Marotta, Tutela dello scambio e commerci mediterranei in età arcaica e repubblicana, Ostraka, V, 1, 1996, pp. 6 ss.


21 Marotta, Tutela dello scambio, cit., p. 6; Liverani, Prestige and Interest. International Relations in the Near East ca. 1600-1100 B.C., Padova, 1990, pp. 205 ss.



22 Purpura, Diritto, papiri e scrittura, Torino, 1999, pp. 167 ss.



23
Così invece in Rougé, Le droit de naufrage, cit., pp. 1468 e 1462; Manfredini, Una questione in materia di naufragio, Sodalitas, 5, 1984, Napoli, p. 2224. Cfr. Purpura, Il naufragio nel diritto romano: problemi giuridici e testimonianze archeologiche, Aupa, XLIII, 1995, pp. 463-476.


24 IG IX, 1, 333 = IG IX, I2, 717. Gauthier, Symbola, Les étrangers et la justice dans les cités grecques, Nancy, 1972, p. 222 ; Vélissaropoulos, op. cit., pp. 148 ss..


25 KTU 2, 38 (Dietrich, Loretz, Sanmartin, The Cuneiform Alphabetic Text from Ugarit, Ras Ibn Hani and Other Places2, Münster, 1995). Rougé, Le droit de naufrage, cit., pp. 1469 e s.; Vélissaropoulos, op. cit., p. 162; Wachsmann, Seagoing Ships and Seamanship in the Bronze Age Levant, London, 1998, p. 323 e 334 con lett. ivi cit.

26 Katzenstein, The History of Tyre, Jerusalem, 1973, pp. 267-276; Linder, Ugarit, a Canaanite Thalassocrasy, Ugarit in Retrospect, Winona Lake, 1981, p. 33 nt. 14, con lett.


27 Rougé, Le droit de naufrage, cit., p. 1473 rileva, ad esempio, la confusione di Laquer, Symbola peri tou men adikein, Hermes, 71, 1936, pp. 469-472 nell'attribuire i trattati tra città greche sul diritto di rappresaglia ad una limitazione del diritto di naufragio.


28 LAE 155 e 145 (Simpson, The Literature of Ancient Egypt, New Haven, 1972).


29 Wachsmann, op. cit., p. 324.


30 Purpura, Il naufragio, cit., p. 469.


31 Dauvillier, Le droit maritime phénicien, RIDA, 6, 1959, pp. 33-63 ; Rougé, Le droit de naufrage, cit., p. 1471.


32 Talmud di Gerusalemme, Shequalim VII, 2.



33 Talmud di Gerusalemme, Baba Qama X, 2.


34 Talmud di Babilonia, Baba Metzia (cfr. Rabbinowicz, Législation civile du Talmud, Paris, 1877-1880, III, pp. 103 e 111).


35 Rougé, Recherches sur l'organisation du commerce, cit., p. 406 invece considera l'interpretazione del brano (ivi, cit.) "molto oscura in quanto non si distingue sufficientemente tra relitto conseguente al naufragio e relitto derivante dal getto", ma così facendo presuppone un diverso regime in diritto romano tra i due tipi di relitti, regime del tutto inesistente.


36 Biscardi, Diritto greco antico, Varese, 1982, p. 193.

37 Klingenberg, Der Ring des Polykrates. Kannte das griechische Recht eine Dereliktion ?, Festschrift f. A. Kränzlein, Graz, 1986, pp. 43-52.


38 Biscardi, op. cit., p. 195.


39 Afferma, esplicitamente, Giavoleno (D. 41, 2, 21, 1 e 2): Quod ex naufragio expulsum est, usucapi non potest, quoniam non est in derelicto, sed in deperdito. Idem iuris esse existimo in his rebus, quae iactae sunt quoniam non potest videri id pro derelicto habitum, quod salutis causa interim dimissum est. Cfr. anche D. 14, 2, 2, 8 (Paolo); 41, 1, 9, 8 (Gaio); 14, 2, 8 e 41, 7, 7 (Giuliano); 47, 2, 43, 11(Ulpiano); I. 2, 1, 46. Sul naufragio in diritto romano cfr. Gandolfo, La nave nel diritto romano, Genova, 1883, (rist. Sala Bolognese, 1980), pp. 195-203; Andrich, Dig. It., XV, 2, p. 1303 ss., v. "naufragio"; Scialoia, Nuovo Dig. It., VIII, p. 865 ss., v. "naufragio". Alcuni passi contenuti in D. 47, 9 (De incendio, ruina, naufragio rate nave expugnata) mirano ad assicurare la tutela dei diritti del legittimo proprietario della nave naufragata. Sulla presenza della rubrica corrispondente a D. 47, 9 nell'editto pretorio, cfr. Lenel, Edictum perpetuum, Leipzig, 1927, p. 391 ss.

40 La persistenza in alcune regioni dell'impero di una pratica criminosa, volta a far naufragare le navi per impadronirsene, è attestata in D. 47, 9, 10 (Ne piscatores nocte lumine ostenso fallant navigantes, quasi in portum aliquem delaturi, eoque modo in periculum naves et qui in eis sunt deducant sibique execrandam praedam parent, praesidis provinciae religiosa constantia efficiant), ove è severamente repressa. L'intero titolo D. 47, 9 prova la sollecitudine verso una efficace tutela contro la vis esercitata nei confronti dei nautae. Cfr., inoltre, D. 48, 7, 1, 1 e 2.

41 D. 47, 9, 3 pr.

42 D. 41, 1, 58 : Quaecumque res ex mari extracta est, non ante eius incipit esse qui extraxit, quam dominus eam pro derelicto habere coepit.

43 Nardi, De urinatoribus, Atti dell'Accad. Delle Scienze dell'Ist. Di Bologna, Rendiconti, 73, 1984-5 (Bologna, 1986), pp. 51-63; Purpura, Il naufragio nel diritto romano, cit., p. 472.

44 Così già Vacca, Derelictio e acquisto delle res pro derelicto habitae. Lettura delle fonti e tradizione sistematica, Milano, 1984, pp. 98 e s.

45 Vacca, Derelictio e acquisto, cit., pp. 90 ss.; cfr. anche Solidoro Maruotti, Nuovi studi in tema di derelizione, Labeo, 33, 1987, pp. 216 e s.; Id., Studi sull'abbandono degli immobili nel diritto romano, Napoli, 1989, p. 160 nt. 245; p. 168 nt. 261.

46 D. 14, 2, 8.

47 Secondo Rougé, Recherches sur l'organisation du commerce marittime, cit., pp. 336 ss., alcune fonti retoriche che richiamano una lex non meglio precisata indicherebbero che la nave ed il carico andavano perdute con l'abbandono (Rhetorica ad Herennium I, 11, 19 : Ex scripto et sententia controversia nascitur, cum videtur scriptoris voluntas cum scripto ipso dissentire, hoc modo, si lex sit, quae iubeat eos, qui propter tempestatem navem reliquerint, omnia perdere, eorum navem ceteraque esse, si navis conservata sit, qui remanserunt in navi. Magnitudine tempestatis omnes perterriti navem reliquerunt - in scapham conscenderunt - praeter unum aegrotum: is propter morbum exire et fugere non potuit. Casu et fortuitu navis in portum incolumis delata est; illam aegrotus possedit. Navem petit ille cuius fuerat. Haec constitutio legitima est ex scripto et sententia; Cic., De inventione II, 153: Definitio est, cum in scripto verbum aliquod est positum, cuius de vi quaeritur, hoc modo: lex: qui in adversa tempestate navem reliquerint, omnia amittunto; eorum navis et onera sunto, qui in nave remanserint. Duo quidam, cum iam in alto navigarent, et cum eorum alterius navis, alterius onus esset, naufragum quendam natantem et manus ad se tendentem animum adverterunt; misericordia commoti navem ad eum adplicarunt, hominem ad se sustulerunt. Postea aliquanto ipsos quoque tempestas vehementius iactare coepit, usque adeo, ut dominus navis, cum idem gubernator esset, in scapham confugeret et inde funiculo, qui a puppi religatus scapham adnexam trahebat, navi, quod posset, moderaretur, ille autem, cuius merces erant, in gladium in navi ibidem incumberet. hic ille naufragus ad gubernaculum accessit et navi, quod potuit, est opitulatus. sedatis autem fluctibus et tempestate iam commutata navis in portum pervehitur. Ille autem, qui in gladium incubuerat, leviter saucius facile ex vulnere est recreatus. navem cum onere horum trium suam quisque esse dicit. Hic omnes scripto ad causam accedunt et ex nominis vi nascitur controversia. nam et relinquere navem et remanere in navi, denique navis ipsa quid sit, definitionibus quaeretur). Nel primo caso un ammalato abbandonato dall'equipaggio sulla nave sopravvissuta, la rivendicherebbe. Nel secondo, ancora più divertente, sono in tre a disputarsi la nave: un naufrago recuperato in precedenza in mare, ma postosi al timone, il dominus - gubernator, calatosi nella scialuppa per indirizzare la nave ed il padrone delle merci, che aveva tentato addirittura il suicidio, ma si era salvato. E' obiettivamente difficile valutare l'attendibilità e riferibilità di tali informazioni, ricalcate con deformazioni in altre fonti retoriche indicate da Rougé.

48 D. 41, 7, 2, 1 (Paolo); D. 47, 2, 43, 5 (Ulpiano).

49 D. 41, 2, 21, 1 (Giavoleno ex Cassio) ; 41, 1, 58 8 (Giavoleno ex Cassio); 41, 7, 7 (Giuliano ex Minicio); 14, 2, 8 (Giuliano ex Minicio); 41, 1, 9, 8 (Gaio); 14, 2, 2, 7 (Paolo); 47, 2, 43, 11 (Ulpiano).

50 I. 2, 1, 47

51 Vacca, op. cit., pp. 92 ss.

52 In D. 47, 2, 43, 11.

53 Vacca, op. cit., pp. 94 e s.

54 Vacca, op. cit., p. 97.

55 Vacca, op. cit., p. 118.

56 Rougé, Recherches sur l'organisation du commerce marittime, cit., p. 339 ss. ; 398 s.

57 Purpura, Relitti di navi, cit., pp. 69 - 87; Id., Il regolamento doganale di Cauno, cit., pp. 273 - 331.

58 C. 11, 6, 1; D. 39, 4, 16, 8; 47, 9, 7; Fortunaziano, Ars. ret., 1, 13.

59 Cic., De inv. 2, 32, 98 : Necessitudo autem infertur, cum "vi quadam" reus id, quod fecerit, fecisse defenditur, hoc modo:, ut, si qua rostrata in portu navis deprehensa sit, publicetur. Cum magna in alto tempestas esset, vis ventorum invitis nautis Rhodiorum portum navem coegit. Quaestor navem populi vocat; navis dominus negat oportere publicari. Intentio est: "Rostrata navis in portu deprehensa est". Depulsio concessio. Ratio "Vi et necessario sumus in portum coacti". Infirmatio est: "Navem ex lege tamen populi esse oportet". Iudicatio est: "Cum rostratam navem in portu deprehensam lex publicarit cumque haec navis invitis nautis vi tempestatis in portum coniecta sit, oporteatne eam publicari?".

60 Purpura, Relitti di navi, cit., p. 80.

61 Purpura, Il regolamento doganale di Cauno, cit., pp. 273 ss.; Merola, Autonomia locale, Governo imperiale. Fiscalità e amministrazione nelle province asiane, Bari, 2001, pp. 129 ss.

62 Cfr. Purpura, Il regolamento doganale di Cauno, cit., p. 331.

63 Cic., Pro lege Manilia 54, 5.

64 D. 14, 2.

65 Rougé, Recherches sur l'organisation du commerce, cit., p. 407, indica D. 14, 2, 7 ; 8 e 10 pr. come testi non concernenti l'avaria. I primi due testi, pur non riguardano direttamente la ripartizione, erano chiaramente connessi al getto [D. 14, 2, 7 (Paolo, l. 3 epitomarum Alfeni digestorum): Cum depressa navis aut deiecta esset, quod quisque ex ea suum servasset, sibi servare respondit, tamquam ex incendio ; D. 14, 2, 8 (Giuliano, l. 2 ex Minicio): Qui levandae navis gratia res aliquas proiciunt, non hanc mentem habent, ut eas pro derelicto habeant, quippe si invenerint eas, ablaturos et, si suspicati fuerint, in quem locum eiectae sunt, requisituros: ut perinde sint, ac si quis onere pressus in viam rem abiecerit mox cum aliis reversurus, ut eandem auferret].

66 D. 14, 2, 10 pr. (Labeone, l. 1 pithanon a Paulo epitomatorum): Si vehenda mancipia conduxisti, pro eo mancipio, quod in nave mortuum est, vectura tibi non debetur.

67 Cic., De Off. III, 89 : Plenus est sextus liber de officiis Hecatonis talium quaestionum,… Quaerit, si in mari iactura facienda sit, equine pretiosi potius iacturam faciat an servuli vilis. Hic alio res familiaris, alio ducit humanitas.

68 D. 14, 2, 2, 5 (Paolo, l. 34 ad edictum): Servorum quoque qui in mare perierunt non magis aestimatio facienda est, quam qui si aegri in nave decesserint aut aliqui se praecipitaverint. Così già in Rougé, op. cit., p. 402 nt. 1.

69 Dauvillier, Le droit maritime phénicien, cit., pp. 53 ss.

70 D. 14, 2, 1 (Paolo): Lex Rhodia cavetur ut si levandae navis gratia iactus mercium factum est omnium contributione sarciatur quod pro omnibus datum est. Si constata nell'epigrafe la variante testuale "sarcitur", invece di "sarciatur" della Florentina e l'assenza della lettera acca in "Rodia". E' interessante notare che "sarcitur" è emendato dagli editori delle Sententiae di Paolo in "sarciatur" e si riscontra in tutta la letteratura latina in un solo testo del giurista Ermogeniano, proprio nel titolo de lege Rhodia (D. 14, 2, 5). Sulla Scuola Italiana a Rodi cfr. Petrucioli, Archeologia e mare nostrum,

71 Giorgio Marcou, Nomos Rhodion Nautikos e la scoperta a Rodi di una colonna di marmo con l'iscrizione di Paolo (D. 14, 2), Studi in onore di Lefebvre D'Ovidio, I, Milano, 1995, p. 614.

72 Sulla Scuola Italiana a Rodi cfr. Petricioli, Archeologia e Mare Nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell'Italia. 1898/1943, Roma, 1990, pp. 149 ss.

73 In Relitti…, cit., p. 84 nt. 32 seguivo invece Rougè, op. cit., p. 407 nel supporre la presenza di frammenti concernenti questioni varie di diritto marittimo nel tit. de lege Rhodia de iactu del Digesto.

74 Sul Nómos Rodíon Nauticós, cfr. Ashburner, The Rhodian sea law, Oxford, 1909; Dareste, La lex Rhodia, RHD, 29 (1905), pp. 429 ss.; Marvulli, Nómos Rodíon Nauticós, Arch. Stor. Pugliese, Bari, 16 (1963), pp. 42 ss.

75 Isidoro di Siviglia, Orig. 5, 17: De Legibus Rhodiis, Rhodiae leges navalium conmerciorum sunt, ab insula Rhodo cognominatae, in qua antiquitus mercatorum usus fuit. Cfr. anche Bas. LIII, 1, 1 e Costantino Armenopulo, Mon. leg., 2, 11, 1.

76 Rougé, Le droit de naufrage, cit., p. 1479 ; Purpura, Il naufragio nel diritto romano, cit., p. 464. L'antico diritto di naufragio combattuto dall'impero romano appare ancora nella costituzione Navigia di Federico II, nella quale si escludeva ogni protezione per le navi (navigia) che piraticam exerceant pravitatem aut sint nobis sive Christiano nomine inimica.

77 Vacca, op. cit., pp. 3 ss.


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