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L’arte del dubbio. Critica della razionalità urbanistica

Una delle questioni cardinali dell'urbanistica è quella relativa alla conoscenza per il piano. Cosa conoscere per agire? Come acquisire conoscenza vera, legittimata e utile? Come possiamo essere sicuri di sfuggire alle aporie cognitive per non produrre effetti nefasti sulla città e per la comunità? L’assertività prodotta dalla conoscenza scientifica e l’incertezza generata del dubbio si rincorrono in una eterna e fertile gara epistemologica che risale all'alba della filosofia e che ha sempre stimolato la Planning Theory (M. Carta, Teorie della pianificazione, 2003). Il dubbio ha alimentato come un fiume rigoglioso la storia del pensiero filosofico, la maturazione del pensiero scientifico e ha forgiato i paradigmi più solidi e gli strumenti cognitivi più efficaci delle scienze sociali. È Sant'Agostino che per primo, alla fine del IV secolo, codifica le contraddizioni del dubbio: “se non ti è chiaro quel che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo. In questo caso senz'altro non ti si presenterà la luce di questo sole, ma la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” (De vera religione). Dubitare di tutto è quindi impossibile, perché non si può dubitare del dubbio stesso. Il dubbio, tuttavia, è per Agostino un passaggio obbligato per approdare alla verità: figlio della lezione socratica, il dubbio è espressione stessa della verità, perché non potremmo dubitare se non ci fosse una verità che tenta di sottrarsi al dubbio. La verità si rivela come consapevolezza dell'errore, come capacità di dubitare delle false illusioni che le sbarravano la strada.

Cartesio riprende la lezione agostiniana, ma la inverte, e anziché far scaturire il dubbio dalla verità, afferma che la verità scaturisce dal dubbio. Il “cogito ergo sum” si traduce in “dubito, quindi sono”: il dubbio, da espressione della verità, precede la verità stessa, è sua componente genetica. Diventa dubbio metodico, che si giustifica da sé, e al quale sottoporre ogni forma di conoscenza sul mondo. Il dubbio diventa genesi dell’episteme, proposto da Kant come metodo di indagine filosofica per indagare le possibilità di accesso alla verità: “questo tribunale non è altro che la stessa critica della ragione pura. Sotto questo titolo io intendo, non una critica delle opere [dei libri] e dei sistemi, ma quella della facoltà di ragionare in generale, in considerazione di tutte le conoscenze alle quali la ragione può tendere, indipendentemente da ogni esperienza” (Critica della ragion pura, 1781).
L’urbanistica, come le altre scienze sociali con cui condivide una parte dei paradigmi, metodi analitici e strumenti cognitivi, si è scontrata spesso con il dubbio come metodo di conoscenza di quella verità plurale che sta alla base dei suoi sillogismi progettuali. Una costante interrogazione attraversa l’urbanistica: quale conoscenza è necessaria? Chi la produce? chi la verifica? L’approccio cognitivo dell’urbanista non si limita a usare un metodo razionale e analitico, ma mette in campo anche elementi di apparente irrazionalità – la componente creativa – utili a produrre una conoscenza capace di mettere in discussione costantemente le valutazioni sistemiche alla complessità delle relazioni territoriali, ma anche capace di uscire dal circolo vizioso dell’incertezza e concorrere a progettare nuove complessità.

Il potere dell’abduzione
Il modo più efficace con cui l’urbanista può sfuggire alle aporie cognitive è attraverso l’abduzione, una modalità di conoscenza logica, introdotta da Aristotele nel IV secolo a.C. distinguendola dall'induzione e dalla deduzione (Analitici primi, II). Ma sarà in età contemporanea che il filosofo statunitense Charles Sanders Peirce ne estenderà il significato considerandola “il primo passo del ragionamento scientifico” in cui viene stabilita un'ipotesi per spiegare alcuni fatti empirici (Collected papers, 7, 1958).
Una urbanistica basata solo sulla conoscenza deduttiva agirebbe in un "contesto di comando", definito come quella situazione in cui l’autorità politica del piano cerca di controllare lo sviluppo in accordo con le proprie idee. In questo caso il processo formativo piano-territorio-soggetti è monodirezionale: il pianificatore deve possedere un’immagine degli utenti del piano e contemporaneamente il piano lavora per costruire una competenza di utilizzo dei codici del piano, introducendo categorie capaci di generare nuovi concetti di pianificazione. In questo modo un piano crea la struttura di riferimento dei suoi utilizzatori; il piano cioè, in quanto messaggio sul territorio, modifica i modi con cui i soggetti utilizzano il territorio, crea nuovi codici di utilizzo: pianificare diventa prima di tutto un’operazione semantica di segnificazione del territorio.
L’urbanistica basata sul metodo induttivo, che parte dai risultati e attraversa i casi particolari per pervenire alle leggi generali che li accomunano, trasmette una visione maggiormente concertata e adattativa, in cui la domanda sociale è assunta come elemento direttore del piano e come definitore delle finalità. In questo caso possiamo parlare di un "contesto di adattamento", cui gli urbanisti devono adattarsi agli interessi degli altri attori per ottenere dei risultati. Il piano diventa quindi il risultato di una complessa interazione fra i vari soggetti, e la pianificazione in un contesto di adattamento è una pianificazione del possibile – un'opera aperta che tutti i soggetti contribuiscono a scrivere – in cui vengono individuate le invarianti territoriali soggette a discipline inderogabili, definite le finalità generali per poi lasciare la possibilità ai cittadini di completare il processo secondo la complessità e la multiformità delle loro esigenze. È una urbanistica che propone scenari su cui attuare le decisioni, piuttosto che una difficile, e spesso frustrante, pianificazione delle previsioni.
Invece, una urbanistica che eserciti l’arte del dubbio utilizzando un metodo abduttivo si cimenta nel tentativo di codificazione di un sistema di regole alla luce delle quali un segno (una zonizzazione, una norma, un progetto) acquisterà il proprio significato. L’importanza della sperimentazione, della comparazione e della verifica nella ricerca – e nell’insegnamento – in urbanistica è sostenuta come produttrice di una verifica creativa, la cui creatività risiede nella possibilità che la sperimentazione concreta fornisca stimolo per l’elaborazione di nuove teorie o per la modifica di quelle consolidate. L’abduzione in urbanistica è quindi la fonte da cui attingere l’ipotesi progettuale che poi il “rigore del dubbio” dovrà sottoporre alla verifica della resistenza dei contesti per produrre conseguente norma e regolazione.
L'abduzione, per dirla con Peirce, è l'unica forma di ragionamento suscettibile di accrescere il nostro sapere, ovvero permette di ipotizzare nuove idee, di indovinare, di prevedere. In realtà tutte e tre le inferenze permettono un accrescimento della conoscenza, in ordine e misura differente, ma solo l'abduzione è totalmente dedicata a questo accrescimento. È altrettanto vero che l'abduzione è il modo inferenziale maggiormente soggetto a rischio di errore, e quindi altrettanto capace di generare serendipità.

La multiformità della conoscenza
Viviamo immersi nella molteplicità: delle idee, delle informazioni, delle culture e delle comunità. E la dimensione sempre più argomentativa e relazionale entro cui agisce l’urbanistica ha amplificato la necessità di cooperazione tra diverse discipline concorrenti (economiche, sociali, estimative, trasportistiche, fiscali, energetiche, etc.), tra conoscenze e interpretazioni plurali (formali e informali) e tra soggetti sempre più panottici (transcalari, pubblici e privati). Il paradigma della molteplicità cognitiva, prodromo dell’esercizio del dubbio, richiede quindi la necessità di una conoscenza proattiva, costantemente discussa e messa in discussione, e non puramente compulsiva, che orienti il pianificatore nel suo ruolo di interprete/attore di una logica conoscenza/azione in cui l’analisi dei fenomeni territoriali è sempre meno esclusivamente razionale e viene proficuamente ottenuta attraverso conoscenze molteplici, prodotte sia da visioni esperte che da punti di vista esperienziali, e alle quali viene richiesta la responsabilità di essere in grado di comporre una focalizzazione utile a indirizzare l’azione. In un articolo del 1985 Karen S. Christensen traccia la strada della epistemologia di una pianificazione fondata sul dubbio e sull’incertezza ontologica ("Coping with Uncertainty in Planning", Journal of the American Planning Association), infrangendo il tabù dell’approccio razional-comprensivo che tendeva a eliminare l’incertezza riducendo la complessità, per generare invece la feconda matrice di una conoscenza incrementale orientata all’azione. Ci consegna la consapevolezza del ruolo e della responsabilità del sapere esperto – ma mai apodittico – dell’urbanista di orientarsi tra i diversi saperi, per guidare efficacemente il passaggio dalla conoscenza all'azione nella progettazione e regolazione del territorio. Il rischio di tale visione è che senza adeguati indirizzi nel passaggio dalla conoscenza all'azione qualsiasi dato – oggi sempre più wiki e open – assuma rilevanza, senza alcuna gerarchia, e la pianificazione diventi una raccolta compulsiva di dati nebulizzati nella moltitudine piuttosto che una selezione orientata di conoscenze ordinate nella molteplicità.
Negli ultimi anni, a fronte di un progressivo ritorno alla dimensione cognitiva e alla disciplina della valutazione, le tensioni tra le diverse matrici della conoscenza non sono state indifferenti, tanto da determinare in alcuni urbanisti un atteggiamento superficiale – quando non esplicitamente conflittuale – nei confronti del rigore analitico, aprendo la strada a visioni fondate solo sulla comunicazione, sul decisionismo o sulla qualità formale del progetto, oscillanti tra la bulimia della pianificazione dialogica e l’esibizionismo dell’atto creativo delle archi-star.
La rilevanza della conoscenza proattiva implica quindi nuovi interrogativi per una visione dell’urbanistica che non voglia perdere sia la dimensione cognitiva che la concretezza delle soluzioni: la molteplicità non si limita alle ottiche, ma si trasferisce nelle pratiche e produce nuove domande. Chi pianifica? Chi sono gli attori della pianificazione e che ruoli esercitano? Chi sono i destinatari del progetto e quali nuovi sensori orientano la conoscenza? E, di conseguenza, come rendere condivisa la conoscenza tra tutti gli attori (portatori di interessi differenti e disponibili a differenti ascolti)? Come passare dalla conoscenza molteplice all'azione efficace, come trasformare i portatori di dubbi in produttori di risposte?
Il nodo della conoscenza riguarda la capacità di conoscere e la qualità di tale conoscenza, e si esplica attraverso alcuni interrogativi: nell'articolazione delle forme di conoscenza, alcune sono superiori alle altre? esiste una gerarchia nella rilevanza della conoscenza territoriale? come viene validata l'informazione territoriale prodotta dagli esperti di settore o dal pianificatore stesso? in quale misura e modi il sapere scientifico e tecnico del mondo può rendersi utile agli attori della trasformazione? e infine – recente interrogativo – in quale misura e attraverso quali forme la conoscenza locale ed esperienziale può essere utile alla pianificazione?
Il discorso su una conoscenza senza dubbi, e sulla sua rilevanza per l'azione, si è storicamente fondato sulle riflessioni filosofiche provenienti dalla tradizione illuminista, la quale partiva da due postulati: a) il mondo è conoscibile con oggettività solo attraverso gli strumenti della scienza e tale conoscenza è validata attraverso gli strumenti utilizzati per ottenerla, divenendo strumento utile alle decisioni, al governo delle trasformazioni diremmo noi; b) esiste una ininterrotta linea evolutiva tra il mondo fisico e il mondo umano, da cui consegue che la scienza del comportamento umano – compresa l'urbanistica – è un prolungamento della scienza naturale su altri piani, e quindi da essa assume strumenti e metodi.
La crisi delle certezze, l'evoluzione delle epistemologie e la consapevolezza del paradigma della complessità hanno inferto un duro colpo alla conoscenza "manipolativa", alla quale viene opposta la conoscenza "apprezzativa", cioè una conoscenza utile non solo a rappresentare il mondo come era fino all'istante precedente, ma a costruire immagini dell'evoluzione del mondo – della sua liquidità direbbe Bauman – esplicandone il valore simbolico, scoprendone la dimensione culturale, potenziandone la dimensione sociale.
I teorici della pianificazione più sensibili al mutamento e meno nascosti dietro le aporie sono in costante tensione per il rinnovo della loro epistemologia, incrementandone la capacità di valutare e utilizzare la molteplicità delle conoscenze. Il processo cognitivo di pianificazione deve alimentarsi non solo alla fonte pseudo-illuminista della conoscenza scientifica, ma anche a un sistema articolato, e interagente con la comunità, di conoscenze incerte e potenti. Esiste, infatti, una conoscenza simbolica e non verbale contenuta nel palinsesto territoriale e nel mosaico delle storie locali, spesso veicolata attraverso la comunicazione legata all’architettura e ai monumenti, attraverso le identità culturali e le tradizioni popolari, e trasferita alle consuetudini delle comunità. Ad essa si associa una conoscenza locale e identitaria prodotta dall’esperienza concreta della città e del territorio riflessa nella comunità: una conoscenza prodotta dall’interno dei luoghi, frutto di una compromissione affettiva con essi, esito dell’inviluppo delle molteplici trame identitarie che i luoghi esprimono in funzione delle comunità sempre più plurali che li fruiscono e li animano.
Ma esiste anche una conoscenza dialogica formata attraverso un processo permanente di ascolto, di dialogo e di interazione in cui i soggetti coinvolti esprimono un’alternanza feconda di ragione ed emozione, di fatti e sensazioni, di razionalità e istinto, al fine di ricomporre il palinsesto profondo dei luoghi. E’ una conoscenza tacita generata sulla base dell’esperienza quotidiana della comunità e depurata dalla riflessione tecnica che rischia di irrigidirla: compito dell’urbanista diventa quello di elevare il grado di conoscenza tacita per tradurla in conoscenza esplicita, cioè in conoscenza disponibile nel processo di partecipazione, capace di contribuire all’empowerment per riequilibrarne i poteri degli attori sociali nelle occasioni negoziali.
Va utilizzata anche la conoscenza proattiva prodotta da un apprendimento sociale nei confronti delle risorse materiali e immateriali del territorio. E’ una “conoscenza in progetto” in grado di produrre una modifica dei comportamenti attraverso un’azione di educazione diffusa fondata sull’armatura culturale e ambientale del territorio, che inviti i suoi abitanti all’esplorazione, incoraggiando rinnovi e trasformazioni autopromosse. E’ una conoscenza dinamica capace di leggere gli insediamenti nel loro mutamento, raccontando la struttura delle relazioni dinamiche tra quadri ambientali, matrici territoriali, forme sociali e morfologie insediative: una struttura che evolve nel tempo e nello spazio, assumendo confini mutevoli e sfumati, e che si configura come nucleo identitario aperto a differenti percorsi evolutivi, determinati dalle condizioni di contesto e dalle strategie degli attori locali e sovralocali.
Infine, va riconosciuto l’immenso valore della conoscenza distribuita ricavabile dalle migliaia di tasselli di informazione posseduti dai diversi attori che agiscono sul territorio, sia istituzionali che individuali, ma anche derivabili dalle migliaia di segnalazioni prodotte dai cittadini e dagli utenti delle città che transitano dai social network o dai blog. E’ una conoscenza figlia prediletta del dubbio, da esso alimentata e sua generatrice. Conoscenza cumulativa e settoriale, conflittuale e meticcia, resistente e antagonista e spesso trasmessa attraverso forme di comunicazione molto specifica e ristretta all’ambito di provenienza. Ma è altrettanto spesso costituita da una grande flusso costante e pervasivo di dati, che quindi necessita di adeguati traduttori e sintetizzatori per essere utilizzata proficuamente senza disperderne la carica di “setaccio della verità”.
I processi di urbanistica argomentativa e pianificazione strategica assumono sempre più spesso le forme e i caratteri di una “retorica in azione”: un dialogo che coinvolge differenti attori sui presupposti, sui contesti, sui testi e i materiali, agendo su contesti urbani in perenne evoluzione e rispetto ai quali l’analisi dei sistemi urbani svolge una funzione sia di scoperta che di creazione. Naturalmente va ripresa l’ambizione di un pensiero enciclopedico cartesiano di rendere conto delle articolazioni fluidi e in costante mutamento tra i settori disciplinari, poi frantumati da un pensiero illuminista semplificante e iperspecialistico che isola ciò che separa – scrive Edgar Morin – e occulta tutto ciò che collega, interagisce e interferisce (Introduction à la pensée complexe, 1990). Morin ci ricorda che il pensiero complesso aspira alla conoscenza multidimensionale, ma è consapevole in partenza dell’impossibilità della conoscenza completa, seguendo un principio di incertezza permanente che ci permetta di riconoscere sempre nuovi legami tra le entità, distinguendole ma non isolandole le une dalle altre. Contro la “barbarie della iperspecializzazione” che genera confini tra le discipline e inaridisce il campo della conoscenza argomenta con grande enfasi Giuliano da Empoli, invitandoci a diventare “ermafroditi mentali”, cioè capaci di incrociare conoscenze maturate in ambiti diversi per arrivare a una comprensione approssimativa della realtà, anziché al modello fallace di un mondo ideale (Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo, 2013).

Scritture collettive della città
Indagare, comprendere e orientare i linguaggi della città è sempre stata una delle sfide più esaltanti dell’urbanista, concreta ambizione di coloro che la riconoscono come complesso organismo intelligente, concretizzazione del patto di cittadinanza e generatrice di vita comunitaria, e non solo come organizzazione di funzioni o concentrato di patologie. La città è eminentemente enciclopedia della comunità, luogo in cui si ritrovano tutte le componenti della vita umana, la loro definizione ma anche i loro rapporti reciproci: essa guida gli usi e orienta i significati. La dimensione etica dell’enciclopedia urbana richiede, dunque, una vigorosa cultura politica che affianchi la tecnica urbanistica e che attribuisca un alto valore alla compartecipazione della conoscenza, dell’organizzazione e del governo del territorio. Pur avendo perso – o anestetizzato – la nostra capacità di leggere la città, ancor più oggi essa, come fenomeno intrinsecamente plurale, richiede letture, controlli e interventi che non siano espressione di ottiche parziali e settoriali, ma reclama un nuovo ruolo dei cittadini nella lettura/interpretazione/progettazione della città.
Nel secolo urbano in cui siamo immersi, la città da enciclopedia eteroscritta si evolve in quella che definisco una urban wikipedia: cioè un’opera cognitiva collettiva in cui gli abitanti e gli utilizzatori, i decisori e gli attori, i progettisti e gli attuatori compongono la struttura arricchendola continuamente con l’evoluzione degli usi, con l’interpretazione dei significati, con la volontà delle intenzioni (Reimagining Urbanism, 2013). A fronte di questa ricchezza epistemologica e nonostante una generale complessità e multidisciplinarità degli approcci e dei contributi, le metodologie, le pratiche e, soprattutto, gli esiti dell’analisi della città e del territorio hanno spesso adottato un atteggiamento consuetudinario, anestetizzando la carica creativa del dubbio. Una routine compulsiva e onnicomprensiva ha prodotto rappresentazioni che mostrano indifferenza nei confronti del territorio, delle sue leggi naturali e artificiali, del suo intreccio di strati e forme dell’abitare, del suo palinsesto di comunità e di culture, tentando di appiattire le imperfezioni verso regole predefinite, puntando su verità pre-confezionate piuttosto che verificate attraverso il dubbio, capace di agire sulle diversità, sulle rugosità, sulle identità e sulle singolarità come fattori di qualità e produttori di eccellenza. La wikipedia urbana ci richiede nuove epistemologie e rinnovate ermeneutiche capaci di produrre sensi mentre interpretiamo i significati, di generare città mentre la leggiamo, di creare verità mentre dubitiamo.
Leggere, comprendere, interpretare e veicolare i linguaggi della città oggi vuol dire mettere insieme diverse letture, non più perché si fronteggino e si scontrino alla ricerca di una lettura prevalente, ma perché si integrino in una lettura collettiva, completandone il senso, inteso come interpretazione attiva e coinvolgente della vita urbana, come adesione a un’identità in azione, capace di diventare progetto di futuro. Leggere la città vuol dire rappresentare la sua complessità, animarla, rivelare le forme che la configurano e le vite che la connotano.
Tuttavia, benché consapevoli del ruolo di indirizzo del palinsesto identitario, oggi il futuro di una città non e più esclusivamente scritto nel suo passato, ma deve essere immaginato, progettato e costruito in condizioni di perenne criticità, turbolenza e dubbio interpretativo. La lettura della città, quindi, non può essere azione solitaria, gesto ermeneutico dell’urbanista e atto maieutico dei decisori politici, ma deve essere sempre più lettura condivisa, lettura utile per una nuova disposizione degli assetti spaziali, per una ridistribuzione degli usi, per alimentare la creatività delle forme e per generare nuovi comportamenti dei cittadini.
Preziosi elementi di controllo dell’efficacia sociale della conoscenza sono la sua comunicazione e la sua circolazione immediata e continua, che non valgono tanto come strumento professionale dell’urbanista, quanto come patrimonio collettivo capace di risvegliare l’interesse dei cittadini e di alimentare il processo di costruzione sociale del piano, attraverso luoghi e occasioni in cui il progetto urbanistico si fa comunicazione e responsabilizzazione, estetica ed etica, pianificazione e visione. Proprio per questa sua vicinanza alla sfera della vita quotidiana dei cittadini, la conoscenza collettiva può porsi l’obiettivo di cogliere nella città quanto vi è di più sfuggente, indefinito e inaccessibile a chi guardi dall’esterno: le multiformi identità dei luoghi, il genius loci della cultura urbana europea.
Nella tradizione urbanistica contemporanea il metodo usato nell’articolazione delle modalità di indagine collettiva si trasforma in procedimento sociale che permette a chi prima era solo oggetto – mai protagonista – del discorso urbanistico di prendere la parola, con un notevole passo avanti almeno in alcuni dei problemi di comunicazione tra soggetti con diverso sapere. Un’analisi non puramente conformativa ma creativa deve sostenere la necessità di interazione tra soggetti diversi per modi e capacità di guardare e per conseguenti modi e capacità di agire nella società liquida che amplia il numero dei soggetti che concorrono all'elaborazione dell'azione critica e della conseguente decisione. Alla base delle nuove capacità dei decisori di regolare e degli urbanisti di progettare la città sta dunque la necessità di rivedere il processo semiotico di comprensione e di interpretazione non più come un insieme di regole predefinite e di assunzioni, dal momento che riguarda le nostre azioni e la nostra storia considerate nella loro globalità ed evoluzione creativa, ma si deve configurare come l’esito di un “dubbio sistemico” che si traduce in un processo di apprendimento, di educazione e di responsabilizzazione che deve essere capace di restituire la discorsività urbana come processo di educazione permanente.


Critica della razionalità urbanistica
Siamo sempre più immersi nella conoscenza distribuita, che genera una società affetta dal dubbio sistemico – quasi pandemico – in cui informazioni, contro-informazioni, opinioni e commenti formano una nuvola cognitiva che mette permanentemente in dubbio le verità. Orientarsi nella nuvola dell’incertezza richiede di innovare i processi di creazione, diffusione e ricambio delle conoscenze. Richiede un flusso costante, poderoso e pervasivo di conoscenza, di scambio di informazioni, di valutazione istantanea degli effetti delle azioni di governo delle città.
L'onnipresenza dei mezzi di comunicazione digitale e la diffusione dei social network cambia non solo il modo di comunicare, ma quello di pensare, valutare e decidere, ed alimenta il paradigma del dubbio come metodo di rivelazione della verità, chiedendoci di infrangere costantemente le verità rivelate e istituzionali e costruendo noi stessi un reticolo di verità parziali che si vanno costruendo nella relazione con altri tasselli di conoscenza prodotti dagli altri. E le conseguenze si ripercuotono su tutti i settori della vita: il lavoro, l’innovazione, lo studio, la coesione sociale, la politica, e quindi sulla loro concretizzazione spaziale, l'urbanistica. Emerge il bisogno di rafforzare il bagaglio di conoscenza, soprattutto quello dei decisori, sempre più positivamente affetti da dubbio sistemico piuttosto che portatori di aporie. E tale impegno non riguarda tanto la dimensione cognitiva e razionale quanto la pratica, l’emozione, la relazione e l’etica e inoltre la capacità di comprendere, indirizzare, cambiare e mobilitare saperi diversi al fine di generare risultati sempre più collettivi. E’ il know-how socio-culturale lo stock conoscitivo di maggiore importanza per fornire a chi detiene la leadership gli strumenti necessari a comprendere le dinamiche che si impegna a guidare.
La studiosa americana di social media Charlene Li, descrivendo la social networking society che segue, interagisce, giudica e critica i decisori in maniera costante, ci ricorda che siamo entrati in una democrazia molecolare e istantanea che ci impone di rivedere il modo con cui esercitiamo il ruolo di guida. Senza anestetizzare l’esercizio fecondo del dubbio, inseguendo una ipertrofica tempestività di risposta e di reazione (Open Leadership, 2010). Le mutazioni non riguardano solo la sfera politica, economica e relazionale, ma si trasferiscono con sempre maggiore pervasività sul piano urbanistico, sulla regolazione e progetto delle città, sempre più dense di intelligenza distribuita e di conoscenza aperta.
Nelle nuove urban smart communities si diffondono sempre più le piattaforme di servizi il cui valore risiede nelle funzioni offerte e riconosciute utili dagli utenti, che a loro volta le trasformano in ulteriori servizi agli altri utenti. E’ quindi importante che tra la piattaforma e gli utenti che le danno valore vi sia una sorta di complicità, di legittimazione reciproca e di riduzione del dubbio antagonista per incrementare quello che conduce alla verità. E questo può realizzarsi solo se la relazione tra la piattaforma e gli utenti è "trasparente", "aperta" e "autentica" e quindi viene compresa nel nuovo patto di cittadinanza. La democratizzazione delle conoscenze urbane impone una revisione dei tradizionali modelli cognitivi degli urbanisti, costringendoci a modificare non solo i protocolli con cui costruiamo la conoscenza per il piano, ma anche a forgiare nuovi strumenti di pianificazione: siamo di fronte alle prime forme di Open-source Urbanism (S. Sassen, 2011), le quali richiedono un processo decisionale più intelligente, dinamico e innovativo, e soprattutto distribuito e condiviso, ma che deve essere anche più sapiente, consapevole e responsabile.
L’ideologia dell’urbanista che esercita il dubbio è quella di chi anziché farsi portavoce del potere, rappresentante di una prefigurazione autoritaria e piazzista delle idee ricevute da una mente sovrana, diventa bricoleur e utilizza, ricomponendoli, i materiali che gli provengono dalla percezione condivisa della realtà, dall’arcipelago di dubbi in cui è immerso: l’urbanistica perde il mito della sua razionalità astratta e il suo carattere progettuale assoluto e si qualifica come attività ermeneutica di una comunità reale. L’opposizione tra urbanista-scienziato e urbanista-bricoleur è stata efficacemente descritta da Claude Lévi-Strauss (La pensée sauvage, 1962): il primo ragiona a partire da un problema che merita una soluzione senza vincoli a priori e attingendo a strumenti predefiniti, mentre il secondo è condizionato dagli elementi con cui si confronta, utilizza il sapere profondo costruito nella pratica del fare, scompone e ricompone certezze per adattarle alle sue esigenze. L’urbanista-bricoleur, quindi, innova procedendo per improvvisi cambi di direzione e punti di vista, attraverso una capacità di ricombinare costantemente gli esiti dell’esercizio del dubbio.
Noi urbanisti dobbiamo perseguire l’ulteriore impegno di indagare sulla trasformazione, di identificarne le dimensioni e di progettarne l’evoluzione, sapendo che le opportunità offerte dalla metamorfosi ci compensano largamente dalle inquietudini provocate dal rischio dell’inedito. L’urbanista che si sottopone al dubbio esercita una intelligenza che sa sfruttare il mondo circostante e che attinge continuamente alla conoscenza sedimentata nel contesto dell’agire: un urbanista che tesse relazioni con lo spazio dell’azione e con il contesto. E’ finito il tempo dei determinismi e degli assolutismi – spesso solo seducenti aporie. Una urbanistica alimentata dal dubbio sistemico non deve essere un nuovo mantra, ma deve aiutare le leadership e le tecnocrazie, i pianificatori e i progettisti del mutamento, gli attori della trasformazione e i soggetti sociali a comprendere quanto il tema dell’apertura, della validazione, della incertezza e della trasparenza li coinvolga in maniera potente. Un impegno da perseguire senza alibi e pigrizia, come esortava Platone nella Repubblica: “bisogna ridiscendere nella dimora degli altri e riabituarsi a vedere nell’oscurità”. Pianificare immersi nella nuvola del dubbio richiede quindi di elaborare nuove mappe per orientarsi, di dotarsi di nuovi sensori per percepire gli ostacoli, di forgiare nuovi strumenti per tracciare la direzione, ma soprattutto di possedere una rinnovata etica del dubbio che ci spinga a riconoscere nuovi orizzonti.
L’uomo continui a marciare sulla terra e sognare le stelle.

[© Maurizio Carta, pubblicato in "Le Nuove Frontiere della Scuola", n.34, 2014]