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Lezioni dalla crisi. Ripartire da città e comunità aumentate

di Maurizio Carta

 

In giorni infettati dal Covid-19 che espande la sua corsa attraverso il pianeta, in giorni passati in quarantena per proteggerci da un nemico invisibile, in giorni passati computando la inarrestabile espansione del contagio e valutando le drammatiche conseguenze sull’economia, molti non vedono l’ora che la crisi passi perché tutto torni come prima. io no! Io no, io non voglio che tutto torni come prima, perché è quello che facevamo prima che ha generato la pandemia, perché sono stati i nostri comportamenti a scatenare il virus, che, cacciato dal suo ambiente naturale, ha trovato una nuova specie da infettare: noi. Allora io vorrei trasformare l’auspicio #andràtuttobene, che ci ripetiamo per consolarci, in #dovràandaretuttomeglio, da ripeterci per stimolarci a cambiare, a usare la crisi come una metamorfosi di tutto quello che abbiamo sbagliato, a partire dalle città, il nostro habitat.

Da urbanista, sono convinto che serva, infatti, una riflessione competente e di sistema per imparare dalla crisi, per capire non solo quali debbano essere i nuovi comportamenti per fermare l’epidemia, ma soprattutto come rivoluzionare i nostri comportamenti dopo, una volta sconfitta la pandemia, e come evitare – o mitigare – nuovi casi simili (ci saranno se non cambiamo modello di sviluppo).

Significa capire in che modo debba cambiare il nostro stesso modello di sviluppo e il nostro modo di abitare il pianeta, come scrivo nel mio libro “Futuro. Politiche per un diverso presente” (Rubbettino, 2019), in cui propongo le azioni necessarie per sfuggire ad un futuro che ci sorprenda con le sue drammatiche epifanie – come l’apparizione improvvisa (ma annunciata) del coronavirus e la sua drammatica espansione – adottando invece un atteggiamento proattivo che ci consenta di agire oggi, cambiando molte distorsioni della nostra relazione con la natura, progettando un futuro che non sia distopico, ma seducentemente “protopico”. «La tempesta – ha detto Papa Francesco nella sua dolente e potente benedizione Urbi et Orbi del 27 marzo – smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».

Già in un rapporto del 2007 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci metteva in guardia sulle infezioni virali come una delle minacce più consistenti in un pianeta sottoposto al grave cambiamento climatico (World Health Organisation, A Safer Future. Global Public Health Security in the 21st century, The World Health Report 2007), e lo ripeteva, con quella che oggi appare una profezia, ma era solo profonda conoscenza del mondo, nel 2015 Bill Gates in una TED Conference. I virus, infatti, essendo patogeni che non vivono senza le cellule animali, cercano sempre nuovi ospiti. E noi gli abbiamo aperto le porte: le variazioni di pioggia e umidità, il riscaldamento, la vorace espansione urbana cambiano le interazioni tra le diverse componenti biologiche e quando le nicchie ecologiche si spalancano, i virus colonizzano un nuovo essere (noi) comportandosi inizialmente in modo molto aggressivo (D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Milano, Adelphi, 2014).

Numerosi segnali ci dicono che oggi non siamo di fronte a un “cigno nero” (un evento improvviso e imprevisto), ma che siamo alla fase apicale di una crisi pandemica che si diffonde dal Secondo Dopoguerra (J. R. McNeill, P. Engelke, La Grande accelerazione. Una storia ambientale dell'Antropocene dopo il 1945, Torino, Einaudi, 2018) e che aveva trovato un primo allarme negli anni ‘60 del XX secolo, quando esplosero le contraddizioni del capitalismo prodotto dalla Rivoluzione Industriale e iniziò a diffondersi la consapevolezza che il modello di sviluppo occidentale producesse diseguaglianze sociali, un impoverimento culturale, un consumo di risorse fisiche molto oltre i limiti del pianeta e un susseguirsi di crisi economiche derivate (il rapporto del Club di Roma sui “limiti dello sviluppo” è del 1972!). Oggi, nell’era della Pandemia Climatica abbiamo l'obbligo di ripensare radicalmente il modello di sviluppo assecondandone la sua metamorfosi verso una resilienza strutturale.

Siamo oggi in pieno Antropocene, l’era dell’accelerazione delle modifiche territoriali, sociali, economiche e climatiche prodotte dall’umanità sbaragliando tutte le altre specie viventi e diventando la più potente forza che deforma l’ambiente (P. J. Crutzen, E. F. Stoermer, Benvenuti nell'Antropocene. L'uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Milano, Mondadori, 2005). L’Antropocene urbano, l’urbanizzazione espansiva, ha divorato il suolo naturale, le strutture identitarie dei palinsesti culturali e le trame vegetali delle città, ha invaso ecosistemi delicati. Gli habitat urbani hanno invaso gli ecosistemi naturali, risvegliando ed espandendo malattie prima confinate e separate negli ambienti silvestri. È stata devastata la capacità degli insediamenti urbani di intrattenere le necessarie relazioni omeostatiche con le componenti naturali, è stato spazzato via il valore rigenerativo della cura dei luoghi di vita, così come sono stati interrotti o deviati i naturali processi circolari e armonici tra uomo e natura.

Come uscire dalla crisi ambientale planetaria (che è anche sanitaria, sociale ed economica come stiamo vedendo in questi giorni drammatici)? La risposta deve essere un nuovo approccio responsabile e militante non solo per ridurre l’impronta ecologica delle attività umane, ma per utilizzare la nostra intelligenza a servizio della sensibilità nei confronti dell’ambiente, delle persone e del patrimonio culturale, per ripensare le città come luoghi del nostro abitare in armonia con la natura, in equilibrio con le altre specie viventi, in omeostasi con il pianeta, ma soprattutto per aggiornare l’idea delle città come luoghi privilegiati della salute pubblica, come è stato alla nascita dell’urbanistica moderna alimentata dalla matrice sanitaria: pensiamo ai piani di Londra e Barcelona pensati proprio per contrastare le epidemie.

Significa tornare – come abbiamo sempre fatto storicamente in Italia – a progettare città compatte ma porose alla natura, con un più adeguato metabolismo circolare dell’acqua, del cibo, dell’energia, della natura, dei rifiuti, delle persone e dei servizi. Significa rendere resilienti i luoghi e le reti della salute pubblica come indispensabili diritti alla città. Sono quelle città che io chiamo Augmented Cities capaci di amplificare la vita comunitaria senza divorare suolo, identità, energia: città più senzienti per capire prima e meglio i problemi, più creative per trovare risposte nuove, più intelligenti per ridurre i costi, più resilienti per adattarsi ai cambiamenti, più fluide per accogliere le diversità, più produttive per tornare a generare benessere, più collaborative per coinvolgere tutti e più circolari per ridurre gli sprechi ed eliminare gli scarti (M. Carta, Augmented City. A Paradigm Shift, ListLab, 2017).

E’ venuto il momento di entrare nel Neoantropocene, che definisco come una nuova era in cui l’umanità invece di essere il problema progetta e mette in atto la transizione verso lo sviluppo sostenibile, riattivando l’antica alleanza tra componenti umane e naturali come forze coagenti: un antropocentrismo sensibile, rispettoso e temperato volto a riposizionare l’umanità in uno schema integrato, ibrido, con la natura. E lo strumento del nuovo paradigma ecologico non può che essere una nuova “urbanistica circolare” (M. Carta, B. Lino, D. Ronsivalle, a cura di, Re-cyclical Urbanism, ListLab, 2016), capace di progettare e rigenerare città, territori e paesaggi riattivando i loro naturali metabolismi, lavorando sugli scarti, progettando il riciclo e contrastando l’obsolescenza programmata delle città dell’Antropocene predatorio con la sua famelica necessità di espansione. Serve un nuovo paradigma di sviluppo che riattivi la fertile alleanza tra dimensione urbana e dimensione rurale, guidando adeguate strategie reticolari (J. Schröder, M. Carta, M. Ferretti, B. Lino, eds., Territories. Rural-Urban Strategies, Berlin, Jovis, 2017) e, inoltre, in grado di ripensare i pattern insediativi eliminando il concetto di periferia come scarto prodotto dalla famelica espansione insediativa e relativa concentrazione di valori immobiliari e finanziari e stimolando la creatività degli habitat resilienti che stanno producendo pratiche del coraggio in varie parti dell’Europa (J. Schroeder, M. Carta, M. Ferretti, B. Lino, Dynamics of Periphery. Atlas of Emerging Creative Resilient Habitats, Berlin, Jovis, 2018).

Soprattutto, per agire nella nuova economia del Neoantropocene dobbiamo pensare con una mente del XXI secolo e non più secondo i canoni del Novecento, come ci indica con chiarezza Kate Raworth (L'economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Milano, Edizioni Ambiente, 2017), proponendo di cambiare l'obiettivo dalla crescita del Pil al rispetto dei diritti degli uomini e del pianeta e di inserire l'economia nel contesto più ampio della vita naturale, fuori della quale non c'è altra ricchezza possibile. Serve quindi comprendere la complessità dei sistemi, ben più interconnessi e articolati di quando furono tracciate secondo un equilibrio meccanico le curve del mercato e della domanda e soprattutto progettare per redistribuire, superando l’aporia per cui la disuguaglianza sarebbe stata curata dalla crescita. La pandemia ci insegna che dobbiamo tornare a progettare per rigenerare, poiché il degrado ecologico prodotto dal Paleoantropocene si è rivelato non curabile con la crescita, che anzi è stata un oltraggioso predatore di risorse vitali del pianeta.

La rigenerazione degli habitat umani dopo la crisi, quindi, la rinascita delle nostre città quando usciremo dalla penombra delle nostre case per tornare ad abitare lo spazio collettivo pretendono di ripensare il modo con cui viviamo, apprendendo dalle nuove pratiche che abbiamo sperimentato in questi giorni di doloroso “distanziamento sociale”, mantenendo tutta la creatività della relazione digitale matura che abbiamo intessuto in queste settimane, conservandola come complemento della ritrovata relazione sociale in presenza. Nel concreto, alla rigida separazione – figlia invecchiata male del Movimento Moderno – dei luoghi dell’abitare, del lavorare, del divertirsi o del produrre – con la loro insostenibile domanda di mobilità fisica – dobbiamo sostituire un progetto urbanistico prima, e architettonico dopo, di luoghi circolari – come le barriere coralline – che, amplificati dall’innovazione tecnologica e digitale, possano accogliere funzioni temporanee e multiple entro un ciclo che guardi all’intera giornata o all’anno nella distribuzione delle funzioni, nell’attrazione di usi temporanei, nell’accoglienza di funzioni ad elevata carica di innovazione, nel rifugio di cittadinanze in difficoltà.

Non più luoghi rigidi con una lunga inerzia all’accoglienza di nuove funzioni, ma luoghi flessibili, mutaforma in poco tempo per adattarsi alle esigenze sempre più fluide delle città postpandemiche. Cambieranno case, scuole, ospedali, uffici, dopo aver scoperto nuove funzioni da contenere o da eliminare e la necessità di scambiarsi funzioni. Soprattutto, non più la tradizionale elencale presenza di case, scuole, uffici, piazze, strade, parchi, ospedali, teatri, ma un fertile bricolage di luoghi che, quando serve, siano insieme case, scuole, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, luoghi di cura, interpretando più ruoli ciclici.

Mentre siamo reclusi a casa, mentre troviamo rifugio nello spazio domestico, dobbiamo cominciare a pensare, quando ne usciremo, come riaffermare, innovandola, la nostra “società aperta”, come rimettere in moto la macchina della democrazia aperta, per riattivare le città come potenti generatrici di libertà, diritti, uguaglianze, cultura perché luoghi della pluralità e della relazione: un sistema di individui sociali che escono dalla propria tribù e si rapportano, con nuove e più adeguate precauzioni sanitarie, con il ricco tumulto della comunità, tornando a esercitare una fruttosa prossemica (H. Hall, The Hidden Dimension, 1966)

La sfida per le città postpandemiche sarà quella di recuperare il loro naturale policentrismo, la diversità dei loro quartieri e borgate che, smettendo di essere fragili periferie, tornino ad essere luoghi di vite e non solo di abitazioni, colmando il divario educativo, lavorativo, culturale, digitale, dotandosi di micro-presìdi di salute pubblica e di comunità energetiche autosufficienti. Immagino città di una rinnovata prossemica urbana composte da "comunità urbane aumentate" che riducano la loro forsennata mobilità centripeta e che agevolino una mobilità più misurata garantendo la risposta a molti bisogni entro un raggio di 15 minuti a piedi (lo stanno già facendo Parigi e Milano). Servirà quindi estendere lo spazio domestico ampliando quegli spazi intermedi che possono consentire una vita di relazioni in sicurezza: allargare i marciapiedi e prevedere pedonalizzazioni temporanee per ampliare gli spazi per il gioco e l’attività fisica dei bambini, realizzare nuovi interventi di urbanistica tattica per la collocazione di sedute anche per i bar e i ristoranti che dovranno garantire il distanziamento. Portare il teatro e il cinema nello spazio pubblico, riutilizzare edifici dismessi per accogliere funzioni condivise. Una sorta di fascia osmotica che dia forma a quel concetto di “nei pressi della propria abitazione” che ha caratterizzato la quarantena e che potrebbe diventare un progetto di città, riempiendo questi pressi di orti, di attività produttive e di spazi per una vita relazionale sicura perché distribuita. Una rielaborazione laica dell’Eruv, la recinzione rituale degli ebrei ortodossi che circonda Manhattan e che estende di fatto il domicilio privato anche agli spazi pubblici: all’interno dell’area delimitata dal filo ci si trova a tutti gli effetti come dentro casa e quindi si riducono le limitazioni imposte dallo Shabbat, superando la prescrizione di non poter portare alcun oggetto fuori casa. Una vera e propria “domesticità aumentata” dallo spazio pubblico definito da un perimetro di prossimità che consente di usufruire di attività che non siano solo individuali ma anche collettive, entro un limite di sicurezza e autosufficienza in caso di pericolo.
E, infine, una straordinaria, potente, bellissima rete di ciclovie, vere e proprie arterie di una mobilità sostenibile alternativa alla riduzione di capienza dei mezzi pubblici e alla esplosione di un inaccettabile ritorno all’automobile, che connettano in sicurezza i quartieri, sottraendo spazio al parcheggio parassitario, garantendo sicurezza, anche attraversando parchi e giardini, riutilizzando ferrovie in disuso, persino usando cortili e vicoli.

Schema delle comunità urbane aumentate con la nuova priossemica dello spazio vitale delle relazioni di quartiere (elab. Maurizio Carta, 2020).

Quando, dopo questi giorni di quarantena, che ci hanno fatto capire che lo spazio domestico protettivo è importante, ma non quanto lo spazio urbano, torneremo ad animare le nostre città con il calore dei nostri corpi, quando torneremo a vivere lo spazio pubblico della città, quando torneremo a frequentare i luoghi del lavoro come spazi della relazione sociale e non solo della produzione, quando torneremo nelle scuole e nelle università come incontro di persone che si scambiano conoscenze e idee imparando reciprocamente, quando torneremo ad abbracciarci, non dimentichiamo la lezione di questa sospensione forzata della nostra “urbanità”, non dimentichiamo la dolorosa nostalgia per lo spazio pubblico, non dimentichiamo la nostra responsabilità nella apertura dei vasi di pandora degli ecosistemi naturali devastati.

La nostra società postpandemica, dopo aver sconfitto il suo microscopico ma potente nemico, tornerà più forte grazie alla resilienza che avremo imparato a esercitare in questi giorni drammatici e che sapremo trasferire nelle città pandemic proof. La città è stata l’innesco della pandemia virale, la città deve essere antidoto e anticorpo di una necessaria ecologia radicale. Ma è venuta l’ora del salto dalla città del Novecento alla città del XXI secolo, alla città del Neoantropocene.

Guariremo solo se cambieremo tutto, solo se guariremo anche il pianeta, perché dopo “tutto vada meglio”.

[Palermo, 28 marzo 2020, al tempo della quarantena]