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Università: il sistema operativo open source dello sviluppo

di Maurizio Carta

Viviamo nella società della conoscenza, della innovazione e della condivisione ed i nostri orizzonti mutano con grande celerità, imponendoci un salto di paradigma dello sviluppo. In una nuova visione di futuro abbiamo di fronte il compito e la responsabilità di re-immaginare tutte le istituzioni perché siano capaci di guidare il cambiamento. Anche l’università e le istituzioni educative, e le loro relazioni con il territorio, devono essere ripensate per agire nel sempre più dinamico scenario che impone responsabilità, determinazione e tempestività di risposta. Nessun aspetto del funzionamento dell’università dovrà essere trascurato per mantenerla sempre capace di rispondere al continuo cambiamento di contesto locale, regionale e internazionale, per essere capace di rispondere sempre in maniera attiva e non puramente reattiva al cambiamento della società e del mondo del lavoro, per mantenere all’università il ruolo e la responsabilità di motore del cambiamento. Nel nuovo scenario caratterizzato dalla qualità e dall’innovazione, la nuova missione delle università è quella di essere un motore culturale per alimentare costantemente la domanda di formazione, di collaborazione interdisciplinare e di crescita culturale della comunità locale.
In questo scenario, e davanti agli impietosi dati del sotto-finanziamento delle università italiane, dobbiamo ridefinire le sfide del sistema universitario italiano, e in particolare quello del Mezzogiorno che subisce il maggiore calo di risorse (basti leggere il fondamentale rapporto RES curato da Gianfranco Viesti), aggravato dalla migrazione dei nostri giovani verso le città del Nord, per rilanciare la sua missione e contribuire attivamente allo sviluppo del Paese, a partire dal Sud.
La domanda che ci dobbiamo porre è “a che serve l’università? e a chi serve l’università?” e la risposta non possiamo darla solo noi – sarebbe autoreferenziale – né la devono dare solo gli studenti e le loro famiglie che investono tempo e risorse affidandoci la formazione per il loro futuro, né la devono dare solo le imprese o gli enti locali che collaborano con la ricerca universitaria per progetti, sperimentazioni o consulenze, ma la risposta devono darla soprattutto coloro che non ci frequentano direttamente, ma che dovrebbero sentire nella loro vita quotidiana l’importanza della nostra presenza, che dovrebbero godere degli effetti positivi delle attività universitarie, soprattutto nel Mezzogiorno dove le università svolgono – con difficoltà, responsabilità e coraggio – un ruolo educativo, sociale, cultuale ed economico.
Non si tratta solo di pretendere le pur necessarie modifiche del sistema di attribuzione e distribuzione del FFO, ma la valenza politica e culturale dell’educazione rivendica la necessità di aggiornare il “patto sociale” tra università e società, tra istruzione e sviluppo, tra ricerca e innovazione. Serve una vera e propria "Primavera dell'Università", come promosso nel 2016 dalla CRUI, una metamorfosi delle università che derivi non solo dalla qualità della didattica, dalla qualità dei servizi agli studenti, dalla efficacia della ricerca, ma anche e sempre di più dalla capacità di produrre un valore aggiunto sociale, uno swing power originato dalla cultura, dalla creatività, dall’innovazione. In sintesi ritengo che la nostra azione si dovrà misurare sulla capacità di essere catalizzatori dell’esperienza universitaria nella città e nel territorio. Le parole chiave della università che vogliamo potrebbero essere sintetizzate in Innovazione, Inclusione, Intelligenza, Interdisciplinarità, componenti fondamentali della società del XXI secolo.
Tornano potenti le parole di Pietro Calamandrei che definiva l’università “organo di rango costituzionale”, convinto che essa, insieme alla scuola, dovesse formare i cittadini per la democrazia appena conquistata.
Una strada per riattivare la funzione costitutiva dell’università come presidio di democrazia e di libertà è quella di reimmetterla nel flusso vitale dell della società, abbattendo tutte quelle barriere che la separano dalle persone, dalla vita quotidiana, dall’economia e dalla decisione politica. Tra le strade da percorrere, molte delle quali riguardano il modello di paese che vogliano, una è indicata da uno studio della Banca d’Italia che calcola il tasso di rendimento sociale dell’istruzione (il bilancio costi-benefici in termini di maggior produttività aggregata) intorno all’8% per il Meridione, e poco meno per le altri parti del paese, ma sempre superiore a quello derivato dagli investimenti in infrastrutture. Ma questo valore – energia per lo sviluppo – lo teniamo congelato, non riuscendo a liberare quelle risorse dell’istruzione che attiverebbero a loro volta altri settori della sua filiera lunga. Anche l'OCSE stima che il ritorno sulla collettività dell'investimento pubblico sulla formazione scolastica e universitaria è quasi il 300% del suo costo, percentuale che aumenta se valutiamo anche gli impatti positivi della ricerca e dei rapporti con il territorio. Sempre secondo l'OCSE l'investimento integrato in formazione sarebbe capace di decuplicare il Pil.


L’università deve essere il nuovo “sistema operativo” dello sviluppo, dando impulso al settore culturale ed editoriale, a quello edilizio e infrastrutturale, a quello tecnologico e dell’energia, a quello della sperimentazione e dell’innovazione, agendo sulla salute e benessere. Anche il nuovo welfare collaborativo oggi trova nell’università risposte importanti. E questo sistema operativo deve essere “opensource”, cioè deve coinvolgere diversi soggetti, differenti livelli e molteplici risorse per essere più potente, ma soprattutto più adeguato alle diverse domande a cui una università può e deve dare risposta.
La sfida che attende il sistema universitario, quindi, è quella di dare sostanza ad un patto costituente attraverso il nuovo ruolo delle università. L’università italiana deve agire come un attivatore della sussidiarietà, individuando il livello più efficace di governo in funzione degli obiettivi e della complessità richiesti. E, nell’ottica generativa di sviluppo in cui agiscono gli atenei, spesso il livello più adeguato è quello regionale o macro-regionale, quando non addirittura nazionale.
Non vogliamo fermarci alla diagnosi ma da docenti e responsabili della governance degli atenei sentiamo la responsabilità collettiva di trovare risposte. Dobbiamo avere la forza di pretendere dal Governo, e per le parti di competenza di una regione autonoma come la Sicilia, di attivare un Progetto Paese per l’università che non si limiti a incrementare i fondi ordinari, in questo momento difficili da trovare e ancora più difficili da negoziare di fronte ad altre istanze. La strada è invece quella di attivare in coordinamento con tutti i Ministeri e con le risorse regionali di derivazione UE un meccanismo “plurifondo” che permetta di attingere a quelle cospicue risorse che l’Italia possiede o riceve dalla UE e che, pur non avendo direttamente l’università come oggetto, per il principio di filiera diffusa prima richiamato, possono trovare gli atenei non solo come beneficiari, ma come moltiplicatore delle stesse risorse e dei loro effetti. Un Programma Nazionale Plurifondo che, attraverso accordi di programma o altre forme di intesa istituzionale con le università e le regioni, attinga ai 42,77 miliardi di fondi strutturali che l'UE ha assegnato all'Italia fino al 2020 (di cui 23,5 per il Mezzogiorno), componendo entro un disegno strategico l’Agenda Digitale e le Smart City, la Green Economy e le Startup, i fondi per la rigenerazione e la resilienza urbana delle periferie, il PON Metro e il PON Sicurezza. Dovremmo utilizzare diversamente i fondi FSE per qualificarne l’attività formativa e usarli per una vera innovazione sociale. Si tratta di risorse già nel bilancio dello Stato o delle Regioni e che per una quota potrebbero essere destinate strategicamente alle università, con specifici accordi macroregionali e una diversificazione tra atenei, perché le usino per attivare quell’indispensabile 8% di rendimento sociale che ne amplificherebbe il valore redistribuendolo, con qualità, nelle comunità, attivando altri settori, generando nuovi lavori, innovando la produzione o rianimando le città.
Per sensibilità e competenze personali sono convinto che nella società della conoscenza in cui le città esprimono sempre più il bisogno di motori per creare lavoro che attragga e mantenga i giovani, siano le università a dover svolgere un ruolo chiave nella costituzione di comunità creative dove formazione e ricerca collaborino con le imprese creando distretti produttivi e sincronizzando lo sviluppo dei campus con quello delle città. A sua volta, l’attrattività delle università viene significativamente condizionata dalla qualità del contesto urbano, dal suo dinamismo culturale e dalla creatività della città.
Soprattutto per il Sud, e per la Sicilia con le sue quattro Università e gli istituti del Cnr, il rapporto università-città genera numerosi fattori abilitanti di sviluppo, di cui il più importante è quello umano. La popolazione universitaria siciliana (circa 122.000 studenti), infatti, è composta da attivi digitali, connessi e operanti in multitasking, ed è quindi capace di coinvolgere l’intera cittadinanza, muovere gruppi e associazioni, lavorando per l’innovazione sociale e lo sviluppo economico. Poiché sempre più cospicue risorse saranno destinate alla produzione di energia da fonti rinnovabili e all’autoconsumo, nonché alla mobilità sostenibile, i quartieri universitari – quasi micro-città – possono concorrere al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni urbane della strategia europea di de-carbonizzazione, sperimentando tutte le azioni per campus a zero emissioni e aree car free. È importante, infatti, che la CRUI abbia istituito la “Rete delle Università Sostenibili” per incentivare la cultura della sostenibilità nei percorsi formativi ma soprattutto per sperimentare nell’ambito dei campus universitari principi, protocolli e dispositivi per lo sviluppo sostenibile dal punto di vista della mobilità, dell’energia, del ciclo delle acque e dei rifiuti, ma anche sul versante della tecnologia per gli edifici intelligenti.
Le università siciliane – e parlo di queste per vicinanza di responsabilità – quindi, sono davanti ad un bivio: lenire le ferite del sottofinanziamento usando al meglio le maggiori risorse pretese, oppure utilizzarle come innesco per progetti di sviluppo con una forte alleanza con le città entro cui agiscono. Ritengo che la scelta debba essere chiara e le università siciliane devono cogliere la sfida di essere protagoniste culturali ed economiche della Sicilia, sperimentando un modello di università come catalizzatore di cultura, innovazione e partecipazione, dialogando con le comunità attive, agendo da motore socio-economico, alimentando startup e autoimprenditorialità aprendo i loro campus come ambienti smart ed ecologici, erogatori di servizi e attivatori di capitale umano e sociale: laboratori di creatività, mobilità sostenibile, innovazione sociale, efficienza energetica, riduzione dei consumi e riciclo urbano. Abbiamo bisogno di una stagione di politiche integrate università-città – e tutte le Università siciliane ne stanno sperimentando alcune con interessanti esiti e prospettive – mirate al governo di questioni di comune interesse (soddisfacimento dei fabbisogni abitativi e qualità dello spazio pubblico, mobilità sostenibile e internazionalizzazione), nonché all’integrazione delle università con gli altri urban upgraders protagonisti della nuova economia delle città (musei, teatri, fablab, startup, spazi di co-working e co-studying, incubatori di ricerca e sviluppo, centri di tutela e promozione del patrimonio culturale) per l’incremento dell’offerta di città e l’internazionalizzazione dei nuovi sistemi metropolitani.
Costruiremmo così, con visione e responsabilità, le condizioni per fermare la desertificazione del capitale umano, il drammatico esodo dei nostri figli e dei nostri studenti, che rischia di farci rimanere senza alcuna risposta alle domande iniziali.
Per rafforzare il necessario "diritto allo studio", un vero diritto all'istruzione come strumento di ingresso nel mercato del lavoro dei nostri ragazzi e ragazze, serve un vero e proprio “dividendo universitario”, una produzione di valore – e di valori – che sia la misura concreta delle nuove prestazioni e sfide universitarie, un valore aggiunto sociale che leghi la didattica, la ricerca e il trasferimento delle conoscenze con le altre componenti dello sviluppo per misurare e dimostrare l’entità e l’estensione degli effetti prodotti dalle università sul territorio. Obbligo di una università riformata deve essere tornare a pensare e praticare la sua funzione come generatrice di beni comuni, innovando e consolidando, pensando strategicamente e agendo collettivamente. E per tornare ad esercitare questo ruolo l’università deve riannodare la teoria con la pratica, perché «quelli che s’innamorano della pratica senza la scienza, sono come i nocchieri che entrano in naviglio senza timone o bussola, che mai hanno certezza dove si vadano. Sempre la pratica dev’essere edificata sopra la buona teorica», scriveva Leonardo Da Vinci nel Trattato della Pittura, ma, aggiungiamo, noi non vi è teoria solida che non sia eretta sulle solide fondamenta della pratica, per non essere virginali nocchieri che non abbiano mai sentito l’ululare del mare tempestoso.

[Palermo, 21 marzo 2016 con nuove riflessioni del 4 settembre 2017]