Salvatore Sorce, Ph.D.

 


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Lettera aperta agli studenti

Pagina aggiornata l'ultima volta: lunedì 18 novembre 2013 15.28.


 

Premessa

A dieci anni dall’inizio della mia esperienza di docenza accademica, ho deciso di pubblicare alcune considerazioni. Esse sono il frutto di mie speculazioni sulle interazioni intercorse con quasi tremila studenti (tremila: non è un errore) da cinque Facoltà, sia durante i corsi che in occasione degli esami, nonché dall’esito degli esami stessi.

Ho cercato di riassumere i sentimenti degli studenti, e quindi di formulare le mie considerazioni sotto forma di lettera aperta, come una risposta ad una serie di ipotetiche domande che plausibilmente avrebbero voluto pormi, o confessioni che avrebbero voluto farmi, o battute, dal contenuto più o meno velato, dal gusto più o meno discutibile, che mi sono state realmente rivolte.

Il testo si ispira ad una conversazione avvenuta realmente per email con uno studente, ma è stato modificato per essere adattato alla maggioranza degli allievi che si sono susseguiti ai miei corsi in diverse Facoltà e in diversi Corsi di Laurea.

* * *

Cari studenti,

ogni volta che mi trovo in un’aula per farvi svolgere un compito scritto, penso: “Che bello, molte di queste persone hanno seguito bene il corso, o hanno già superato un esame analogo alla triennale con ottimi voti. Considerando che si tratta sempre delle stesse domande, e che alcuni di loro hanno tentato più volte l’esame o sono venuti più volte al ricevimento, oggi andrà tutto liscio come l’olio”.
Quando iniziate a compilare il vostro compito, vengo assalito dai dubbi: mi chiedo se il compito è ben tarato per una valutazione giusta e obiettiva della vostra preparazione, se le spiegazioni fornite al corso e ai ricevimenti sono stati all’altezza, se l’avere inserito domande a risposta aperta può lasciare spazio a confusione, errori di espressione, malintesi. “Forse dovrei mettere solo le crocette, che, sì, limitano molto l’iniziativa, ma anche gli errori? Ma no, va bene così: sono dieci anni che faccio queste cose, e i risultati mi hanno sempre dato ragione”. Anche perché, mi sono a mia volta ispirato ai preziosi consigli dei miei più saggi predecessori o colleghi docenti titolari di altre cattedre.

Mentre penso a queste cose, vedo che molti, pur avendo risposto correttamente alle domande, vogliono una conferma, come se non ci fosse la consapevolezza di aver studiato, di conoscere gli argomenti e quindi saper scegliere le (a volte ovvie) risposte esatte.
Purtroppo spesso accade che proprio quei ragazzi che sono venuti più volte al ricevimento o che hanno già sostenuto un esame analogo in precedenza, ottengono le prestazioni peggiori.
In quel momento mi viene voglia di prendere il computer usato per valutare i risultati e darlo in mano a mio figlio di tre anni per una sessione di dissezione esplorativa senza ritorno, e alimentare con i compiti il fuoco del camino o del barbecue, a seconda della stagione.

In quei momenti, penso alla “cucchiara di legno” (cucchiaio di legno, per i puristi della lingua) per farne l’uso principale per cui è stata ideata, che non è quello di “arriminare” (mescolare, sempre per i puristi) la salsa, bensì quello di provocare un dolore intenso, di breve durata, che lasci un segno visibile per giorni se opportunamente “poggiata” sulle giuste parti del corpo.
A quel punto mi tornano in mente tutti i giorni dedicati allo studio di un programma aggiornato ogni anno, che potesse portare i miei allievi a un livello competitivo nel mondo del lavoro, cosciente di avere in mano spesso l’unico insegnamento di tutto il Corso di Studi, sia esso triennale che magistrale, che ha un riscontro pratico. E mi tornano in mente tutti i giorni dedicati a mettere a punto una prova finale che sia utile per una valutazione giusta e obiettiva, e che consenta agli allievi di mettere alla prova la propria preparazione, usando il cervello e non organi di pertinenza ai pappagalli (senza offesa per i pennuti), e che magari possa avere una corrispondenza con la realtà con cui si confronteranno una volta fuori dall’Università.
Forse sono immodesto? Magari sì, però so anche guardarmi attorno: siamo nel 2013, e TUTTI gli analoghi corsi di laurea *europei* offrono ben altra articolazione di insegnamenti, in cui l’Informatica e le sue applicazioni costituiscono il 50% o più dei CFU disponibili. Saranno tutti pazzi? Forse no, considerando che la percentuale di occupazione dei loro laureati sfiora il 100% (e che il numero di laureati è ridotto, cosa che è strettamente legata al significato del concetto di “formazione universitaria” che c’è dappertutto tranne che qua, ma questo è un altro discorso).
Mi tornano in mente tutti quei giorni di studio, quelli di lezione, quelli di esame, quelli di correzione e di attribuzione di un voto equo, giusto e “secondo coscienza”, tutti i giorni dedicati a spiegare come e perché quel voto è stato attribuito, tutti i messaggi email letti, e tutti i messaggi generati in risposta, tutto il tempo impiegato ad aggiornare le pagine informative sul web (regolarmente trascurate da tutti), tutti i giorni dedicati a correggere elaborati, tesi e tesine inviate all’ultimo momento perché “non ho avuto tempo per inviarla prima”, o "ho dimenticato di leggere l'email", o “mio padre si è sposato per la quarta volta, ma stavolta è quella giusta”, o “ieri ho avuto la febbre”, o “è esplosa una mini bomba atomica proprio nella mia stanza”.
Tutti giorni che, fatti salvi quelli di lezione ed esami per i quali sono obbligato (che in proporzione sono davvero pochi, credetemi), ho tolto ai miei affetti, alle mie passioni, al mio lavoro principale: la ricerca scientifica.
Per inciso, ho sempre pensato che ricerca e didattica debbano andare di pari passo: non si può insegnare sempre la stessa cosa per 30 anni, come se tutto attorno non succedesse nulla. Di sicuro per il docente sarebbe molto più semplice: niente lezioni da preparare, argomenti caldi o con poca bibliografia disponibile, nessun imprevisto, niente domande "alla moda".

Ma gli studenti non vogliono questo. Voi non volete questo.

Voi volete docenti che si assentino dalle lezioni senza recuperarle; volete docenti che non comunicano nulla circa lezioni ed appelli, pur essendovi obbligati; volete docenti che agli esami vi umilino e vi insultino, perché è l'unica moneta che intendete per dare rispetto. Salvo ovviamente poi lamentarvi di avere docenti che si assentano dalle lezioni senza recuperarle, o docenti che non comunicano nulla circa lezioni ed appelli, o ancora docenti che agli esami vi umiliano e vi insultano. Ovviamente lamentele esposte al bar, per strada, sui social network o, meglio, in qualunque occasione buona per non mettere a frutto il tempo che pagate per stare all'Università; mai comunque nelle sedi opportune.

Tornando a noi, moltiplicate ora quei giorni, quelle email, quel tempo rubato, per dieci anni, per due semestri per anno, per una media di trecento studenti/anno, per circa 50 email ciascuno.
Fatto?
Ora vi invito a rivalutare il fatto di avere avuto di fronte una persona (e non un “professore”) che ha sempre ascoltato tutti, cercando di dare un senso alle richieste più assurde anche quando un senso oggettivamente non c’è stato, facendo finta di niente quando gli sono state fatte allusioni offensive e per niente velate, che invece di dire pane al pane e vino al vino ha sempre usato le buone maniere evitando di mortificare le persone (e non “gli studenti”), e che ha saputo modificare le proprie scelte nella convinzione che in quello che viene fuori dai giovani c’è sempre qualcosa da tenere in considerazione.

Volete sapere ora se le vostre simpatiche battutine circa l’utilità delle mie discipline nei vostri corsi di studio mi fanno ridere?

Sì, mi fanno ridere. Ma di un riso amarissimo.