teCLa - Effemeride 2011

codice DOI: 10.4413/EFFEMERIDE


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Per Paolo Bevilacqua teorico e critico d’arte
di Roberta Cinà

Generalmente noto per le pitture realizzate nel Palazzo delle Poste di Palermo e per la pregevole produzione di opere d’arte decorativa, Paolo Bevilacqua (1894-1938) fu anche autore di interessanti contributi nel panorama della critica d’arte degli anni Venti. Questo aspetto, accennato in anni recenti (G. Di Genova, A.M. Ruta, S. Troisi) prevalentemente in merito all’attività svolta per il “Bollettino dell’Arte” di Pippo Rizzo, emerge con maggiore evidenza ampliando la ricognizione sulla stampa periodica del tempo (“Sicilia. Rivista mensile”; “Sicilia Nuova”), ed è attualmente oggetto di studi di prossima pubblicazione.
Convinto assertore del concetto di unità delle arti, che già dalla fine del XIX secolo era portato avanti, a livello teorico, dalla pubblicistica specializzata (cfr. “teCLa-effemeride” 2010), Bevilacqua si pronunciava in tal senso in un articolo del 1925 dedicato a Léon Bakst, in cui pubblicò un ritratto del grande pittore, scenografo e costumista russo da poco scomparso. Nello scritto, egli contestualizzava «Letteratura musica ed arti plastiche», manifestazioni diverse di un’Arte «grande ascensione dello spirito», in un’ottica vagamente crociana in base alla quale seguivano, «come è legge di ogni tempo e di ogni terra – l’evoluzione spirituale del paese».
In un articolo dello stesso anno dedicato alle Arti «cosiddette minori», aggettivo che disapprovava energicamente, il Nostro si lanciò in un’appassionata difesa dei «bei tempi dell’unicità dell’Arte, nei quali un artista sapeva progettare un edificio, dirigerne la costruzione e, senza vergogna, salir bravamente sui palchi ad affrescar volte e pareti, e senza tema d’umiliarsi disegnare mobili, ferri battuti e bronzi e magari inventar nuove fogge di gioielli per la padrona di casa. La pittura e la scultura servivano all’architettura e ad esse si appoggiavano come figlie devote…». Al di là del fatto che Bevilacqua scriveva da addetto ai lavori – va ricordata tra l’altro la sua recensione del 1927 alla terza Biennale delle Arti decorative di Monza – è forte il richiamo alla grande lezione, anche teorica, di Giovan Battista Filippo Basile, che proprio attraverso i canali della stampa periodica aveva esaltato l’inscindibilità della decorazione scultorea dal progetto architettonico e il coinvolgimento personale dell’architetto nel cantiere, tipici del periodo prerinascimentale; anche i ripetuti rimandi di Bevilacqua allo «spirito», oltre a richiamare la filosofia crociana, ben si inquadrano nell’ambito degli assunti posthegeliani che avevano informato la prima produzione teorica basiliana.
Fautore di un ritorno all’artigianalità della produzione artistica, contro quella industriale a suo avviso discutibile, il Nostro rilevava positivamente la portata dell’Esposizione torinese del 1902, «grande audace tentativo» che, pur negli esiti formali oscillanti tra eclettismo e liberty, ebbe il merito di avere portato a «una nuova forma di cooperazione in un connubio che pareva impossibile: l’artista e l’industriale», fenomeno che avrebbe trovato compimento nelle biennali monzesi.
Ben si inserisce, in questo percorso critico, l’apprezzamento per la xilografia, la cui fortuna negli anni Venti del Novecento, e soprattutto sulle riviste, è peraltro nota: «vecchia Arte che i tempi moderni, alfine stufi delle meccaniche fotoincisioni, hanno rimessa in valore»; è del 1927 l’articolo La scultura e la xilografia di Giovanni De Caro, in cui emergono anche alcuni giudizi sull’arte del suo tempo: arte «giovane», che pur mantenendo «caratteri fondamentalmente classici», ha un «orientamento spirituale […] diversissimo e tutto percorso da nuovi fremiti e da nuove speranze».
L’adesione di Bevilacqua agli indirizzi figurativi novecentisti è intuibile già negli scritti del 1925: recensendo una personale del fiorentino Domenico de Vanna, scriveva dei «necessari ma poco stabili tentativi dell’avvenirismo internazionale, da Prampolini a Kokoska [sic]»; nell’articolo sulle arti minori sopra ricordato aveva asserito: «È lecito prevedere che la forte razza italica saprà per la prima arrivare a […] originali nuove concezioni, e senza pertanto adottare alla lettera le catastrofiche aberrazioni futuriste, saprà spontaneamente trasformare l’Arte nostra tradizionale in un’Arte modernissima conservante l’ossatura classica della latinità».
Erano i primi accenni di un orientamento che avrebbe ulteriormente palesato nel 1929, in qualità di redattore capo del “Bollettino dell’Arte” di Pippo Rizzo (il quale, a quella data, non era più tacciabile di ‘aberrazioni’ futuriste): nello scritto Ma che cos’è questo Novecento? sposò infatti le linee enunciate poco prima da Margherita Sarfatti nella conferenza milanese sul Novecento Italiano, citandone espressamente alcuni brani e individuando, tra i «Capitani del Novecento Italiano», alcune delle figure più rappresentative del movimento, come Funi, Sironi, Bucci e altri.
L’articolo sollevò le critiche del milanese “Belvedere”, diretto da Pietro Maria Bardi, dalle cui colonne Bevilacqua veniva accusato di non avere esaminato il panorama artistico «attraverso le lenti di un cannocchiale Zeiss». Ma il Nostro non era nuovo alle polemiche: va ricordata quella del 1926 con Romualdo Trigona, che vide anche l’intervento di Pippo Rizzo, solidale con Paolo, relativa alle politiche culturali della Galleria d’Arte Moderna di Palermo, per le quali il Nostro auspicava uno svecchiamento e una maggiore apertura al panorama contemporaneo internazionale: «ripulire […] la celebre ‘Sala Alfano’» e privilegiare acquisti quali quello della «meravigliosa testa di vecchia» del «nostro grande Campini».
Meno Ottocento e più modernità: questi i criteri con i quali giudicò anche i bozzetti per il Monumento commemorativo ai caduti nella Grande Guerra, tema, come è noto, fortemente promosso dal regime. Il concorso per il Monumento ai Caduti Siciliani ebbe spazio su pressochè tutte le testate palermitane del 1926 e, in molti casi, le preferenze della critica si orientarono sul progetto Fichera-Dazzi. Fu anche il caso di Paolo Bevilacqua, che apprezzava l’idea «modernissima» di Fichera, dell’arco «concepito per essere gettato a cavaliere della via Libertà con i piedritti impostati sui due marciapiedi centrali […] in guisa da restare a contatto perenne col popolo e far parte della sua stessa vita. Il concetto è ardito, la rompe col luogo comune […], e resta legato alla tradizione […]. Infatti l’arco di trionfo è romano, […] ed è rinfrescato con intendimenti moderni».
Il concorso, come è noto, non vide allora un vincitore. Bevilacqua tornò comunque sull’argomento, auspicando che, a una prossima tornata, si evitasse il rischio di «un birillo o una torta su una pubblica piazza», orientandosi verso «concetti nuovi e uomini nuovi». Senza entrare ovviamente nel merito dell’opera, ricordo il giudizio del 1932 di Pippo Rizzo, che ancora una volta in linea con Paolo, definiva il Monumento ai Caduti Siciliani come «lo scempio più grande che si è potuto fare a Palermo».

 

Galleria di Immagini

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