teCLa - Effemeride 2014

codice DOI: 10.4413/EFFEMERIDE


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Arte e devozione a Palermo nel primo Seicento: un inedito crocifisso d’ambito francescano
di Vincenzo Scuderi

Due ragioni ci inducono a presentare, qui per la prima volta, un crocifisso ligneo custodito presso il Convento dei Francescani di Palermo: una legata alla sua alta qualità artistica, l’altra al contesto storico-culturale di cui è espressione.

Sotto il primo profilo ci sembra, infatti, di peculiare interesse l’equilibrata (persino classica) compostezza dei vari aspetti del suo linguaggio formale, tutti giocati in chiave di sobrietà e verità naturale, così come la toccante pacatezza espressa dal soprattutto volto.

E ciò tanto più in un momento in cui – tra Manierismo e Barocco – in Sicilia specialmente tali raffigurazioni venivano o caricate di accenti espressionistici a fini pietistico-devozionali[1] o ingentilite, a così dire, con movenze plastico-spaziali e sfumature pittoriche per interessi estetici prima ancora che devozionali[2].

Sotto il profilo storico-culturale, poi, è quasi lo stesso valore artistico appena accennato che ci induce a indagare sul momento e sull’ambiente, quantomeno, entro cui l’opera può essere nata e sull’artista cui, se possibile, può essere ricondotta.

Tanto più siamo indotti a questa ricerca perché possiamo profittare di una fitta e documentata serie di acquisizioni sullascultura lignea in Sicilia fra tardo Gotico e Barocco, recentemente (e per noi fortunatamente) venute in luce[3].

L’ambiente di provenienza

A causa della sua collocazione originaria piuttosto defilata in una pur frequentata sede di “Compagnia” socio-religiosa (l’Oratorio della Compagnia di S. Francesco in S. Lorenzo), e del suo successivo spostamento in una chiusa residenza conventuale[4], l’opera è rimasta quasi del tutto sconosciuta almeno dalla metà dello scorso secolo e, quindi, inedita sin oggi. Sembra indubbio, tuttavia, che ad essa si riferisca a metà del Settecento Antonino Mongitore, nel suo pur fugace cenno in cui ci dice che l’oratorio di S. Lorenzo «ha due cappelle separate dall’oratorio in una si venera il Crocifisso a rilievo»[5].

Non possedendo, salvo errore, altri elementi di riscontro in sede storiografica, è opportuno dunque rivolgerci alla lettura estrinseca dell’opera. Non ci pare, ad esempio, del tutto inutile accennare in via preliminare agli interessi e al contesto devozionale e cultuale nel cui ambito il crocifisso vede la luce, che ci sembrano alquanto singolari. Nel giro, infatti, di due decenni al massimo e in un perimetro di poche decine di metri – quelli occupati dai due contigui oratori di S. Lorenzo e dell’Immacolatella – altre quattro immagini oltre alla nostra vengono poste sugli altari o alle pareti, tutte raffiguranti il Cristo sulla croce[6]. Segno da un lato di quel clima di fervorosa devozione verso il crocifisso, particolarmente congeniale alla spiritualità dell’ordine francescano; dall’altro, più banalmente, di un fenomeno di reciproche emulazioni fra gruppi socio-ecclesiali orbitanti nello stesso spazio.

L’opera e il suo linguaggio

Giungiamo, quindi, alla scultura in quanto tale. L’immagine è ricavata “appieno” da un tronco di tiglio modellato accuratamente anche da tergo (a motivo, probabilmente, di una funzione anche processionale dell’immagine) e con una leggera imprimitura sul legno, ricoperta a sua volta da un leggero strato di colore “ad incarnato”. Il solido corpo del Cristo si pone in modo quasi del tutto accentrato sulla verticale della croce, salvo un lieve hanchement della zona del bacino verso destra, che conferisce all’immagine un senso di verità e una marcata connotazione spaziale. Solo la semplice ed appiattita fasciatura del perizoma aggiunge una lieve nota decorativa di sapore ancora tardogotico per la doratura delle superfici ad oro chiaro, avvivata dal verde tenero di foglioline sparse qua e là.

All’interno, poi, di tale imposto strutturale l’autore dispiega l’attento modellato anatomico che evidenzia con naturalezza ed equilibrio sia la parte inferiore con le solide gambe in parallelo, appena rialzate e chiuse nei piedi sovrapposti, sia quella superiore, la sobria muscolatura dell’addome e del torace in cui è possibile scorgere qualche reminiscenza del crocifisso medievale del tipo “gotico doloroso”. Ma è nei lineamenti e nei dettagli costitutivi del volto che possono vedersi sintetizzati appieno la visuale stilistica e il modo di sentire del nostro scultore, ispirato al tempo stesso alla verità naturale e alla più intensa espressione del sentimento umano e religioso; si notino le distese superfici delle gote, gli occhi appena chiusi, la bocca semiaperta per l’ultimo respiro sino al dolce reclinarsi del volto stesso, incorniciato dai fluenti capelli, sulla spalla destra; nella totale e serena accettazione del sacrificio estremo.

La paternità o il tempo

Partendo da tali aspetti formali dobbiamo chiederci ormai in quale ambito culturale e temporale la nostra scultura possa collocarsi; quali le sue parentele, se ne esistano, più o meno strette e se una paternità, infine, le si possa eventualmente attribuire.

È stato tra le pagine di quelle ricerche sulla scultura lignea che abbiamo citato prima e precisamente in una statua di Ecce Homo della chiesa della Gancia   individuata e pubblicata da Giovanni Mendola che ci è parso di potere cogliere anche qualcosa in più di un semplice filo conduttore per gli accennati nostri interessi[7].

Oltre, infatti, alle generali affinità delle tipologie costruttive delle immagini, di accentuata compostezza sulle verticali, assai affini e significativi ci sembrano i modellati espressivi dei due volti, che senza forzature ci consentono, io credo, di parlare di uno stretto apparentamento e quindi di unica paternità delle due opere. Anche il trattamento tecnico-materico dei due manufatti (come ci assicura l’esperto restauratore Franco Fazzio) può servire a confermarci tale giudizio di fratellanza. Non ci resta quindi che da cercarne, per quanto possibile, la mano responsabile o quanto meno, il tempo più verosimile per la realizzazione dell’opera.

Il punto da cui muovere, a tal fine, si configura nel fatto che nel 1636 a Gaspare de Micheli «il più famoso crocifissaro del suo tempo» (Mendola), già autore di almeno cinque crocifissi documentati fra il 1628 e il 1635 per varie Chiese di Palermo (oggi tutti perduti) viene chiesto di prendere a modello l’Ecce Homo della Gancia per un identico soggetto da realizzare per il Convento di Santa Maria Maddalena a Porta Nuova[8].

Altro dato significativo sotto il profilo temporale ce lo offre una cortese comunicazione verbale dello stesso Mendola circa alcuni dati in suo possesso, secondo i quali la cappella e l’altare che ospitano l’Ecce Homo sarebbero stati realizzati nei primi anni trenta; che possono considerarsi quindi validi anche per l’acquisizione della statua stessa e punto di riferimento, ormai, per il nostro crocifisso.

Ma occorre considerare a questo punto che la chiara differenza di cultura e linguaggio fra le due rappresentazioni – il crocifisso ancora scarno e quasi vicino ai linguaggi gotici e tardogotici, e l’Ecce Homo più tornito e plasticizzante – non solo ci consigliano ma quasi impongono di arretrare sensibilmente il crocifisso, sullo scadere o anche prima dello scadere del secondo decennio del XVII secolo rispetto all’Ecce Homo.

Quanto, però, alla possibile paternità dei manufatti – che speravamo di attingere dall’ampio ventaglio di scultori in legno e “crocefissari” veri e propri scoperti dal Mendola – non ci sentiamo di avanzare nomi. Tanto più che difficilmente potremmo chiamare in causa il de Micheli (copista, come abbiamo visto, dall’Ecce Homo), se davvero fosse suo, come ipotizza Mendola, il quasi barocco “Cristo vivo” della Cattedrale di Nicosia.

Un’opinione conclusiva

Dopo quanto abbiamo cercato di evidenziare circa il linguaggio del crocifisso già della Compagnia di S. Francesco, legittimamente ci pare di poterne ribadire quella singolarità degna di nota cui accennavamo in principio e a motivazione del nostro interesse. Una connotazione, in definitiva, che per la sua spontaneità e sobrietà potremmo definire di precipua “autenticità francescana”, scevra da ogni forzatura per fini devozionali o interessi formali. A meglio intendere, del resto, tale lettura, potrebbero servire, a nostro avviso, alcuni semplici richiami e raffronti con alcuni, almeno, dei più noti (o anche meno noti ma già documentati) Crocefissi degli altari palermitani dei primi decenni del secolo. Ad esempio, quello (assai citato dalle committenze) dei Padri Filippini oggi conservato nel salone conventuale[9], o quelli di Salvatore Passalacqua del 1614 in S. Cita e del 1615 all’Immacolatella[10]; per non parlare dell’assai significativo primo esemplare, del 1623 a Petralia Soprana, della lunga serie di Frate Umile e della sua scuola, dalle marcate forme espressivo-devozionali.

Per i tanti e diversi pareri, consigli ed aiuti in genere, ringrazio vivamente gli amici p. Filippo Rotolo, p. Gesualdo Ventura, Giovanni Mendola, Francesco Paolo Campione, Franco Fazzio, Evelina De Castro, Enzo Brai; scusandomi con chi avessi dimenticato.

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1 Basti ricordare, in questo senso, i Crocifissi di Antonino Ferraro e di Salvatore Passalacqua recentemente fatti conoscere da Antonino Marchese, Nino Cuccia e Giovanni Mendola, con le loro marcature plastico-cromatiche a fini espressivi, come si vedrà ben presto anche nella prima opera della serie di Frate Umile da Petralia, cui in seguito accenneremo. Sulle radici controriformate di tali tipologie e sui numerosi esemplari che se ne possono vedere nella Sicilia occidentale, specie nell’opera di Frate Umile da Petralia, può vedersi utilmente il riepilogo che ne fa S. La Barbera, Iconografia del Cristo in Croce nell’opera di uno scultore francescano della Controriforma, Frate Umile da Petralia, in Francescanesimo e cultura in Sicilia, Officina di Sudi medievali, Palermo 1987, p. 393. Pure utile risulta il recente testo di M.C. Di Natale, I Crocefissi delle chiese francescane in Sicilia, in Opere d’arte nelle chiese francescane di Sicilia, Plumelia, Palermo 2013, pp. 40 e segg.

2 Tipici sotto questo profilo e nello stesso ambiente palermitano i noti dipinti di discendenza vasariana (Viscuso), le Crocifissioni della Chiesa di S. Domenico del Fonduli e quella del Bazzano già nella controfacciata dell’Oratorio di S. Lorenzo, oggi pure conservata presso il Convento francescano.

3 Mi riferisco al volume, che avremo modo di citare più volte, Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio ligneo in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T. Pugliatti, S. Rizzo, P. Russo, Maimone, Catania 2012.

4 Trattasi, come vedremo a momenti, dell’Oratorio di S. Lorenzo per quanto riguarda le origini e i primi secoli di vita e degli ambienti residenziali del Convento di S. Francesco di Assisi per la conservazione ulteriore, dalla metà all'incirca dello scorso secolo.

5 A. Mongitore, Dell’Istoria Sagra di tutte le Chiese..., ms. del sec. XVIII,della Biblioteca Comunale di Palermo, ai segni Qq.E.8., pp. 107-108, riportato in V. Vadalà, Palermo sacro e laborioso, Sellerio, Palermo 1999, pp. 152-154.

6 Si tratta, esattamente, dei seguenti manufatti: a) la toccante tela con il Cristo Deposto con due angeli di Mariano Smiriglio, dei primi anni del secolo: b) Il Crocifisso dipinto dal Bazzano già prima ricordato; c) il Cristo vivo di Salvatore Passalacqua dell'oratorio dell’Immacolatella del 1615; d) Il Cristo morto di Ignoto, pure scolpito in legno e dello stesso oratorio anzidetto del 1620-22. Le prime due opere sono largamente note, le altre due sono sostanzialmente inedite e meritevoli di studio.

7 G. Mendola, Maestri del legno a Palermo dal Tardogotico al Barocco, in Manufacere…, p. 175.

8 G. Mendola, Maestri del legno…, p. 183.

9 L’immagine di tale Crocifisso, più volte citata ma mai riprodotta dagli studi, può vedersi ora presso la Soprintendenza pei Beni Culturali di Palermo, cui ne ho fatto omaggio recentemente.

10 Ringrazio il dott. Ettore Aronadio della Venerabile Compagnia dell’Immacolatella per le cortesi notizie e fotografie fornitemi dei due citati Crocefissi dell'Oratorio.

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