teCLa :: Rivista

in questo numero contributi di Mario Alberto Pavone, Priscilla Manfren, Giada Centazzo, Michele Sbacchi, Laura Pellicelli.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Distruzione/costruzione/decostruzione. Il flusso continuo dell’architettura contemporanea di Michele Sbacchi

Lo spazio urbano contemporaneo si rileva – molto più di quanto ci si aspetterebbe – come ‘teatro della distruzione’. L’esperienza abitativa quotidiana non porta certo ad imbatterci nelle città ideali, dalla metafisica e assoluta perfezione, come quelle evocate dalle enigmatiche tavole prospettiche rinascimentali. Né possiamo dire che ci accada sempre di attraversare insiemi omogenei, ben composti e perfettamente conservati.
Piuttosto, molto spesso, ci confrontiamo con spazi incompiuti, edifici ibridi, stratificati, frammenti di parti complesse, lavori in corso, vuoti definiti o totalmente indefiniti, edifici in costruzione, in demolizione, complessi da completare, squarci, giustapposizioni sanate o insanate, ma anche siti archeologici, tracce, rovine più o meno distrutte di costruzioni precedenti. Questo è lo scenario che si dispiega sotto gli occhi dell’uomo contemporaneo: uno scenario in cui costruzione e distruzione sono continuamente interrelate, se non addirittura fuse una con l’altra, sia come effetti che come processi. Risulta difficile – ed inutile forse – definire dove la distruzione finisca e dove la costruzione cominci: si delinea, piuttosto, la concezione che l’intervento antropico stia in un flusso continuo distruzione-costruzione, e talvolta decostruzione. In questo saggio si vuole indagare la condizione contemporanea del progetto di architettura come fase di questo processo.
C’è chi ha acutamente riflettuto sugli spazi indefiniti della città e del territorio, i terrains vague secondo il termine coniato da Ignasi de Solà-Morales[1]. In quella prospettiva essi non sono più visti come delle lacune da colmare nell’ineluttabile processo costruttivo della fabbrica della città. Il vuoto piuttosto è stato indagato da Solà-Morales come elemento fondante della metropoli contemporanea.
Ancora, c’è chi, come Marc Augé[2], ha notato la connessione che lega spazi vuoti e cantieri e come negli spazi in divenire dell’abbandono, della distruzione e del cantiere si celi la speranza della modificazione, si celi la forza del progetto.
Ancora, c’è chi ha definito la condizione della città contemporanea come quella di un collage – la collage city di Colin Rowe[3], insieme di utopie frammentarie, che fa sua l’estetica dell’as found elaborata negli anni ’50 – e traccia un parallelo con la società aperta di Popper. La città, cioè, risulta l’assemblaggio, nel corso dei secoli, di frammenti di utopie che riescono a definirne pezzi – è la città per parti, altrimenti definita la ‘città delle forme composite’.
Nonostante queste elaborazioni, però, le immagini dell’indefinita e frammentaria città contemporanea sono spesso rimosse da una coscienza che separa l’ambito del compiuto da quello dell’incompiuto. Ancora più spesso l’incompleto e il distrutto sono liquidati sotto l’etichetta del degrado se non ancora in quello del debris, del rifiuto. Peraltro non si vuole qui negare che esistano, sia in città che in campagna, anche oggetti compiuti, edifici immacolati, parti consistenti dal disegno e soprattutto dallo stato omogeneo. Ma lo sguardo attento ci rivela che esse sono sempre in commistione con elementi che appartengono al dominio, tutt’altro diverso, della scomposizione, del degrado, della frammentarietà. L’edificio perfetto, eterno, monolitico risulta raro, impossibile, vicino alla astrazione da cui deriva.
Non è diverso per l’ambiente ‘naturale’: il paesaggio idilliaco, concluso e intoccabile, è un’utopia inattingibile: il corso delle stagioni, le modificazioni meteoriche, le fisiologiche trasformazioni, la nascita e crescita vegetale, i movimenti geologici contaminano la ‘natura’ inevitabilmente. Essa è in costante divenire, è un cantiere continuo, esattamente come la città. Ed è sintomatica l’inversione di senso attuata dal termine picturesque, che riporta la realtà all’astrazione della sua rappresentazione, e non viceversa.
La rovina assurge in ogni epoca a fattore d’ispirazione per le arti figurative, sia nel divenire distruttivo della catastrofe (i dipinti del seicentesco Monsù Desiderio ne sono interessante prova), sia nella rappresentazione dell’architettura ormai corrosa dai secoli. Lo spazio naturale o artificiale – ed in questa ottica la distinzione è poco rilevante – disvela come suo elemento irrinunciabile la trasformazione, il divenire e, di conseguenza, l’incompiutezza. La città, la natura, lo spazio o, meglio ancora, l’ambiente in toto è teatro dell’intreccio tra parti compiute, composte e definite e l’azione scomponente del tempo, degli eventi che trasformano le parti in frammenti.
Eppure un pensiero tenace e diffuso permane: quello che vorrebbe piuttosto un’azione dell’uomo sull’ambiente tesa a perseguire questa granitica, improbabile, perfezione. L’azione artificiale sarebbe quella che aggiunge oggetti compiuti e definiti alla indefinitezza fisiologica della natura o, addirittura, interviene regolarizzando e rettificando la natura stessa. L’azione dell’uomo sull’ambiente, sia essa agricoltura, ingegneria o architettura, sarebbe un’azione di scontro tra artificio e natura ma anche di messa in scena di questo scontro. L’architettura è costruzione, e come tale si deve rivelare. L’antropomorfismo platonico-pitagorico, che costituisce la base fondativa della teoria classica dell’architettura, espletato nell’architettura greca e romana, e ripreso, tramite Vitruvio, dai trattatisti rinascimentali ha dominato il pensiero sull’architettura per due millenni. Esso era basato sulla teoria delle proporzioni numeriche, che riflettendo l’armonia del macrocosmo e del microcosmo garantivano, nella loro assolutezza, la bellezza. I solidi platonici erano un caposaldo costante. Ciò era fondato sull’idea – ma a sua volta la trasmetteva – di un corpo proporzionale ma soprattutto definito. L’homo ad circulum di Vitruvio, illustrato da Leonardo, implicava la stessa astratta sublimazione della definitezza di una villa di Palladio, o di un tempio greco. L’idea di contesto, di frammento, di degrado ma anche di indefinito non potevano avere spazio in questa ideologia.
Ma la questione, con tutt’altra genesi e percorsi, è fondativa dell’ideologia produttivistica e positivista, che si afferma nell’industrial design, e nell’architettura razionalista degli anni ’20. Tralasciando il design, di cui è facile intuire l’enfasi sulla compiutezza dell’oggetto, sublimata in maniera esponenziale dalla perfezione della produzione industriale, vogliamo qui soffermarci sulla componente ‘perfezionista’ dell’architettura del cosiddetto Movimento Moderno. In quel contesto – di cui siamo eredi diretti – la casa era spesso equiparata ad un oggetto industriale e notoriamente ad una macchina – una machine à habiter. Ebbene questa machine doveva necessariamente essere nuova, funzionale, moderna ma anche, e conseguentemente, pulita, sana, astratta, candida e quindi bianca. L’estetica del bianco, colore atemporale e pulito, di cui fu grande portavoce Le Corbusier fu epitomizzata nel famoso quartiere laboratorio progettato a Stoccarda dal gotha dell’architettura moderna, che si chiamava per l’appunto Weissenhof. L’intonaco bianco che copriva volutamente come una ‘tonaca’ tutto quanto stava sotto: struttura, giunti, materiali, impianti, texture divenne la ‘divisa’ asettica dell’architettura moderna, come ha ampiamente dimostrato Mark Wigley[4]. Le case dovevano essere realizzate ex-novo con la nuova prodigiosa tecnica del cemento armato, dovevano essere bianche e trasparenti ed allineate secondo esigenze di soleggiamento nelle nuove Siedlungen. Allo stesso modo le città dovevano essere ricostruite da zero, facendo piazza pulita dei vecchi quartieri. Non bastava più il taglio del vecchio tessuto con boulevards dai bordi nuovi e rimarginati alla Haussmann, bisognava fare tabula rasa – distruzione e ricostruzione così come nel Plan Voisin di Le Corbusier.
Tabula rasa e machine à habiter andavano a braccetto: ma vale la pena riportare la critica di Heidegger a questo macchinismo:

Parliamo di costruzione di una macchina. Ma non tutto ciò che può e deve venir costruito, è una macchina. Dunque ecco un altro segno dell’odierna mancanza di fondamento del pensiero e della comprensione, quando ci si presenta la casa come una macchina per abitare e le sedie come una macchina per sederci. Ci sono persone che persino in tale follia vedono una grande scoperta e i presagi di una nuova cultura[5].

Bernard Tschumi, architetto ascrivibile per certi versi alla corrente del decostruttivismo, alcuni anni addietro pubblicò alcune foto delle celebre Villa Savoye di Le Corbusier, allora in stato di notevole degrado. L’immacolato intonaco bianco a brandelli metteva a nudo mattoni e cemento sottostanti, la vegetazione aveva invaso ogni giunto. Tschumi scriveva a margine provocatoriamente: «La cosa più architettonica di questo edificio è lo stato di degrado in cui si trova»[6]. Lasciando da parte la critica del modernismo, che non ci riguarda in questa sede, l’aforisma di Tschumi trasmette l’importante riconoscimento della condizione fenomenica dell’architettura. Del suo essere temporale, circostanziale e, conseguentemente, soggetta al degrado. Il degrado, così provocatoriamente riammesso nell’ambito dell’architettura, diviene l’aspetto più eminentemente architettonico dell’edificio. Esso diventa, per Tschumi, sulla scorta di Bataille, elemento di sensualità ed anche di erotismo.
Risulta quindi evidente che l’azione dell’uomo sull’ambiente – sia essa agricoltura, ingegneria o architettura – vive di un paradosso fondativo: il disegno organizzatore si scontra con la disarticolazione e l’indeterminatezza della fenomenologia degli eventi. Per quanto si possa aderire vuoi alla nozione di un’architettura astratta, vuoi a quella di un’architettura contaminata, ci si muoverà sempre a partire da questa sorta di ‘peccato originale’.
Ma andiamo a ritroso: che l’architettura non fosse una accademica ‘pura creazione’ o mera composizione del bell’oggetto o del bell’edificio ma piuttosto un’attività più complessa, fortemente radicata nel contesto, era stato magistralmente intuito già alla fine dell’800 da William Morris nella sua arcinota definizione di architettura: «L’architettura è l’insieme delle modifiche ed alterazioni introdotte sulla superficie terrestre… eccetto il puro deserto»[7].
In una accezione estremamente dilatata, architettura è quindi qualunque azione attuata sulla superficie terrestre. Scompare la distinzione tra azioni puramente funzionali ed azioni più propriamente volte alla creazione dell’oggetto. Il divenire e la contaminazione contestuale sono dunque riconosciuti da Morris, aprendo quindi il varco alla nozione fondamentale della rinuncia alla compiutezza intesa come scopo unico e ultimo dell’architettura.
Ma il pensiero del Novecento ha formulato questo tema con varie sfumature. Il concetto di totalità impossibile – e la conseguente rinuncia alla compiutezza – è stato sondato per esempio da Jacques Derrida[8], per il quale la condizione di rovina è residente nella struttura stessa dell’opera d’arte[9]. Il frammento e la rovina non alludono quindi a un insieme assente o mutilato ma sono forme autonome. Ciò a partire dalla considerazione che qualcosa come lo spazio fisico, qualcosa quindi dotata di consistenza fenomenica e sensibile non si dà nella universalità «ma piuttosto nella verifica del sentire determinato e contingente»[10]. Esiste quindi per il frammento architettonico o urbano una verità dell’esperienza che si manifesta nella presenza parziale del frammento ma anche nella eloquente assenza della totalità dell’opera. Anzi come dirà Derrida «la rovina è l’esperienza stessa». Peraltro a favore della potenzialità insita nel degrado del frammento si era espresso Walter Benjamin: «dalle macerie delle grandi costruzioni, l’idea del loro progetto parla in modo più impressionante che non dai particolari che se ne potrebbero conservare»[11].
A una profonda riflessione sulla natura frammentaria dell’architettura è stata dedicata l’opera dell’artista-architetto Gordon Matta-Clark. Utilizzando la «distruzione» come procedura artistica Matta-Clark ha lavorato tagliando materialmente edifici  sia verticalmente che orizzontalmente (la serie Splitting), sia con tagli conici che attraversano tutto l’edificio (la serie Conical Intersections), sia asportandone parti. Pezzi di edifici tagliati si trovano oggi in vari musei e collezioni. Il suo lavoro è proprio nella linea degli argomenti qui affrontati, esso è teso a denunciare ogni possibile antagonismo tra costruzione e distruzione e costituisce una notevole riflessione sul frammento architettonico. Certamente Matta-Clark fa tesoro delle operazioni precedenti, e più note, di Burri che attraverso incisioni e combustioni ha indagato le tecniche di distruzione creativa in senso più assoluto. Ma altri artisti potrebbero essere citati: i manifesti strappati di Rotella e più recentemente Christian Daeger o Loredana Longo.
Più di ogni altro però vanno qui richiamate tutte le elaborazioni di Gustav Metzger, il teorico dell’arte distruttiva e autodistruttiva e soprattutto le attività che si sono svolte intorno al Simposio Destruction in Art del 1966 a Londra. In quel consesso, a partire dallo shock subito dalle violenze della guerra, gli artisti intuirono che la distruzione poteva essere rivoltata nel suo opposto, la costruzione: distruzione creativa[12].
Metzger in apertura al convegno così dichiarava: «In the context of the possible wipe-out of civilization, the study of aggression in man, and the psychological, biological and economic drives toward are possibly the most urgent work facing man». Il simposio Destruction in Art era stato concepito «to isolate the element of destruction in new art forms, and to discover any links with destruction in society»[13].
La rovina quindi si configurava in modo antitetico alla tradizione romantica.
Ma la città degradata e frammentaria alla quale abbiamo fatto riferimento non è una città dove le rovine alludono ad un grandezza perduta, sono ciò che ha resistito agli eventi. Esse non vanno intese entro la categoria delle rovine romantiche proprio perché queste ultime rimandano con la loro melanconica solitudine alla totalità assente e quindi ripristinabile. Come è stato osservato: «Rovina diventa su questa base un frammento di esistenza, di pensiero, di oggetto che si offre all’esperienza esibendo in primo luogo il dissolvimento del legame che ne faceva la parte di un tutto»[14]. A ciò potrebbero aggiungersi le note di Benjamin. Il frammento infatti rivela di più di quanto non faccia la ‘parte’, con il suo semplicistico rimando alla totalità. Il frammento, quindi, non è un ‘particolare sopravvissuto’. Così Benjamin, citando proprio l’architettura intesa come costruzione: «Dalle macerie delle grandi costruzioni, l’idea del loro progetto parla in modo più impressionante che non dai particolari che se ne potrebbero conservare»[15].
Ma come questa estetica dell’incompleto, del distrutto, del parziale si è fatta strada nella nostra cultura? Abbiamo visto come sia solo episodicamente riconosciuta dagli architetti e totalmente bandita dal pensiero degli ingegneri. Essa invece ha avuto risonanza tra artisti e fotografi, oltre che tra filosofi e personaggi della cultura più in generale. A tal proposito non c’è dubbio che il meticoloso reportage che Joel Meyerowitz ha portato avanti sui rottami delle torri gemelle a Manhattan[16] si spinga ben al di là della ideologia politica o culturale, pur con tutta la componente giudaica sullo sfondo. Esso, piuttosto, costituisce una significativa, sperimentale e profonda riflessione sulla nozione di distruzione, a nostro avviso ben più interessante di certe più epidermiche manifestazioni della cosiddetta architettura decostruttivista. Meyerowitz indaga meticolosamente il risvolto fisico della distruzione nel particolare del singolo elemento distrutto andando al di là della trappola di attuare una documentazione del ‘reperto’, o della ‘testimonianza’ del frammento. Simili note potrebbero essere fatte sulle fotografie di Alex MacLean, il quale spinge invece l’indagine sulla distruzione a scala territoriale. Tra le sette categorie nelle quali ha suddiviso le sue splendide foto aeree del territorio americano ritroviamo significativamente «destruction» che comprende tutti gli accumuli di manufatti distrutti, ma anche infrastrutture o città.
Ancora diverso è l’approccio di Gabriele Basilico in particolare nelle foto sulla Beirut sfregiata dalla guerra. Lo stesso potrebbe dirsi sulle foto di Detroit di Marchand e Meffre o del Belice di Sassano[17], o, ancora della Finlandia di Erola ed altri. In esse emerge la nozione di abbandono che connota le rovine architettoniche divenute tali eminentemente in quanto deprivate dell’espletamento della funzione.
Gli esempi fin qui proposti si spingono, a nostro avviso, più avanti della mera operazione estetizzante di chi ha ampliato il repertorio dei suoi riferimenti artistici con la inclusione del reperto. Questo è il caso di John Chamberlain, lo scultore americano, non a caso amico dell’architetto decostruttivista Frank Gehry. Chamberlain ha lavorato con le carcasse delle automobili, fondendole in interessanti organismi multicolori, dove tutti i modi della ‘trasformazione’ vengono messi in gioco: fusione, compressione, etc.
Distruzione e costruzione si manifestano quindi come un intreccio complesso e variegato e non certo come una pura opposizione. Ciò, come abbiamo visto, produce notevoli ricadute sul piano della concezione dell’ambiente e della definizione di arte e architettura. Strettamente connesso a questa tematica è invece il legame tra distruzione e costruzione attuato nella cosiddetta architettura decostruttivista, manifestatasi alla fine degli anni ’80 a partire dal sodalizio tra Peter Eisenman e Jacques Derrida e ufficializzata in una ben nota mostra al MOMA nel 1988. In essa, senza dubbio, l’estetica della distruzione viene platealmente inclusa nell’architettura con una spettacolarità che la avvicina a certi esperimenti manieristi ma anche alla sublimità della catastrofe, in senso kantiano. Le strutture in bilico di Zaha Hadid o dei Coop Himmelblau rimandano alla instabilità strutturale, già messa in scena a Bomarzo così come la simulazione del crollo escogitata da Eisenman ricorda le infrazioni di Giulio Romano come architetto e come pittore. A simili risultati perturbanti giungono le distruzioni “virtuali” di Ed Ruscha,Jeff Wall, Monica Bonvicini, o quelle fotografiche di Joel Meyerowitz, nelle quali la tragedia epocale è ormai coperta dal sudario del silenzio. Più complesso, ed accidentato, ci appare invece il percorso che vedrebbe l’architettura decostruttiva come corrispondente architettonico del decostruttivismo filosofico e letterario. Possiamo però affermare che se il decostruttivismo vuole svelare il meccanismo complesso che sta dietro le cose certamente la rivelazione di costruzione e distruzione come componenti della azione edificatoria è pertinente. Architettura distruttiva certamente oltre che decostruttiva.

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1 Ignasi de Solà-Morales (Barcellona, 1942 – Amsterdam, 2001) ricoprì la cattedra di Composizione architettonica presso il BIArch (Barcelona Institute of Architecture) e insegnò presso le Università di Princeton, Columbia, Torino e Cambridge. Tra i suoi studi si ricordano Rubió i Bellver y la fortuna del Gaudinismo (1975), Eclecticismo y vanguardia (1980), Diferencias: topografía de l'arquitectura contemporánea (1996).

2 M. Augé, Les temps en ruines,Editions Galilée, Paris 2003 (ed. it. Rovine e macerie. Il senso del tempo,Bollati Boringhieri, Torino 2004).

3 C. Rowe, F. Koetter, Collage City, MIT Press, Cambridge (Ma.) & London 1967.

4 M. Wigley, White Walls, Designers Dresses. The Fashioning of Modern Architecture, MIT Press, Cambridge (Ma.) & London 1995.

5 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica (1938), Il Melangolo, Genova 1983, p 278.

6 B. Tschumi, Architecture and Transgression, “Oppositions”, 7, 1976, pp. 56-63: «The most architectural thing about this building is the state of decay in which it is».

7 W. Morris, The Prospects of Architecture in Civilization, in Hopes and Fears for Art, Ellis & White, London 1882, pp. 169-217.

8 J. Derrida, Mémoires d’aveugle. L’autoportrait et autres ruines, R.M.N., Paris 1990; trad. it. di A. Cariolato e F. Ferrari, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Abscondita, Milano 2003.

9 E. Tavani, Il frammento e la rovina: su alcune eredità dell’estetica del ’900, in La nuova estetica italiana, a cura di L. Russo, Aesthetica Preprint. Supplementa,9, dicembre 2001, pp. 215-225, a p. 224: «Per Derrida il carattere di “rovina” è “originario” dell’evento e della struttura dell’opera d’arte, giacché il suo farsi reale che la costruzione del tratto che delinea la figura non possono che essere ellittici, citazioni di una totalità impossibile e di una identità ipotetica».

10 Ivi, p. 225.

11 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), Einaudi, Torino 1999, p. 253.

12 K. Stiles, The Story of the Destruction in Art Symposium and the “DIAS affect”, in Gustav Metzger. Geschichte Geschichte, a cura di S. Breitweiser, Generali Foundation and Hatje Cantz Verlag, Vienna & Ostfildern-Ruit 2005, pp. 41-65.

13 G. Metzger, estratti del discorso introduttivo al DIAS symposium, “Studio International”, 174, 1966, p. 238.

14 E. Tavani, Il frammento e la rovina…, 217.

15 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco…, p. 253.

16 J. Meyerowitz, Aftermath, Phaidon Press, New York, 2006.

17 M. Sbacchi, Distruzione e costruzione, in Armonia e distruzione nella fotografia di Franco Sassano, Libridine, Mazara del Vallo 2011, pp. 4-5. Per ulteriori approfondimenti sulla questione, rimando inoltre a N. Emery, Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Christian Marinotti, Milano 2001; L. Fernández-Galiano, Terremoto e terapia, in “Lotus International,104, Electa, Milano 2000, pp. 44-47; D. Gamboni, The Destruction of Art: Iconoclasm and Vandalism since the French Revolution, Yale University Press, New Haven 1997; A. Wilson, A Poetic of Dissent: Notes on a Developing Counterculture in London in the Early Sixties, in Art & the Sixties. This was Tomorrow, a cura di C. Stephens, K. Stout, Tate Publishing, London 2004, pp. 92-111.

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Temi di Critica - numero 10
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