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in questo numero contributi di Mario Alberto Pavone, Domenico Guarino, Michele Bertolini, Luca Vargiu.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

La presenza della tradizione pittorica italiana nei Salons di Diderot di Michele Bertolini

«Sarebbe ingiusto da parte nostra, una volta entrati nei particolari suddetti, non riconoscere il nostro debito verso l’Italia: la quale ci ha donato le scienze, che in seguito hanno fruttificato con tanta abbondanza in tutta Europa. Soprattutto all’Italia dobbiamo le belle arti e il buon gusto, e innumerevoli modelli d’ineguagliabile perfezione»[1]. Questo giudizio sull’Italia, identificato come il paese delle belle arti e del buon gusto, espresso da d’Alembert nel celebre Discours préliminaire dell’Encyclopédie, avrebbe senza dubbio trovato d’accordo, pur nella sua generalità, l’amico e collaboratore Diderot.

A uno sguardo più attento, la conoscenza della pittura italiana da parte di Diderot si manifesta come il risultato di una conoscenza mediata e retrospettiva, il prodotto di un’esperienza maturata prima di tutto grazie alla visita alle collezioni di quadri italiani presenti a Parigi, come la sezione aperta al pubblico del Cabinet du Roi, le collezioni del duca di Orléans, del barone d’Holbach, di Louis-Antoine Crozat, barone di Thiers, che verrà in parte acquistata da Diderot per conto di Caterina II. Diderot ebbe la possibilità di approfondire il suo rapporto con i modelli pittorici italiani anche grazie alla conoscenza delle riproduzioni di quadri italiani (nei Salons viene ricordato «l’immenso portafoglio di stampe»[2] del barone d’Holbach), per ripensare infine il ruolo e il valore dell’arte italiana attraverso l’elaborazione teorica della trattatistica accademica francese (Roland Fréart de Chambray, Charles-Alphonse Dufresnoy, Charles Le Brun, Roger De Piles) e della nascente estetica settecentesca del sentimento (Jean-Baptiste Du Bos).

Tracciando il perimetro delle conoscenze artistiche di Diderot relative alla pittura italiana, è possibile interrogare le tre funzioni euristiche che il sapere storico-artistico svolge all’interno del dispositivo testuale dei Salons: un ruolo innanzitutto critico, finalizzato cioè alla formulazione di un giudizio più consapevole e fondato sulle opere contemporanee, attraverso il rimando a un «modello di confronto» del passato, e all’eventuale denuncia di un «plagio» o di un «prestito»[3]; una funzione pedagogica nei confronti tanto degli artisti quanto del pubblico, che si sovrappone al valore pedagogico che Diderot attribuisce alla sua stessa critica d’arte, in quanto critica aperta al contributo offerto dagli specialisti e dagli artisti[4]; infine, una funzione creativa, dove il rinvio al modello pittorico di riferimento, spesso dissimulato, agisce come uno schema immaginativo latente per la produzione di nuovi tableaux, di scene drammatiche o romanzesche originali, inventate liberamente da Diderot. La conoscenza diretta e in parte indiretta delle opere d’arte italiane rappresenta prima di tutto un momento indispensabile per la formazione di un gusto educato e raffinato, necessario per giudicare e riconoscere i pregi e i difetti delle opere contemporanee. La scoperta del presente passa attraverso la consapevolezza delle opere del passato, nella misura in cui l’esperienza ripetuta, la visione reiterata, la lunga familiarità con i capolavori antichi e italiani permettono di acquisire quella sicurezza di giudizio che può perfezionare il giudizio sulle opere esposte al Salon. In questo senso, la consapevolezza iconografica delle opere del passato lavora all’interno del giudizio estetico come una variabile qualitativa in grado di distinguere il gusto squisito dell’uomo di lettere, gli occhi saggi e ricchi di esperienze dell’artista dal gusto del popolo, sensibile alla forza patetica ed emotiva delle opere, ma inconsapevole delle ragioni del proprio piacere. Tale consapevolezza storica è all’origine quindi della moltiplicazione, della stratificazione dei livelli del giudizio di cui i resoconti dei Salons costituiscono una preziosa testimonianza e al tempo stesso un interrogativo urgente per il philosophe il quale, di fronte alla «diversità dei giudizi della moltitudine che si riunisce in un Salon»[5], eleva a problema teorico e filosofico proprio il gusto e il giudizio che esso formula. In un rapido passaggio del Salon del 1761, Diderot può quindi lodare l’abate Galiani (notre Napolitain) per avergli fatto notare un quadro di Challe (Socrate sur le point de boire la ciguë), probabilmente una copia di un bassorilievo antico, dissotterrandolo dall’angolo buio in cui era stato posto nel Salon, e questo grazie alla lunga familiarità dell’amico italiano con l’arte antica, al suo «gusto squisito» educato al confronto con le opere d’arte del passato, alla visione di «tanti bassorilievi e di molte medaglie»[6].

In ogni caso l’uso del sapere offerto dalla storia dell’arte, dalla memoria delle opere del passato, non è mai neutro né finalizzato semplicemente a una messa in prospettiva storica degli artisti francesi contemporanei che espongono al Salon. Da ciò deriva la difficoltà, come ricorda Annie Becq in un saggio la cui formulazione è volutamente interrogativa (Diderot, historien de l’art?), di considerare l’opera critica di Diderot nei Salons come un testo dotato di un valore storico-artistico in quanto tale, benché ricchissimo di riferimenti e considerazioni sulla storia delle arti. E non soltanto perché il riferimento storico a una tradizione pittorica, laddove presente, è subordinato nei Salons all’elaborazione di un giudizio critico e valutativo, quanto piuttosto perché «in maniera generale, è evidente che ogni riflessione capace di aprirsi sulla storia è bloccata dal senso di una Norma»[7], a tratti mitica e assoluta, che nel Settecento prende il nome di Natura o di Antico. Tuttavia, come cercheremo di mostrare, con il Salon del 1767 l’apertura di un discorso storico nella riflessione critica sull’arte emerge proprio grazie all’arte dei moderni, di quei moderni che, come i pittori italiani del Rinascimento o del Barocco, sono degli antichi per gli artisti del Settecento.

Le conoscenze artistiche di Diderot e le sue fonti

Il punto di partenza per valutare criticamente il rapporto che Diderot ha intessuto con la tradizione figurativa italiana richiede una rapida analisi delle sue conoscenze dirette e indirette dell’arte italiana. La letteratura critica, a cominciare dagli studi di Jacques Proust e Jean Seznec per giungere alle fondamentali ricerche storico-critiche di Jacques Chouillet e di Else Marie Bukdahl[8], ha offerto un ricco materiale di studio per ricostruire il «museo di Diderot», «l’iniziazione artistica» del filosofo, un’iniziazione alle arti plastiche piuttosto tarda, che si affianca al lavoro di scrittura dei primi Salons, trovando il suo pieno perfezionamento probabilmente solo con i Salons del 1765 e del 1767. Una formazione estetica cui ha contribuito in maniera decisiva la frequentazione di Grimm, dell’abate Galiani, degli artisti e dei loro atelier (Chardin, Greuze, La Tour, Falconet), così come la lettura della trattatistica sull’arte francese. I pittori italiani maggiormente apprezzati e più spesso citati da Diderot (Raffaello, Correggio, Guido Reni, Tiziano, Annibale Carracci) rientrano nel gusto comune degli uomini colti del suo tempo, anche al di là dei confini della Francia. Si tratta di nomi ricorrenti anche nelle pagine dell’Analisi della bellezza di Hogarth, di Addison o di Walpole (per limitarsi all’area inglese)[9], prima che l’imporsi anche in Francia del neoclassicismo di Winckelmann e Mengs ristabilisca il ruolo e il valore dell’arte italiana moderna a scapito della pittura del Nord Europa, in particolare olandese. Il gusto pittorico diderotiano è, com’è noto, ancipite, eclettico, sensibile alle qualità proprie di ogni scuola pittorica, attento ai molteplici aspetti dell’arte figurativa[10], senza che ciò comporti delle contraddizioni interne o un’instabilità di giudizio, come sostenuto da alcuni interpreti, a cominciare da Manlio Busnelli o Lionello Venturi[11]. La scuola pittorica del classicismo francese (Poussin, Le Sueur), la tradizione figurativa italiana e la pittura olandese sia storica (Rubens, Rembrandt) sia di genere (Teniers, Snyders, Rembrandt, van Dyck, Berghem) si dividono il suo favore e il suo apprezzamento, che si colloca in una posizione ulteriore rispetto alle battaglie partigiane fra classicismo e rococò, o all’eco della disputa fra poussinistes e roubénistes, fra Antichi e Moderni, o fra i critici-artisti, legati al mondo dell’Accademia, e i critici-letterati. Inaugurando una critica d’arte «en technicien et en philosophe»[12], l’atteggiamento critico di Diderot è dialettico e strategico: si serve della tradizione del classicismo francese, del “grande gusto” della pittura storica e sublime per criticare la decadenza del «piccolo gusto» tipico del rococò (evidente nei quadri di Boucher), così come si richiama al dinamismo, alla potenza del colore e del movimento di Rubens e dei fiamminghi per attaccare le derive accademiche di un classicismo freddo, privo di verve, di anima, di immaginazione di un Vien o di Carle Van Loo.

Con particolare riferimento alla tradizione pittorica italiana, la trattatistica francese (Fréart de Chambray e in seguito Roger De Piles) aveva istituzionalizzato una modalità di lettura storico-critica della «resurrezione» (résurrection) della pittura italiana, a cominciare da Raffaello e Michelangelo, i quali, sollecitati dalla riscoperta delle sculture antiche, si erano «allontanati dalla maniera secca e piccola praticata da Cimabue, Ghirlandaio, Perugino e da tutti gli altri che li hanno preceduti negli ultimi secoli» per approfondire un nuovo sguardo sulla «cosa»[13]. Il XVI secolo rappresenta quindi una linea di confine a partire dalla quale prendere in considerazione l’arte italiana, dal momento che l’arte del Quattrocento verrà riscoperta soltanto nell’Ottocento e in parte nel Novecento[14]: un punto d’inizio, cui corrisponde un punto finale, conclusivo, ovvero l’arte italiana del Settecento, contemporanea ai Salons diderotiani, che Diderot, sulla scorta delle osservazioni di Grimm e dell’abate Richard, autore nel 1766 di unamonumentale Description historique et critique de l’Italie, ignora e trascura[15]. Una nota di Grimm nel Salon del 1765 è sotto questo aspetto particolarmente eloquente per il giudizio negativo espresso nei confronti della pittura italiana settecentesca: «Credo proprio che i grandi pittori siano oggi molto rari in Italia, proprio perché ce ne sono stati tanti nei due secoli precedenti»[16] (Diderot ripeterà quest’affermazione nel Salon del 1767).

Il rapporto con Grimm è stato sicuramente rilevante per l’educazione artistica di Diderot, così come decisivo per la costruzione di un repertorio iconografico italiano di riferimento. Se i primi Salons sono piuttosto avari di rimandi alla grande pittura italiana (con l’eccezione di Raffaello e dei Carracci), le note di Grimm spesso temperano e smorzano i giudizi entusiastici di Diderot nei confronti di alcune opere francesi, come quelle esposte da Deshays nel Salon del 1763 (illustre rappresentante per il filosofo di una scuola nazionale francese che ricorda i tempi di Le Brun e Le Sueur), proprio attraverso il confronto con l’arte italiana. Di fronte alle esclamazioni di entusiasmo di Diderot per Le mariage de la Vierge di Deshays («il più grande pittore di chiesa», «la più bella composizione che ci sia al Salon»), la cui Vergine è «nobile, grande, piena di modestia, vestita e ornata in modo naturale, nel vero gusto di Raffaello», Grimm commenta ironicamente: «È un insieme molto grande e bello; ma mi sembra di aver visto in questo genere delle opere più sublimi. I Carracci, Tintoretto, il Domenichino rovinano molto i quadri francesi quando ci si ricorda di loro»[17]. Il primato europeo della «scuola francese», difeso da Diderot[18], viene quindi relativizzato da Grimm, che scrive: «Se le nostre chiese e le nostre gallerie fossero ricoperte dei capolavori di Raffaello, di Tintoretto, di Domenichino, dei Carracci, di Correggio ecc…, dubito che il quadro di Fragonard [si tratta del celebre morceau de réception Corésus et Callirhoé, con cui il pittore era stato accolto con entusiasmo nell’Accademia] avrebbe prodotto la minima sensazione»[19].

Nelle Riflessioni critiche sulla pittura e sulla poesia di Du Bos, Diderot poteva inoltre ritrovare la ricostruzione dell’immagine del periodo d’oro della pittura italiana a partire dall’età dei papi Giulio II e Leone X, individuato come uno dei quattro secoli felici negli annali del genere umano, un secolo felice per la pittura anche per quelle cause fisiche e naturali, come la mitezza e dolcezza del clima, che influenzano maggiormente le arti figurative rispetto alla poesia e che s’intrecciano con la teoria climatologica del progresso delle arti di Du Bos[20]. Nelle pagine di Du Bos, oltre a una descrizione della decadenza delle grandi scuole di pittura italiane fiorite nel XVI secolo (Roma, Venezia, Firenze, Bologna, Parma) nel corso del Seicento[21], trova spazio inoltre l’articolazione operativa di quel giudizio comparativo che risulta particolarmente fecondo proprio in un contesto critico-descrittivo come quello dei Salons. Scrive infatti Du Bos: «Si può dare un’idea abbastanza precisa dei quadri a coloro che non li hanno visti e che non conoscono lo stile del pittore che li ha eseguiti, solo paragonandoli. […] Diamo l’idea del pittore sconosciuto paragonandolo ai pittori noti e questo sistema è il miglior metodo di descrizione, quando si tratta di questioni che riguardano il sentimento. Colora pressappoco come il tale, diciamo; disegna come questo; compone come quell’altro»[22]. Un ruolo importante nella formazione e nell’educazione del gusto visivo di Diderot è stato infine probabilmente svolto dai suoi «consiglieri artistici»[23], che in una lettera del 15 novembre 1769 vengono raccolti nei quattro nomi di Vernet, Vien, Cochin e Chardin: «Con quello che la natura mi ha dato in fatto di gusto e di giudizio, e con gli occhi di Vernet, di Vien, di Cochin e di Chardin, che prendo in prestito a piacere, è difficile che mi possasbagliare»[24]. Quattro artisti profondamente diversi per il genere di pittura praticato, ma accomunati da un’amicizia e da una vicinanza tali da formare un gruppo coerente, costituitosi proprio grazie al viaggio a Roma, di cui Cochin lasciò un compte-rendu con il suo Voyage d’Italie per la Correspondance littéraire[25]. L’influenza diretta da parte di uomini del mestiere, del tutto integrati nelle istituzioni accademiche francesi, sia pure secondo diversi livelli di gerarchia, spinge lo sguardo di Diderot a concentrarsi sugli elementi tecnici e formali dell’arte, con una particolare sensibilità nei confronti delle difficoltà poste dalla tecnica pittorica.

Se tuttavia il contatto diretto con i pittori suggerisce un confronto immediato, sul campo, fra i quadri esposti, finalizzato a discernere e individuare certi errori di esecuzione e a far risaltare le differenze fra i pittori maestri della loro tecnica e gli altri (soprattutto grazie al lavoro del tapissier Chardin incaricato dell’accrochage delle opere), il rapporto con i modelli italiani educa piuttosto a uno sguardo più indiretto, mediato, elaborato, culturalmente connotato. Non si tratta di una comparazione suggerita in virtù di un’esperienza diretta, grazie al confronto visivo fra due quadri esposti l’uno accanto all’altro (in cui l’occhio passa dall’uno all’altro), ma di un processo di rielaborazione che passa attraverso le funzioni e le attività della memoria e dell’immaginazione (un processo a occhi chiusi), attraverso dei pattern visivi che agiscono a volte in maniera anche implicita, inconsapevole, e che il giudizio e la critica devono esplicitare. Un processo di rielaborazione che in fondo il critico e l’uomo di gusto condividono con l’artista all’opera, il quale attinge al fondo infinito della sua memoria individuale e di una memoria collettiva, selezionando posture, gesti, fisionomie, atteggiamenti, movimenti simbolicamente pregnanti.

Al contrario dell’atteggiamento di molti artisti e critici della sua epoca, che rubricavano la conoscenza delle diverse tradizioni pittoriche e stilistiche all’interno del sapere tecnico dell’arte, di quella partie technique dell’arte che Diderot, in quanto «philosophe» e «letterato» sente il bisogno di colmare, soprattutto a partire dal Salon del 1763, attraverso la frequentazione degli artisti e dei loro atelier, la consapevolezza critica dei modelli pittorici di riferimento non può ridursi secondo Diderot a una sterile conoscenza formale, a un esercizio di confronto stilistico di forme o stilemi ricorrenti. Pur apprezzando il valore della conoscenza tecnica della pittura, delle sue parti e dei termini artistici, indispensabile strumento metodologico per leggere il linguaggio delle forme plastiche e riconoscere le qualità artistiche di un’opera, Diderot critico d’arte cerca di conciliare in una sintesi dialettica e filosofica la parzialità del punto di vista degli artisti come Nicolas Cochin («inesauribili sul piano della tecnica, ma muti sull’ideale che non trovano da nessuna parte») con la corrispettiva parzialità dei «littérateurs», attenti alla grandezza dell’idea, al sublime della composizione, ma incapaci di giudicare la povertà dell’esecuzione. Da questo punto di vista, Le voyage d’Italie di Nicolas Cochin, come ricorda Else Marie Bukdahl, «manifesta un interesse» unilaterale per «la parte tecnica» delle opere d’arte, in cui lo zelo dell’incisore si attarda a giudicare secondo «criteri formali» i «grandi pittori italiani, come Leonardo da Vinci, Tiziano, Michelangelo, il Tintoretto, Raffaello, Caravaggio»[26], indipendentemente dal contenuto ideale espresso nelle loro opere.

La presenza dei pittori italiani nelle pagine dei Salons testimonia piuttosto a favore di un altro interesse, un diverso sguardo critico, che inserisce la grande pittura italiana, sulla scia dell’insegnamento dei trattati francesi di Félibien, Le Brun, De Piles, nell’orizzonte del «grand genre», dello stile sublime proprio della pittura storica, in cui decisivo è il momento ideale, la scelta dell’istante più efficace e interessante in funzione della nobiltà del soggetto. La mente geniale di Carracci (come quella di Rubens o Le Sueur) avrebbe saputo trarre profitto dall’istante infelice scelto da Lépicié per la sua Descente de Guillame-le-Conquérant en Angleterre (1765), volgendo l’opera verso un sublime della tranquillità e del riposo che appartiene al lavoro ideale dell’artista[27]. «Raffaello, il Domenichino e Poussin sono tre grandi pittori originali» (e in seconda battuta Le Sueur e Rubens)[28] per la forza dell’ideale, la verve, le idee; «le grand goût» richiesto per la pittura storica, esige «una fronte grande e menti enormi come quelle che Raffaello, Tiziano, Le Sueur hanno portato sulle loro spalle»[29].

Il contatto con i grandi artisti del passato tuttavia è fecondo nella misura in cui si traduce in un’atmosfera culturale e sociale permanente, in un ambiente capace di stimolare e di elevare costantemente il gusto, realizzandosi in una presenza viva e attuale. I modelli del passato – tanti gli Antichi quanto quei pittori moderni divenuti antichi – devono quindi diventare, contro il gergo particolare, duro e barbaro, dei popoli dispersi, una lingua contemporanea e condivisa per gli artisti, una tradizione culturale viva, in un contesto favorevole alla competizione, allo scambio, alla comunicazione, alla concorrenza. Il vero problema emergente nei Salons non è quindi l’imitazione tecnica dei grandi capolavori, ma l’educazione del gusto, per cui non si tratta di «ordinare una scena come Raffaello, ma sentire come Raffaello ha nobilmente, semplicemente, grandiosamente ordinato» le sue figure. Senza questa preliminare comprensione sentimentale e cognitiva del fare dei grandi artisti, il contatto con i modelli di riferimento resta sterile e freddo e «il grande gusto che i nostri maestri e allievi hanno portato dalla scuola romana rischia di perdersi anche qui, nella capitale»[30], perché privato dell’atmosfera di vita e di cultura, dei costumi e delle condizioni morali e sociali che lo rendono un linguaggio condivisibile.

L’insegnamento dei pittori della scuola italiana pone problemi analoghi a quelli determinati dal rapporto del gusto e degli artisti contemporanei con gli antichi (peraltro «Anciens» nel Salon del 1767 è termine che definisce tanto i pittori del Rinascimento quanto gli scultori dell’antichità classica). Di fronte all’impossibilità di ricostruire storicamente il reale processo di sviluppo delle arti, l’artista, il critico o il letterato si trovano di fronte a belle opere d’arte antiche, senza averne mai conosciuto i maestri. Nei Pensées détachées, Diderot scrive, rielaborando un’osservazione già presente nel Salon del 1767: «Non avete mai visto [gli artisti del passato] con lo scalpello in mano; lo spirito della scuola per voi è perduto; non avete sotto gli occhi la storia in bronzo o in marmo dei successivi progressi dell’arte, dalle sue rozze origini fino al momento in cui ha raggiunto la perfezione»[31]. L’esempio, paradigmatico, è riferito allo sviluppo della scultura antica, ma di fronte all’estinzione delle scuole di pittura italiane del Rinascimento, anche l’insegnamento di Raffaello, di Tiziano, di Guido Reni, resta confinato, per lo sguardo degli artisti contemporanei, nella muta presenza della «cosa fatta», delle opere e delle loro riproduzioni. L’influsso dei maestri deve quindi essere ripensato non tanto nei termini di una diretta influenza stilistica o storica, ma sulla base di quel modello di storia ipotetica o congetturale dello sviluppo delle arti, di cui la celebre introduzione al Salon del 1767 offre un paradigma di riferimento esemplare. Sottratti alla loro rassicurante o schiacciante posizione di modelli assoluti e paradigmi ideali, le opere della tradizione pittorica devono essere poste in relazione con l’insieme dei valori di una cultura, sciogliersi nella dimensione vitale del gusto, di un linguaggio espressivo condiviso dalla comunità degli artisti, diventare presenze vitali dell’arte moderna.

Il plagio di Pierre: un’educazione artistica fallita

Jean-Baptiste Pierre è l’esempio negativo di un rapporto con i modelli italiani al tempo stesso servile e dissimulato, che non sa tradurre il contatto fecondo con la grande pittura italiana che l’artista ha potuto ammirare durante il suo soggiorno a Roma in energia creatrice, calore e forza immaginativa. Il giudizio espresso da Diderot nel Salon del 1761 è particolarmente duro e sarcastico, culminando nella denuncia di plagio nei confronti di Annibale Carracci: «La vostra Descente de Croix non è un’imitazione di quella di Annibale Carracci, che è al Palais Royal, e che voi conoscete bene? (…) Dovete sapere, signor Pierre, che non si deve copiare, o al limite copiare meglio; e in qualsiasi maniera lo si faccia, non bisogna screditare i propri modelli»[32]. Nei Salons successivi Diderot non mancherà di ricordare il soggiorno romano dell’artista, i molti privilegi di cui gode in quanto pittore del Re, il suo inserimento gerarchico nel mondo accademico e politico, e soprattutto l’incapacità di trasformare l’influsso italiano in elaborazione artistica personale e autonoma. In fondo la carriera artistica di Pierre, brevemente tratteggiata da Diderot, è il sintomo di un’educazione artistica fallita, di un processo pedagogico mancato, che sfocia nell’accademismo e nella freddezza. «Al suo ritorno dall’Italia», scrive Diderot nel 1763, «vent’anni fa, Pierre si ricordava di Guido Reni, del Correggio, di Raffaello, di Veronese e dei Carracci, che oggi chiama delle croste. Da 12 anni, il suo stile è sempre degenerato, e la sua boria è cresciuta nella misura in cui il suo talento si è perso»[33].

L’applicazione, nell’analisi del quadro di Pierre del 1761, di quel metodo comparativo fra antico e moderno che fa avanzare enormemente la conoscenza delle arti, anticipa ciò che nel Salon del 1767 sarà formulato in modo consapevole e metodico, come un vero e proprio programma di lavoro per una nuova analisi iconografica delle opere:

Immaginatemi di ritorno da un viaggio in Italia, con l’immaginazione ancora piena dei capolavori che la pittura antica ha prodotto in questi luoghi. Immaginate che le opere della scuola fiamminga e di quella francese mi siano familiari. Ottenete dalle persone ricche cui destinate i miei quaderni, l’ordine o il permesso di far eseguire degli schizzi di tutte le opere con cui dovrò intrattenerli; allora, avrete un Salon del tutto nuovo. Una volta conosciuti meglio gli artisti dei secoli passati, confronterei la maniera e il fare di un pittore moderno con il fare e la maniera di qualche pittore antico più vicino a lui, e voi avreste subito un’idea più precisa del colore, dello stile e del chiaroscuro. Se ci fossero una disposizione, degli accadimenti, una figura, una testa, un atteggiamento, un’espressione copiati da Raffaello, dai Carracci, da Tiziano o da un altro, riconoscerei il plagio e lo denuncerei.[34]

Il rispetto dei modelli classici italiani non deve per il critico Diderot tradursi in una nuova forma di dipendenza intellettuale e artistica nei confronti degli autori e della loro autorità. Al contrario, il riferimento ai modelli pittorici, così come il richiamo alla verità di natura e all’osservazione sperimentale, svolge, soprattutto nei Saggi sulla pittura, una funzione strategica e metodologica di liberazione dai pregiudizi sedimentati dallo studio accademico delle pose, del modello vivente, dello «scorticato», dall’«eterno studio scolastico del modello» che si pratica nelle Accademie di pittura. La «perfida conoscenza» accademica riempie l’immaginazione di «azioni, posizioni, figure false, affettate, fredde e ridicole», «fantasmi grotteschi» da cui il giovane pittore difficilmente potrà liberarsi, «esorcizzandoli e cacciandoli via dalla testa»[35]. All’immagine, ricorrente in Diderot, di una mente posseduta da immagini e idee ingombranti, il filosofo risponde nei Salons con un’altra figura di possessione: quella personale e autobiografica dei fantasmi della pittura che lo inseguono e si depositano nella mente come un dizionario iconografico permanente. «L’immaginazione mi sembra più tenace della memoria. – scrive Diderot nel 1761 – Ho i quadri di Raffaello più presenti dei versi di Corneille, dei bei passi di Racine. Ci sono delle figure che non mi abbandonano. Le vedo; mi seguono; mi ossessionano. Ad esempio, quel San Barnaba che si strappa i vestiti sul petto, e tanti altri, come farò per sfuggire a questi spettri? E come fanno i pittori?»[36].

Questa immagine impressiva della memoria e dell’immaginazione, cui Diderot farà riferimento anche negli Éléments de physiologie, è lo strumento di base su cui si fonda il dispositivo di scrittura dei Salons e delle sue lunghe descrizioni[37]. La memoria delle immagini è un tapissier che riaccende l’emozione e riscalda l’immaginazione, e che permette a Diderot, sullo scorta degli appunti presi durante le visite diurne all’esposizione e di eventuali supporti visivi e testuali (incisioni, schizzi, libretto), di rievocare e ricordare la sera, di notte, i quadri per descriverli. Il lavoro di scrittura dei Salons passa attraverso l’attività fondamentale della memoria e dell’immaginazione, del ricordo e della presentificazione di un’assenza. Diderot sembra cogliere in questo processo alchemico, di rielaborazione e figurazione attraverso la parola di un’immagine assente (che rinnova il fascino e la magia dell’ekphrasis), un processo affine a quello della creazione artistica del pittore, al laboratorio in cui la techne dell’artista produce un’immagine a partire da altre immagini, da altri testi. E giunge, implicitamente, a proporlo come modello per ripensare in modo fecondo il rapporto dei pittori dei Salons con i loro modelli pittorici, con i grandi maestri.

L’elaborazione immaginativa dei ricordi visivi pittorici gioca peraltro un ruolo al di là dei confini dei Salons, nella formazione di un immaginario drammatico e letterario, in cui le immagini della pittura, al di là dei riferimenti espliciti e consapevoli, diventano, come ha mostrato Jacques Chouillet in un saggio affascinante, clichés stilistici, reminiscenze incontrollate capaci di modellare l’organizzazione di scene, sequenze, quadri letterari o teatrali[38]. Il modello antico, producendo i suoi effetti al di là del rimando esplicito o della citazione consapevole, lavora dall’interno, come uno schema generativo, nella produzione di molti tableaux dei lavori teatrali o dei romanzi di Diderot (in particolare Le Fils naturel, Le Père de famille e La Religieuse). Spesso Diderot fa subire ai suoi modelli pittorici impliciti un processo di laicizzazione o di interiorizzazione, di passaggio da una forma di religiosità cristiana a una sacralità laica o pagana. Questo processo di metamorfosi dei clichés stilistici si ritroverà, come vedremo, anche nella possibilità di una sintesi fra paganesimo e cristianità incarnata dall’opera di Poussin, di Michelangelo e di Raffaello ed esplicitata nel Salon del 1767.

La svolta del Salon 1767

Il Salon del 1767 costituisce sotto molti aspetti un punto di svolta (e probabilmente di non ritorno) nelle concezioni estetiche e nelle valutazioni critiche di Diderot: in queste pagine anche il rapporto con la pittura italiana, e con una certa interpretazione classica della tradizione iconografica italiana, cambia registro e muta accento. Diverse esperienze e letture maturate negli ultimi anni hanno favorito un approfondimento critico da parte di Diderot dell’esperienza estetica della pittura: la frequentazione assidua delle collezioni di opere d’arte (del re, del duca di Orléans, del barone d’Holbach, del barone Crozat de Thiers, dei capolavori, italiani e olandesi, acquistati dal principe Goliytzyn per conto di Caterina II) spinge Diderot a «un’analisi e descrizione dettagliata dello stile e del posto occupato dalle opere all’interno della tradizione artistica»[39], a una messa in prospettiva storica che emerge in modo evidente nei due ampi commenti critici del Saint Denis di Vien e del Miracle des Ardents di Doyen e che porterà Diderot a formulare un giudizio più severo nei confronti dello stato attuale della scuola francese contemporanea. Il confronto teorico con il saggio di Burke sul bello e il sublime e la difesa dell’ideale classico di Winckelmann, di Mengs e di Daniel Webb suggeriscono al filosofo la possibilità di una terza via di comprensione estetica della forza e dell’energia della pittura fra l’equilibrio e l’armonia del gusto classico, tipica della pittura idealizzante, e il sublime moderno caratteristico dei paesaggi di Vernet o dei quadretti di rovine di Hubert Robert.

Questa via era già stata annunciata e intravista dal philosophe nei Salons del 1761 e del 1763 di fronte alle opere sacre di Deshays, in particolare con la sua serie dei martiri cristiani. La pittura storica ispirata al «meraviglioso cristiano» è infatti capace più del «meraviglioso pagano» di esprimere un pathos tragico e terribile, imparentato con l’oscurità del sublime, e quindi di incarnare quel tipo di pittura espressiva che, senza rinunciare all’ideale, all’idea, sa produrre nello spettatore reazioni emotive e sensibili violente di terrore e di piacere, di spavento e di pietà[40]. Diderot persegue come modello di riferimento un ideale espressivo della pittura, capace di agire al tempo stesso sui sensi, sulle emozioni e sull’intelligenza, di colpire gli occhi e l’anima, liberando un sapere sensibile del corpo che passa attraverso un’interpretazione estetica del dolore e della sofferenza da parte del pittore. La pittura moderna è in grado di produrre un «pittoresco cristiano», dominato dalla dimensione visiva, iconica, da contrappore all’eccellenza della «poesia dei pagani»[41]. Questo criterio espressivo porta Diderot a superare la tradizione del classicismo francese e la lettura che il classicismo aveva dato della cultura figurativa italiana, stimolando una comprensione più profonda e originale anche di alcuni momenti decisivi della storia della pittura italiana (laddove nel 1763 il modello pittorico decisivo del «teatro della pittura cristiana» era rappresentato dalla pittura del Nord Europa, da Rubens e da Rembrandt).

È in questo contesto che emerge al termine del Salon del 1767, un riferimento importante, ancorché raro e isolato e mediato da Galiani e Webb, a Michelangelo, alla scultura del Cristo portacroce (in Santa Maria sopra Minerva a Roma) e al Cristo giudice del Giudizio universale della Cappella Sistina. Diderot conosceva con ogni probabilità la prima opera attraverso un calco o una stampa di Matham, e la seconda grazie alle incisioni che il mantovano Giorgio Ghisi aveva ricavato nel Cinquecento. Ciò che la «mitologia cristiana» possiede e che manca alla «mitologia degli antichi», è appunto la possibilità di interpretare in un senso drammatico e sublime, moderno e ispirato, la monumentalità e l’intensità della scultura antica, realizzando uno scambio fra due sistemi di credenza e due sistemi di rappresentazione. Rovesciando e integrando la teoria del modello ideale esposta nell’introduzione al Salon del 1767, secondo cui solo gli antichi, che non avevano antichi alle loro spalle, hanno potuto raggiungere l’ideale di bellezza e la perfezione artistica, i pittori moderni possono qui suscitare un’esperienza sublime che nasce dall’incontro fra la memoria dell’antico e l’attualità della pittura sacra, incarnata da un’immagine-palinsesto, sintesi di un punto di vista sensibile e carnale sul corpo e di una visione spirituale e ideale.

La tradizione pittorica rinascimentale o barocca può offrire l’esempio di un’interpretazione creativa e originale dell’antico, che si sottrae al rischio di un asservimento ai modelli di riferimento del passato: l’esempio di un rapporto con l’altro come sorgente e fonte per la propria creazione artistica e letteraria (quello stesso rapporto creativo che Diderot ha articolato con la «parola degli altri»[42]) sembra arrestare il processo di inevitabile decadenza della perfezione originaria delle arti. Il punto di scarto rispetto al pensiero dell’età classica e a un’interpretazione del progresso storico come processo sottoposto alla norma di una perfezione ideale posta all’origine dei tempi è decisivo[43]. Da una parte Diderot è certamente attratto da un paradigma normativo e ciclico che regola l’ascesa, il perfezionamento e la decadenza del gusto, del genio e delle arti, per cui la storia dell’arte non è che la declinazione contingente di un processo di variazione e metamorfosi di alcune regole costanti. Dall’altra parte la presenza dei grandi modelli della pittura italiana complica e mette in discussione questo paradigma, aprendo i Salons a un difficile rapporto con la storicità e con un divenire del tempo non puramente ciclico. Diderot può quindi suggerire proprio nel Salon del 1767 a Doyen di sviluppare un rapporto creativo e non mimetico con i maestri italiani e fiamminghi[44], proprio perché questi stessi maestri hanno saputo fondere «con tale arte la Bibbia con il paganesimo, gli dei della favola antica con i personaggi della mitologia moderna che soltanto gli occhi colti e ricchi di esperienze se ne accorgono, mentre gli altri restano semplicemente soddisfatti»[45].

La superiorità di questo tipo di «pittura cristiana» non consiste più semplicemente nella scelta del soggetto, in un criterio letterario, iconografico, o nel primato accademico della pittura storica (ancora dominante come criterio di giudizio nei primi Salons), quanto piuttosto nell’interpretazione pittorica del soggetto, nel modo con cui l’artista (Michelangelo, Rembrandt o Rubens) è stato capace sul piano del linguaggio delle forme di interpretare e di suggerire l’antico nel moderno.

Il passo merita di essere riportato nella sua complessa articolazione:

Webb, scrittore elegante e uomo di gusto, dice nelle sue riflessioni sulla pittura che i soggetti tratti dai libri santi o dai martirologi non possono mai offrire lo spunto per un bel quadro. Questo uomo non ha visto né il Massacro degli Innocenti di Le Brun, né il Massacro di Rubens, né La Deposizione dalla croce di Annibale Carracci, né San Paolo che predica ad Atene di Le Sueur, né quell’apostolo o discepolo (non so chi sia) che si strappa le vesti sul petto, alla vista di un sacrificio pagano, né la Maddalena che asciuga i piedi del Salvatore con i suoi bei capelli; né la stessa Santa, voluttuosamente distesa a terra, nella sua grotta, del Correggio; né una folla di Sacre Famiglie, più commoventi, più belle, semplici, nobili, interessanti le une rispetto alle altre; né la mia Vergine del Barocci che tiene sulle ginocchia il bambino Gesù, in piedi e tutto nudo. Il nostro abate Galiani, che amo ascoltare sia quando sostiene un paradosso sia quando dimostra una verità, pensa come Webb, e aggiunge che Michelangelo l’aveva ben compreso, rifiutando i capelli piatti, le fisionomie pallide, magre, meschine, comuni e tradizionali degli apostoli; egli le aveva sostituite con il carattere proprio dell’antico, e aveva mandato ai religiosi che gli avevano chiesto una statua di Gesù Cristo, l’Ercole Farnese con in mano la croce; in altre opere, il nostro buon Salvatore è Giove con la saetta. […] Prima di tutto mi dovrei domandare: il fatto è vero? Precisamente, che opere sono? Dove si possono vedere? In seguito, cercherò se Michelangelo ha potuto, con una certa ragione, porre la figura dell’uomo in contraddizione con i suoi costumi, con la sua storia e la sua vita. Le proporzioni, i caratteri, le figure degli dei pagani non erano determinati dalle loro funzioni? […] Ma ecco ciò che ha fatto Poussin: ha cercato di rendere nobili i caratteri; si è sottomesso secondo le convenienze dell’età alle proporzioni dell’antico; ha fuso, con una tale arte, la Bibbia con il paganesimo, gli dei della favola antica con i personaggi della mitologia moderna che solo gli occhi colti e ricchi di esperienze se ne accorgono, e i rimanenti sono soddisfatti. Ecco la saggia via. È la via di Raffaello, e non dubito che non sia stata quella di Michelangelo.[46]

La citazione offre diverse suggestioni utili a illuminare il complesso rapporto di Diderot con la tradizione pittorica italiana, nella misura in cui, fra l’altro, questo rapporto rilancia la questione della querelle fra gli Antichi e i Moderni, e soprattutto reinterpreta la dialettica fra imitazione degli Antichi e imitazione della Natura al centro del serrato dibattito a distanza con le posizioni di Winckelmann dell’introduzione al Salon del 1767 e della sezione sulla scultura del Salon del 1765. Senza dilungarsi nel commento a un modesto quadro di San Luigi di un autore non identificato, che ripete le fisionomie tradizionali e convenzionali dei santi e del Cristo, Diderot articola il suo commento intorno a una digressione che investe alcuni temi ampiamente dibattuti nei Salons come nei Saggi sulla pittura: il rapporto fra mitologia pagana e mitologia cristiana, la rappresentabilità degli episodi della storia sacra (l’iconicità della mitologia cristiana di fronte al primato della poesia degli Antichi), la possibilità di una sintesi fra classicità e storia sacra.

L’introduzione al Salon del 1767 indicava nel ritorno allo stato di barbarie, a una condizione di ignoranza e di oblio consapevole l’unica risorsa dei moderni per riconquistare gradualmente il livello di perfezione ideale degli Antichi, dal momento che l’imitazione dell’Antico rappresenta solo una via indiretta e di secondo livello per riconoscere la Natura e approdare al «modello ideale», alla «linea vera di bellezza»[47]. La conclusione dello stesso Salon suggerisce un’altra possibilità di sviluppo per un’arte che non dimentica la sua relazione decisiva con la tradizione classica. Il rapporto con l’antico di molte figure della mitologia cristiana della pittura e scultura italiana, a cominciare dalla figura di Cristo di Michelangelo, paragonabile all’Ercole Farnese e a Giove, non viene interpretato da Diderot né come un simbolo dell’assimilazione delle figure cristiane ai personaggi e agli dei della mitologia antica (seguendo l’anticomania di Galiani o di Webb, o il gusto antiquario di Caylus, oggetto di ironiche critiche), né come il segnale di un’indebita confusione fra le due mitologie e fra soggetti eterogenei (confusione già criticata nei Saggi sulla pittura). Diderot è consapevole dei rischi derivanti dalla commistione stilistica e iconografica fra paganesimo e cristianesimo, così come della necessità per il pittore, più volte ribadita nei Salons, di una resa chiara, priva di ambiguità, indiscutibile, del soggetto, del primato dell’iconografia. Eppure, la grande pittura italiana, tanto Raffaello quanto Michelangelo, tanto Carracci o Correggio quanto Tiziano, sembra suggerire una terza via, una via di uscita dalle aporie in cui si agita il Salon del 1767. Diderot tuttavia esita a rendere esplicita questa intuizione: non la tematizza direttamente, anche in virtù di una conoscenza solo indiretta, testuale, mediata dalle riproduzioni, delle opere originali. Il suo riferimento iconografico maggiore resta ancora una volta Poussin, che ha saputo fondere gli dei della favola antica con le figure della mitologia cristiana: attraverso la sua «saggia via», Diderot può giustificare la scelta di Michelangelo di prendere come modello per il Cristo del Giudizio Universale della Cappella Sistina un eroe o un dio antico, o legittimare Raffaello che rilegge il suo Sacrificio a Listra, sottraendosi alle fisionomie piatte e convenzionali dell’iconografia sacra.

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1 J.R. D’Alembert, Discorso preliminare, in D’Alembert-Diderot, La filosofia dell’Encyclopédie, a cura di P. Casini, Laterza, Roma-Bari 1966, p. 101. Cfr. P. Casini, D’Alembert et l’Italie, in “Diderot Studiesˮ, n. 31, 2009, pp. 369-389.

2 D. Diderot, Salon 1767, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera: i Salons di Diderot, con la collaborazione di M. Bertolini, R. Messori, C. Rozzoni, P. Vincenzi, Le Monnier, Firenze 2012, p. 204.

3 Già nel Salon del 1765, Diderot articola una distinzione fra prestito e plagio, che sarà ripresa e approfondita nel Salon del 1767: «Voglio che un pittore, che un poeta istruisca, ispiri, riscaldi un altro pittore, un altro poeta; e questo prestito di lumi e d’ispirazione non è affatto un plagio» (D. Diderot, Salon 1765, in Salons, ed. a cura di J. Seznec, Clarendon Press, Oxford 1975, vol. 2, p. 186).

4 Cfr. E. M. Bukdahl, Diderot critique d’art, vol. 1, Rosenkilde et Bagger, Copenhagen 1980-1982, pp. 345-347.

5 D. Diderot, Salon 1763, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, p. 129.

6 D. Diderot, Salon 1761, in Salons, ed. a cura di J. Seznec, Clarendon Press, Oxford 1975, vol. 1, p. 124.

7 A. Becq, Diderot, historien de l’art?, in “Dix-huitième Siècleˮ, n. 19, 1987, p. 429.

8 Cfr. J. Proust, L’initiation artistique de Diderot, in “Gazette des Beaux-Artsˮ, n. 55, 1960, pp. 225-232; J. Seznec, Le musée de Diderot, in “Gazette des Beaux-Artsˮ, n. 56, 1960, pp. 343-356; J. Chouillet, La formation des idées esthétiques de Diderot: 1745-1763, Armand Colin, Paris 1973; E. M. Bukdahl, Diderot critique…, voll. 2, 1980-1982.

9 Cfr. F. Antal, Hogarth e l’arte europea, trad. it. di A. De Caprariis, Einaudi, Torino 1990, p. 308.

10 Cfr. G. May, Diderot et Baudelaire critiques d’art, Minard, Paris 1957, pp. 43-45.

11 Cfr. M. Busnelli, Diderot et l’Italie: reflets de vie et de culture italiennes dans la pensée de Diderot, Slatkine Reprints, Genève 1970 (ristampa dell’edizione Champion, Paris 1925), pp. 197-213 (Il settimo capitolo di quest’opera s’intitola Diderot et la peinture italienne); L. Venturi, Storia della critica d’arte, Einaudi, Torino 1964 (prima edizione in lingua inglese 1936).

12 Cfr. M. Modica, Diderot critico d’arte, in D. Diderot, La promenade Vernet, a cura di M. Modica, Nike, Milano 2000, p. 26.

13 Cfr. R. De Piles, Conversations sur la connoissance de la peinture et sur le jugement qu’on doit faire des Tableaux , 1677, p. 95: «Ce n’est que par les restes qui ont evité la fureur des Barbares, que Raphaël et Michelange, se sont tirés de la manière seche & petite qui a esté pratiquée par Cimabue, Ghirlandaio, le Perugin, & par tous les autres qui les ont precedéz dans les derniers siècles». Su questi temi, cfr. P. Quintili, Sur quelques sources de Diderot critique d’art, in “Recherches sur Diderot et sur l’Encyclopédieˮ, n. 33, 2002, pp. 97-133.

14 Cfr. G. May, Diderot et Baudelaire…, 1957, pp. 43-45.

15 Cfr. D. Diderot, Salon de 1767. Ruines et paysages, ed. a cura di E.M. Bukdahl, M. Delon e A. Lorenceau, Hermann, Paris 1995, p. 330: «La pittura e la scultura spariscono in Italia. Si fanno delle belle copie: nessuna opera interessante». Pur criticando la sterilità pedante e lo spirito meschino e superstizioso dell’abate Richard, Diderot sottoscrive il suo giudizio critico nei confronti dell’arte italiana del Settecento. Al contrario, sono numerosi e costanti i riferimenti di Diderot alla pittura di Salvator Rosa. Sui rapporti fra Diderot e l’artista napoletano del Seicento, cfr. J. Patty, Salvator Rosa in French Literature: from the Bizarre to the Sublime, University Press of Kentucky, Lexington 2005.

16 D. Diderot, Salon 1765…, 1975, p. 200.

17 D. Diderot, Salon 1765, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, pp. 131-133. La superiorità delle scuole italiane su quella francese è un motivo costante delle osservazioni di Grimm: «E infine che cosa sono Van Loo e Deshays a fianco di un Raffaello, di un Correggio, di un Guido Reni, dei Carracci?» (D. Diderot, Salon 1763, I, p. 238).

18 Un primato difeso soprattutto nei primi Salons, anche in virtù del valore dell’istituzione accademica e statale del Salon come esposizione pubblica di opere d’arte: «Non abbiamo mai avuto un Salon più bello di questo. (…) Non si dipinge più nelle Fiandre. Esistono pittori in Italia e in Germania, ma sono meno riuniti; hanno meno occasioni di emulazione e un minor incoraggiamento. La Francia è quindi l’unico paese in cui quest’arte viene sostenuta, e anche con un certo splendore» (D. Diderot, Salon 1761…, 1975, p. 140).

19 D. Diderot, Salon 1765…, 1975, p. 200.

20 Cfr. J.-B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, a cura di M. Mazzocut-Mis e P. Vincenzi, trad. it. di M. Bellini e P. Vincenzi, Aesthetica, Palermo 2005, pp. 237-248.

21 Cfr. ibid., pp. 253-254.

22 Ibid., p. 154.

23 Cfr. C. Michel, Les conseillers artistiques de Diderot, in “Revue de l’art”, n. 66, 1984, pp. 9-16.

24 D. Diderot, Correspondance (Janvier 1769-Decembre 1769), ed. G. Roth e J. Varloot, Éditions de Minuit, Paris 1963, t. 9, pp. 276-277.

25 Cfr. Ch.-N. Cochin, Voyage d’Italie, ou recueil de notes sur les ouvrages de peinture et de sculpture qu’on voit dans les principales villes d’Italie, Paris 1758, 3 voll.

26 E. M. Bukdahl, Diderot critique…, vol. 1, 1980-1982, p. 347.

27 Cfr. D. Diderot, Salon 1765, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, p. 185.

28 D. Diderot, Salon 1765…, 1975, p. 172.

29 D. Diderot, Salon 1763…, 1975, p. 212.

30 D. Diderot, Salon 1765…, 1975, pp. 126-127.

31 D. Diderot, Pensieri sparsi sulla pittura, la scultura, l’architettura e la poesia, per continuare i “Salons”, in Sulla pittura, a cura di M. Modica, Aesthetica, Palermo 2004, p. 124. Cfr. D. Diderot, Salon 1767, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, p. 211: «E poi, amico mio, credete che non ci sia nessuna differenza fra coloro che appartengono alla scuola primitiva e ne sono al corrente, condividono lo spirito nazionale, sono animati dal calore e compenetrati dalle visioni, dai procedimenti, dai mezzi di quelli che hanno fatto la cosa, e coloro che vedono semplicemente la cosa fatta? Credete che non ci sia nessuna differenza fra Pigalle e Falconet a Parigi, di fronte al gladiatore, e Pigalle e Falconet ad Atene, di fronte ad Agasia?».

32 D. Diderot, Salon 1761, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, p. 114-115.

33 D. Diderot, Salon 1763…, 1975, pp. 207-208.

34 D. Diderot, Salon 1767, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, p. 203.

35 D. Diderot, Saggi sulla pittura, in Sulla pittura…, 2004, pp. 41-42.

36 D. Diderot, Salon 1761…, 1975, pp. 133-134. Diderot si riferisce alla figura di San Barnabanel Sacrificio a Listra di Raffaello, di cui Diderot poteva vedere nella Grande Galerie del Louvre, durante i Salons, gli arazzi ricavati dai cartoni del ciclo degli Atti degli Apostoli.

37 Cfr. D. Diderot, Éléments de physiologie, in Œuvres complètes, éd. H. Dieckmann, J. Varloot, Hermann, Paris 1987, t. XVII, pp. 468-480 (si veda in particolare la metafora del cervello come una massa di cera sensibile e vivente su cui s’imprimono senza sosta i ricordi).

38 Cfr. J. Chouillet, Le rôle de la peinture dans les clichés stylistiques et dramatiques de Diderot, in “Europeˮ, maggio 1984, pp. 150-158.

39 E. M. Bukdahl, Diderot entre le “modèle idéal” et le “sublime”, in D. Diderot, Salon de 1767…, 1995, p. 8.

40 Cfr. D. Diderot, Salon 1761, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, pp. 118-120 (in particolare il commento al Saint Victor, al Saint André e al Saint Benoît di Deshays); D. Diderot, Salon 1763, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, pp. 130-137.

41 Cfr. ibid., pp. 131-132: «Che non mi si venga a dire […] che la nostra mitologia si presta meno alla pittura rispetto a quella degli Antichi! […] Il sangue che l’abominevole croce ha fatto versare da tutte le parti è proprio un’altra risorsa per il pennello tragico. […] I crimini che la follia di Cristo ha commesso e fatto commettere sono altrettanti grandi drammi».

42 Cfr. J. Starobinski, La parola degli altri, in Diderot e il demone dell’arte, a cura di M. Bertolini, Mimesis, Milano 2014, pp. 45-65.

43 Cfr. A. Becq, Diderot, historien…, 1987.

44 Cfr. D. Diderot, Salon 1767, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, p. 268: «Se Doyen ha preso spunto per questa figura, lo ha fatto ut conditor et non ut interpres».

45 D. Diderot, Salon de 1767…, 1995, p. 477.

46 Ibid., pp. 474-477.

47 Cfr. D. Diderot, Salon 1767, in M. Mazzocut-Mis, Entrare nell’opera…, 2012, p. 211: «Il modello ideale della bellezza […] che si corrompe, si ritroverà forse in un popolo in modo perfetto solo attraverso il ritorno allo stato di barbarie; dato che questa è l’unica condizione in cui gli uomini, convinti della loro ignoranza, possono decidersi a ritornare alla lentezza di una ricerca a tastoni; gli altri restano mediocri proprio perché nascono, per così dire, sapienti».

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Temi di Critica - numero 11
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