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in questo numero contributi di Antonio Cuccia, Salvatore Mercadante, Edgard Fiore, Paolo Emilio Carapezza.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

La “Madonna Greca” di Alcamo. Un dipinto per Jacopo Siculo di Antonio Cuccia

In onore di Antonino Giuseppe Marchese

Un curioso episodio che, attorno al terzo decennio del Cinquecento, registra il trasferimento di un pittore umbro in Sicilia e a sua volta di un pittore siciliano in Umbria, accende un sospetto in Teresa Pugliatti: «non si sa se si tratta di una pura coincidenza poiché è anche possibile che si fosse instaurato un filone di rapporti tra la Sicilia e l’Umbria».[1] I due pittori in questione sono Orazio Alfani (1510-1589), perugino documentato a Palermo e Trapani,[2] e Jacopo Siculo, alias Giacomo Santoro (1490 ca. – 1544), da Giuliana (PA), documentato in Umbria, con bottega a Spoleto dal 1530 al 1543.[3] Accomuna i due artisti il lato oscuro della loro attività; per l’Alfani quella svolta in Sicilia, documentata dal 1539 al 1544, di difficile reperibilità, antecedente al rientro in patria; mentre per il Santoro l’attività d’apprendistato svolta in Sicilia, prima dell’approdo a Roma e poi nella definitiva sede spoletina. Un’opera emblematica in tal senso, che coniuga congiunture umbro-laziali comuni ai due pittori, è il dipinto su tavola, della chiesa minorita di Santa Maria di Gesù ad Alcamo, raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Francesco d’Assisi e Benedetto da Norcia venerati da Federico Enriquez e dalla consorte Anna de Cabrera assieme ai componenti del Casato. Il dipinto viene comunemente menzionato col titolo di “Madonna Greca”, derivatogli, secondo l’interpretazione di Gioacchino di Marzo, dall’acconciatura “alla greca” di Anna de Cabrera, rispondente alle costumanze albanesi delle donne di Piana dei Greci. Diana Malignaggi[4] fa sua questa tesi motivandola con l’attenzione verso la varietà dell’abbigliamento e delle acconciature della moda medievale e rinascimentale, oggetto di ricerche e di studio ai tempi del Di Marzo. Più ragionevolmente trovo attendibile la tesi di Antonino Mongitore, espressa a proposito di un dipinto su tavola nella chiesa palermitana di San Francesco d’Assisi: «nello stesso fianco [meridionale] [...] si ha la cappella della SS. Vergine detta la Greca [...] a causa che si venera in essa un’immagine antichissima di Nostra Signora, dipinta alla greca su tavola». Il Rotolo,[5] che ne riporta il brano, specifica trattarsi della Madonna Greca della famiglia Milone, la cui cappella viene indirettamente menzionata già nel 1516. L’affermazione del Mongitore non lascia dubbi su come il termine “alla greca” venisse usato genericamente per indicare un dipinto su tavola a soggetto mariano. L’immagine della Vergine nel dipinto di Alcamo, pur nel taglio occidentale, sembra ispirarsi latamente ad un prototipo bizantino dell’Odighitria, possibilmente ad un’icona venerata nell’antica chiesetta dedicata alla Madonna della Grazia, preesistente alla venuta dei frati Francescani;[6] ne farebbe fede il curioso abbigliamento del Bambino, vestito di tunica con fascia attorno alla vita e bretelle. Questo particolare iconografico che si connette con l’uso di fasciare con la stola il camice, proprio del diacono nella liturgia bizantina, è già riscontrabile nella Odighitria posta in controfacciata nel duomo di Monreale, ma trova una maggiore diffusione nelle icone pugliesi del XIV secolo, vedi per tutte l’icona della Madre di Dio nella chiesa di San Francesco a Potenza.[7] Pure alla tipologia dell’icona va ascritto l’atto di benedire e il libro aperto che sostituisce il rotolo.
I due personaggi principali, già individuati nei coniugi Anna de Cabrera e Federico Henriquez, spingono ad indagare sulle vicende del casato, al fine di identificarne gli altri componenti effigiati e di fissare la cronologia del quadro legato alla committenza dei conti di Modica.

Anna de Cabrera Ximenes assunse l’investitura della contea di Modica l’1 settembre 1477, dopo la morte senza figli maschi, di Giovannettu suo fratello; entrando successivamente in possesso delle città di Alcamo e Caccamo, che le furono vendute da Giovan Matteo Speciale. Mentre Federico Henriquez, nipote dell’infante omonimo, fratello del re di Castiglia, fu Almirante di Castiglia e cavaliere del Toson d’oro. I coniugi sancirono il loro matrimonio con l’investitura di dette terre, concessa il 25 luglio 1488. Degli altri esponenti del casato, raffigurati nel quadro, finora non si è parlato, ma è possibile identificarli grazie al disegno dell’asse ereditario tracciato dal De Spucches,[8] almeno per la giovane coppia alle spalle dei titolari. Sulla destra, nella giovane donna è possibile riconoscere Anna Cabrera juniore, figlia naturale di Giovannettu, che erediterà la successione della contea di Modica nel 1529, alla morte, senza figli, della zia paterna Anna de Cabrera, e per rinunzia a suo favore fatta da Federico Henriquez, suo zio. Di contro, sulla sinistra, il giovane uomo con barba, può essere identificato con Luigi Henriquez, nipote di Federico, perché figlio di suo fratello Ferdinando. Nel quadro i due nipoti, posti alle spalle dei rispettivi zii, stanno ad indicare la continuità nella gestione della contea, che assicureranno grazie al loro matrimonio e all’auspicio di un erede cui sembra alludere la benedizione di Cristo fanciullo. Ancora ardua si prospetta l’identificazione della monaca, che il soggolo bianco (in uso ancora per tutto il Cinquecento) qualifica come benedettina, forse legata alla fondazione di qualche monastero del suo Ordine, giustificando il tal modo la presenza di San Benedetto nel quadro, inusuale in un’opera destinata alla chiesa francescana dei Frati Minori Riformati, che negli anni 1525-’30 ampliarono la vecchia chiesa titolata alla Madonna della Grazia, col sostegno dei donativi elargiti dal pio Federico Henriquez.[9] Sul lato sinistro, all’ombra di San Francesco, è posto ancora in evidenzia un altro membro della famiglia, in veste di frate minore come ben qualifica il saio.

Il dipinto indubbiamente si configura come pala votiva alla Vergine, invocata a protezione del casato. Non a torto i conti di Modica sono stati ritenuti i committenti del quadro, ma è altrettanto importante evidenziarne la circostanza e stabilire il ruolo avuto da essi. L’ipotesi più ovvia è che il diretto committente sia stato proprio Federico Henriquez, definito «il pio» dal Triolo; ed è probabile che la commissione possa essere stata espletata alla morte della consorte Anna, avvenuta nel ’29, proprio per evocare un momento felice che vedeva riunita tutta la famiglia, con la certezza di una discendenza affidata all’unione dei nipoti, che appaiono raffigurati già adulti, sui quali è riposta la speranza di un erede, prefigurata nell’atto della Vergine di offrire il Bambino. Un’altra ipotesi, che ritengo più verosimile, legata alla presunta età di cinquant’anni, tale si ravvisa nei tratti di Anna de Cabrera, farebbe anticipare di almeno un decennio l’esecuzione del quadro, che si configurerebbe come un atto celebrativo della loro potente famiglia feudale, mirante a consolidarne l’autorità politica e il prestigio sociale, sempre con la prospettiva della discendenza perpetuata attraverso i nipoti.

Il secolo XIX registra la prima partecipata attenzione verso la cultura del quadro, con giudizi attributivi alquanto lusinghieri. «Io per me [...] la credo opera dell’immortale Perugino», con queste parole Giuseppe Triolo[10] esordisce nella sua valutazione. A seguire Carlo Castone, conte di Rezzonico,[11] il primo a riconoscere nei ritratti degli effigiati i conti di Modica, che propende, invece, a ridimensionare il dipinto alla scuola del Perugino; ribadisce la stessa opinione Gioacchino Di Marzo.[12] In un saggio mirato sull’opera, Melchiorre Galeotti,[13] la definisce «un raro capolavoro di rarissimo artefice». Nel 1859, subito dopo la pubblicazione del Galeotti, intraprende il viaggio di studio in Sicilia, Giovan Battista Cavalcaselle, che a conoscenza dell’attribuzione al Perugino, così si pronuncia: «un poco peruginesco» e in particolare sulla figura del San Benedetto: «la più bella testa». Frattanto il crescente interesse sull’opera ne aveva promosso nel 1856 il restauro a cura di Luigi Pizzillo, secondo i criteri allora in auge col ricorso a larghe integrazioni, che ora alla luce dei nuovi mezzi d’indagine attendono di essere verificate. Il Di Marzo[14] ritorna ancora sull’argomento, nel trattare la pittura del Rinascimento in Sicilia, e cambiando parere rivendica l’opera alla creatività di un pittore siciliano di spicco, e pensa di assegnarla a Pietro Ruzzolone, forse perché documentato ad Alcamo.

Di seguito Roberto Longhi,[15] nel recensire la mostra antonelliana del 1953, si dissocia e, pur esaltando la qualità di acuto conoscitore del Cavalcaselle, riconosce nel nostro dipinto «una venatura tra veneta e lombarda sempre più insistente a Palermo, dove, ancora nel secondo decennio del 1500, per la cosiddetta “Madonna Greca” di Alcamo si farà appello (per via ligure?) al pavese Pier Francesco Sacchi». Maria Grazia Paolini (1959) accoglie l’ipotesi longhiana concordando sulla componente settentrionale o lombarda presente nella pittura rinascimentale a Palermo, ma riconosce «nel quadro di Alcamo» l’esecuzione di una mano indigena che presenta straordinaria affinità con il gruppo Crescenzio.[16] Maria Concetta Di Natale (1977),[17] invece, dissente dal riferimento al Crescenzio, pur escludendo l’opera dall’attività del Ruzzolone e del De Vigilia. E infine, Diana Malignaggi[18] (1997) ipotizza la mano di un pittore meridionale, legato alla «congiuntura iberica lombarda» presente in area campana. Tale tesi verrà condivisa nel 1998 da Teresa Pugliatti,[19] che ribadisce la componente lombarda del quadro.

Già la stessa Malignaggi, rilevando il carattere votivo e insieme celebrativo della composizione, sottolineava la calibratura dello spazio prospettico mediante un “disegno” lineare e luministico, nonché i rapporti dimensionali tra architettura e personaggi. L’inflessione lombarda, rilevata nel dipinto da più parti, è certamente imputabile al timbro cristallino del colore, corposo e luministico, e alla caratterizzazione incisiva dei volti. Di contro, va rilevato, che i tratti realistici vengono qui trattati attraverso una diffusa idealizzazione classicista, che si riflette anche nell’assetto compositivo da Sacra Conversazione. Pertanto ritengo che il tema esplicitato attraverso un criterio ossessivamente simmetrico nella distribuzione per lato delle figure (a loro volta regolamentate nella misura del volume e dell’altezza e che appaiono ripetitive in alcuni particolari della rappresentazione fisiognomica) sia tale da richiamare invece tipologie che insistono in area umbro-laziale.

Nel focalizzare l’ambiente dove questa mescolanza di culture si è potuta concretizzare, va escluso il ristretto ambito isolano e, a mio avviso, la stessa area meridionale con eventuali connessioni iberiche come è stato supposto. A spiegarne la complessa stratificazione, più che la vaga pregnanza raffaellesca, di cui in qualche modo l’opera fa sfoggio, ritengo opportuno spostare l’attenzione, dato il taglio un po’ retrò evidenziato dal nostro dipinto, su quella cultura legata al filone umbro-laziale che caratterizzò l’eclettico ambiente romano nei primi decenni del Cinquecento, nonostante il rivoluzionario avvento dell’Urbinate.[20] Questa stima preliminare della pala di Alcamo offre, io credo, i presupposti per avanzarne l’attribuzione a favore proprio di quel Jacopo Siculo, sopra menzionato, opportunamente supportata da precisi rimandi stilistici e culturali che avrò modo di dimostrare. Il dipinto, sebbene decontestualizzato dalla produzione artistica isolana, costituirebbe finora l’unica testimonianza del Santoro reperibile nella propria terra, risultando funzionale all’indagine sulla sua formazione fuori dalla Sicilia. Importantissimo, ai fini del riconoscimento dell’identità dell’opera, si rivela l’indizio documentario costituito da un foglio di disegno dove Baldassarre Peruzzi annota un elenco di nove collaboratori, e dove assegna diciassette giornate di lavoro a nome di “maestro Jacomo Siciliano pittore”.[21] Il riconoscimento unanime degli storici circa l’identificazione della scritta col nome di Santoro, non trova altrettanta determinazione sulla datazione del foglio ipotizzata dal Frommel tra il 1510-’11 e il 1519, mentre la Dacos propende a considerarlo direttamente del 1519, dal momento che Giovanni da Udine, presente nell’elenco del disegno citato, probabilmente non era ancora a Roma. Sempre il Frommel, ci ripensa spostandone la datazione più avanti, dopo il 1522-’23, mentre la Varoli-Piazza propende per la datazione alta del foglio e rileva come solo Jacopo Siculo, il primo nella lista, riporti l’attributo di maestro.[22] Proprio la qualifica di “maestro” lascia supporre una personalità già formata, ritengo, su quei parametri della cultura romana pre-raffaellesca, che è quella che traspare, sebbene in modo più evoluto e diversificato, in tutta la sua produzione. Pertanto c’è ragione di credere, in relazione alla sua formazione romana, ad un soggiorno ivi, anteriore di almeno un decennio, dalla credibile data che ve lo documenta nel 1519 secondo il foglio peruzzesco.

Di recente, lo studio monografico di Antonino Giuseppe Marchese (1998), frutto di un’attenta ricerca storiografica e di un’indagine sul campo, ci restituisce il quadro completo del pittore e della sua produzione, dopo aver passato al vaglio tutti i contributi critici e documentali, a cominciare dal testamento, rinvenuto dal Brunelli,[23] redatto, poco prima della morte del pittore, a Rieti il 29 dicembre 1543. Il documento svela i suoi natali a Giuliana, allora diocesi di Agrigento, e la sua famiglia Santoro, che Marchese appura essere di origine ebraica, ipotizzando un possibile tramite presso le comunità israelitiche della Val Nerina, circa il suo futuro trasferimento in Umbria. Purtroppo non viene fuori la data di nascita che la critica assegna al 1490, ma che A. Entità[24] giudicava essere avvenuta nei due ultimi decenni del Quattrocento. Resta il grande vuoto dell’apprendistato in Sicilia, prima della nota documentaria nel ‘19, inerente al soggiorno, nonché alla formazione “romana”, dove nei cantieri palaziali ed ecclesiali apprende, con la tecnica dell’affresco, la capacità di definirne architettonicamente le partiture. Nel 1524, attesta la sua permanenza a Roma, il dipinto del Battesimo di Cristo , che il Santoro realizza per essere inviato nella provincia reatina, ad Aspra (oggi Casperia). Dal 1526 al ’27 il pittore è ancora a Roma dove, menzionato col nome di Jacobus Siculus nel censimento della popolazione, è registrato nel rione Colonna.[25] Col Sacco di Roma, proprio nel ’27, anche il nostro pittore dovette lasciare la città, per comparire attorno al 1630 a Spoleto[26] dove fisserà definitivamente la sua residenza.

Infatti, proprio a partire dal ’30, la critica più recente colloca l’esecuzione degli affreschi della cappella Eroli nel duomo di Spoleto,[27] preceduti da quelli della volta ritenuti di Giovanni da Spoleto. Per quanto concerne la cultura del ciclo parietale, unanimemente riconosciuto al Santoro, viene evidenziato dal Toscano[28] il debito verso la cultura raffaellesca delle Logge, mentre la Sapori,[29] riferendosi al ritmo ampio dei pilastri dipinti che scandiscono le scene, afferma che «evocano la magnificenza dei modelli romani dei primi decenni del secolo». Un riferimento pertinente quest’ultimo che, a mio parere, andrebbe esteso a tutto l’apparato figurativo, capace di spiegare quel carattere “lombardo” che si evince dalla pregnanza e dalla incisività delle figure. In proposito, sono convinto che esista un rapporto di dipendenza degli affreschi della cappella dell’Assunta, nel duomo di Spoleto, da quelli absidali della chiesa romana di Sant’Onofrio al Gianicolo, il cui ciclo sembra ricondursi definitivamente all’ideazione di Baldassarre Peruzzi, sebbene eseguito a più mani da pittori caratterizzati dalla «fusione di elementi umbri e lombardi filtrati forse attraverso il primo Sodoma».[30] Nei due gruppi di Apostoli che affiancano l’Assunta a Spoleto, c’è un richiamo fortissimo agli Apostoli di Sant’Onofrio per l’ascendente lombardo, evidenziato nei tipi fisionomici quasi leonardeschi e nelle vivaci e partecipate movenze che animano le figure. Ritengo ancora che il ciclo di affreschi di Sant’Onofrio abbia esercitato il suo peso, sebbene in maniera diversa visto le marcate inflessioni manieristiche, su quelli eseguiti dal Santoro nel ’36 per Vallo di Nera raffiguranti la Morte della Vergine, dove specialmente le figure femminili sono tributarie delle Sibille del ciclo gianicolense.

Del resto, tutta l’attività del Santoro appare legata ai grandi esiti della pittura romana maturata nel grande cantiere sistino verso la fine degli anni Ottanta del Quattrocento, che avrà una ricaduta ben più ampia protrattasi oltre l’effetto destabilizzante prodotto da Michelangelo e Raffaello agli inizi del Cinquecento. La svolta prodotta dai due giganti della pittura non fu recepita subito e unanimemente dall’ambiente romano, caratterizzato da una cultura largamente sfaccettata, dal pronunziato interesse antiquariale e archeologico più incline verso suntuosi effetti decorativi che trovano nell’attività del Pintoricchio la massima espressione, una cultura altrimenti dominata dal solido conservatorismo di Antoniazzo Romano. Pochi, e tra questi proprio il Peruzzi, come rileva Roberto Cannatà,[31] riusciranno ad adeguarsi prontamente alle nuove esigenze. Pertanto ritengo di dare per scontata la presenza a Roma del Santoro, già nel primo decennio, in virtù della menzione nel foglio Peruzzi del 1519, con qualifica di maestro e che lascia presupporre una formazione già avvenuta, io credo, su parametri più tradizionali.

Si può ben comprendere come un pittore venuto da fuori si ancorasse più facilmente ad una cultura già ben consolidata, rimanendo un passo indietro rispetto alle novità che da lì a poco avrebbero sconvolto il sistema. Questa propensione ad attestarsi sul sicuro già sperimentato, non preclude comunque di giudicare positivamente le scelte lucide e mirate del pittore siciliano che costruisce la sua formazione guardando ai capisaldi del primo fermento a Roma, individuabili in Ghirlandaio e nel Perugino, dai quali attinge le novità formali e strutturali da ancorare all’ideologismo conservatore di Antoniazzo. Questa, per sommi capi, mi sembra la chiave di lettura, attraverso i dati forniti dal dipinto di Alcamo, per capire gli anni di formazione del Santoro, che solo gradatamente sarà in grado di cogliere le novità, ben esplicitate nel ’24 col linguaggio della Maniera nella pala di Aspra, con quelle coloriture di diversa estrazione che man mano renderanno omogeneo il suo stile, senza dimenticare, anzi riproponendo di volta in volta, quelle componenti che fin dall’inizio hanno caratterizzato il suo metodo.

Questa utile premessa andava fatta per sostenere l’attribuzione del dipinto di Alcamo che, credo proprio, non prescinda da questi presupposti, anzi li riassume, configurandoli come antefatto della sua futura produzione umbra, proprio perché espressione di quel composto processo di formazione in atto nella prima fase del soggiorno romano.
Va detto subito che nella “Madonna Greca” si avverte quella suggestione per l’arte del Perugino, particolarmente sentita nell’ambiente romano del primo decennio del Cinquecento, tanto che, a distanza di tempo, non risulta peregrina l’impressione di chi vi aveva visto il coinvolgimento del Vannucci. Per il riscontro fisiognomico aveva provveduto già il Cavalcaselle definendo “peruginesco” il volto del San Benedetto,[32] ma un attento esame del dipinto permette di andare oltre, infatti nella distribuzione paratattica delle figure principali allineate su due piani, si rileva facilmente uno schema derivato proprio dal Perugino, ben evidente nella pala raffigurante la Vergine col Bambino tra i Santi Nicola da Tolentino, Bernardino, Girolamo, Sebastiano , datata 1500, nella Galleria Nazionale dell’Umbria.[33] Per altri versi la stessa collocazione della figura della Vergine nel trono nicchiato, sollevato da un’alta pedana a scale, denuncia ancora una filiazione peruginesca come si può evincere dalla Pala dei Decemviri nella Pinacoteca Vaticana,[3]4 dove l’espediente che isola la figura intronizzata, serve a conferirle monumentalità. È utile anticipare che l’adozione dello schema peruginesco, da parte del Santoro, sarà più chiaramente riformulato nel 1538 nella Pala di San Mamiliano nella chiesa eponima presso Ferentillo,[35] a riprova dell’autografia del dipinto di Alcamo. Uno schema che avrà sollecitato la sensibilità di Raffaello stesso nel concepire nel 1505 la Pala Ansidei per la chiesa dei Serviti a Perugia, ora alla National Gallery di Londra. È probabile che anche questo dipinto possa essere stato visto dal Santoro, traendone spunto nel rapporto tra le figure allineate sullo stesso piano, capace di trasmetterne il legame empatico. Tra parentesi, ritengo plausibile un preliminare viaggio in Umbria da parte del Santoro, che risulterà determinante, per la futura scelta della residenza dopo la fuga da Roma. La possibilità di un viaggio di avanscoperta poteva essere stata facilitata dall’amicizia di qualche pittore umbro residente a Roma e dalla curiosità di vedere in situ le opere prodotte dal Perugino e da Raffaello, alimentata dalla loro fama crescente. Del resto l’ipotesi di una frequentazione già a Roma con artisti umbri agevola a capire l’omologazione del siciliano verso la cultura di quei pittori.

Se l’ascendente verso il Perugino trova precisi rimandi nel campo compositivo, l’attenzione verso i modi del Ghirlandaio gli permettono di definire il saldo imposto delle figure, caratterizzate dalla gravità delle pose. Proprio dal quadrone affrescato dal pittore fiorentino nella Sistina, che raffigura la Vocazione di Pietro e Andrea , Santoro desume l’immagine del San Benedetto nel dipinto alcamese, dalla figura dell’Apostolo barbuto posto alla destra del Cristo, identica nella postura con la mano articolata sul petto e nella assonanza fisiognomica conferita dallo stesso modo di formulare la barba, ma senza tradire nell’insieme il modulo elegante del Perugino.
Non meno significativa è l’attenzione che Jacopo riserva ai modi di Antoniazzo Romano. Nel dipinto che raffigura la Vergine in trono tra i Santi Pietro e Paolo e gli Uditori del tribunale della Sacra Rota , conservato negli appartamenti vaticani, proprio per le proprietà che il Paolucci[36] gli riconosce come «uno degli esempi meglio significativi della fase umbra di Antoniazzo, per via dei ritmi addolciti, dei legamenti sciolti e pausati, di un certo ammorbidimento in chiave sentimentale delle fisionomie», possiamo individuare una delle chiavi di accesso, per il Santoro, alla cultura umbra proprio nella sua fase emergente nel contesto romano. Il riflesso del dipinto antoniazzesco traspare, in quello di Alcamo, già nel sentimentalismo della Vergine, ma ancor più nelle figure inginocchiate degli Uditori genuflessi assembrate allo stesso modo, e per la medesima intensità nella rappresentazione naturalistica dei ritratti. Proprio quello di Federico Henriquez che regge il copricapo poggiato sulle mani giunte con i pollici sovrapposti ad esso (come il committente del trittico antoniazzesco di Fondi) trova un preciso modello nel volto dell’Uditore all’estrema sinistra, anch’esso ripreso di profilo con il taglio realistico dettato dall’incidenza luministica. Anche la citazione di particolari, presenti nella tavola antoniazzesca, risulta puntuale nel quadro di Alcamo, come la scelta tipologica delle colonnine del trono della Vergine esemplate sulla colonnina portante del leggio, in altra opera del pittore romano, la Annunciazione a Santa Maria sopra Minerva. Il raffronto, qui proposto, tra la “Madonna Greca” con gli esiti coevi della pittura romana, come è facile rilevare, risponde al duplice scopo, di coglierne gli innegabili legami (con il peso probativo a favore del nostro dipinto) e di sottolineare la sensibilità del Siciliano verso i nuovi orientamenti, ma ancorandosi imprescindibilmente a modelli preesistenti, un metodo che ne stimmatizzerà lo sviluppo.

Ritornando al ‘sospetto’ della Pugliatti, cui facevo cenno all’inizio di questo saggio, inerente alla presenza di un filone umbro in Sicilia, propongo di accostare alcuni dipinti siciliani al dipinto della “Madonna Greca” che, pur esulando dal contesto isolano, come ho già detto, non prescinde da parametri riscontrabili nella cultura palermitana degli inizi del secolo XVI. Ne fa fede il riscontro con due tavole, entrambe a Palazzo Abatellis. La prima, di taglio centinato, raffigura la Pentecoste, con la Vergine in ginocchio al centro della scena, che funge da perno alle figure degli Apostoli genuflessi, disposte secondo un movimento concentrico. È innegabile l’affinità del quadro di Alcamo con questo, nel ricorso al medesimo espediente iconografico, ribadito da una medesima prospettiva scalare, dove peraltro molto intrigante si rivela l’identità culturale. Il Delogu collocava il dipinto agli inizi del secolo XVI, coniando per l’ignoto autore il nome fittizio di “Maestro della Pentecoste”, un pittore che «innestando su una cultura a fondo melozzesco modi ed atteggiamenti propri della pittura umbra, non disdegna, una volta giunto in Sicilia, di trarre dall’ambiente antonelliano suggerimenti ed indicazioni».[37] Il Delogu attorno a quel nome aveva raccolto un corpus di opere ben caratterizzato, distinto dal fare statico e stantio di Mario di Laurito, indicazione a torto ignorata dalla critica successiva.[38]

         Un altro dipinto, raffigurante la Madonna in trono tra i Santi Giovanni Battista e Tommaso , è solo menzionato dal Delogu e messo in rapporto con l’ambiente antonelliano[39] e lo studioso non va oltre considerando il precario stato conservativo del quadro. Infatti, una scritta remota, alla base, riporta i nomi dei committenti con l’anno d’esecuzione, 1500 e assieme documenta già nel 1539 un avvenuto restauro, ad opera del Laurito, che sicuramente avrà aggiunto i due angioletti reggicorona, tanto vicini somaticamente a quelli riscontrabili nelle opere del pittore napoletano. Tuttavia nonostante tutti gli interventi integrativi, rinnovati nel 1877 dal restauratore Pizzillo,[40] la tavola, recentemente alleggerita da un più attento restauro conservativo, evidenzia nei tratti originali superstiti una buona qualità tecnica ed ideativa. L’impianto della composizione che schiera accanto alla Vergine, assisa su un trono monumentale, le due figure di Santi, collegandoli ad uno spazio prospettico organicamente strutturato, obbedisce ad un sistema calibrato di simmetriche corrispondenze che riflette, nella dolcezza accomodante delle ritmiche figure, un’ascendenza umbra, probabilmente filtrata da esperienze romane. Ancora più sorprendente si rivela, ad una attenta osservazione del dipinto, scoprire che si tratti della stessa mano del “Maestro della Pentecoste”, caratterizzato «dall’asciutta eleganza del disegno e dal magro colore dei modelli» (Delogu). Rimane ancora da chiarire se il “Maestro della Pentecoste” sia un pittore venuto da fuori, come supponeva Delogu, oppure di un pittore siciliano aggiornato, non sappiamo per quali vie. Aggiungo che non è da escludere che possa trattarsi proprio di Giacomo Santoro, se solo si riuscisse a stabilire la data della sua nascita almeno un decennio prima, di quella comunemente stimata all’ultimo decennio del secolo XV.

Volutamente ho rimandato alla fine del saggio il problema della datazione della Pala di Alcamo, al solo scopo di farla scaturire, come deduzione, dalle argomentazioni addotte. Da quanto detto sopra, il dipinto, pur presentando affinità stilistiche con gli affreschi della cappella Eroli, va collocato in una fase precoce dell’artista, legata alla sua prima formazione romana, anticipando forse la stessa Pala di Aspra del ’24. Un aiuto per stabilire la datazione ci viene offerto da considerazioni concernenti i committenti effigiati, tenendo conto come termine estremo, da considerare ante quem, l’anno di morte di Anna de Cabrera, avvenuta nel 1529. Altro punto da considerare è la tipologia del trono della Vergine, che risponde agli stilemi bramanteschi, che dovevano connotare gli stalli corali commissionati il 24 febbraio 1520 da Giovanni de Ballis procuratore della stessa chiesa di Santa Maria di Gesù ad Alcamo, agli scultori Giovanni Gili e al cognato di questi Antonio Barbato.[41] La distruzione del coro, già scomparso ai tempi del Di Marzo, non permette di operare un raffronto diretto, che invece è possibile recuperare osservando quello tuttora esistente nella chiesa palermitana di San Francesco, realizzato nello stesso torno di tempo da Giovanni Gili e dal fratello Paolo.[42] La commissione del coro stesso è da ritenersi indicativa ai fini della datazione del quadro, quale indizio del periodo in cui si provvedeva all’arredo della chiesa, conseguente al rifacimento di essa su più vasta scala, grazie alle elargizioni dei conti di Modica.

A questo punto appare credibile collocare la commissione della Pala della “Madonna Greca” nell’arco di tempo che va dal 1520 al 1529, quando, ricordiamo, che Jacopo Siculo era già stato designato a Roma come maestro, la cui fama doveva certamente essere conosciuta dai siciliani ivi residenti. È verosimile credere che l’opera venisse realizzata a Roma e spedita ad Alcamo via mare, disponendo questo centro di un caricatore alla marina di Castellammare, normalmente utilizzato per l’esportazione del grano. Questa ipotesi non esclude un viaggio del pittore in Sicilia, funzionale alla commissione e agli accordi preliminari, come farebbe pensare l’indizio del trono della Vergine rapportabile al coro ligneo già esistente, riprodotto dal pittore e pertanto si potrebbe ipotizzare un breve soggiorno in patria tra il 1527, quando egli sfugge al Sacco di Roma, ed il ’30, quando ricompare documentato a Spoleto.

Purtroppo a volere produrre dei raffronti stilistici, ad ulteriore conferma della autografia dell’opera che qui tratto, non aiuta il vuoto di notizie o di eventuali dipinti prodotti dal Santoro nel periodo cruciale della formazione romana. Ecco perché ritengo illuminante, a tal proposito, l’intuizione della Sapori[43] che, in merito al metodo seguito da Jacopo, parla di «un significativo percorso à rebours» che dà luogo a «caratterizzate ma regressive varianti», affermazione che autorizza a ritenere validi i raffronti con la produzione conosciuta, sebbene più tarda. Per la verità già nel Battesimo di Aspra si colgono le prime rispondenze nei tratti somatici riscontrabili tra l’Eterno e il San Benedetto, e nella stessa intonazione sentimentale tra le due Madonne e ancora nell’estatico edonismo del volto dell’Evangelista che assiste al Battesimo rapportato a quello dei giovani uomini genuflessi. Calzante è la rispondenza stilistica che si ravvisa nella resa cristallina dei due Santi e degli astanti, nel dipinto siciliano, confrontabili con i gruppi degli Apostoli della cappella Eroli, raffronto che porta ad evidenziare l’incisività dei tratti somatici caratterizzati realisticamente, seppure idealizzati in chiave eroica, sensibili a quella ventata di cultura nordica, se non propriamente lombarda, secondo la declinazione raffaellesca operata in ambito romano dal Sodoma e da Cesare da Sesto[44]. Una cultura elaborata dal Santoro nei luminosi cangiantismi cromatici, nel crogiolo elaborato delle spesse pieghe e nella ricercata retorica della posa, che non prescinde dalla poetica delle Logge e degli Arazzi raffaelleschi. Ancora stringenti richiami si visualizzano in opere realizzate dal pittore nella fase più matura, come nel caso della pala di San Mamiliano (1538) presso Ferentillo, dove l’impianto, di chiara derivazione peruginesca, presenta lo stesso schema, con la figura centrale della Vergine intronizzata su alto plinto, dei due Santi assiali che la fiancheggiano e dei due Santi genuflessi, riscontrabile pari pari alla disposizione delle figure alcamesi.

Ancor più coinvolgente si propone l’accostamento con la pala di Norcia del 1541, dove l’assembramento concentrico delle figure genuflesse, abbondantemente paludate e connotate realisticamente, rimandano al gruppo siciliano degli astanti, condividendone equivalenti soluzioni formali nei volti barbuti, nei veli monacali, perfino nel serpeggiare delle cadute delle vesti. Per finire, sorprende ancora ritrovare la stessa freschezza del volto della Vergine di Alcamo in quello della Madonna, nel tondo affrescato, della cappella di Sant’Antonio abate (1543) a Ferentillo, nella chiesa di Santa Maria, con la stessa rispondenza somatica nell’ovale facciale e nella vivace caratterizzazione del Bambino, nonché nel modo in cui la Vergine inforca, lì con la sinistra il piede del Bambino, e qui la sfera.

L’attribuzione, qui proposta, a Giacomo Santoro della “Madonna Greca” di Alcamo, più che al recupero di un’opera da aggiungere al catalogo del pittore, s’impone come imprescindibile premessa all’assodata produzione spoletina, fornendo una possibile coordinata circa l’apprendistato in Sicilia e la determinante formazione a Roma, pertanto l’opera si configura, attraverso un percorso stratificato, come primo punto di arrivo di una produzione che già da questo momento si svilupperà sull’onda di un erudito eclettismo di gradevolissimo impatto. Non ci si poteva aspettare di meglio da un pittore che trascorse metà della sua vita da girovago e che, misurandosi con tante identità pittoriche, riesce a trovare la propria nella eclettica sintesi di queste.

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L’autore ringrazia Gioacchino Barbera, direttore della Galleria regionale della Sicilia di Palermo, e il dottor Salvatore Pagano per aver fornito le immagini dei due dipinti di palazzo Abatellis.

1 T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento in Sicilia. La Sicilia occidentale, Electa Napoli, Napoli 1998 pp. 242-247.

2 Ivi, p. 242.

3 A.G. Marchese, Jacopo Siculo, Ila Palma, Palermo-São Paulo 1998. L’opera monografica sul pittore di Giuliana, proprio per il suo carattere compendiario, si pone tra i testi fondamentali per comprendere l’artista e il suo percorso stilistico, attraverso l’esame dei documenti e dei contributi storiografici.

4 D. Malignaggi, Giovan Battista Cavalcaselle e il patrimonio artistico siciliano: il dipinto della “Madonna Greca”, in Miscellanea Pepoli ricerche sulla cultura artistica a Trapani e nel suo territorio, a cura di V. Abbate, Assessorato dei beni Culturali Ambientali e della Pubblica Istruzione, Trapani 1997, pp. 217-226.

5 F. Rotolo OFM Conv., La Basilica di San Francesco d’Assisi e le sue cappelle, un monumento unico della Palermo medievale, Provincia di Sicilia dei Frati Minori Conventuali, Bagheria 2010, pp. 77, 269.

6 G. Triolo, Risposta del Cavalier Triolo intorno al B. Arcangelo di Alcamo, in Esame delle osservazioni fatte dal cav. d. Giuseppe Triolo sopra le memorie della vita, e virtù del b. Arcangelo Placenza di Calatafimi. Opera apologetica del sac. Pietro Longo, Solli, Palermo 1806; Idem, Risposta all’esame del sacerdote d. Pietro Longo fatta dal cavaliere di giustizia Giuseppe Triolo, in difesa delle sue precedenti osservazioni, Filippo Barravecchia, Palermo 1807, p. 15.

7 Icone di Puglia e Basilicata dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra (Bari, Pinacoteca Provinciale 9 ottobre 1988 – 7 gennaio 1989) a cura di P. Belli D’Elia, Mazzotta, Milano 1988, scheda n. 32.

8 F. San Martino De Spucches, La Storia dei Feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni, Scuola Tip. Boccone del Povero,Palermo 1927, pp. 106-107.

9 G. Triolo, Risposta del Cavalier Triolo…, 1806, p. 15. Per le vicende relative alla costruzione del convento vedi F. Scaduto, Il complesso di Santa Maria di Gesù ad Alcamo tra XV e XVI secolo, in Francescanesimo e cultura nella Provincia di Trapani, atti del convegno di studio (Trapani-Alcamo, 19-21 novembre 2009), a cura di D. Ciccarelli, Centro Studi Antoniani – Padova, Biblioteca Francescana di Palermo, Palermo 2011, pp. 335-354.

10 G. Triolo, Risposta del Cavalier Triolo…, 1806, p. 15.

11 C. Castone conte della Torre di Rezzonico, Viaggio della Sicilia, Presso gli eredi Abbate, Palermo 1828, p. 61.

12 Dizionario Topografico della Sicilia di Vito Amico tradotto dal latino ed annotato da Gioacchino Di Marzo chierico distinto della Real Cappella Palatina, vol. I, Tipografia di Pietro Morvillo, Palermo 1855, Palermo 1855, p. 74.

13 M Galeotti, Una tavola detta della Madonna Greca nella chiesa di S. Maria di Gesù in Alcamo, in “L’Idea. Giornale di Scienze, Lettere ed Arti”, 2, 1859, vol. III, p. 355.

14 G. Di Marzo, La pittura in Palermo nel Rinascimento. Storia e documenti, Alberto Reber, Palermo 1899, p. 232.

15 R. Longhi, Frammento Siciliano, in “Paragone Arte”, a. IV, fasc. 47, novembre 1953.

16 M.G. Paolini, Note sulla pittura palermitana tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, in “Bollettino d’Arte”, 11, 1959, p. 137.

17 M.C. Di Natale, Tommaso De Vigilia. Parte II, “Quaderni dell’A.F.R.A.S.”, n. 5, 1977, scheda n. 50, pp. 29-31.

18 D. Malignaggi, Giovan Battista Cavalcaselle…, 1997, pp. 223-224.

19 T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento…, 1998 p. 267.

20 C. Strinati, Influsso di Raffaello sull’arte del suo tempo, in Aspetti dell’Arte a Roma prima e dopo Raffaello, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia 22 marzo-13 maggio 1984), De Luca, Roma 1984, pp. 39-48.

21 G. Milanesi, Commentario alla vita di Baldassarre Peruzzi, in G. Vasari, Le Vite dei più eccellenti pittori scultori ed architettori, t. IV, Milanesi, Firenze 1879, p. 618.

22 Ch. L. Frommel, Baldassarre Peruzzi als Maler und Zeichner, Wien-München, 1967, p. 14, nota 36; N. Dacos, Recensione a Ch. L Frommel, Baldassarre Peruzzi als Maler und Zeichner, in “The Art Bulletin”, vol. LII, n. 4, December 1970, p. 444; R. Varoli-Piazza, Peruzzi e Beccafumi alla Farnesina, in “Quaderni di Palazzo Venezia”, I, 1981, p. 66.

23 E. Brunelli, Documenti inediti sul pittore Giacomo Siciliano, in “Scritti di Storia di Filologia e di Arte”, 1908, p. 319.

24 A. Entità, Un raffaellista siciliano in Umbria: Jacobus Siculus ossia Giacomo Santoro da Giuliana, in “Messana”, studi diretti da M. Catalano, Università di Messina, Facoltà di Lettere e Filosofia, Messina 1954, p. 166, n. 1.

25 D. Gnoli, Descriptio Urbis o censimento della popolazione di Roma avanti il sacco borbonico, in “Archivio della R. Società Romana di Storia Patria”, vol. XVII, 1894, p. 407.

26 G. Sapori, La Pala di Norcia nel percorso di Jacopo Siculo, in Jacopo Siculo. L’Incoronazione di Norcia, catalogo della mostra (Spoleto, 30 giugno-29 luglio 1984), Multigrafica, Roma 1984, p. 19. Alla studiosa si deve soprattutto la riscoperta di Iacopo Siculo, con messa a punto sulle opere.

27 G. Sapori, Rinascimento tra centro e periferia: il “pittore di Francesco Eroli”, in “Paragone”, XXXI, 363, 1980, p. 7.

28 B. Toscano, Spoleto in pietre, Azienda del Turismo, Spoleto 1963, pp. 44-46.

29 G. Sapori, Rinascimento tra centro e periferia…, 1980.

30 R. Cannatà, La Pittura a Roma prima di Raffaello: Baldassarre Peruzzi e Jacopo «De Rimpacta» (Ripanda) in Aspetti dell’arte a Roma prima e dopo Raffaello…, p. 26. Il problema attributivo degli affreschi gianicolesi è trattato in modo convincente ed esaustivo da L. Testa, Gli affreschi absidali della chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo: committenza, interpretazione ed attribuzione, in “Storia dell’Arte”, 1989, 66, pp. 171-186.

31 R. Cannatà, La Pittura a Roma prima di Raffaello…, 1984, p. 32.

32 In riferimento a Cavalcaselle si veda D. Malignaggi, Giovan Battista Cavalcaselle…, 1997, pp. 218-220.

33 Perugino il divin pittore, catalogo della mostra (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria 28 febbraio-18 luglio 2004), Silvana, Cinisello Balsamo 2004, scheda I.47, p. 270.

34 Ivi, p. 310.

35 Cfr. A.G. Marchese, Jacopo Siculo…, 1998, scheda n. 4, pp. 94-95.

36 A. Paolucci, Antoniazzo Romano catalogo completo dei dipinti, Cantini, Firenze 1992, pp. 140-143.

37 R. Delogu, La Galleria Nazionale della Sicilia, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1977, pp. 41-43.

38 M.C. Di Natale, Mario di Laurito, Ila Palma, Palermo-São Paulo 1980, pp. 97-99; con la parziale eccezione di T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento…, 1998, p. 152, che non ritiene del pittore napoletano la sola tavola della Pentecoste.

39 R. Delogu, La Galleria Nazionale…, 1977, p. 43; M.C. Di Natale, Mario di Laurito…, 1980, scheda n. 36 pp. 139-141.

40 Ivi, p. 141.

41 G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, vol. I, Tipografia del Giornale di Sicilia, Palermo 1880, p. 685.

42 A. Cuccia, Giovanni Gili e bottega. Coro ligneo, in XV Catalogo di Opere d’Arte restaurate (1986-1990), Soprintendenza Beni Artistici e Storici di Palermo, Palermo 1994, scheda n. 4, pp. 46-51.

43 G. Sapori, Rinascimento tra centro e periferia…, 1980, p. 7.

44 Cfr. Cannatà, La pittura a Roma prima di Raffaello..., 1984, pp. 25-33; C. Strinati, Influsso di Raffaello..., 1984, pp. 39-48.

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Temi di Critica - numero 12

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