teCLa :: Rivista #1

in questo numero contributi di Gianni Carlo Sciolla, Giovanni Gasbarri, Simona Moretti, Tiziana Migliore, Francesco Paolo Campione.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Lo studio degli avori bizantini in Italia tra '800 e '900 attraverso L'Arte di Adolfo Venturi di Giovanni Gasbarri

Codesto deplorevole esodo è dovuto certamente all’insufficienza e al falso spirito delle nostre leggi di protezione artistica, le quali, mentre hanno severissime disposizioni relative all’esportazione di un quadro e d’una statua, sono mute per quanto riguarda quella di un capolavoro di oreficeria e di ogni altro appartenente alle cosiddette arti minori[1]

La citazione proviene dalle pagine di cronaca e notizie della rivista “L’Arte”, del 1900. Nel denunciare ai lettori l’avvenuto acquisto da parte del Museo del Louvre del celebre rilievo eburneo paleobizantino noto come Avorio Barberini[2], il giovane Stanislao Fraschetti[3], autore della nota, non lesinava parole amare, persino caustiche; parole ancora più significative se si rammentano gli accesi dibattiti che in quegli anni coinvolgevano gli intellettuali in merito alla tutela legislativa dei beni artistici italiani[4].

È un passo breve, ma – mi sembra – assai rappresentativo di quel crescente interesse che, negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, le arti suntuarie paleocristiane e bizantine sembravano destare negli studiosi italiani, che cominciavano ad occuparsene con sempre maggiore frequenza tra le pagine dei volumi e dei periodici specializzati. Di tale attenzione si faceva in particolar modo portavoce “L’Arte” (già “Archivio storico dell’Arte”, la prestigiosa rivista diretta da Adolfo Venturi che, a partire dal 1888 – anno della sua fondazione per volontà di Domenico Gnoli – si era subito imposta come sede ideale per gli studi storico-artistici più avanzati e aggiornati in Italia[5]. In risposta (e talora in parallelo) ai molteplici stimoli intellettuali provenienti dalle ricerche internazionali, le indagini su oreficeria, miniatura e microscultura trovavano spazio all’interno di un consistente numero di articoli, note e recensioni, assumendo un ruolo, se non ancora di primo piano, tuttavia senza dubbio rilevante nel dibattito critico sulle arti dell’età di mezzo[6]

 

Adottando proprio la rivista diretta da Adolfo Venturi come campo d’osservazione privilegiato, il presente contributo vuole soffermarsi in particolar modo sugli oggetti paleocristiani e bizantini in avorio, allo scopo di presentare una ricostruzione generale dello sviluppo degli studi su tale argomento in Italia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Studi che, a partire da alcuni pioneristici contributi pubblicati già negli anni ‘80 dell’Ottocento, godettero di una rapida e inconsueta fioritura a cavallo dei due secoli, per poi diventare sempre più sporadici e occasionali parallelamente al graduale affievolirsi dell’interesse per Bisanzio alle soglie della Prima Guerra Mondiale.

Si tratta, nello specifico, di un tema solo apparentemente marginale, ma capace in realtà di far emergere dati molto interessanti per valutare il grado e il tenore della riscoperta dell’arte bizantina nella storiografia del nostro Paese. Soprattutto in Italia, infatti, l’emergere di una vera e propria considerazione critica delle peculiarità dell’arte dell’Impero Romano d’Oriente sembra dipendere molto dal progressivo accrescimento e approfondimento delle conoscenze sulle arti suntuarie, e segnatamente della produzione eburnea.
Del resto, per quanto si debba ancora completare un’indagine ampia e approfondita sull’argomento[7], la semplice lettura dei contributi pubblicati lascia emergere una situazione piuttosto eterogenea rispetto a quella degli altri paesi europei[8]. Alla quasi totalità degli specialisti italiani sembra infatti essere mancato per molto tempo la possibilità (o l’interesse) per condurre indagini autoptiche sull’arte monumentale bizantina più “autentica”, quella cioè sopravvissuta in Turchia, Grecia, Balcani e nel Vicino Oriente mediterraneo, aree che più direttamente e più a lungo furono soggette al dominio di Costantinopoli. Per gli studi italiani, affrontare tale argomento significava il più delle volte discutere di “arte italo-bizantina”, ovvero descrivere edifici, pitture e mosaici conservati nelle aree della Penisola che, nel corso dei secoli, avevano subìto la dominazione o l’influsso di Bisanzio (Ravenna, Venezia, l’Italia meridionale e, in modo più controverso, Roma)[9]. Di fronte ad un’ottica così “parziale” e condizionata, non stupisce che buona parte delle nozioni in materia d’arte bizantina dovesse provenire soprattutto dall’osservazione diretta dei prodotti delle arti suntuarie o “industriali”: codici miniati, gioielli e reliquiari, intagli in avorio e osso, presenti in gran numero nelle collezioni italiane pubbliche e private. Le ricerche su tali opere, precedentemente considerate soprattutto appannaggio di archeologi, filologi, amatori e cultori delle “antichità cristiane”, trovarono proprio ne “L’Arte” di Venturi un nuovo terreno particolarmente fecondo, anche grazie all’interesse che lo stesso direttore nutriva per i problemi del collezionismo, della musealizzazione e della catalogazione[10]. Le numerose rubriche, che comprendevano resoconti dei corrispondenti dall’estero, e soprattutto ricchi e puntuali bollettini bibliografici, rappresentavano inoltre un importante strumento di aggiornamento costante. L’approfondimento delle conoscenze sugli avori paleocristiani e bizantini era favorito non soltanto dalla cospicua presenza di pezzi sul suolo italiano, ma anche e soprattutto da un’autorevole tradizione di studi di respiro ormai internazionale, che alla fine del XIX secolo metteva a disposizione degli specialisti alcuni repertori moderni e funzionali. Chi voleva affrontare questo argomento era comunque prevalentemente portato a rivolgersi alla più recente produzione scientifica internazionale[11]. Vi si trovava infatti l’esteso catalogo di John Westwood, il repertorio di opere altomedievali di Georg Stuhlfauth, e soprattutto la grande impresa di Émile Molinier, già autore della descrizione degli avori del Louvre[12]: un ampio capitolo del primo volume della sua monumentale Histoire générale des arts appliqués à l’industrie[13] era proprio dedicato ai manufatti eburnei bizantini, analizzati nelle loro peculiarità tecniche e stilistiche, e classificati in ordine rigorosamente cronologico.

Ai molteplici contatti instaurati da Adolfo Venturi con i principali intellettuali e specialisti stranieri[14] si devono i primi interventi del finlandese Johan Jakob Tikkanen[15] pubblicati sull’“Archivio”, nei quali venivano espressamente illustrate anche alcune opere eburnee paleocristiane e bizantine. Molto noto è il saggio del 1888 dedicato ai rapporti tra i cicli musivi dell’atrio di San Marco a Venezia e le miniature della cosiddetta Genesi Cotton, considerato un vero e proprio classico della bizantinistica, i cui risultati sono ancora oggi sostanzialmente condivisibili[16]. Fin dalle prime pagine, lo studioso chiamava in causa l’ampia produzione in avorio e osso d’età medievale, con la volontà di offrire al lettore quanti più riferimenti visuali possibili a sostegno del suo discorso sull’iconografia della Genesi. In linea con il taglio del suo contributo, però, Tikkanen non forniva una vera e propria analisi stilistica dei pezzi, limitandosi a trarne di volta in volta i possibili confronti per le composizioni musive di San Marco. Più rilevante per il presente discorso risulta invece un secondo e più tardo intervento di Tikkanen sulle pagine dell’“Archivio”, ovvero la sua recensione al controverso volume di Josef Strzygowski Das Etschmiadzin-Evangeliar del 1891[17].

Il giudizio di Tikkanen, moderatamente favorevole – anche se critico nei confronti degli eccessi di “orientalismo” manifestati dall’autore – era preceduto da un’interessante introduzione di carattere metodologico dedicata alle indagini sull’«arte cristiana antica». Tra i diversi problemi ancora da affrontare – dichiarava lo studioso finlandese – quello della corretta interpretazione iconografica e stilistica dei manufatti in avorio doveva essere considerato di primaria importanza: «questi» infatti «ci forniscono i più nobili esempi del gusto e della capacità artistica di allora»[18]. Le difficoltà di datazione e classificazione di tali prodotti, che avevano di fatto impedito di andar oltre una sommaria suddivisione in «lavori romani occidentali e in lavori bizantini», avrebbero richiesto un più intenso lavoro di ricerca, per tentare di valutare i confini e le interferenze tra i «due cieli artistici»[19]. Si giungeva poi a mettere lucidamente in discussione alcune opinioni all’epoca assai diffuse e accreditate tra gli specialisti, ma di fatto derivate da un erroneo accostamento tra i metodi di lavorazione delle arti “maggiori” e quelli delle arti “minori”: Tikkanen contestava infatti l’idea dell’effettiva esistenza storica di molteplici “scuole” di produzione, tutte dotate di riconoscibili elementi caratterizzanti, e il più delle volte identificate con gli stessi luoghi nei quali i manufatti eburnei si trovavano ad essere conservati. Si caldeggiava invece l’adozione di un metodo di ricerca che fosse specificatamente elaborato per lo studio delle «opere d’arti minori», le quali, data la loro natura di oggetti portatili, assai raramente vengono oggi a trovarsi nelle sedi di produzione originaria:

 

[…] trattandosi d’opere d’arti minori, bisogna essere molto prudenti nel voler dedurre dal luogo dove presentemente si trovano quello della loro provenienza, giacché i piccoli lavori dell’epoca antica si trovano oramai sparsi per tutto il mondo, e spesso lontani dalla loro patria. Dov’è, ad esempio, la prova che gli avori del Duomo di Milano siano stati eseguiti proprio in quella città?[20]

 

L’intervento di Tikkanen offre un esempio molto significativo di come si configurasse una riflessione aggiornata e di ampio respiro sulle arti suntuarie dei primi secoli del Medioevo alla fine dell’Ottocento. Lo studioso aveva infatti ben individuato i problemi che la ricerca coeva doveva ancora affrontare e risolvere: in particolare, la necessità di acquisire strumenti critici moderni in grado di evidenziare le peculiarità tecniche e formali degli oggetti eburnei, nonché un vocabolario specialistico capace di distinguere ciò che realmente poteva chiamarsi “bizantino” (perché prodotto a Bisanzio, o sotto il suo evidente influsso) e ciò che, in modo ancora assai nebuloso, veniva più genericamente definito come “cristiano”[21].

L’impostazione innovativa dei contributi di Tikkanen non rappresentava comunque la “norma” per l’epoca, e il confronto con gli scritti di altri studiosi operanti in Italia in quegli anni lo dimostra chiaramente. Nell’illustrare le numerose opere in avorio che tra il 1888 e il 1889 erano giunte al Museo Nazionale del Bargello di Firenze dalla collezione di Louis Carrand, Umberto Rossi[22] ometteva il più delle volte qualsiasi indicazione di carattere cronologico, e nel contempo dimostrava la persistenza di idee estetiche e pregiudizi di stampo ancora nettamente classicista. Nelle sue descrizioni, infatti, abbondavano commenti sulla «decadenza», sulla «rigidità» e su «quegli strani sbagli di prospettiva che tanto urlano nell’arte bisantina»; la datazione di una cassettina con scene profane, riprodotta con una bella tavola fotoincisa, veniva fissata all’inizio del IX secolo, per avvicinarla il più possibile al revival classico d’età carolingia, mentre della celebre placca eburnea con ritratto di imperatrice si apprezzava sostanzialmente la sola fattura delle aquile nella parte superiore («si direbbero studiate dal vivo»)[23]. Approcci del genere, parziali e storicamente “sfocati”, si riscontrano anche nel breve intervento di Xavier Barbier de Montault, pubblicato nella sezione “Miscellanea” nel 1893, e dedicato agli avori bizantini conservati presso il Museo Cristiano della Biblioteca Vaticana[24]. Lo studioso sceglieva di approfondire il discorso su una tavoletta d’età macedone raffigurante la Natività (proveniente dalla collezione di Seroux d’Agincourt, e confluita nella sede attuale all’inizio dell’Ottocento[25]. La descrizione fornita da Barbier de Montault risentiva ancora delle convenzioni della scienza antiquaria ottocentesca, e, lontanissima dal nuovo lessico critico messo a punto dagli specialisti europei più all’avanguardia, assumeva toni marcatamente retorici:

 

Quantunque la Vergine non abbia sentito alcuno dei dolori del parto e che abbia messo al mondo il suo Divin Figlio senza sforzo né sofferenza, come un fiore che produce il suo frutto o un astro che invia nello spazio un raggio luminoso, i Greci […] hanno costantemente dato a Maria questa attitudine di riposo, che è propria delle madri che hanno partorito secondo le leggi ordinarie della natura e che qui significa semplicemente la maternità[26].

 

L’avvicinarsi del nuovo secolo segnò un momento di grandi trasformazioni per l’“Archivio Storico dell’Arte”. Con il passaggio dalla direzione Gnoli a quella Venturi, la rivista romana mutava non solamente il nome, ma anche l’impostazione generale dei fascicoli, che si arricchivano di nuove rubriche (come le pagine riservate a “Domande e risposte”[27]), nonché di ampie sezioni riservate alle notizie inviate da numerosi corrispondenti, in Italia e all’estero. A questo clima di rinnovata collaborazione internazionale, che tendeva a moltiplicare il numero delle voci critiche in gioco, si deve probabilmente il sensibile aumento di articoli, note brevi, recensioni e annunci dedicati alle arti suntuarie medievali e bizantine, e segnatamente agli avori.

In questo senso, il biennio 1898-1899 si rivelò particolarmente fecondo. Il primo fascicolo del nuovo periodico “L’Arte” si apriva infatti con un saggio a firma di Federico Hermanin[28] dedicato al nucleo di opere eburnee conservato nella grande raccolta romana del conte Grigorij Stroganoff, figura di primissimo piano nel panorama del collezionismo dell’epoca in Italia[29]. Il contributo presentava interessanti elementi di novità: si tentava infatti di individuare la cronologia dei pezzi concentrandosi in prevalenza sugli aspetti stilistici, e avanzando considerazioni particolarmente minuziose sulla composizione delle scene, sui panneggi, sulle cornici e sugli altri elementi ornamentali. Nonostante la persistente tendenza a valutare l’aspetto qualitativo delle opere in base alla loro aderenza alla «buona tradizione classica», emergeva comunque la volontà di distaccarsi dai metodi classificatori tipici dei “conoscitori”, adottando piuttosto moderni criteri d’analisi formale, simili a quelli già diffusi per gli altri campi della storia dell’arte. Utile in questo senso è il confronto tra l’articolo di Hermanin e il contemporaneo saggio di Josef Wilpert dedicato alla storia dell’abbigliamento della tarda antichità[30]. Lo studioso, a quel tempo certamente uno dei massimi esperti europei nel campo dell’archeologia cristiana[31], presentava ai lettori de “L’Arte” un’ampia selezione di opere risalenti soprattutto ai secoli IV-VI[32], tra le quali anche parecchi intagli in avorio; essi venivano tuttavia esaminati secondo un’ottica esclusivamente iconografica, come semplici spunti per una lunga ed erudita esposizione riguardante le modalità di trasmissione di alcuni capi di vestiario dall’antichità classica al medioevo. Wilpert seppe comunque introdurre a supporto delle sue ricerche alcune innovazioni interessanti, talora persino bizzarre, che sembrano anticipare le moderne ricostruzioni virtuali: si veda la sorprendente tavola fotografica che accompagna il suo saggio, nella quale alcuni giovanissimi modelli apparivano teatralmente abbigliati con accurate riproduzioni di abiti tardoantichi e immortalati nelle identiche pose attestate da alcuni dittici consolari[33].

Tra gli interventi sull’argomento comparsi sulla rivista in quegli stessi anni[34], vanno ricordate la descrizione a cura di Adolfo Venturi della cassettina proveniente dalla collezione Rospigliosi (accompagnata da una splendida fotoincisione Danesi[35], e soprattutto le varie segnalazioni[36] che annunciavano l’uscita del seminale Frühchristliche und mitteralterliche Elfenbeinwerke di Hans Graeven, la cui versione completa venne pubblicata proprio a Roma nel 1900, a cura dell’Istituto Storico Germanico[37]. Frutto di una concezione editoriale modernissima, il volume presentava un formato molto più ridotto e maneggevole rispetto agli standard correnti, ed era arricchito dal più ampio repertorio fotografico allora disponibile per lo studio degli avori paleocristiani e bizantini, in un periodo in cui la consuetudine di illustrare le opere con incisioni e disegni non era stata ancora abbandonata del tutto[38]. La redazione de “L’Arte” dimostrò di recepire appieno l’importanza dell’opera di Graeven, pubblicando a sua firma nel 1899 un lungo contributo dedicato all’iconografia di Adamo ed Eva sulle cassette eburnee bizantine[39]. Si trattava di una ricerca elaborata in occasione del XII Congresso Internazionale degli Orientalisti[40], nella quale si presentava una rassegna di cofanetti con soggetti cristiani, messi a confronto con opere d’arte di genere differente, tra le quali figuravano anche manufatti bronzei come la porta del Duomo di Pisa di Bonanno. Negli accenti spiccatamente profani che permeavano i rilievi figurati delle cassettine – anche nel caso di rappresentazioni di episodi biblici – Graeven individuava una forte componente di sopravvissuta classicità, non più descritta in senso vago e generico, ma specificatamente ricondotta alla conoscenza delle sculture e delle oreficerie greco-romane «di cui Costantinopoli possedeva una quantità enorme prima del sacco fatale del 1204». L’articolo presentava un approccio nuovo e multiforme all’argomento, non limitandosi a proporre una classificazione iconografica delle scene veterotestamentarie raffigurate sui cofanetti, ma tentando di individuare il motivo del grande successo di questi prodotti presso il pubblico bizantino; si giungeva così a proporre considerazioni decisamente originali, quasi sconfinanti nella sociologia:

 

La ragione per cui si preferiva questo soggetto è certamente il riguardo al gusto dei compratori, ai quali piaceva di vedere sui cofanetti delle figure ignude. E soltanto la storia della creazione dava agli artisti la possibilità d’accontentare il gusto del pubblico, una volta che – forse per influenza del clero – le rappresentazioni profane dovevano essere sostituite da cristiane. Un fenomeno analogo troviamo nell’arte inglese. Chi percorre l’Inghilterra un Museo che contenga dei lavori dei primi decenni del nostro secolo sarà sorpreso del numero eccessivo delle statue di Eva. Il fatto si spiega con quel rigorismo degl’Inglesi, che fino agli ultimi tempi non permetteva agli scultori di rappresentare ed esporre altra donna ignuda[41].

 

L’anno successivo (1901) il panorama italiano degli studi storico-artistici fu indelebilmente segnato dalla pubblicazione per i tipi di Hoepli del primo volume della Storia dell’arte italiana di Adolfo Venturi[42], dedicato all’età paleocristiana fino a Giustiniano; fece seguito nel 1902 il secondo volume, incentrato sull’arte “barbarica” fino all’XI secolo. I paragrafi che Venturi riservava alle arti di Bisanzio, pur integrati all’interno di un più ampio discorso sulla genesi e lo sviluppo dell’arte nazionale, sono stati a ragione definiti come la prima effettiva esposizione generale su questo tema ideata da uno studioso italiano[43]. Dal nostro punto di vista, l’opera assume particolare interesse per la notevole percentuale di oggetti in avorio e osso esaminati nel corso della trattazione, illustrati da un’amplissima selezione di immagini, di certo la più ricca disponibile a quei tempi in Italia. Lo stesso frontespizio del primo tomo, concepito e realizzato dall’abile pittore e illustratore Giuseppe Cellini, appariva come una fantasiosa composizione marcatamente ispirata ai rilievi fitomorfi della cattedra eburnea di Massimiano a Ravenna, e comprendeva persino due originali monogrammi richiamanti i nomi di Venturi e di Hoepli[44]. Sfogliando il volume, ci si trova di fronte a una ininterrotta sequenza di pissidi istoriate, dittici consolari, cofanetti, trittici e rilievi di soggetto cristiano, raggruppati approssimativamente per tipologie, ma senza un ordine rigoroso, tanto che molte opere bizantine risultano mescolate a pezzi di produzione più specificatamente occidentale, come quelli salernitani. L’avorio veniva considerato come una sorta di materiale “alternativo” più prezioso rispetto alla pietra o al marmo, e dunque le opere eburnee erano collocate all’interno della più generale trattazione sulla scultura, secondo un sistema di classificazione già adottato in Italia da Raffaele Garrucci nella sua seminale Storia dell’Arte Cristiana[45].

I manufatti venivano descritti in modo sintetico, talora sbrigativo, sfruttando largamente citazioni e richiami alla folta bibliografia straniera sull’argomento. Più raramente – e soprattutto nel secondo tomo dedicato alle “arti barbariche” – il discorso di Venturi poteva farsi più approfondito, come accade per il caso particolare dei cofanetti a rosette con rilievi profani (noti come “cassettine civili”[46]). Nel ripercorrere brevemente il dibattito critico sulla cronologia di tali manufatti[47] – da alcuni considerati d’età mediobizantina, da altri ritenuti di IV-V secolo – lo studioso rivelava appieno l’impronta in parte ancora classicista del proprio giudizio, ritenendo impossibile che opere come il celebre Cofanetto di Veroli[48], così impregnate di memorie desunte dall’arte antica, potessero essere state realizzate in un periodo posteriore all’età teodosiana.

L’impresa di Venturi, accolta favorevolmente da più parti[49], fu tuttavia oggetto di contestazioni per l’eccessiva stringatezza del testo e per i numerosi errori ivi contenuti. In una lunga e severa recensione apparsa su “Archivio Storico Italiano”, Laudadeo Testi valutò il primo volume della Storia dell’Arte come «non all’altezza degli studi moderni e del sapere del Venturi», e pur apprezzando la ricchezza della sezione dedicata agli avori intagliati, si scagliava contro l’autore sia per le datazioni da lui attribuite alla Cattedra di Massimiano e all’Avorio Barberini (V secolo), sia per la sua convinzione nel voler anticipare all’età paleobizantina la produzione delle cassettine a rosette, «che per comune consenso sono collocate fra il IX e il XII […]. Altre considerazioni potrei aggiungere, ma francamente non mi pare che l’argomento valga la pena»[50]. La questione della cronologia della Cattedra di Massimiano fu poi anche causa di aspre critiche da parte di Alfredo Melani (sulle pagine di “Napoli Nobilissima”[51]), e soprattutto di Corrado Ricci, all’epoca probabilmente il massimo conoscitore dell’arte ravennate, già coinvolto come collaboratore e corrispondente per “L’Arte”[52]. Attraverso i mordaci editoriali pubblicati su “Rassegna d’Arte” –

la rivista di cui era co-direttore[53] – Ricci pareva dubitare delle capacità di Venturi di poter valutare correttamente un manufatto come la cattedra – opera che si dimostrava «senza dubbio» di VI secolo – e lamentava la sua abitudine di far spesso leva sulle opinioni degli studiosi stranieri (Graeven in primis):

 

È chiaro quindi che il Venturi, da quell’uomo avveduto che è, più che badare agli argomenti e ai fatti, ha citati nomi stranieri per sorprendere il lettore. L’arte è vecchia, ed io avrei buon giuoco a ribatterlo se volessi riportare quanto di acerbo hanno scritto critici stranieri contro di lui[54].

 

Il dibattito tra i due studiosi degenerò in un infuocato contraddittorio[55], che fu presumibilmente tra le cause della temporanea “estromissione” di Ricci dalle pagine della rivista romana[56]. In prospettiva alcune delle accuse di “approssimazione” ricevute da Venturi appaiono in qualche modo giustificate, e Testi e Ricci avevano ragione nel contestare le molte datazioni poco convincenti. Tuttavia, va certamente riconosciuto all’autore della Storia dell’arte il primato di aver diffuso la conoscenza delle opere eburnee paleocristiane e bizantine presso un pubblico più vasto e variegato rispetto a quello delle riviste e delle monografie scientifiche, nonché il merito di aver sottolineato la necessità di considerare lo studio di tali opere come elemento integrante per la comprensione degli sviluppi dell’arte italiana.

 

Con l’istituzione della Scuola di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medioevale e Moderna diretta da Venturi a Roma[57], una nuova generazione di giovani e promettenti studiosi fece il proprio ingresso tra le fila de “L’Arte”. Se a Pietro Toesca, il più importante medievista uscito dalla scuola venturiana, si devono tutto sommato pochi contributi di bizantinistica in senso stretto[58], lo stesso non si può dire di un altro celebre allievo, ovvero Antonio Muñoz, che esordisce su “L’Arte” nel 1903, ancora diciannovenne[59]. A partire dal 1904, e fino all’inizio del decennio successivo, l’attenzione di Muñoz si concentrò prevalentemente sullo studio dell’arte paleocristiana e bizantina[60], con una serie di scritti di vario argomento, assai aggiornati sui risultati della più importante produzione scientifica estera, soprattutto di area austriaca e russa: dotato di una discreta conoscenza diretta dell’arte costantinopolitana e del Mediterraneo orientale[61] (conoscenza che, come si è detto, il più delle volte sembrava mancare a gran parte degli altri specialisti), per almeno sette anni Antonio Muñoz fu senz’altro lo studioso italiano più avanzato in materia d’arte bizantina[62].

In stretto contatto con il mondo del collezionismo romano (Grigorij Stroganoff su tutti[63]), e forte dei rapporti amichevoli instaurati con Rodolfo Kanzler – già autore del sontuoso catalogo delle opere eburnee conservate presso la Biblioteca Vaticana[64] – Muñoz si interessò anche allo studio degli avori, con pochi ma puntuali contributi. La sua prima esperienza in quest’ambito coincise con un evento di notevolissimo interesse nel panorama culturale dell’epoca: in occasione della mostra d’arte bizantina organizzata tra 1905 e 1906 presso la Badia Greca di Grottaferrata[65], gli venne infatti affidata la compilazione del catalogo ufficiale, edito in lingua francese per i tipi di Danesi[66]. Il volume forniva una presentazione generale dei pezzi esposti, accompagnata da taluni approfondimenti nel caso di manufatti ritenuti particolarmente significativi. Prevalevano le opere d’arte suntuaria o comunque portatile, ordinatamente suddivise per “generi” o “materiali”: subito dopo la pittura su tavola e le miniature, veniva il turno degli intagli in avorio e steatite, ai quali era dedicato un capitolo indipendente[67]. Del nucleo complessivo di oggetti eburnei esposti, provenienti dalla Biblioteca Vaticana e dal Museo Civico di Bologna, Muñoz scelse di illustrare i soli pezzi romani, fornendo così una sorta di catalogo “parallelo” rispetto a quello di Kanzler, pubblicato solo due anni prima. Scorrendo le descrizioni delle opere, appare evidente come il giovane studioso potesse contare su una preparazione ben aggiornata ai più recenti contributi sull’argomento, e manifestasse uno spirito critico già autonomo e originale. Non mancavano commenti lievemente polemici nei confronti del volume di Kanzler, del quale si segnalavano talora alcune imprecisioni nelle descrizioni iconografiche[68], e, per quanto riguarda il noto trittico eburneo con Cristo, Vergine e santi, anche la scarsa fedeltà delle fotoincisioni (considerate non corrispondenti al reale colore dell’opera. Proprio nella sua analisi del trittico[69], Muñoz si dichiarava completamente in disaccordo con l’ipotesi di datazione avanzata qualche anno prima da Émile Molinier, il quale, sulla scia di De Linas, aveva accostato il pezzo vaticano a quello un tempo conservato nella Biblioteca Casanatense (e confluito dal 1920 al Museo di Palazzo Venezia), collocando la cronologia di entrambi al XV secolo[70]. Attraverso un’attenta analisi stilistica, Muñoz riteneva di trovare maggiori affinità tra il trittico vaticano e l’altrettanto noto trittico del Louvre (cosiddetto Harbaville, anticipandone la datazione al X secolo, e giudicandolo come uno dei migliori prodotti della microscultura in avorio. Particolarmente interessanti appaiono le riflessioni conclusive, nelle quali l’autore manifestava una visione moderna e personale dell’arte bizantina:

 

L’ideé, tant de fois répetée mal à propos, de l’esprit conservateur de l’art byzantin, a paru à tout le monde un argument decisif pour condamner l’ivoire du Vatican, sans prendre garde que, si dans l’art byzantin les formes iconographiques resterènt identiques, l’esprit qui les animait changea, de même que la technique qui les exprimait et la manière de comprendre les figures et le choses[71].

 

Muñoz ebbe occasione di affrontare nuovamente lo studio degli avori bizantini tra 1910 e 1912, quando, a pochi mesi dalla morte di Grigorij Stroganoff[72], venne incaricato di inventariare le opere della sua ricchissima collezione, e di compilarne il catalogo[73]. Come nel volume della mostra criptense, anche in questo gli oggetti furono raccolti in un capitolo autonomo[74], quali opere dotate di una propria distinta peculiarità tecnica e materica; le preziose tavole fotoincise, ciascuna illustrante un singolo pezzo della raccolta, erano accompagnate da schede descrittive in francese, piuttosto sintetiche ma precise e aggiornate. Il catalogo rappresentò per Muñoz l’ultimo significativo intervento nel campo delle ricerche sugli oggetti eburnei bizantini. Attraverso le pagine de “L’Arte”, nei contributi da lui firmati e nelle recensioni dei suoi lavori, si coglie con lampante chiarezza il graduale spostamento dei suoi interessi verso campi d’indagine eterogenei (la scultura rinascimentale e barocca, la pittura manierista, i problemi relativi al restauro dei monumenti romani). La lunga attività istituzionale in qualità di ispettore generale delle Antichità e Belle Arti negli anni del Fascismo (1928-1944) lo indussero ad abbandonare del tutto le precedenti posizioni “orientaliste” in virtù di un’incondizionata difesa dell’origine totalmente romana dell’arte medievale italiana: un atteggiamento che Massimo Bernabò ha icasticamente definito « uno dei casi più palesi di apostasia»[75].

Il passaggio della “meteora” Muñoz non sembrerebbe aver condizionato particolarmente lo stato degli studi italiani sugli avori bizantini, la cui occorrenza sulle pagine delle riviste scientifiche, con il progredire degli anni, sembra divenire sempre più sporadica. Nel 1911 compariva su “L’Arte” un saggio di Lionello Venturi dedicato al tesoro di San Pietro in Carnia di Zuglio, nel quale era custodita la teca oggi al Museo Diocesano d’Arte Sacra di Udine[76]. La breve analisi che l’autore forniva del pezzo – un assemblaggio di placche eburnee bizantine e lamine d’argento sbalzato di produzione norditaliana – presentava poche ma precise notazioni d’ordine stilistico, e ambiva soprattutto a ricostruire la configurazione originale degli avori, che facevano presumibilmente parte di un trittico d’età mediobizantina (si proponeva il secolo XI). La bibliografia citata si mostrava tuttavia assai scarna, comprendendo sostanzialmente solo qualche nota tratta da un testo non certamente incentrato sull’argomento, ovvero l’Epopée byzantine di Gustave Schlumberger[77].

Due anni dopo, il saggio redatto da Camillo Scaccia-Scarafoni sul tesoro del duomo di Veroli[78] dedicava pochissime righe alla nota cassettina eburnea con rilievi profani (già allora a Londra), limitandosi a rimandare agli interventi più recenti sull’opera, senza entrare nel dibattito in merito alla sua collocazione cronologica, all’epoca ancora piuttosto controversa[79].

 

L’affievolirsi dell’interesse specifico nei confronti degli avori si coglie con particolare evidenza nel corso del secondo decennio del ‘900, quando anche i contributi dedicati più in generale alle arti di Bisanzio sembrano divenire sempre più sporadici[80]. In questo senso, va certamente ricordato l’album di Arduino Colasanti, L’arte bisantina in Italia[81], una pubblicazione assai pregiata che dichiarava fin dal titolo il taglio esclusivamente “italo-bizantino” delle opere rappresentate. Il sontuoso volume, pure piuttosto aggiornato sulle discussioni critiche in corso, illustrava di fatto una ristretta percentuale di manufatti eburnei, raccolti in sole due tavole fotografiche, e limitati sostanzialmente alle cassettine “civili” e, naturalmente, all’onnipresente Cattedra di Massimiano, per la quale si proponeva una sintesi delle opinioni più accreditate[82].

Un ruolo ben più consistente spetta senza dubbio al Medioevo di Pietro Toesca[83], studioso caratterizzato da un’equilibrata ma ben definita posizione critica a favore del riconoscimento del ruolo dell’Oriente e di Bisanzio nella formazione dell’arte europea. La produzione in avorio trovava spazio già nel primo capitolo sulle “arti minori”, uscito sotto forma di dispense tra 1914 e 1915, e in volume nel 1927. Si trattava di una breve ma puntuale analisi dei pezzi più significativi, accompagnata da un’attenta selezione bibliografica, nella quale comparivano in sequenza la rassegna di Molinier, i primi tre volumi della Storia dell’Arte di Venturi, il sesto tomo di Garrucci e il volumetto di Graeven, mentre si definiva “sconvolta quasi del tutto” la vecchia classificazione topografica per “scuole” proposta da Stuhlfauth[84]. Più incentrata sull’Occidente (e segnatamente sulla cosiddetta “scuola salernitana”) risulta la trattazione del volume dedicato ai secoli XI-XIII, che aggiungeva rimandi ad alcune pubblicazioni più recenti[85].

Fatta eccezione per i pochi nomi appena citati, il progressivo “allontanamento” della storiografia italiana dallo studio degli avori bizantini (e, in generale, dalla bizantinistica tout-court) sembra procedere parallelamente ad un fenomeno di irrevocabile “chiusura” nei confronti di quanto di più moderno e aggiornato si produceva in ambito internazionale sui medesimi argomenti. Non esiste di fatto alcuna iniziativa italiana, per esempio, che possa paragonarsi alle grandi esposizioni organizzate dalle principali istituzioni museali inglesi, che proprio tra gli anni ‘10 e ‘20 ponevano sotto gli occhi della comunità scientifica internazionale i cospicui nuclei di oggetti eburnei conservati presso le loro sedi[86]. Ben pochi cenni relativi alle più interessanti pubblicazioni sul tema si trovano sulle pagine delle riviste, e un solo scarno paragrafo dell’altrimenti notevole saggio di Giusta Nicco sui principi compositivi dell’arte bizantina (1925) risulta dedicato alla produzione in avorio[87]. Un’esemplare testimonianza di questo ormai insanabile divario, che avrebbe caratterizzato per molti anni lo stato degli studi italiani, è certamente rappresentata dal saggio di Pericle Ducati apparso sul “Bollettino d’Arte” del 1923, e incentrato sulla collezione di pezzi eburnei custodita nel Museo Civico di Bologna[88]. All’interno di tale contributo, ben due eclatanti falsificazioni ottocentesche in osso (un dittico anepigrafe e un rilievo con Cristo in trono) vennero inspiegabilmente giudicate del tutto genuine, ed esaltate come eccezionali prodotti della migliore arte dell’intaglio in avorio, nonostante almeno una di esse fosse stata chiaramente riconosciuta come non autentica già vent’anni prima da Graeven[89]: uno specialista la cui opera, come si è visto, non era certamente sconosciuta agli studiosi italiani, almeno nei due decenni precedenti.

Nell’autunno del 1931 la rubrica del bollettino bibliografico de “L’Arte”, a quel tempo affidata ad Anna Maria Brizio[90], annunciava la chiusura dell’importante Exposition internationale d’art byzantin di Parigi, e la pubblicazione del corrispettivo catalogo, con prefazione di Charles Diehl[91]. La mostra veniva singolarmente ricordata come «la prima del genere», dimenticando del tutto la pionieristica iniziativa di Grottaferrata, risalente a venticinque anni prima. Il brevissimo testo della Brizio riassumeva tuttavia piuttosto lucidamente il carattere tutto metodologico dei problemi che la bizantinistica internazionale si trovava ad affrontare:

Questi scritti ribadiscono i concetti della vitalità e della grandezza dell’arte bizantina contro il preconcetto classicistico di decadenza. È veramente da augurarsi che i prossimi studi non si limitino a queste considerazioni generiche e non continuino a rimanere irretiti nella questione storicistica di Oriente o Roma, ma, prendendo da quest’esposizione nuovo impulso, si volgano a considerare e definire con metodo storico concreto gli aspetti dei vari gruppi e momenti stilistici dell’arte bizantina.

Si trattava di un appello a cui gli studiosi italiani avrebbero risposto con difficoltà, e ciò vale non solo nel campo specifico delle opere in avorio che abbiamo qui preso in considerazione. Salvo poche voci più o meno isolate, per molti anni ancora Bisanzio e la sua arte sarebbero rimaste lontane dagli interessi nazionali e nazionalistici della critica italiana[92].



[1]  S. Fraschetti, Esodo di oggetti d’arte, in “L’Arte”, III, 1-4, 1900, pp. 178-179.

[2]  La tavoletta, oggi dai più ritenuta come un’opera risalente alla prima metà del VI secolo raffigurante l’imperatore Giustiniano, era in quegli anni oggetto di un dibattito critico piuttosto acceso, con datazioni talora arretrate fino all’età costantiniana. All’interno della sua nota, Fraschetti forniva una sintetica descrizione del pezzo, e interveniva brevemente nel dibattito sulla cronologia proponendo una datazione al V secolo, in base al «carattere […] assai antico delle figure». Per un resoconto sullo stato degli studi sull’Avorio Barberini all’inizio del ‘900, cfr. R. Delbrueck, Die Consulardiptychen und verwandte Denkmäler, De Gruyter, Leipzig-Berlin 1929, trad. italiana Dittici consolari tardoantichi, a cura di M. Abbatepaolo, Edipuglia, Bari 2009, pp. 303-311; più recentemente, D. Gaborit-Chopin, in Byzance, l’art byzantin dans les collections publiques françaises, catalogo della mostra (Parigi 1992-1993) a cura di J. Durand, Ed. De La Réunion Des Musées Nationaux, Paris 1993, scheda 20, pp. 63-66; A. Cutler, Barberiniana Notes on the Making, Content, and Provenance of Louvre OA 9063, in Tesserae: Festschrift für Josef Engemann, in “Jahrbuch für Antike und Christentum”, XVIII, 1993, pp. 329-339. In particolare sulla storia collezionistica dell’opera, cfr. S. Moretti, Roma bizantina. Opere d’arte dall’impero di Costantinopoli nelle collezioni romane, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2007, pp. 63-68.

[3]    La breve carriera di Stanislao Fraschetti, già autore di una monografia su Bernini (S. Fraschetti, Il Bernini: la sua vita, la sua opera, il suo tempo, prefazione di A. Venturi, Hoepli editore, Milano 1900), fu precocemente interrotta dalla morte nel 1902, a soli 27 anni. Cfr. il necrologio di V. Leonardi, Stanislao Fraschetti, in “L’Arte”, V, 3-4, pp. 135-136.

[4]  Sulle problematiche della tutela in Italia prima della legge 364 del 1909, rimando al recente studio di F. Papi, Cultura e tutela nell’Italia unita, 1865-1902, Tau, Assisi 2008, con bibliografia.

[5]    Su “Archivio Storico dell’Arte” e “L’Arte”, cfr. soprattutto G. Agosti, La nascita della storia dell’arte in Italia. Adolfo Venturi: dal museo all’università 1880-1940, Marsilio, Venezia 1996, pp. 75-79, 140-143, 213-216; M. Mimita Lamberti, Dal carteggio di Adolfo e Lionello Venturi: il programma della nuova serie de «L’Arte», in Adolfo Venturi e l’insegnamento della storia dell’arte, Atti del convegno, (Roma 14-15 dicembre 1992), a cura di S. Valeri, Lithos, Roma 1996, pp. 60-66; L’Archivio Storico dell’Arte e le origini della “Kunstwissenschaft” in Italia, a cura di G.C. Sciolla, F. Varallo, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1999. Più recentemente S. Valeri, Materiali per una storia della storiografia dell’arte in Italia. Adolfo Venturi, Scriptaweb, Napoli 2004, passim; G.C. Sciolla, Il ruolo delle riviste di Adolfo Venturi, in Adolfo Venturi e la Storia dell’arte oggi, Atti del Convegno, Roma 25-28 ottobre 2006, a cura di M. D’Onofrio, Franco Cosimo Panini, Modena 2008, pp. 231-236; F. Papi, Adolfo Venturi fra letterati e connaisseurs: la fondazione dell’“Archivio Storico dell’Arte” attraverso le lettere edite e inedite di Venturi, Gnoli e Cantalamessa, in Adolfo Venturi e la Storia..., pp. 237-244.

[6]  L’importanza del ruolo delle riviste scientifiche per la diffusione in Italia della conoscenza delle arti suntuarie medievali è stata messa in luce solo parzialmente. Per quanto riguarda le ricerche sulla miniatura, cfr. il recente contributo di A. Iacobini, Adolfo Venturi pioniere di una disciplina nuova: la Storia della miniatura, in Adolfo Venturi e la Storia..., pp. 269-286, in particolare p. 282, nota 3.

[7]    In merito alla nascita e lo sviluppo degli studi di storia dell’arte bizantina in Italia, la bibliografia disponibile offre una visione ancora parziale, molto spesso incentrata sulla storia della cultura tout-court, piuttosto che sulla storiografia artistica vera e propria. Tra i contributi più a fuoco sull’argomento, cfr. in particolare A. Muñoz, Origini e svolgimento dell’arte cristiana nei primi secoli secondo gli studii recenti, in “Rivista storico-critica delle scienze teologiche”, III, 1907, pp. 923-944, e IV, 1908, pp. 1-32, ristampato in Id., Studi d’Arte Medioevale, W. Modes Editore, Roma 1909, pp. 49-91; Id., Gli studi sull’arte bizantina in Italia negli ultimi vent’anni, in “L’Europa Orientale”, IV, 6-7, 1924, pp. 302-311; Id., Studi di arte bizantina in Italia, in “Studi bizantini”, V, 1924, pp. 210-219; G. Nicco, Ravenna e i principi compositivi dell’Arte Bizantina, in “L’Arte”, XXVI, 1925, pp. 195-216, 246-268. Cfr. poi S. Bettini, Gli studi sull’arte bizantina, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere e filosofia”, s. 2, XXIII, 1954, pp. 13-32; F. Burgarella, Tendenze della storiografia italiana tra Ottocento e Novecento nello studio dell’Italia Bizantina, in “Mélanges de l’Ecole française de Rome, moyen âge-temps modernes”, CI, 1989, pp. 13-41; M. Bernabò, Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia, Liguori Editore, Napoli 2003; M. Andaloro, Verso l’Ellenismo: a Roma, a Bisanzio, nel Novecento, in Medioevo: il tempo degli antichi, Atti del IV Convegno Internazionale di Studi, (Parma 24-28 settembre 2003), a cura di A.C. Quintavalle, Electa, Milano 2006, pp. 96-116; S. Moretti, Roma Bizantina…, pp. 141-155.

[8]  Cfr. nota precedente. Per limitarsi alle pubblicazioni di carattere generale, ricordo come a partire dalle ricerche degli studiosi russi (soprattutto N. Kondakoff, Istoriia vizantiiskago iskusstva i ikonografii po miniaturam’ griecheskikh’ rukopisei, Ul’rikha i Shul’tse, Odessa 1876, tradotta in francese come Id., Histoire de l’art byzantin considéré principalement dans les miniatures, Librairie de l’art, Paris-London 1886-1891) si assistette alla comparsa – soprattutto in Francia e in Germania – di un buon numero di contributi dedicati alle arti di Bisanzio. Tra le sintesi principali, si vedano soprattutto C. Bayet, L’art byzantin, Quantin, Paris 1883; G. Millet, L’art byzantin, in Histoire de l’art depuis les premiers temps chrétiens jusqu’à nos jours publiée sous la direction de André Michel, I, Albin Michel, Paris 1905, pp. 127-301; C. Diehl, Manuel d’art byzantin, I-II, Piccard, Paris 1910; O.M. Dalton, Byzantine Art and Archaeology, Clarendon Press, Oxford 1911; O. Wulff, Altchristliche und byzantinische Kunst, II, Die byzantinische Kunst von der ersten Blüte bis zu ihrem Ausgang, Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion, Berlin-Neubabelsberg 1914. I limiti storico-geografici della coeva produzione italiana si manifestano chiaramente fin dal titolo dell’unica pubblicazione monografica sul tema pubblicata in quegli anni nel nostro Paese, ovvero A. Colasanti, L’Arte Bisantina in Italia, Bestetti e Tumminelli Editori d’Arte, Milano 1912, per il quale si veda infra. Esempi abbastanza indicativi si trovano anche nella produzione di stampo più divulgativo, come per esempio il fortunatissimo volumetto di A. Melani, L’arte di distinguere gli stili, I, Architettura-Scultura applicata-Arte decorativa, Ulrico Hoepli Editore, Milano 1918, terza edizione Milano 1929, pp. 263-306: a p. 278 si afferma perentoriamente che «Il capitello bisantino per eccellenza è il pulvinato di San Vitale […] gli altri sono adesioni allo stile bisantino». 

[9]  Un’eccezione sembra essere costituita dalle ricerche di Antonio Muñoz, per il quale vedi infra, e note 59-73.

[10]  Rimando all’esaustivo contributo di M. Di Macco, Il museo negli studi e nell’attività di Adolfo Venturi (dal 1887 al 1901), in Adolfo Venturi e la Storia…, pp. 219-230.

[11]   Non vanno tuttavia trascurati almeno due importanti classici comparsi in Italia nel XVIII e XIX secolo, ovvero A.F. Gori, Thesaurus veterum diptychorum consularium et ecclesiasticorum…, I-III, Typographia Caietani Albizzini, Firenze 1759; J.B. Seroux d’Agincourt, Histoire de l’Art par les monuments, depuis sa décadence au IVe siècle jusq’à son renouvellement au XVIe, I-VI, Paris 1823, traduzione italiana Id., Storia dell’arte dimostrata coi monumenti dalla sua decadenza nel IV secolo fino al suo risorgimento nel XVI, I-VIII, Frat. Giachetti, Prato 1826. 

[12]   Rispettivamente, J. Westwood, A Descriptive Catalogue of the Fictile Ivories in the South Kensington Museum, George E. Eyre and William Spottiswoode, London 1876; G. Stuhlfauth, Die altchristliche Elfenbeinplastik, J.C.B. Mohr, Freiburg-Leipzig 1896; E. Molinier, Catalogue des ivoires, Librairies-Imprimeries Réunies, Paris 1896.

[13]   E. Molinier, Histoire générale des arts appliqués à l’industrie du Ve à la fin du VIIIe siécle, I, Ivoires, Paris 1896, pp. 63-116. Un importante precedente all’opera di Molinier è J. Labarte, Histoire des arts industriels au Moyen Age et à l’epoque de la Renaissance, I, Paris 1864, pp. 210-216. In merito alla graduale rivalutazione delle cosiddette “arti minori” d’età medievale nel corso della seconda metà dell’800, si vedano i contributi di sintesi di L. Castelfranchi Vegas, Le arti minori nel Medioevo, Jaca Book, Milano 1994, in particolare pp. 9-25; Ead., Il ruolo delle arti minori nel Medioevo, in L. Castelfranchi Vegas, C. Piglione, Arti minori, Jaca Book, Milano 2000, pp. 13-36, in particolare pp. 15-18.

[14]  Rimando per questo a G. Agosti, La nascita della storia dell’arte…, pp. 72-75, e ai vari contributi in Adolfo Venturi e la Storia…, pp. 125-132 e 165-208.

[15]   Sulla figura di Tikkanen, e sui rapporti con Adolfo Venturi, si vedano i recenti J. Vakkari, Adolfo Venturi, Johan Jakob Tikkanen e i paesi scandinavi, in Adolfo Venturi e la Storia…, pp. 179-186; G.C. Sciolla, J.J. Tikkanen and the Origin of “Kunstwissenschaft” in Italy, in Towards a Science of Art History: J. J. Tikkanen and Art Historical Scholarship in Europe, Acts of the International Conference, (Helsinki 7-8 december 2008), edited by C. Hoffman, J. Vakkari, Taidehistorian Seura, Helsinki 2009, pp. 95-102.

[16]  J.J. Tikkanen, Le rappresentazioni della Genesi in S. Marco a Venezia e loro relazione con la Bibbia Cottoniana, in “Archivio Storico dell’Arte”, I, 1888, pp. 212-223, 257-267, 348-363. Versione in tedesco Id., Die Genesismosaiken von S. Marco in Venedig und ihr Verhältniss zu den Miniaturen der Cottonbibel nebst einer Untersuchung über den Ursprung der mittelalterlichen Genesisdarstellung besonders in der byzantinischen und italienischen Kunst, Druckerei der Finnischen Litteratur-Ges, Helsingfors 1889.

[17]  J.J. Tikkanen, L’arte cristiana antica e la scienza moderna, in “Archivio Storico dell’Arte”, IV, 1891, pp. 376-384. Il volume recensito è J. Strzygowski, Das Etschmiadzin-Evangeliar: beiträge zur geschichte der armenischen, ravennatischen und syro-ägyptischen Kunst, Druck und Verlag, Wien 1891. La bibliografia sulla figura di Strzygowski è estremamente ampia. Per la sua produzione tra 1900 e 1901, cfr. J. Elsner, The Birth of the Late Antiquity, in “Art History”, XXV, 3, 2002, pp. 358-379. Sull’accoglienza delle teorie di Strzygowski in Italia, cfr. l’interpretazione di M. Bernabò, Ossessioni bizantine…, pp. 79-82, 101-102.

[18]  J.J.  Tikkanen, L’arte cristiana antica…, p. 376.

[19]  Ibid., pp. 376-377.

[20]   Ibid., p. 382.

[21]   Sulla questione della differenza effettiva tra l’arte bizantina e quella “cristiana” si è bene espressa S. Moretti, Roma bizantina…, pp. 21-25 e note 11-12, in merito ai problemi della storia del collezionismo. Da un punto di vista più genericamente storiografico, e più specificatamente nel campo della storia degli studi delle opere eburnee, ricercare una netta distinzione tra pezzo “cristiano” e pezzo “bizantino” è probabilmente poco proficuo: in Italia tale distinzione, infatti, non risulta fosse ancora avvertita con chiarezza dagli studiosi, soprattutto in un ambito di ricerca nel quale la provenienza e la datazione di gran parte dei manufatti erano ancora particolarmente dibattute (Oriente o Occidente? Età paleocristiana o mediobizantina?). Pertanto, in questa sede si è preferito riportare per quanto possibile le opinioni critiche espresse in quegli anni, e dare conto di volta in volta degli studi più aggiornati relativi ai pezzi descritti.

[22]  U. Rossi, La collezione Carrand nel Museo Nazionale di Firenze, in “Archivio Storico dell’Arte”, II, 1, 1889, pp. 10-23, in particolare pp. 10-13. Sulla donazione Carrand, G. Gaeta Bertelà, La donazione Carrand al Museo Nazionale del Bargello, in Arti del medio evo e del Rinascimento: omaggio ai Carrand, 1889-1989, catalogo della mostra (Firenze 1989), a cura di G. Gaeta Bertalà, B. Paolozzi Strozzi, S.P.E.S., Firenze 1989, pp. 1-38.

[23]   U. Rossi, La collezione Carrand…,  p. 11; sull’opera, si vedano R. Delbrueck, Dittici consolari…, pp. 319-324; D. Angelova, The Ivories of Ariadne and Ideas about Female Imperial Authority in Rome and Early Byzantium, “Gesta”, XLIII, 2004,  pp. 1-15.

[24]   X. Barbier de Montault, Avorio bizantino della fine dell’XI secolo, nel Museo cristiano del Vaticano, in “Archivio Storico dell’Arte”, VI, 1893, pp. 304-307. L’autore presentava una lista complessiva di dieci pezzi, ripubblicati pochi anni dopo nel catalogo ufficiale di R. Kanzler, Gli avori del Museo Profano e Sacro della Biblioteca Vaticana, Officina Danesi, Roma 1903.

[25]  Si veda S. Moretti, Roma bizantina…, pp. 100-101 e nota 388, con rimandi bibliografici. Pochi anni dopo la segnalazione di Barbier de Montault, lo studio del pezzo fu affrontato da R. Kanzler, Gli avori del Museo Profano e Sacro…, p. 24, tavola VI, 4; A. Muñoz, L’art byzantin a l’exposition de Grottaferrata, Danesi, Roma 1906, p. 113, figura 76.

[26]  X. Barbier de Montault, Avorio bizantino…, p. 304.

[27]   La rubrica nasceva proprio con lo scopo di incoraggiare lo scambio di opinioni tra studiosi di diversa estrazione e nazionalità: «Seguendo l’esempio di riviste scientifiche nazionali e estere, apriamo questa rubrica che può riuscire di grande aiuto agli studi. Molto spesso, per mancanza di scambio d’idee tra gli studiosi, preziosi frutti di ricerche rimangono ignorati e sterili. Noi diamo modo quindi di far comunicare i nostri lettori fra loro». Vedi “L’Arte”, I, 1, 1898, p. 87. Molte delle domande e delle risposte pubblicate nella rubrica – che durò di fatto per sole due annualità –  riguardarono opere d’arte eburnee, in particolare dittici consolari o imperiali. Vedi “L’Arte”, I, 1898, pp. 88, 216-217, 220, 365-367, 500, 504; “L’Arte”, II, 1899, p. 123.

[28] F. Hermanin, Alcuni avori della collezione del Conte Stroganoff a Roma, in “L’Arte”, I, 1898, pp. 1-11.

[29]    Sul nucleo di opere bizantine presente nella collezione del conte Stroganoff rimando ai puntuali studi di S. Moretti, Il collezionismo d‘arte bizantina tra Otto e Novecento: il caso Stroganoff , in Bisanzio, la Grecia e l‘Italia, Atti della giornata di studi sulla civiltà artistica bizantina in onore di Mara Bonfioli, (Roma 22 novembre 2002), a cura di A. Iacobini, Foroellenico, Roma 2003, p. 89-102; Ead., Gregorio Stroganoff: il collezionismo russo e l‘arte bizantina a Roma tra il XIX e il XX secolo, in Il collezionismo in Russia: da Pietro I all‘Unione Sovietica, Atti del convegno, Napoli 2-4 febbraio 2006, a cura di L. Tonini, Artistic & Publishing Company, Formia 2009, pp. 115-129; S. Moretti, Sulle tracce delle opere d’arte bizantina e medievale della collezione di Grigorij Sergeevic Stroganoff, in La Russie et l’Occident. Relations intellectuelles et artistiques au temps des révolutions russes, Actes du colloque, (Lausanne 20-21 mars 2009), a cura di I. Foletti, Viella, Roma 2010, pp. 97-121.

[30]   G. Wilpert, Un capitolo di storia del vestiario. Tre studi sul vestiario dei tempi postcostantiniani, in “L’Arte”, I, 1898, pp. 89-120; II, 1899, pp. 1-50.

[31]  Su Josef Wilpert, si vedano R. Sörries, Josef Wilpert. Ein Leben im Dienste der christlichen Archäologie 1857-1944, Bergstadtverlag Wilhelm Gottlieb Korn, Würzburg 1998; Giuseppe Wilpert archeologo cristiano, Atti del Convegno, (Roma 16-19 maggio 2007), a cura di S. Heid, PIAC, Città del Vaticano 2009.

[32]    Comparivano tuttavia anche alcune opere di X-XI secolo, come il trittico eburneo del Museo di Palazzo Venezia (all’epoca ancora conservato nella Biblioteca Casanatense) e le miniature del Menologio di Basilio II: vedi G. Wilpert, Un capitolo di storia del vestiario…, pp. 38, 45. Per il trittico, cfr. infra, nota 71. Per il Menologio, cfr. El «Menologio de Basilio II», Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1613. Libro de estudios con ocasión de la edición facsímil, dirigido por F. D’Aiuto, edición española a cargo de I. Pérez Martín, Città del Vaticano-Atenas-Madrid 2008.

[33]    G. Wilpert, Un capitolo di storia del vestiario…, p. 121. Le pose dei bambini richiamano in particolar modo quelle dei dittici della prima metà del VI secolo, come quelli di Anastasio o Aerobindo. Vedi per esempio R. Delbrueck, Dittici consolari…, pp. 224-225, tavola 19 (dittico di Anastasio presso la Biblioteca Capitolare di Verona); E. Ravegnani, Consoli e dittici consolari nella tarda antichità, Aracne, Roma 2006, pp. 138-139.

[34]    Vedi supra, nota 25; E. Mauceri, Cofanetto bizantino della Cappella Palatina di Palermo, in “L’Arte”, V, 1902, pp. 45-46; E. Modigliani, Una tavoletta della cattedra di Massimiano, in “L’Arte”, VI, 1903, p. 224. Con quest’ultimo intervento si annuncia la volontà del conte Stroganoff di restituire alla Cattedra di Massimiano una tavoletta ad essa pertinente, conservata nella sua collezione romana. Cfr. S. Moretti, Roma bizantina…, p. 135.

[35]   A. Venturi, Di una nuova cassettina civile bizantina, in “L’Arte”, I, 1898, p. 212. La cassettina è oggi custodita al Museo del Louvre. Nella breve segnalazione, Venturi non dichiarava con esattezza la sede di collocazione dell’opera, limitandosi a parlare di «casa privata romana». Si veda S. Moretti, Roma bizantina…, pp. 105-106, con cenni bibliografici.

[36]   “L’Arte”, I, 1898, pp. 86, 214.

[37] H. Graeven, Frühchristliche und mitteralterliche Elfenbeinwerke in photographischer Nachbildung Nr. 1-80 (aus Sammlungen in Italien), Istituto Archeologico Germanico, Roma 1900. Dell’abbondante produzione dello studioso dedicata agli avori, si vedano almeno Id., Entstellte Consulardiptychen, in “Mittheilungen des kaiserlich deutschen archaeologischen Instituts”, VII, 1892, pp. 204-221; Id., Antike Vorlagen byzantinischer Elfenbeinreliefs, in “Jahrbuch der Preußischen Kunstsammlungen”, XVIII, 1897, pp. 3-23.

[38]   Basti ricordare che solo pochi anni prima Molinier si scusava con i lettori per non aver potuto esaminare lo stile di molti pezzi da lui pubblicati, a causa della scarsissima qualità delle incisioni disponibili. Si veda E. Molinier, Histoire générale des arts appliqués…, I, 1896, pp. 74-76 (relativamente all’Avorio di Treviri). In generale sulla questione dell’introduzione della tecnica fotografica negli studi di storia dell’arte, si veda l’ampia bibliografia in R. Cassanelli, Fotografia, storiografia artistica, restauro. Qualche indizio di percorsi incrociati a Milano intorno al 1850, in Fare storia dell’arte: studi offerti a Liana Castelfranchi, a cura di M.G. Balzarini, R. Cassanelli, Jaca Book, Milano 2000, pp. 227-235, in particolare pp. 227-228, nota 1. Più nello specifico, S. Valeri, Fotografia e critica d’arte nell’Ottocento: Domenico Gnoli, Adolfo Venturi e l’Archivio Storico dell’Arte, in Gioacchino di Marzo e la critica d’arte nell’Ottocento in Italia, Atti del convegno, (Palermo 15-17 aprile 2003), a cura di S. La Barbera, Officine Tipografiche Aiello e Provenzano, Bagheria 2004, pp. 292-300.

[39]   H. Graeven, Adamo ed Eva sui cofanetti d’avorio bizantini, in “L’Arte”, II, 1899, pp. 297-315.

[40]   Si veda anche la notizia di S. Fraschetti, L’arte al Congresso degli Orientalisti, in “L’Arte”, II, 1899, pp. 414-415.

[41]   H. Graeven, Adamo ed Eva…, p. 299.

[42]   A. Venturi, Storia dell’arte italiana, I-XI, Ulrico Hoepli Editore, Milano 1901-1940; I – Dai primordi dell’arte cristiana ai tempi di Giustiniano, Milano 1901; II – Dall’arte barbarica alla romanica, Milano 1902. Cfr. da ultimo S. Valeri, I volumi della Storia dell’Arte Italiana, in Adolfo Venturi e la Storia…, pp. 37-42.

[43]  Cfr. M. Bernabò, Ossessioni bizantine…, pp. 66-67.

[44]  I due monogrammi furono conservati, con qualche piccola modifica, anche nel frontespizio del secondo volume, un pastiche di motivi decorativi ispirati a stoffe e codici miniati altomedievali. In merito all’intervento di Giuseppe Cellini nei lavori di Adolfo Venturi e dei suoi allievi, cfr. C.M. Camagni, Il contributo di Giuseppe Cellini alla grafica d’arte, in Adolfo Venturi e l’insegnamento…, pp. 90-95; Ead., Le copertine di Giuseppe Cellini per le opere di Adolfo Venturi, in Adolfo Venturi e l’insegnamento della storia dell’arte, catalogo della mostra (Roma 1992-1993) a cura di S. Valeri, Tip. F. Albanese, Roma 1992, p. 130.

[45]  Raffaele Garrucci aveva infatti inserito la trattazione degli avori all’interno dell’ultimo volume della sua Storia dell’arte cristiana, dedicato genericamente alle «Sculture non cimiteriali». Cfr R. Garrucci, Storia della arte cristiana nei primi otto secoli della chiesa, VI, Guasti, Prato 1880, passim.

[46]   Sui cofanetti bizantini, rimando agli studi generali di A. Goldschmidt, K. Weitzmann, Die byzantinische Elfenbeinskulpturen des X-XIII Jahrhunderts, I, Kästen, Bruno Cassirer, Berlin 1930; A. Cutler, On Byzantine Boxes, in “The Journal of the Walters Art Gallery”, XLII-XLIII, 1984-1985, pp. 32-47; Id., Mistaken Antiquity: Through on Some Recent Commentary on the Rosetta Caskets, in Aetos: Studies in Honour of Cyril Mango, edited by I. Ševčenko, I. Hutter, B.G. Teubner, Stuttgart-Leipzig 1998, pp. 46-54.

[47]   A. Venturi, Storia dell’arte italiana…, II, pp. 512-530, in particolare p. 512, nota 1 («Bibliografia sulle cassettine civili d’avorio»).

[48]   Sul cofanetto di Veroli, si vedano in generale J. Beckwith, The Veroli Casket, HMSO, London 1962; P. Williamson, Medieval Ivory Carvings. Early Christian to Romanesque, V&A Publishing, London 2010, pp. 76-83, numero 15 (con bibliografia).

[49]     Tra le molte penne a favore di Venturi, spicca quella di E. Bertaux, L’art italien au Moyen Âge, in “Journal des Savants”, n.s., III, 1904, pp. 152-162, recensione nella quale vengono vagliati i primi tre volumi dell’opera dello studioso italiano: «Quelque confusion est inévitable dans un précis d’histoire qui ne veut sacrifier aucun détail digne d’intérét».

[50]  L. Testi, Osservazioni critiche sulla storia dell’arte. A proposito di un’opera recente, in “Archivio Storico Italiano” s.V, XXIX, 1902, pp. 12-44. Le citazioni sono rispettivamente dalle pp. 18 e 41. Cfr. anche G. Agosti, La nascita della storia dell’arte…, pp. 155-157.

[51]   A. Melani, lettera pubblicata su “Napoli Nobilissima”, X, 3, 1901, pp. 45-48; interessante la piccata risposta di A. Venturi, lettera pubblicata su “Napoli Nobilissima”, X, 4, 1901, pp. 61-64, in particolare p. 61, ove lo studioso difende il proprio metodo di lavoro: «Nonostante che sfilino sotto gli occhi del lettore tutti i più moderni e accreditati illustratori di avori, si vuol far credere che io abbia attinto le mie notizie dal Lacroix, che non cito neppure. Anche in questi appunti, di niun conto, si rende chiara la ricerca fatta a caso, senza ragione, senza fondamento, per screditarmi». Cfr. poi A. Melani, lettera pubblicata su “Napoli Nobilissima”, X, 5, 1901, p. 80; Don Ferrante, in “Napoli Nobilissima”, X, 6, 1901, p. 96.

[52]   Si veda per esempio C. Ricci, Corriere di Romagna, in “L’Arte”, I, pp. 186-188, intervento dedicato ai restauri degli edifici di Ravenna, e sottotitolato significativamente «dalla città bizantina». La Cattedra di Massimiano rappresentava uno degli argomenti di punta per Corrado Ricci, che dedicò ad essa molte pagine della sua ampia produzione scientifica. Cfr. per esempio Avori di Ravenna, in “L’Arte Italiana Decorativa e Industriale”, VII, 5, 1898, pp. 42-43. Su Ricci, In memoria di Corrado Ricci. Un saggio inedito, nota delle pubblicazioni, scritti di amici e collaboratori, Arti Grafiche F.lli Palombi, Roma 1935, in particolare pp. 15-62 (bibliografia); Corrado Ricci: storico dell’arte tra esperienza e progetto, Atti del Congresso, (Ravenna 27-28 settembre 2001), a cura di A. Emiliani, D. Domini, Longo, Ravenna 2004.

[53]  Si vedano gli editoriali e le lettere pubblicate su “Rassegna d’Arte” I, 1, 1901, p. 16; I, 5, 1901, p. 80; I, 12, 1901, p. 192; II, 4, 1902, p. 63; II, 5, 1902, p. 76. Sulla “Rassegna d’Arte”, rimando ai recenti A. Rovetta, Gli esordi della “Rassegna d’arte”, Milano 1901-1907, in Riviste d’arte fra Ottocento ed età contemporanea: forme, modelli e funzioni, Atti del Convegno, (Torino 3-5 ottobre 2002), a cura di G.C. Sciolla, Skira, Milano 2003, pp. 101-122; G.C. Sciolla, Corrado Ricci dalla “Rassegna d’arte” alla “Rivista d’arte”, in Corrado Ricci…, pp. 165-179.

[54]   C. Ricci, lettera pubblicata su “Rassegna d’Arte”, II, 4, 1902, p. 63.

[55]   Si veda la risposta di A. Venturi, Per fatto personale, in “L’Arte”, V, 1902, pp. 32-33.

[56]  Il successivo intervento di Ricci su “L’Arte”, ancora diretta da Adolfo Venturi, risale infatti a ben dieci anni dopo. Cfr. C. Ricci, Per la storia della pittura forlivese, in “L’Arte”, XIV, 1911, pp. 81-92.

[57]   Sul rapporto tra Adolfo Venturi e il mondo accademico, e sull’istituzione della Scuola di Perfezionamento, si vedano G. Agosti, La nascita della storia dell’arte…, pp. 161-186; M. Moretti, Adolfo Venturi e l’università italiana fra Ottocento e Novecento: dal carteggio presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, in Adolfo Venturi e la Storia…, pp. 83-89.

[58]   Soprattutto P. Toesca, Cimeli bizantini: il calamaio di un calligrafo, in “L’Arte”, IX, 1906, pp. 35-44. Sugli aspetti “filobizantini” del pensiero di Toesca, si veda la ricostruzione di M. Bernabò, Ossessioni bizantine…, pp. 117-130. Si vedano anche G. Agosti, La nascita della storia dell’arte…, pp. 164-166; M. D’Onofrio, Gli allievi medievisti, in Adolfo Venturi e la Storia…, pp. 93-99, in particolare pp. 94, 98 nota 7.

[59]   A. Muñoz, Mobilio italiano del Rinascimento, in “L’Arte”, VI, 1903, pp. 21-27. Il primo contributo di argomento “orientalista” è Id., Un affresco cimiteriale scoperto a Tripoli, ibid., pp. 96-98. In generale su Muñoz, si vedano gli interventi in sua memoria su “L’Urbe”, XXIII, 2-3, 1960; C. Bellanca, Antonio Muñoz, La politica di tutela dei monumenti di Roma durante il Governatorato, L’Erma di Bretschneider, Roma 2003.

[60]  Una lista dei suoi scritti su tali argomenti è pubblicata in A. Muñoz, Studi d’arte bizantina…, p. 217.

[61]   Un resoconto “scientifico” del suo soggiorno a Istanbul nel 1905 è A. Muñoz, Notizie da Costantinopoli, in “L’Arte”, VI, 1, pp. 60-62. Si veda anche C. Bellanca, Antonio Muñoz…, p. 397.

[62]    La figura di Muñoz come studioso di arte bizantina è stata delineata in modo ancora molto incompleto. La sua capacità di “assorbire” i più aggiornati risultati della bibliografia estera e di rielaborarli nel contesto culturale italiano è bene esemplificato dal poco noto A. Muñoz, Origini e svolgimento…. In questo contributo, l’autore “traduce” e “riassume” importanti saggi e contributi tedeschi, austriaci e russi incentrati sul tema dell’origine dell’arte bizantina, fornendo un vero e proprio “compendio” di risultati scientifici atti ad incoraggiare nuove ricerche sull’argomento. Ancora nel 1925, quando Muñoz aveva già da qualche anno abbandonato l’approccio “orientalista” al Medioevo, Giusta Nicco lo ricordava principalmente come uno storico dell’arte bizantina: G. Nicco, Ravenna…, p. 201. In tempi recenti, si vedano: G. Leardi, Una mostra d’arte bizantina a Grottaferrata, in “Studi Romani”, L, 1-2, 2002, pp. 311-333, in particolare p. 329, nota 70 (si nega l’esistenza di un filone bizantinistico nei suoi studi); M. Bernabò, Ossessioni bizantine…, p. 65, definisce come «eclettico» il suo metodo di studio; molto poco spazio alla produzione giovanile dello studioso è riservato in C. Bellanca, Antonio Muñoz…. In S. Moretti, Roma bizantina…, pp. 152-153, e Ead., Gregorio Stroganoff…, si mette correttamente in luce l’interesse di Muñoz per i temi bizantini; da ultimo, si veda l’intervento di A. Iacobini, La Sapienza bizantina: il contributo della storia dell’arte (1896-1970), in Sapienza Bizantina. Un secolo di ricerche sulla civiltà di Bisanzio all’Università di Roma, Atti della giornata di studi, (Roma 10 ottobre 2008), a cura di A. Acconcia Longo, G. Cavallo, A. Guiglia, A. Iacobini, in corso di stampa.

[63]     Vedi supra, nota 29.

[64]    R. Kanzler, Gli avori del Museo Profano e Sacro…. La pubblicazione, originariamente affidata a Stevenson, era estremamente lussuosa, e accompagnata da tavole indipendenti con splendide fotoincisioni. L’opera incontrò tiepida accoglienza sulle pagine de “L’Arte”, come si legge in A. Rossi, Recensione a R. Kanzler, Gli avori…, in “L’Arte”, VII, 3-5, pp. 199-204: si riteneva il volume di Kanzler esteticamente pregevole, ma accompagnato da testi non sufficientemente approfonditi da un punto di vista scientifico. Un nuovo catalogo aggiornato venne predisposto trent’anni dopo da C.R. Morey, Gli oggetti di avorio e di osso del Museo Sacro Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1936.

[65]     Inaugurata il 15 marzo e organizzata in occasione del nono centenario della fondazione dell’abbazia, l’esposizione rappresentò un’iniziativa culturale senza precedenti in Italia. Se ne trova notizia su “L’Arte” già da gennaio 1905, con ripetuti annunci che richiedevano la collaborazione degli studiosi e dei collezionisti per l’invio di contributi scientifici e opere d’arte. Cfr. Cronaca, in “L’Arte”, VIII, 1-2, 1905, pp. 62-63; ibid., 3-4, pp. 140-141; IX, 1906, p. 310. Sulla medesima rivista, compaiono anche i contributi di A. Muñoz, L’arte bizantina all’esposizione di Grottaferrata, in “L’Arte”, VIII, 5-6, 1905, pp. 161-170, e A. Venturi, Dittico attribuito a Cimabue nell’esposizione di Grottaferrata, ibid., pp. 199-201. In generale sulla mostra e sulla sua ricezione, cfr. il recente studio di G. Leardi, Una mostra d’arte bizantina…. Cfr. anche S. Moretti, Roma bizantina…, pp. 137, note 572-573, pp. 152-153, note 636-637.

[66]    A. Muñoz, L’art byzantin…, 1906. Nel volume, di formato maneggevole e accompagnato da buone riproduzioni, non tutte le opere esposte furono illustrate. Il catalogo era stato preceduto da una versione più sintetica, ovvero Esposizione d’arte italo-bizantina nella Badia greca di Grottaferrata, Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, Roma 1905, con introduzione di Muñoz. Si noti come nell’edizione definitiva in francese, destinata ad un pubblico internazionale, il prefisso “italo-” sia stato soppresso.

[67]     A. Muñoz, L’art byzantin…, pp. 97-124.

[68]    Per esempio nell’identificazione del soggetto del rilievo illustrato in A. Muñoz, L’art byzantin…, p. 113, figura 75, correttamente individuato come un’Apparizione alle Donne, e non con una Trasfigurazione come in R. Kanzler, Gli avori…, p. 24.

[69]    A. Muñoz, L’art byzantin…, pp. 103-113, figure 65, 70-71.

[70]     Rispettivamente Ch. De Linas, Le tryptique byzantin de la collection Harbaville à Arras, in “Revue de l’Art Chrétien”, XXXV, 1885, pp. 13-40; Id., Le tryptiques byzantins conservés au Musée chrétien du Vatican et à la bibliotheque du Convent de la Minerve à Rome, in “Revue de l’Art Chrétien”, XXXVI, 1886, pp. 157-169; E. Molinier, Catalogue des ivoires…, pp. 31-37, in particolare p. 37; E. Molinier, Histoire générale des arts appliqués…, I, pp. 109-110, 115-116. Per la storia critica più recente, S. Moretti, Roma bizantina…, pp. 196-203, in particolare pp. 199-200, nota 757 (bibliografia sui trittici del Vaticano e del Louvre); Gesù: il corpo, il volto nell’arte, catalogo della mostra (Venaria Reale 2010), a cura di T. Verdon, Cinisello Balsamo 2010, pp. 283-285, numero 6.3 (trittico del Vaticano, scheda di G. Cornini); Byzantium 330-1453, catalogo della mostra (London 2008-2009), a cura di R. Cormack, M. Vassilaki, London 2008, pp. 400-401, numero 77 (trittico del Louvre, scheda di J. Durand).

[71]    A. Muñoz, L’art byzantin…, pp. 112-113.

[72]    Su “L’Arte” del 1910 comparve per l’occasione un necrologio particolarmente significativo: «[…] raccolse nella sua dimora esempi artistici di ogni tempo, rallegrandosi di un cimelio cristiano dei bassi tempi, come del tabernacoletto dipinto dal Beato Angelico […] noi ricordiamo con gratitudine il dono fatto da Gregorio Stroganoff dell’avorio della Cattedra di Massimiano di Ravenna, tornato a riunirsi al monumento dal quale era stato anticamente strappato»: in “L’Arte”, XIII, 1910, p. 391. Si veda anche il ricordo di A. Muñoz, Il conte Stroganoff, in Id., Figure Romane, Staderini Editore, Roma 1944, pp. 133-150; S. Moretti, Roma bizantina…, pp. 134-136; Ead., Gregorio Stroganoff….

[73]     A. Muñoz, Pièces de choix de la collection du Comte Grégorie Stroganoff, II, Moyen Âge - Renaissance - Epoque moderne, Imprimerie de L’Unione Editrice, Roma 1911.

[74]     Ibid., pp. 155-176, in particolare pp. 155-168.

[75]     M. Bernabò, Ossessioni bizantine…, p. 107.

[76]    L. Venturi, Opere d’arte a Moggio e a San Pietro di Zuglio, in “L’Arte” XIV, 1911, pp. 469-478, in particolare p. 472-476. Sulla teca, si vedano A. Goldschmidt, K. Weitzmann, Die byzantinischen Elfenbeinskulpturen des X-XIII Jahrhunderts, II, Reliefs, Bruno Cassirer, Berlin 1934, p. 53, numero 92, tavola XXXVI; Splendori di Bisanzio, testimonianze e riflessi d’arte e cultura bizantina nelle chiese d’Italia, catalogo della mostra (Ravenna 1990), a cura di G. Morello, Fabbri, Milano 1990, pp. 158-159, numero 60 (scheda di C. Rizzardi).

[77]    G. Schlumberger, L’Epopée Byzantine à la fin du dixième siècle, I-III, Hachette, Paris 1896-1905.

[78]    C. Scaccia-Scarafoni, Il tesoro sacro del Duomo di Veroli ed i suoi cimeli medioevali, in “L’Arte”, XVI, 1913, pp. 181-205, 289-306, in particolare pp. 303-304.

[79]     La cassetta era stata acquistata dal South Kensington Museum di Londra (poi Victoria and Albert Museum) nel 1861. Si veda supra, nota 48.

[80]     In tempi recenti si è identificata la ragione di questo disinteresse con il clima culturale emerso allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, che avrebbe visto la gran parte degli studiosi italiani “chiudersi” nell’esaltazione dell’origine tutta italiana – e specificatamente romana – dell’arte nazionale. Si veda M. Bernabò, Ossessioni bizantine…, pp. 87 e seguenti. Insieme a tale fattore, senza dubbio rilevante e amplificatosi a dismisura durante il ventennio fascista, va comunque considerata la persistenza di un “fronte romanista” che anche negli anni precedenti aveva sempre conservato un certo scetticismo nei confronti delle teorie orientaliste. Joseph Wilpert parla, in tono quasi sprezzante, di «smodato entusiasmo per l’Oriente»: G. Wilpert, Il frammento del Cristo di Berlino e la coppa di Costantino a Londra, in “L’Arte”, XXIII, 1920, pp. 157-159, in particolare p. 157.

[81]    A. Colasanti, L’Arte Bisantina….

[82]     Ibid., p. 6, tavole XLI-XLV.

[83]     P. Toesca, Storia dell’arte italiana. Il Medioevo, I-III, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1927.

[84]     Ibid., I, pp. 321-330.

[85]     P. Toesca, Il Medioevo..., III, pp. 1127-1132, nota 37: tra le opere citate spicca la sintesi di O.M. Dalton, Byzantine Art and Archaeology….

[86]     Si veda per esempio l’importante catalogo di E. Maclagan, Catalogue of an Exhibition of Carvings in Ivory, Burlington Fine Arts Club, London 1923; se ne trova memoria in “L’Arte”, XXVII, 1924, p. 176.

[87]     G. Nicco, Ravenna…, pp. 265-266.

[88]    P. Ducati, Alcuni avori del Museo Civico di Bologna, in “Bollettino d’Arte”, XV, 1922, pp. 481-497.

[89]     Si tratta del rilievo con il Cristo in trono. Cfr. H. Graeven, Frühchristliche und mitteralterliche Elfenbeinwerke…, pp. 9-10, numero 10. Sulla vicenda, si vedano I. Nikolajević, Gli avori e le steatiti medievali nei Musei Civici di Bologna, Grafis, Casalecchio di Reno 1991, pp. 33-46; G. Gasbarri, Gli avori bizantini del Museo Civico Medievale di Bologna: arte, collezionismo e imitazioni in stile, in Vie per Bisanzio, Atti del VII Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana di Studi Bizantini, (Venezia, 25-28 novembre 2009), in corso di stampa.

[90]     M. Mimita Lamberti, Dal carteggio di Adolfo e Lionello Venturi…, pp. 64-65.

[91]    “L’Arte”, XXXIV, 1931, p. 456. Il catalogo recensito era Exposition internationale d’art byzantin, catalogo della mostra (Parigi 1931), a cura di C. Diehl, Impr. Frazier Soye, Paris 1931.

[92]    Sulle vicende della bizantinistica italiana tra gli anni ‘20 e gli anni ‘40 ha offerto la più recente interpretazione M. Bernabò, Ossessioni bizantine…, pp. 149-215. Nel campo degli avori, rara eccezione è la sontuosa impresa editoriale di C. Cecchelli, La Cattedra di Massimiano ed altri avorii romano-orientali, Libreria dello Stato, Roma 1936-1944. Un ritorno dell’interesse generale sull’argomento si avrà soltanto con le due esposizioni monografiche (Ravenna e Bologna) organizzate negli anni ‘50. Si vedano G. Bovini, Gli Avori del Museo Nazionale di Ravenna e del Museo Civico di Bologna che figureranno prossimamente in una mostra ravennate, “Felix Ravenna”, LXX, 1956, pp. 50-77; Mostra degli Avori dell’alto Medioevo, catalogo della mostra (Ravenna 1956), a cura di G. Bovini, L. Bona Ottolenghi, Ravenna 1956; Lavori in osso e avorio dalla preistoria al rococò, catalogo della mostra (Bologna 1959),  a cura di L. Laurenzi, Bologna 1959-1960.



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Temi di Critica - numero 1

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