teCLa :: Rivista #1

in questo numero contributi di Gianni Carlo Sciolla, Giovanni Gasbarri, Simona Moretti, Tiziana Migliore, Francesco Paolo Campione.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Il catalogo della Biennale Arte di Venezia. Forme espressive, forme del contenuto di Tiziana Migliore

Questo scritto apre uno spazio di riflessione su una lacuna visibile negli studi sulle grandi mostre periodiche d’arte contemporanea, ovvero il tema delle pubblicazioni cui esse danno luogo, costituendone la premessa e insieme il risultato. Nello specifico si intende esplorare, con strumenti semiotici, l’identità narrativa del catalogo della Biennale Arte di Venezia[1]. Giunti alla 53ª edizione del più importante Salone internazionale d’arte contemporanea, si ritiene utile mettere a fuoco, a ritroso, i cambiamenti avvenuti nel tempo, a livello formale e sostanziale. L’argomento è stimolante soprattutto in un’ottica epistemologica[2], perché palesa una continua attività di rifigurazione e modellizzazione dell’esperienza, nella tensione, che emerge sempre ed è ogni volta da negoziare, tra gerenza della mostra e gerenza del catalogo.

A tutt’oggi non esistono ricognizioni storiche né studi sistematici sul catalogo della Biennale arte di Venezia. La letteratura scientifica è limitata ad articoli su rivista o a contributi all’interno di ricerche più estese. È facile capire il perché. A una prima occhiata emerge un panorama frastagliato, drenato da mille rivoli, irto di contraddizioni e rispetto al quale fornire un ragguaglio è riduttivo. Sorge il dubbio che si possa ancora parlare di “catalogo” per questo oggetto molto cambiato negli ultimi decenni e che difficilmente discretizza la mostra. È in lavorazione una monografia ad hoc, che accolga i dovuti approfondimenti. In questa sede si tratterà di individuare i primi tratti salienti, sollevare dei problemi e formulare dei pronostici.

Si toccheranno questioni relative al catalogo in sé, nel suo formato, per come si è funzionalmente evoluto in termini di dimensioni e di maneggevolezza, e nel suo essere un prodotto unico che, negli anni, ha incentivato una filiera di tipologie aggiuntive o alternative (cataloghi particolari dei padiglioni, short guide, riviste), con conseguenze nella ridefinizione del suo status e della sua identità. Si guarderà alla forma espressiva del catalogo, secondo i “percorsi del gusto”, tenendo conto delle relazioni tra grafica e immagine, dell’uso del colore, dell’ambizione di mostrare una rilevanza estetica al passo coi tempi. Se ne indagheranno quindi alcuni tratti semantici, quali l’autoreferenzialità – il suo parlare di sé per propagandare la mostra[3] – l’andirivieni tra localismo e internazionalismo, la specifica struttura di appello al lettore e, negli ultimi decenni, per la necessità del gioco d’anticipo, la sfasatura temporale rispetto alle opere esposte: suppliscono alla loro mancanza riproduzioni di progetti e disegni e fragranti fotografie di installazione. I tre punti indicati – catalogo come oggetto in sé, forma espressiva, tratti semantici – incroceranno indagini quali: i) la fortuna a fasi alterne delle pagine critiche; ii) la costruzione del “lettore”: strategie di coinvolgimento, dalla concezione dei testi fino alla grafica e all’uso delle immagini; iii) i regimi differenti di discorso nelle scelte della direzione e poi del curatore: l’elenco, la tabella, il racconto; iv) le reazioni al titolo della mostra centrale, come motivo conduttore o slogan, a partire da quando le rassegne hanno assunto un carattere tematico (anni Settanta); v) le tracce in negativo, ossia l’ombra e il riflesso della “concorrenza”: dialogo con i cataloghi di mostre consimili e relazioni con l’editoria di settore sia periodica sia saggistica.

Prodromi

Collezione e catalogo

Victor Stoichita (1993) stabilisce un rapporto di interdipendenza reciproca tra collezione, il colligere, atto che presuppone la selezione e la combinazione, e catalogo. Scrive:

 

nel caso di una collezione (di ogni collezione) ciò che la riflette e che in fin dei conti le conferisce coscienza di sé è il catalogo. Il catalogo è una specie di specchio: è, da un punto di vista intellettuale, qualcosa di più della collezione stessa e ha un grado di coesione e di coerenza che la collezione non può conseguire, se non nei sogni del collezionista. Il catalogo è il sogno di ogni collezione o, se si vuole, è la collezione come puro concetto[4].

 

Lo storico dell’arte ritiene che questo rapporto fosse insito nell’“invenzione” di Vincenzo Borghini per lo studiolo di Francesco de’ Medici a Firenze (1570-73): un sistema coerente di “luoghi” (gli armadi) e di “immagini” (i quadri che ne ornavano le ante). L’insieme di quadri forniva “un segno” delle cose che in essi erano conservate. Già lo studiolo funzionava dunque come una collezione non di dipinti, ma di naturalia, ordinati entro alcuni armadi, e con un sistema di quadri che li ricopriva e fungeva da catalogo allegorico della collezione. A detta di Borghini, bisognava «accomodare le storie ai luoghi e non i luoghi alle storie» e stare sempre attenti, distribuendo le immagini, a «non entrar in qualche gran lecceto et anche di non lasciare nulla vuoto»[5].

Nel Nord Europa, il problema del “raccoglitore” visivo della collezione è trattato a partire dal XV secolo, almeno in area tedesca. Adalgisa Lugli ricorda le grandi macchine-reliquiario con sportelli e scomparti riassunte magistralmente nelle incisioni degli Heiligtumsbücher, cataloghi a stampa in forma di unica tavola con didascalie[6]. Sono rivolti al pubblico che acquista le immagini sacre vendute intorno ai santuari e ne hanno la stessa funzione di “ricordo” devozionale. I grandi fogli, incisi dapprima su matrice lignea e più avanti su rame, nel XVI e XVII secolo, sono commemorativi di un evento particolare, come un pellegrinaggio o l’esposizione del tesoro ai fedeli durante una festività. In quest’ultimo caso – afferma Lugli[7] - assumono più che mai il carattere di un catalogo, con preciso intento didattico nello spiegare e documentare l’origine e il valore dei singoli pezzi.

Le prime collezioni, nel Cinquecento, risultano essere dispositivi di rappresentazione e prevedono già un kata-logos, per quanto ancora immateriale e invisibile, come logica di posti, strutturazione secondo un ordine. In origine, quindi, il catalogare appare consustanziale al collezionare, pratica che si discosta dall’accumulare indiscriminatamente. Il primo vero catalogo pervenuto è probabilmente quello di Antoine Agard di Arles, datato 1611 e intitolato Discorso e ruolo di medaglie e altre antichità, sia pietre preziose, che incisioni, che rilievi, e altre pietre naturali mirabili, diverse antiche figure e statue in bronzo con statue in terracotta alla maniera egizia, e diverse rare antichità che sono state raccolte e si trovano ora indicate nel cabinet del signor Antoine Agard, mastro gioielliere e antiquario della città di Arles in Provenza. I due termini di apertura fanno capire che gli oggetti sono dispiegati, concatenati (“discorso”), e riuniti non in maniera affastellata, ma secondo un ordine di importanza (“ruolo”). Agard aggiunge, sottolineando lo sforzo selettivo:

 

Restano (amico lettore) mille altre piacevolezze, non scritte per evitare una prolissità troppo grande, & pezzi rarissimi che col mio piccolo lavoro & ricerca io rinvengo sovente per saziare la tua curiosità, se essa ti porta a venirmi a trovare, & a toccare con mano tutto quello che io ti ho segnalato[8].

 

Un eccetera verbale – “mille altre” – salva da una lista infinita di oggetti, suscita interesse per la raccolta e rimanda al titolo in quanto definizione della capienza del catalogo[9].

Antoine Furetière (1690) si cura di distinguere l’inventario, Descrizione e enumerazione che si fa per iscritto dei mobili & delle carte che si trovano all’interno di una casa, dal catalogo, Elenco & memoria comprendente numerosi nomi di persone, oppure di libri disposti secondo un certo ordine[10]. Stoichita osserva che, ad eccezione di questa più precisa occorrenza, la storia del collezionismo è caratterizzata da una grande difficoltà nell’espressione del concetto di “catalogo”. Nel XVII secolo si impiega il nome della collezione per designare il catalogo – Kunstkammer, Gazophylacium, Thesaurus, Museum, Cabinet. Poi, quando nasce la parola, si sente il bisogno di spiegarla: Index sive catalogus, Catalogue & Description, Catalogus oder eine in ördentlichen Classen abgetheilte specification[11]. Lugli (1987) precisa che la più elementare forma di catalogo è l’inventario – obbedisce a criteri di registrazione utilitaristica e documenta lo status quo dei materiali allorché non ha ancora un rilievo programmatico. A differenza dell’inventario, il catalogo è un’operazione difensiva da parte del collezionista: fissa il momento aureo della collezione prima della dispersione. Di qui «l’orgoglio di figurare insieme alla propria collezione» (molti cataloghi di musei si aprono con il ritratto del collezionista)[12].

Il fatto che nelle Fiandre del 1700 non vi sia traccia di cataloghi, ma emerga il genere dei “Cabinet d’amateur”, porta Stoichita[13] a introdurre la categoria dei quadri-cataloghi: «non venivano esposti nella collezione. Erano dei regali da esporre altrove, dei quadri-cataloghi da destinarsi ad amici, colleghi, parenti. Erano immagini della collezione». L’esempio più prestigioso sono i dipinti di David Teniers II che riproducono la Galleria dell’arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles. Le opere ivi presentate sono facilmente riconoscibili, c’è un ingranaggio intertestuale tale per cui risultano raggruppate per sezioni (ritratti, paesaggi, scuola italiana) e su ciascuna cornice è riportato il nome dell’autore. In un Paese e in un’epoca dove l’impulso alla compravendita d’arte raggiunge uno sviluppo senza precedenti, il passo da questa congiuntura fondamentale al catalogo-libro è breve. Nel 1658 viene pubblicato, in latino, il Theatrum Pictorium Davidis Teniers Antverpensis (Anversa, Verdussen), un libro-catalogo con 264 incisioni che riproducono i pastiche di Teniers dei capolavori italiani della collezione dell’arciduca. A ogni pagina corrisponde un dipinto, mentre nell’ultima è significativamente stampato l’interno di una galleria di quadri. Più tardi, nel Prodromus Theatri Artis Pictoriae (Vienna 1735) di Frans von Stampaert e Anton von Prenner, la pagina si presenterà come una parete interamente ricoperta di quadri. Un corrispettivo letterario del genere dei “Cabinet d’amateur” si diffonde in Europa con successo e annovera, tra gli altri, la Galeria di Giovan Battista Marino (1619), il Cabinet di George de Scudéry (1646), la galleria di Salástano in El Criticón di Baltasar Gracián (1651-53) e la galleria di La Peinture di Charles Perrault (1663).

Sarebbe interessante confrontare testualità letteraria e immagine sulla presentazione delle opere d’arte nei cataloghi e negli spazi espositivi, cominciando, per esempio, dal tema del rapporto pagina/parete che si instaura nel XVII secolo. Stoichita[14] sottolinea che la “parete di quadri” è un fenomeno moderno: «Contrariamente all’affresco, che trasformava la parete in immagine, l’esposizione delle opere secondo i dettami di Anversa equivaleva a sostituire il muro dipinto con un tramezzo mobile». Si discuteva di problemi di intertestualità e contesto reale – illuminazione, materie, segnali di demarcazione,… – dall’interno del genere dei Cabinet. E la questione iconografica nell’allestimento era legata, almeno nella teoria del cardinale Federico Borromeo (Musaeum, 1625), alla descrizione stessa del museo e alle associazioni che in questo modo potevano nascere.

«Accomodare le storie ai luoghi e non i luoghi alle storie». Il motto di Borghini[15] porta inscritta, in nuce, la co-implicazione tra la mostra e il suo racconto e istituisce ai poli due istanze di osservazione, il visitatore e il lettore. È un’isotopia importante, se si considera il catalogo come un “semioforo”[16], capace di indirizzare, dalla sua visibilità materiale, a contenuti ancora invisibili. Si comprende allora la lettura “visiva” che Lugli (1987) dà del catalogo quando si origina il problema della trasposizione dei materiali, già nel XVIII secolo:

Ci sono oggetti impossibili da rappresentare, come i noccioli scolpiti, il telaio per tessere la tela di ragno di Settala, il cammello d’avorio che passa per la cruna di un ago. La tavola iniziale è di sintesi, serve a richiamare la dispersione a unità. È prospetticamente orientata secondo un solo punto di vista, anzi è una scatola prospettica aperta sulla quarta parete o una specie di anamorfosi in cui il visitatore funziona come il cilindro di specchio[17].

 

Esposizione e catalogo

Walter Benjamin ha acutamente osservato che l’epoca che ha visto moltiplicarsi le Esposizioni Universali ha anche visto moltiplicarsi un certo tipo di pubblicazioni, i “libri-esposizioni”: «contemporanea ai panorami è una letteratura panoramatica: Paris, ou Le Livre des Cent-et-Un (1831-1834), Les Français peints par eux-mêmes (1841), Le Diable à Paris (1846), La Grande Ville (1844)»[18]. Libri come questi, precursori del catalogo, hanno a che fare con l’esposizione strutturalmente, e non soltanto per il loro contenuto o per pura coincidenza storica, aneddotica o metaforica[19]. Come segnala Philippe Hamon, il paragone letteratura-architettura si gioca su livelli di pertinenza differenti. E il termine “esposizione”, con la sua polisemia, fa da catalizzatore per esplorarli[20]. Hamon mette in coda la definizione di Gustave Flaubert (Dictionnaire des idée reçues, 1850-1880) – «Esposizione: motivo di delirio del XIX secolo» – e vaglia alcune delle accezioni indicate nel Larousse, Grand dictionnaire universel du XIXème siècle. Si sofferma sull’idea di “esposizione” come orientamento, posizione in rapporto ai punti cardinali. È un tratto costitutivo del catalogo in quanto guida per un utente, corredata di mappe, «esposizione di un corpo agli altri corpi degli attori sociali ed esposizione di un corpo agli agenti naturali»[21]. Secondariamente, c’è l’“esposizione” nel senso di una cerimonia che lascia vedere ai fedeli un oggetto che si vuole offrire alla loro venerazione, una reliquia, ad esempio. Trova fondamento nelle dinamiche collettive descritte da Adalgisa Lugli (1983) e sopra menzionate, la ratio delle quali è stata lucidamente spiegata da Julius von Schlosser:

 

a paragone degli antichi tesori dei templi, i tesori delle chiese presentano in maniera molto più marcata caratteri che saranno in seguito propri delle raccolte d’arte e di meraviglie, forse per il loro restar fedeli al senso favoloso del Medioevo, al costante interesse, proprio di quest’epoca, per l’importanza del contenuto e ancor di più per il meraviglioso, il singolare, l’inconsueto[22].

 

Specialmente, però, Hamon mette a fuoco l’“esposizione” come aspetto della descrizione verbale. Nella tradizione letteraria, l’esposizione designa soprattutto la parte inaugurale di un’opera teatrale, in cui si tratta di «far conoscere i personaggi, chi parla, a chi si parla, di chi si parla, il luogo in cui si trovano, il tempo in cui comincia l’azione»[23]. La scrittura-esposizione – continua Hamon[24] – mette in ordine (o in disordine, nei testi ironici), determinati insiemi, e fa appello, nel lettore e nello scrittore, a una competenza semiotica paradigmatica: classificare, gerarchizzare, attualizzare lessici, stabilire equivalenze, imporre una delimitazione. Analogamente all’oggetto architettonico, che non è stereotomia della pietra, misurazione quantitativa di un’estensione, bensì costruzione di differenze qualitative e conseguenze “imperative”, l’esposizione letteraria non è soltanto segnalazione di un tempo di lettura e di uno spazio metrico e tipografico, ma anche “misura” etica, sistema di valori, ideologia. «Teatro statico – luogo da guardare, da cui si guarda, in cui ci si guarda – ma anche organizzatore di sfilate (le processioni e gli spostamenti ritualizzati della vita sociale)»[25].

Con il catalogo l’esposizione diviene un genere letterario autonomo, che ne sussume funzioni e caratteristiche. Per studiarlo occorrerà tenere viva la connivenza tra i suoi “topoi” e i luoghi spaziali deputati alla produzione della mostra.

 

Autori della propria autorità

Le prime edizioni del catalogo della Biennale sono caratterizzate dalla volontà di legittimare le scelte del quadro dirigente del Salone e il lavoro dei membri della giuria, eletti dalla Presidenza. Le prefazioni di Riccardo Selvatico (1895) e poi di Filippo Grimani (1897-1914), ma soprattutto le relazioni del segretario generale Antonio Fradeletto (1895-1914), curatissime sotto il profilo informativo e documentario, annunciano e giustificano la presentazione di resoconti e tabelle sulle attività dei membri del comitato. Qualsiasi intervento relativo alla mostra, anche polemico, è registrato nel catalogo e perciò tenuto sotto controllo. Si veda l’edizione del 1899, dove il verdetto della giuria è seguito da un’avvincente lettera di motivazione a Grimani. Qui i commissari esprimono pareri severi sulle opere. «Ci consenta di dirle che nel nostro esame ci siamo imbattuti in opere tali da rivelare nei loro autori una perfetta incoscienza dell’Arte e dell’altezza intellettuale dell’Esposizione veneziana»[26]. Trasparenza e limpidezza producono una comunicazione credibile. Il catalogo del 1903 riporta perfino la trascrizione delle lettere di nomina, preliminari al mandato della giuria. E quattro anni dopo, nel 1907, spunta la prima “statistica dell’accettazione”[27]. Da tutte queste tattiche, espresse in forma verbale, visiva o diagrammatica, filtrano i rapporti di forza della regia della Biennale. Anche l’indizione, nel 1897, del concorso per la critica d’arte consolida il suo ruolo di soggetto mandante e giudicante. Quell’anno vince Primo Levi, a motivo di una «critica colta e moderata», mentre Vittorio Pica ottiene il secondo premio, ex aequo con Ugo Ojetti, sulla linea delle «tendenze della critica militante»[28]. Le prime pagine critiche compaiono però nel 1901, a firma di Ojetti su Auguste Rodin, di Pica su Gaetano Previati, di Primo Levi su Domenico Morelli. Preparato con largo anticipo, il catalogo funge in questi anni da organon efficace di affermazione e valorizzazione dell’ente. Viene da chiedersi, tuttavia, su che cosa vertano le scelte della dirigenza. Qual è il compito che la Biennale, per presentare se stessa, conta di raggiungere? Dichiarate fin dall’inizio e proclamate a gran voce nel 1901, tali scelte riguardano espressamente «l’educazione dei nostri artisti», la didattica delle arti, un problema che Alessandro Stella formalizza nel 1912 e suscettibile di raccogliere a quel tempo un pieno di consensi nell’opinione pubblica[29].

Il formato del catalogo è quadrotto, e tale rimarrà fino al 1950, più per limiti tecnici di stampa che per ragioni stilistiche. Le edizioni degli anni dieci e venti includono, in sequenza: il regolamento, la prefazione del Presidente, la relazione del Segretario generale al Presidente, gli elenchi e le descrizioni delle sale, l’indice alfabetico degli artisti, le tavole, l’indice delle tavole. La quantità di liste fa riflettere sull’operazione di catalisi della mostra, per via di classi gerarchiche, necessarie ad articolare i diversi piani di contenuto. Una parte cospicua è destinata agli annunci pubblicitari, prevalentemente su servizi e attività commerciali regionali, ivi compresa la promozione di tariffe agevolate per i viaggi ferroviari a Venezia. Per tutti questi “dintorni” delle descrizioni Gérard Genette propone la definizione di paratesto. Il catalogo li somministra in misura superiore rispetto a un’opera letteraria, dato il suo uso ai fini della mostra:

 

un testo si presenta raramente nella sua nudità, senza il rinforzo e l’accompagnamento di un certo numero di produzioni, esse stesse verbali o non verbali, come un nome d’autore, un titolo, una prefazione, delle illustrazioni, delle quali non sempre è chiaro se debbano essere considerate o meno come appartenenti ad esso, ma che comunque lo contornano e lo prolungano, per presen-tarlo, appunto, nel senso corrente del termine, ma anche nel suo senso più forte: per renderlo presente, per assicurare la sua presenza nel mondo, la sua “ricezione” e il suo consumo, in forma, oggi almeno, di libro. Questo accompagnamento, d’ampiezza e modalità variabili, costituisce ciò che ho battezzato il paratesto dell’opera[30].

 

Diverso è lo statuto della copertina, che fin dall’inizio appare un “vestibolo” garante della qualità della mostra e a doppia focale: interna, che mira a rappresentare l’edizione, esemplificandola; esterna, volta a presentarla allo spettatore, con adeguati elementi di appeal, plastici, attraverso la lucentezza della luce, ad esempio, o propriamente figurativi[31].

Ma il catalogo, bollettino di notizie sulla mostra e vetrina dell’ente, riveste, dapprincipio, anche la funzione di guida agli spazi della Biennale. La mappa dei Giardini, presente dalla prima edizione, e le mappe dei padiglioni stranieri, aggiunte nel 1909, sono oggetto di esperimenti col colore già nel 1926, quando è presidente Giovanni Bordiga (1920-1926) e segretario Vittorio Pica (1920-1926). Un gesto pionieristico, se si pensa che, nell’apparato illustrativo, le prime tavole a colori appariranno solo nel 1962, per poi tornare mestamente al bianco e nero, almeno fino al 1978. L’innovazione è un sintomo dell’interesse per il visitatore, figura che non coincide a priori con quella del lettore.
Nel ‘26, rispetto ai vincoli posti, è l’avanguardia italiana a smuovere le acque. Insoddisfatti del trattamento riservato loro nel catalogo, i futuristi pubblicano un volumetto monografico, curato da Enrico Prampolini e splendidamente illustrato, che svolge le funzioni di un dossier del padiglione futurista[32]. L’atto suona come una dichiarazione di indipendenza dall’auctoritas locale. Un passo avanti nella caratterizzazione del profilo critico del catalogo è garantito, invece, dalla personalità di Ugo Ojetti, membro del consiglio direttivo negli anni della gestione di Bordiga e Pica. In quelle date oneri e onori della stampa vanno alla casa editrice d’arte Bestetti & Tumminelli (Milano), che si ritaglia uno spazio in una nicchia di mercato dominata dalle edizioni Carlo Ferrari (Venezia). Per gli stessi tipi esce, nel 1922, la rassegna d’arte “Dedalo”, diretta da Ojetti e con molta opportunità propagandata nel retro della prima pagina del catalogo.

L’edizione del ‘30 appare più corposa, a motivo dell’investimento politico sulle arti promosso dal Governo Mussolini. A seguito del R.D.L. 13 gennaio 1930, la Biennale è infatti trasformata in ente autonomo e sottratta alla gestione del Comune di Venezia. Nella prefazione si legge che la Biennale di Venezia «consentirebbe un’opera ricostruttrice delle generazioni e la ripresa delle gloriose tradizioni nazionali»[33]. Spiccano due pubblicazioni supplementari al catalogo, che ne rievocano i trascorsi: un fascicolo su I premi della Biennale di Venezia (1930) e una storia della Biennale raccontata attraverso le sue statistiche: bilanci celebrativi con dati posti sotto gli occhi di tutti. Dalla focalizzazione esterna dei primi anni, verso un pubblico che bisognava informare, appassionare e convincere, si passa a una focalizzazione interna, caratterizzata da strategie di autoriflessività. Il catalogo comincia a sganciarsi dalla mostra in sé e a farsi strumento di rappresentanza dell’ente, biglietto da visita dell’attualità della Biennale, ma anche della sua memoria. L’artefice del cambiamento è il segretario Antonio Maraini (1928-1942), il quale rivela fin da subito elevate qualità dirigistiche[34]. Nomina espressamente un curatore del catalogo,  il poeta Domenico Varagnolo, che è anche direttore del neonato “Istituto documentario”, oggi ASAC, Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale[35]. La scelta è significativa, perché lega la missione dell’ufficio, di documentazione delle arti appunto, all’impostazione di criteri redazionali standard per il volume. Nel catalogo del ‘32 Varagnolo esplicita così le norme da seguire: «la segreteria dirama a ogni artista una scheda da riempire coi  cenni biografici e artistici della propria carriera. Le schede vengono raccolte insieme alle foto e alle critiche della stampa»[36]. È il backstage di un lavoro febbrile, che spiega perché le edizioni degli anni Trenta siano così articolate, ricche di introduzioni alle varie sezioni, schede per ogni padiglione, tabelle delle opere esposte e degli artisti espositori. L’Istituto documentario diventa il punto vitale dell’intera organizzazione, sotto la spinta propulsiva di Maraini, che a Venezia aspira a creare un centro dove l’arte italiana possa trovare il suo perno e di qui irradiarsi.

Le nuove forme di documentazione influenzano e accrescono anche il valore economico dell’opera d’arte. Il catalogo, nel testimoniarne la presenza alla mostra, partecipa alla sua costruzione e al suo successo. Funge da certificato, anzi da sigillo.

 

Madama Rivista.

L’alterità del catalogo della Biennale

Uscire dal torpore del dopoguerra non è arduo per il Salone veneziano, che con un direttivo eccezionale, composto dal presidente Giovanni Ponti (1948-1952; 1958-1960), dal segretario Rodolfo Pallucchini (1948-1958) e dal conservatore ASAC Umbro Apollonio (1950-1972), attua presto un programma di revisione storica e culturale del gusto. L’unico retaggio delle Biennali fasciste sono i concorsi per il manifesto e per il migliore saggio critico, ora sia italiano che straniero. Pallucchini dà respiro internazionale alla mostra e scommette sui presupposti dell’arte astratta, che pensa l’opera non come rappresentazione di oggetti, ma come oggetto essa stessa. Già nel ‘48 l’illuminato segretario affianca perciò, alle molte retrospettive, un’antologica della collezione Peggy Guggenheim.

 

È ovvio che il pubblico non abituato si sentirà a disagio di fronte a modi espressivi inusitati, sganciati dalla rappresentazione figurativa. Ma si ricordi cosa è avvenuto con Modigliani: molta parte di quel pubblico che nel 1930 si mostrava inorridito dinanzi alle sue opere, oggi lo ama e lo comprende. L’artista è sempre un orologio in anticipo sul pubblico[37].

 

La querelle figurativo/astratto è un’occasione per tentare strategie di avvicinamento e costruire con il pubblico una comunicazione attiva. Parallelamente, Pallucchini avvia un confronto diretto con gli specialisti del mondo dell’arte, uno scambio di idee che è anche alla base della cura critica del catalogo. Lo dimostra il fitto carteggio con Roberto Longhi. In una lettera datata 26 marzo 1948 il segretario scrive:

 

rimane la questione della prefazione all’Impressionismo […]. Nel catalogo ufficiale della Biennale le tre paginette d’introduzione penserei di affidarle a qualche studioso francese (Cogniat, commissario per il padiglione francese, o Bazin?) e vi farei seguire una mezza paginetta per ogni singolo artista, paginetta che potrebbe essere compilata da uno studioso italiano e sul cui nome prego di dirmi il pensiero[38].

 

In primis, però, cresciuto il numero dei Paesi partecipanti, si avverte la necessità di tutelare il monopolio in campo editoriale. Le nazioni autogestiscono la loro presenza in Biennale, ma questa autogestione va disciplinata. Alla voce “catalogo e fotografie” del regolamento del 1950 si legge:

 

La Biennale pubblica il catalogo ufficiale illustrato della mostra, catalogo che è l’unica pubblicazione di carattere ufficiale ammessa all’esposizione. Le nazioni straniere possono preparare per la diffusione, a scopo di propaganda, cataloghi particolari oppure studi riguardanti le varie sezioni, ma alla sola condizione che questi siano distribuiti gratuitamente. La presidenza della Biennale si riserva di affidare a competenti l’incarico di compilare, per il catalogo, studi relativi ad artisti espositori e a movimenti artistici che figurino nella mostra[39].

 

In questo centro regolatore di se stesso e che sorveglia ogni sua propaggine, deliberare sull’elaborazione critica della mostra è un diritto esclusivo del presidente.

La sensazione di un eccesso di autoreferenzialità e chiusura è respinta attraverso la nascita di una rivista, delegata a mantenere viva l’attenzione per la Biennale, diversificando l’offerta. È La Biennale di Venezia, periodico trimestrale di lusso, in carta patinata, con immagini anche a colori, un’impaginazione modernissima, sunti in francese, inglese e tedesco e pubblicità di gran classe[40]. Risponde a una politica di ampliamento dei rapporti con l’esterno e soddisfa esigenze che il catalogo non può appagare. Innanzitutto permette una lettura della mostra a posteriori, ovviando a quello che è un “deficit genetico” del catalogo[41]. Propaganda l’intero ente, nei settori di allora, cioè arti figurative, cinema, teatro e musica (opera e balletto). Fa poi pubblicità all’ufficio vendite, che in quegli anni funziona a pieno ritmo, e presenta collezioni d’arte contemporanea, di Peggy Guggenheim e di Giovanni Mattioli, per esempio. Promuove anche altre mostre, come la Biennale di San Paolo, ‘documenta’ di Kassel, la Quadriennale di Roma. Insomma, inaugura un lungo periodo di studi sulla Biennale, in cui spicca il coinvolgimento pieno e duraturo del mondo accademico. Il comitato scientifico è formato dai membri interni alla Biennale, ognuno dei quali cura le notizie del suo specifico settore. Significativa è la scelta del direttore responsabile. Ponti e Pallucchini affidano inizialmente l’incarico a Elio Zorzi, che in veste di capo ufficio stampa, garantisce alla rivista un taglio eminentemente informativo. Gli succede, nel ‘55, Apollonio, il quale, da un lato, rafforza gli aspetti documentativi sulla mostra, dall’altro dà spazio alla critica d’arte nazionale e internazionale e favorisce il confronto interdisciplinare[42]. Col tempo, tuttavia, l’andirivieni tra endogeno ed esogeno, finalizzato ad attrarre il maggior numero di lettori, sfocia in una postura ibrida della rivista, che, come fa notare Giovanni Bianchi (2003), non è specializzata tanto da coinvolgere critici e artisti e risulta troppo cara per il grande pubblico. Nel tentativo di suscitare dall’interno il dibattito sulle arti[43], Apollonio restringe quindi i temi alla sfera teorica e riunisce gli aspetti comunicativi e di documentazione nel “Bollettino d’arte”, che fonda nel 1957. È il terzo prodotto editoriale della Biennale, con notizie sulla programmazione delle iniziative del Salone, bibliografie ampie e riferimenti all’acquisizione di pubblicazioni. Una sorta di catalogo dell’ASAC.

Le dinamiche della rivista, chiusa alla fine del 1971, si ribattono considerevolmente sulla natura del catalogo, che dalla metà degli anni cinquanta cambia formato, ora rettangolare, offre i primi esempi di progetto grafico e vede un miglioramento nella qualità della carta. Brilla l’edizione del ‘56, che accoglie gli scritti di Daniel-Henri Kahnweiler su Juan Gris e di Cesare Brandi su Giacomo Manzù, come prefazioni alle retrospettive dei due artisti. Nel ‘58 la nuova normativa sulle pubblicazioni è una conferma dei risultati raggiunti dall’editoria Biennale e un indizio dell’inversione di rotta nel privilegio di vendita. Merito di Apollonio, che quell’anno diventa anche il curatore del catalogo. Sotto il titolo “catalogo e fotografie” del capitolo sulle norme si trova questa volta: «ciò non esclude la possibilità di pubblicazioni speciali, purché concordate in precedenza con la Biennale»[44]. Il sentore della concorrenza suggerisce un compromesso tattico.

 

Correggere il tiro.

Kassel e le prime mostre a tema della Biennale

Alla fine degli anni Cinquanta una rassegna fuori dagli schemi, com’è ‘documenta’ di Kassel, con un’autentica vocazione ideologica, inaspettatamente di successo, non può non comportare una ridefinizione degli scenari. La Biennale – scrive il neosegretario Gian Alberto Dell’Acqua (1960-1970) nel 1960 –

 

si avvia ormai ad abbandonare la sorpassata formula della Mostra-Salon, per configurarsi [….] quale confronto di persone artistiche, ciascuna presente in forza, sul piano internazionale […]. Permane a Venezia – né potrebbe essere altrimenti, almeno per ora – la suddivisione tra le rappresentanze dei vari Paesi, abolita in una mostra recentissima quale “documenta 1959” di Kassel, ma quasi dovunque l’accento è posto su un aperto schieramento di valori individuali[45].

 

‘documenta’ rivoluziona il modo di trattare l’arte: la sottrae ai vincoli nazionalistici e la fa essere l’esito costruttivo di una vivace interrogazione culturale, a partire da una tesi o da una serie di problemi. La risposta a questo approccio non si fa attendere e spinge anzi gli alti funzionari della Biennale a un riposizionamento virtuoso. Nel ‘60 viene emanata la Riforma sulla Commissione giudicatrice, che l’ente veneziano rimette al voto dell’Associazione Internazionale Critici Arte. La giuria della mostra d’arte risulta ora composta da sette esperti, due italiani e cinque stranieri, eletti dal Presidente sulla base di una rosa di nomi suggerita dai commissari stranieri. L’intento – afferma Pallucchini a chiare lettere – è di «far coincidere le scelte della commissione di esperti con il diagramma dello svolgimento del gusto, tracciato dal sismografo sensibilissimo qual è la Biennale. Diagramma tale da documentare un processo storico che nessun critico può arrestare o frenare»[46]. In pratica, si accoglie la ventata di democratizzazione che ‘documenta’ porta e la si formalizza. Ma l’impianto della mostra resta storico, cronologico, tanto nella concezione quanto nel metodo. Sempre nel catalogo del 1962 un nuovo riferimento normativo articola la generica voce «pubblicazioni speciali», introdotta due anni prima:

 

La Biennale pubblica il catalogo illustrato dell’esposizione, catalogo che è l’unica pubblicazione ufficiale sulla mostra, ammessa alla vendita. I paesi partecipanti possono preparare, per la diffusione a scopo di propaganda, pubblicazioni particolari riguardanti le varie sezioni, a condizione che esse non contengano il catalogo numerato delle opere esposte.

 

Nessuna delle edizioni esterne alla Biennale può cioè assumere i tratti di una guida, ma solo perseguire fini propagandistici, palesemente condivisi. Sul piano del contenuto l’invariante del catalogo, acquisita negli anni e insuperabile, sembra essere l’expertise della costituzione di una figura univoca, che riunisce i ruoli attanziali del lettore e del visitatore. Il volume inscrive al suo interno una pragmatica della comunicazione e in questo modo crea da sé il proprio contesto. Resta l’ambiguità sul divieto di commercializzazione. Il catalogo del ‘62 si distingue per l’elegante formato, alto, rettangolare e la grafica moderna, che rispecchia i parametri della sua nuova immagine coordinata. L’ente stringe una collaborazione con Massimo Vignelli e lo Studio Unimark, per un progetto esteso poi agli altri settori artistici[47].

Sei anni dopo, il consenso accordato dal pubblico alla formula di ‘documenta’ e la necessità di considerare le istanze dei giovani contestatari, rompono il fronte storicista. Werner Haftmann aveva posto a fondamento della mostra di Kassel la didattica delle arti: «it is devised with our young generation in mind, and the artists, poets and thinkers they follow, so that they may recognize what foundations have been laid for them, what inheritance they must nurture and what inheritance must be overcome»[48]. È una prospettiva che Dell’Acqua assumerà solo nel 1968, presentando la XXXI Biennale come una «rassegna internazionale pianificata secondo un disegno critico preciso, suddivisa in vari capitoli corrispondenti ad altrettanti settori di ricerca, anche con propositi di chiarificazione didattica»[49]. La visione è diversa, lontana dagli ideali formativi dello studioso tedesco. Fa capire, però, che ai vertici dell’ente veneziano si è finalmente disposti ad entrare in rapporto dialettico con le trasformazioni categoriali avvenute.

Cruciale è in questo senso l’edizione del 1970. Segna, infatti, l’inizio delle biennali a tema, con l’annuncio ambizioso di Biennale/ricerca: «l’intitolazione, con cui si è espresso il significato delle attività 1970 dell’ente, corrisponde di fatto alla volontà degli organizzatori: non si tratta cioè di un’etichetta allettante e men che meno di un emblema propagandistico; intende bensì fissare una situazione oggettiva che andava documentata»[50]. Fin da subito il tema della mostra chiama a sé esplicitazioni sulla natura e la valenza del titolo: etichetta, slogan o designazione attendibile? Apollonio sostiene la terza via e non indugia ad affermare che «la rassegna di quest’anno è sicuramente più problematica, assai meno “museografica”, maggiormente complessa per rapporti più flagranti con l’attualità e per interrogativi di meno facile risoluzione»[51]. Pulsa una vena sperimentale, che sulla base di un confronto tra metodologie rende la ricerca nelle arti commensurabile, per rigore, alla ricerca nel campo delle scienze naturali.

Il nuovo ordinamento dell’ente asseconda questa direzione. Mario Penelope, vicecommissario straordinario della XXXII mostra (1972), ne riporta un passo nella prefazione al catalogo:

 

L’Ente Biennale ha lo scopo di fornire, a livello internazionale, documentazione e comunicazione intorno alle arti, assicurando piena libertà di idee e di forme espressive […]. Promuove in modo permanente iniziative idonee alla conoscenza, alla discussione e alla ricerca; offre condizioni atte a realizzare nuove forme di produzione artistica; agevola la partecipazione di ogni ceto sociale alla vita artistica e culturale. Alla Sottocommissione non spetta più solo di prescegliere gli artisti italiani da invitare, ma di studiare, proporre e realizzare il piano organico programmatico dell’intera manifestazione[52].

 

Nell’ex Padiglione Italia i commissari, Renato Barilli, Francesco Arcangeli, Marco Valsecchi, propongono inizialmente un tema, Opera e comportamento, che poi diventa il filo conduttore di tutta la mostra. La tendenza a un titolo trasversale è forse all’origine delle manovre che porteranno all’«edizione più importante dall’anno dell’apertura, capace di esprimere una dimensione eristica, conflittuale, non circoscritta al solo “ring” della critica e degli autori, ma estesa all’opinione pubblica»[53]. Incide nuovamente il modello di Kassel, con cui si riduce il divario. Qui, dal 1972, cioè dalla ‘documenta 5’, viene definita un’unica cornice tematica, all’interno della quale collocare le opere e che gli artisti scelti sono chiamati a rappresentare. La mostra è ora sotto l’egida di un direttore artistico, Harald Szeemann per la quinta edizione, il quale assume il ruolo di “segretario generale con pieni poteri”. Il catalogo appare in una veste del tutto nuova, come raccoglitore a schede che contiene il materiale informativo dell’evento e si apre a una progressività. Acquisisce i tratti distintivi di un oggetto diverso e in questo modo perde la natura del preconfezionato. La pietra di paragone è chiaramente la nota mostra curata da Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969, When attitudes become form. Oltre a inaugurare una concezione “prossimale” dello spazio espositivo, sinergico all’opera d’arte, la rassegna presenta, al posto del catalogo, una rubrica suddivisa per categorie. I singoli artisti sono rintracciabili con un ordine alfabetico visibile all’esterno e la cura delle pagine è a carico loro. Lo strumento di conoscenza dell’arte diventa opera d’arte esso stesso[54]. A metà degli anni Settanta, il presidente Carlo Ripa di Meana (1974-1978) e il segretario Floris Luigi Ammannati (1976-1978) nominano direttore del settore Arti visive e Architettura Vittorio Gregotti. La XXXVII Biennale è la prima mostra per sezioni, pensate per sviluppare e declinare un unico argomento, Arte ambiente. Il catalogo generale, in due tomi, accoglie e presenta le partecipazioni italiane e straniere, costruite sul medesimo tema, introduce e descrive le dieci mostre storico-critiche presenti, ma è soprattutto la prua di sei monografie autonome. Questi fascicoli, integrativi al catalogo, tornano però sui punti di snodo del programma. Ripa di Meana[55] li immagina come «volumi di approfondimento che i lettori potranno conoscere e usare anche ad evento concluso». Presentano la stessa griglia di impaginazione, uguale formato e un’immagine fotografica ad hoc per la copertina. Le illustrazioni sono intercalate ai testi. Testimoniano, non da ultimo, della fioritura di nuovi spazi espositivi, “collaterali” rispetto alla sede istituzionale dei Giardini. L’esperimento si ripete nel 1978, intorno al tema Dalla natura all’arte e dall’arte alla natura, messo a punto da un collettivo internazionale. Achille Bonito Oliva, coordinatore della rassegna Sei stazioni x arte natura. La natura dell’arte, individua motivi e tipologie discorsive quali “Finestra/interno”, “L’iconosfera urbana”, “La convenzione della visione”[56]. Il catalogo generale, edito da Electa, lascia l’impressione di una mostra poliedrica ma ordinata, intelligibile al visitatore, dove il titolo è un campanello indicatore delle interpretazioni possibili.

 

Sbarazzarsi dei contenuti.

Cornici di senso e tenuta del catalogo

Le Biennali degli anni settanta hanno il vantaggio di una testualità forse ermetica, ma desiderosa di costruire un’episteme. Sono progettate come un modo di indagare l’esperienza: appaiono luoghi di formazione del senso, atti di significazione. Se supportano una varietà di tematiche, è però all’interno di una semantica specifica, che ne garantisce la coerenza. Non si tratta di una volontà circoscritta a una fase della storia. Reesa Greenberg, Bruce Ferguson e Sandy Nairne ammettono, a metà degli anni novanta, che le grandi rassegne sono i principali veicoli di disseminazione del sapere, usate come introduzione a specifici fenomeni. Recentemente, tuttavia, molte di esse appaiono inconsapevoli e acritiche, per un disinteresse verso la produzione di saperi[57]. A un certo punto si è smesso di credere che l’arte spinga a pensare. Cosa è accaduto? Se il significato di un cambiamento radicale nell’approccio all’arte è rimasto latente. Può l’analisi dei processi della mostra disimplicarlo?

Con la presidenza di Giuseppe Galasso (1980-1982), la segreteria di Sisto Dalla Palma (1980-1982) e la direzione artistica di Luigi Carluccio si ritorna al settore unico. La Biennale del 1980 cancella con un colpo di spugna il modello affermatosi. Priva di nutrimenti teorici, sposa la formula della retrospettiva e opta per la periodizzazione storica. Paradossalmente, viene sviluppato il tema dell’arte negli anni Settanta. Questo non impedisce ad Achille Bonito Oliva e Harald Szeemann di ideare la sezione Aperto, offrendo anche ai giovani la possibilità di esporre. L’opacità delle idee è il piatto forte anche dell’edizione successiva; la XL Biennale, dove si scopre che il nuovo orientamento non è frutto dell’oblio, risponde a una consapevole strategia della vaghezza. Il catalogo fornisce documenti preziosi su processi altrimenti incomprensibili. Nel “prologo-commiato” di Sisto Dalla Palma si legge infatti:

 

Se è vero che in tante occasioni, in passato, veniva messo a fuoco programmaticamente un assunto tematico, a evidenziare tensioni progettuali, posizioni e correnti, in una parola le dominanti di una certa fase della ricerca artistica contemporanea, ora l’attenzione è volta alle superfici esterne della nebulosa. Si vuole ritrovare l’opera come nucleo della creatività artistica[58].

 

Un alibi per rendersi arbitri del gusto e non mediatori culturali, questa volta con la stessa velocità di Kassel, dove Rudi Fuchs, direttore della ‘documenta 7’ (1982), dichiara di volere liberare l’arte dalle «parodie sociali che la intrappolano». La mostra «non può essere vincolata da concetti, l’opera deve potersi manifestare senza impedimenti»[59]. È una libertà che nuoce alla tenuta del catalogo. Quantomeno Jean Clair, chiamato a presentare la Biennale del 1982, ammette l’assurdità dell’allestimento, giustificandolo con il voler tener fede agli impegni e alle scelte di un defunto. La morte di Carluccio, nel pieno dei preparativi, aveva ingenerato precarietà e condizioni spiacevoli. Lo storico dell’arte precorre le possibili accuse:

 

è perché sono esistiti, in ogni epoca del passato, degli uomini che ritenevano avesse un senso rimanere fedeli ad un’iniziativa e tentare di portarla a compimento anche dopo la scomparsa di chi l’aveva ideata che è esistita una Storia […]. Non prenderne in considerazione che l’assurdità ha sempre preannunciato l’avvento della barbarie, la scomparsa di ogni sentimento umano[60].

 

La corporate image dell’istituzione cambia solo nel 1984, quando il neo presidente Paolo Portoghesi (1984-1990) commissiona a due grafici dello Studio Tapiro il progetto per il nuovo marchio.
La collaborazione attraverserà il centenario della Biennale e si concluderà nei primi anni del 2000. Portoghesi nomina direttore del settore arti visive Maurizio Calvesi e recupera l’uso delle mostre impostate su temi unitari. Ma la XLI Esposizione ha un titolo dalle vedute troppo larghe, Arte e arti – Attualità e storia, che difficilmente lascia il segno. Il catalogo generale, ora interamente a colori e con un forte appeal nella grafica, tenta di restituire lo spirito della mostra, raccontandola anche attraverso schede esplicative che precedono le varie sezioni. La tenuta resta bassa. Si capisce, dall’analisi, che il volume sa essere un riflesso spietato del progetto espositivo a monte: in quel caso ne manifesta la debolezza intrinseca. Molto più riuscita è la Biennale del 1986, dedicata al tema Arte e scienza e diretta dallo stesso Calvesi. Le sezioni, riportate nel catalogo e introdotte da schede dei relativi curatori – “Spazio”, “Arte e alchimia”, “Wunderkammer”[61], “Arte e biologia”, “Colore”, “Tecnologia e informatica”, “La scienza per l’arte” – risultano questa volta isotopiche rispetto al titolo. Sono in grado, anzi, di integrare e arricchire la prospettiva sulla mostra. È una congiuntura positiva, ma purtroppo isolata.

Con gli anni, la trasformazione della mostra in una serie di eventi e l’attivazione di un esteso circuito di interessi rendono cogente il problema del ruolo del catalogo. Tempi e modi di preparazione del volume diventano inidonei a rispecchiare la manifestazione. Può questa difficoltà convertirsi in un vantaggio? E se il catalogo rinunciasse alla funzione di ordinamento gerarchico per stabilire altri programmi d’uso? La svolta sembra utopistica. L’impossibilità che il volume sia uno specchio della mostra è evidente nella Biennale del 1990, presieduta da Portoghesi con la segreteria di Raffaello Martelli (1990-1995) e diretta, per il settore arti visive, da Giovanni Carandente. Il titolo, Dimensione futuro. L’artista e lo spazio, allude alla fuoriuscita dell’opera dai limiti della cornice, verso occupazioni ambientali che definiscano nuovi processi di fruizione. Prevalgono sculture, installazioni, video e performance, forzatamente ridotti, nell’economia del catalogo, a inquadrature singole. Angela Vettese (2000) denuncia lucidamente l’emergere di questo problema:

 

Le riproduzioni fotografiche delle opere del ventesimo secolo, e in particolare del secondo dopoguerra, possono essere considerate al massimo “prove indiziarie” dei loro soggetti […]. L’affermarsi di un’arte prettamente ambientale, spesso basata sull’interazione diretta tra pubblico e opera, rende l’immagine fotografica un tradimento ipostatizzante dell’opera più che una sua riproduzione; lo stesso può dirsi per l’affermarsi della corrente ottico-cinetica, che ha posto il fulcro dell’opera nell’inganno percettivo e nel movimento indotto al corpo e all’occhio dell’osservatore, o per le forme d’arte processuale, come l’happening e la performance, attente ai metodi operativi più che ai risultati visivi[62].

 

Nella difficoltà di distinguere un’alternativa, si prende la via più facile: l’aumento del numero di illustrazioni. L’ipertrofia di dati, che motiva la stabilizzazione di un formato ingombrante, da biblioteca, si ottiene a spese dell’esaustività sull’opera d’arte. Il catalogo, da questo punto di vista, diviene un modello di eclettismo: è tuttologico, ma non onnicomprensivo.

È la ragione per cui Catherine David, curatrice di ‘documenta X’ (1997), decide di abolirlo. Fa una scelta qualitativa. Immagina la ‘documenta’ come un complesso di tre parti equivalenti: la rassegna, un forum a lungo termine tra artisti, architetti, scienziati e scrittori – 100 giorni per 100 ospiti – e un’offerta editoriale sfaccettata. Commuta il catalogo con un oggetto di studio autonomo, Das Buch Poilitics/Poetics, pubblicato insieme a Jean-François Chevrier, che esce in anticipo rispetto alla mostra e raccoglie saggi sulla teoria critica della cultura occidentale dopo il 1945. Aggiunge una short guide e fascicoli stampati in itinere per relazionare sul forum di discussione[63]. Quanto poi al progetto espositivo, la David evade dagli steccati del modello museale per articolare un parcours che attraversi Kassel e coinvolga cinque diversi spazi. Curiosamente, anche il tema di ‘documenta X’ è il futuro. All’accezione spaziale usata nella Biennale del 1990 si contrappone qui un’accezione temporale. Permane l’idea dell’approccio critico come prognosi, anche nel “looking back into the future” della David, che la formula della “retroprospettiva” mette in atto. Ma qui il futuro è in linea diretta e comparativa con il passato: serve a rileggerlo, invertendo la freccia del tempo[64].

 

Tra lettura e visita. Il catalogo venturo

Il coordinamento delle attività espositive a fini editoriali è complicato dal fatto che, come a Kassel dal ‘72, anche la Biennale arriva a coincidere col pensiero di un curatore unico. Questi sovrintende ai progetti di più commissioni, operative ed esecutive. L’indagine approfondita sul “gigantismo” e i rivoli dell’arte è rimandata ad altra sede, per motivi di spazio. Qui si accennerà soltanto al processo di espansione e diramazione della Mostra, intrapreso da Bonito Oliva (1993), portato avanti da Germano Celant (1997) e che giunge a compimento con Harald Szeemann (1999-2001). Negli anni novanta il “Salone” si trasforma in un reticolo di eventi pulsanti nella città di Venezia. Per non soccombere sotto il peso delle informazioni, il catalogo fa allora un passo indietro sul compito di documentare e tenta di orientare razionalmente il percorso, connotandone le tappe. Da oggetto con funzione commemorativa, diventa una protesi. Un modo estremo per non smarrire la felice giunzione, distintiva del catalogo e inscritta al suo interno, tra lettura e visita? O anzi per arrivare a sincronizzare i due processi? Se l’obiettivo è questo, cade con decenni di ritardo rispetto al nume di questa soluzione nella storia del catalogo, che è This is Tomorrow, il volume della mostra del 1956 alla Whitechapel Gallery di Londra già citato. Lì l’indice coincide graficamente con la pianta della galleria e i vari capitoli sono opera del gruppo che ne ha realizzato l’allestimento. A Venezia la geografia verbale indicata da Bonito Oliva in Punti cardinali dell’arte (1993) diventa geografia visiva solo con il catalogo-dizionario a/z e l’immagine della via lattea in copertina di Celant (1997)[65]. Questi trasferisce astutamente la funzione documentativa del volume all’interno di un nuovo prodotto editoriale, La Biennale di Venezia dal vivo. È la prima guida separata nella storia della Mostra, un vademecum di facile lettura[66] che adombra il destino del catalogo. Infine le dimensioni individuate da Szeemann, dAPERTutto (1999)[67] e Platea dell’umanità (2001), costringeranno la linearità della pagina alla tabularizzazione.

La linea del gigantismo, ovvero il mare magnum di elementi disparati a discrezione di un solo direttore, ingenera nel tempo i seguenti problemi: I) come garantire un coordinamento esteso delle numerose mostre di ogni edizione Biennale; II) come evitare che i cataloghi, dovendole descrivere, diventino mastodontici pezzi da collezione, impossibili da trasportare. Paradossalmente, si chiede al catalogo di dimagrire mentre il curatore, assurto allo status di artista, rimpinza la mostra. Il numero delle opere site-specific e di natura installativa, in aumento e difficili da riprodurre, complica ulteriormente la situazione. Si corre il rischio di pubblicare immagini di repertorio, esemplificative dell’attività degli artisti, e disamine critiche puramente indiziarie. Viene in mente la frase di Andy Warhol, «Don’t pay any attention to what they write about you. Just measure it in inches», riportata sulla quarta di copertina della sua monografia “Giant’’ Size (Phaidon 2006), un librone più grande di un A3[68].

L’ultima Biennale veneziana, la cinquantatreesima, Making Worlds, è una presa di posizione teorica contro questo rischio, condotta dal curatore Daniel Birnbaum in complicità con il gruppo editoriale Marsilio[69]. Partecipazioni nazionali ed eventi collaterali sono riportati nel secondo tomo. Nel primo, invece, trova posto la mostra del curatore. Qui risalta la differenza tra le schede delle opere e un inserto con i contributi teorico-filosofici di Birnbaum, Jochen Volz, Molly Nesbit, Sarat Maharaj, Édouard Glissant, inframmezzati da scritti di Yoko Ono, Philippe Parreno, Lygia Pape, Renata Lucas. Questa sezione, “temeraria” per lo stile, la cernita degli argomenti, l’impaginazione austera, su carta ruvida grigio chiara, occupa tutta la seconda metà del volume; separati dalla presentazione del presidente, Paolo Baratta, e dal testo introduttivo di Birnbaum, i saggi si rivolgono a un interlocutore d’élite, con la matita in mano, che abbia tempo e voglia di concentrarsi. È la sfera immersiva del visitatore. Sfortunatamente, lo Stockholm Design Lab (SDL), responsabile del progetto grafico, non ha saputo coniugare la preconizzazione di una nuova identità del catalogo con una rilegatura solida. L’oggetto, che pure sembra adatto a un tavolo da studio più che alla vetrina di una biblioteca, ricco di dettagli artigianali, si sfalda alla prima apertura[70]. Per altro verso, il progetto di Birnbaum rende esplicita la divaricazione tra il catalogo e la guida breve. Lettore e visitatore sono ora ruoli distinti, non più sovrapponibili. In mancanza di inchieste mirate alla conoscenza del pubblico del Salone, si sfrutta al massimo la divergenza tra gli specialisti del settore e i visitatori da “max market”, ai quali si offre autonomia nel percorso, in un linguaggio elementare, privo di pretese. Il catalogo diventa un libro di filosofia, la guida un opuscolo informativo, spersonalizzato, agli antipodi rispetto alle strategie enun-ciazionali “in soggettiva” dell’esperimento di Celant (1997). Ma la guida passa, dalle trenta pagine di sette anni fa, alle cento di oggi[71].

Allo stato attuale, il piano di offerta dell’editoria Biennale è carente. Due prodotti così impostati sono insufficienti, anche se il catalogo trova specificazione nelle monografie dei padiglioni e degli eventi collaterali, in crescita esponenziale. La difficoltà di individuare altre tipologie per nuove nicchie di mercato deriva dal fatto che le generalità dei frequentatori della mostra ci sfuggono. Mancano monitoraggi che forniscano un identikit del visitatore o strategie di marketing che agiscano non solo per la semplice diffusione, ma a priori, per la costruzione di pubblici e l’estensione del progetto culturale in senso orizzontale. Non è un paradosso se cresce il numero dei visitatori, ma è in calo l’acquisto del catalogo. Qual è il rapporto tra pubblico dell’arte e pubblico comune?[72]. Sono passanti, turisti, alla maniera del personaggio interpretato da Alberto Sordi e sua moglie nella divertente sequenza di Dove vai in vacanza? (1978). La pessima formazione della scuola italiana, dove l’arte contemporanea non è compresa nei programmi, dà tutto il diritto di andare a visitare la Biennale impreparati, da semplici curiosi. Ma quel pubblico, quando si avvicina al mondo dell’arte, viene respinto:

 

Gli 8.550.000 visitatori non sanno per la maggior parte niente, non capiscono niente, non amano la pittura, non distinguono tra Grünewald e Caravaggio, non provano nessuna gioia, si annoiano mortalmente. Perché i milioni di visitatori non restano a casa giocando a scopone o a tresette, e non dormono nei loro letti? Non c’è niente da fare. Oggi, se c’è un evento, tutti abbandonano la casa, la moglie, i figli, la parentela, attraversano l’Oceano Atlantico, per poi poter dire: “là c’ero anch’io”[73].


Pietro Citati disprezza queste categorie di visitatori, ma ha ragione a dire che per molti la Biennale è solo un evento. Il presidente in carica punta sulla didattica delle arti, con mediatori che descrivano i contenuti della mostra anche a chi, generalmente, non è interessato. Non basta. Bisognerebbe riservare più spazio alle rubriche d’arte contemporanea in tv, come si fa con la Biennale cinema, ad esempio. E rendere stabile quella che in passato rappresentava solo un’occasione, cioè la prassi di far commentare le opere o le tematiche della Mostra a figure esterne o alla frontiera con le discipline artistiche: scrittori, musicisti, scienziati, storici. Infine, andrebbe presa sul serio l’idea di commissionare ricerche etnografiche sul pubblico della Biennale. In un’epoca di concorrenza turbinosa –esistono oggi centododici Biennali internazionali – uno spaccato dei gusti e dei comportamenti dei visitatori aiuterebbe ad approntare efficacemente catalogo e guida, ma anche a intravedere generi più accattivanti.

Il gigantismo del catalogo, ridotto con Birnbaum sia nel formato che nel numero delle pagine, dipende certo dalle manie di grandezza del curatore, ma è anche dovuto al difficile rapporto con le immagini. Per restituire un video, servono spesso fino a dieci illustrazioni. E anche la fotografia o la pittura richiedono angolazioni diverse. Si pone il problema di come rappresentare adeguatamente un’opera e il suo artista. Il catalogo andrebbe riconfigurato attraverso vie di implementazione multimediale[74]. Non significa sostituire la carta, ma integrare informazioni che il volume, per sua natura, non fornisce: filmati, immagini, spezzoni, saggi critici, scritti sulle motivazioni dei premi. Si potrebbe pensare, più che al dvd o all’e-book, a un sito dedicato, utile a trasformare il catalogo in un testo aperto, accessibile e riattivabile dall’utente. Così, da una parte permarrebbe il cartaceo, ad assicurare una conservazione duratura; dall’altra, con i collegamenti appropriati e un forum di discussione, si delineerebbe un work in progress. L’ASAC, che per ogni edizione continua a raccogliere aggiornamenti di ogni tipo, potrebbe gestire il servizio, prolungando la vita delle opere e restituendo spirito di iniziativa alla figura del lettore, mediante un nuovo attante complesso, il visitatore/navigatore.

 

* Le immagini di questo contributo sono pubblicate con la concessione dell’ASAC, Archivio Storico delle Arti contemporanee della Biennale di Venezia. Si ringrazia la direzione e il personale per la collaborazione


[1]  La ricerca riprende e sviluppa i temi discussi nella tavola rotonda omonima, da me coordinata in occasione della giornata di studi Starting from Venice, Venezia, Facoltà di Design & Arti, Iuav, 5 ottobre 2009. Erano presenti: Emanuela Bassetti (Marsilio Editori), Giovanni Bianchi (Università Ca’ Foscari di Venezia), Francesca Castellani (Iuav), Alessandro Dal Lago (Università di Genova), Serena Giordano (Università di Genova), Laura Leuzzi (Università di Roma La Sapienza), Mauro Perosin (Iuav), Laura Tonicello (Iuav).

[2]  «L’ordine è, a un tempo, ciò che si dà nelle cose in quanto loro legge interna, il reticolo segreto attraverso cui queste, in qualche modo, si guardano a vicenda, e ciò che non esiste se non attraverso la griglia d’uno sguardo, d’una attenzione, d’un linguaggio». M. Foucault [1966], Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1970, p. 10.

[3]  Per una ricognizione complessiva sulla Biennale Arte di Venezia, benché ferma al suo centenario, e cioè al 1995, cfr. E. Di Martino, La Biennale di Venezia: 1895-1995, cento anni di arte e cultura, Mondadori, Milano 1995. Vedi anche AA.VV., La Biennale di Venezia: le esposizioni internazionali d’arte, 1895-1995, Electa, Milano 1996; A. Donaggio, Biennale di Venezia. Un secolo di storia, Giunti, Firenze 1995. Il clima in cui la mostra nasce e si sviluppa è ben illustrato da G. Perocco, Le origini dell’arte moderna a Venezia (1908-1920), Canova, Treviso 1972.

[4]  V. Stoichita [1993], L’invenzione del quadro, Il Saggiatore, Milano 1998, p.111.

[5]  Il testo di Borghini è riportato in K. Frey, Der literalische Nachlass G. Vasaris, George Müller, Monaco 1930, vol. II, pp. 255-299. Cfr. V. Stoichita [1993], L’invenzione del quadro..., 1998, p. 108. Pietra miliare degli studi sulla museologia, a rapporto coi cataloghi antichi, è D. Murray, Museums: Their History and Their Use, 3 vols., James MacLehose Publication, Glasgow 1904. Sul mecenatismo e sul rapporto fra collezioni private e musei pubblici cfr. F. Haskell [1963], Mecenati e pittori. L’arte e la società italiane nell’età barocca, Allemandi, Torino 2000.

[6]  A. Lugli [1983], Naturalia et mirabilia: il collezionismo enciclopedico nelle “Wunderkammern” d’Europa, Mazzotta, Milano 1990.

[7]  A. Lugli [1983], Naturalia et mirabilia..., 1990, p. 30.

[8]  A. Agard, Discours et Roole des médailles et d’autrez antiquitez, Paris 1611.

[9]  Sulla disposizione mereologica degli elementi in un insieme cfr. J.-F. Bordron, “L’iconicité”, in A. Hénault & A. Beyaert, a cura di, Ateliers de sémiotique visuelle, PUF, Paris 2004, pp. 121-150. Cfr. anche U. Eco, Retorica della lista, Bompiani, Milano 2009.

[10]   A. Furetière, Dictionnaire Universel, contenant généralement tous les mots François tant vieux que moderns, & les Termes des toutes les Sciences et des Arts, Arnout & Reinier Leers, L’Aja-Rotterdam 1690.

[11]   Cfr. B. J. Basiger, The Kunst- und Wunderkammern. A Catalogue Raisonné of Collecting in Germany, France and England, 1565-1750, Tesi di laurea, Pittsburgh 1970, Michigan, Ann Arbor 1979, vol. I, pp. 740-784.

[12]   Cfr. W. Benjamin [1937], Eduard Fuchs. Il collezionista e lo storico, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 1966, ed. 1986, pp. 79-123. Cfr. A. Lugli, Arte e meraviglia III, testo inedito di una conferenza tenuta a Roma nell’ambito di un ciclo di incontri a cura di F. Menna, presso l’Associazione culturale Lavatoio Contumaciale il 23 gennaio 1987. Poi in A. Lugli, Wunderkammer, Allemandi, Torino 1997, pp. 112-115.

[13]   V. Stoichita [1993], L’invenzione del quadro..., 1998, p. 115.

[14]   Ibid., p. 117.

[15]   Cfr. K. Frey, Der Literarische Nachlaß Giorgio Vasaris, 2 vols, Munich 1923-1930.

[16]   Krzysztof Pomian dà questa definizione dell’oggetto museale. Cfr. K. Pomian [1987], Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII, Il Saggiatore, Milano 1989. L’isotopia è l’effetto di continuità e di coerenza garantito, in un insieme significante, dalla ricorrenza di un elemento semantico, che è una sorta di filo rosso rintracciabile nell’immanenza della significazione. Cfr. T. Migliore, “Lessico dei concetti”, in T. Migliore, a cura di, L’Archivio del Senso. Quaderno della 52. Edizione Internazionale Biennale Arte di Venezia, Etal., Milano 2009b. Cfr. anche P. Fabbri, La svolta semiotica, Laterza, Bari-Roma 1998.

[17]   A. Lugli, Wunderkammer..., 1997, pp. 114-115.

[18]   W. Benjamin [1927-1940], Parigi. La capitale del XIX secolo, in Angelus novus, trad it. Einaudi, Torino, ed. 1981, p. 148.

[19]   È un intreccio attestato, anche in epoca barocca, dalla diffusione dei grossi Thesauri, compilazioni storiche che, con rigore scientifico, raccolgono, in immensi volumi in folio, una sovrabbondanza di notizie su collezioni di naturalia e artificialia. Cfr. J. Von Schlosser [1908], Raccolte d’arte e di meraviglie del tardo Rinascimento, Sansoni, Firenze 1974, pp. 91-92.

[20]   Ph. Hamon [1989], Esposizioni: letteratura e architettura nel XIX secolo, CLUEB, Bologna 1995.

[21]   Ibid., p. 9. Si ricorderà in proposito il fortunato catalogo della mostra This is Tomorrow, allestita alla Whitechapel Art Gallery di Londra nel 1956. Qui la suddivisione dei capitoli rispecchia le aree espositive e l’indice riproduce, in pianta, la vista della galleria, mappata con dei numeri stencil. A detta del curatore, Lawrence Alloway, «architetti e artisti insieme si sono occupati della manipolazione degli spazi e del controllo del volume. Ogni spazio è una complessa organizzazione visiva e ha un suo messaggio; ogni spazio è legato agli altri spazi in sequenza». L. Alloway in AA.VV., This is Tomorrow, a cura di L. Alloway, R. Banham, D. Lewis, catalogo della mostra, August 8-September 9, Whitechapel Gallery, Londra, 1956.

[22]   J. Von Schlosser, Raccolte d’arte e di meraviglie..., 1974, p. 27.

[23]   Cfr. Dictionnaire de la conversation et de la lecture, W. Duckett, a cura di, Didot, Paris, 1832-1851, in Ph. Hamon, Esposizioni: letteratura e architettura nel XIX secolo..., 1995, pp. 131-132.

[24]   Ph. Hamon [1989], Esposizioni: letteratura e architettura nel XIX secolo, CLUEB, Collana Lexis, Bologna 1995, p. 131.

[25]   Ibid., p. 37.

[26]   Constantin Meunier, John Lavery, Fritz Thaulow a Filippo Grimani, 7 aprile 1899. In AA.VV, Catalogo della III Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 22 aprile - 31 ottobre, Carlo Ferrari, Venezia 1899, p. 12.

[27]   «Si presentarono a giudizio 595 artisti, con 860 opere, delle quali 645 pitture, 109 sculture, 106 incisioni e disegni). Furono ammessi 148 artisti, con 212 opere, delle quali 118 pitture, 52 sculture e 42 fra disegni e cornici d’acqueforti. La percentuale delle opere ammesse è di poco più del 24%». In AA.VV., Catalogo della VII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 22 aprile - 31 ottobre, Carlo Ferrari, Venezia 1907, p. 21.

[28]   Cfr. R. Bazzoni, 60 anni della Biennale di Venezia, Edizioni Cesare Lombroso, Venezia 1962, p. 57. Su questi temi cfr. anche N. Barbantini, Biennali, Il Tridente, Venezia 1945 e S. Salvagnini, Il sistema delle arti in Italia 1919-1942, Minerva, Bologna 2000.

[29]   A. Stella, Cronistoria della Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia 1895-1912, Fabris, Venezia 1912. Cfr. L. Alloway, The Venice Biennale 1895-1968; From Salon to Goldfish Bowl, New York Graphic Society, Greenwich – Connecticut 1968. La formazione degli artisti è un tema che, dopo l’abiura delle avanguardie, tornerà a imporsi solo negli anni settanta. Vedi più avanti, § 3, “Correggere il tiro. Kassel e le prime mostre a tema della Biennale”. Per una riattualizzazione del problema cfr. N. Goodman, Arte in teoria, Arte in azione, a cura di P. Fabbri, Et-al, Milano 2010.

[30]   G. Genette [1987], Soglie, Einaudi, Torino 1989, p. 3.

[31]   Connotata rispetto alla mostra in sé o ai temi che tratta, la copertina merita un capitolo a parte nella monografia che si intende dedicare al catalogo.

[32]   Esce come supplemento della rivista “Le tre Venezie”. La stampa reagisce positivamente. «Il Dadaismo e il Futurismo celebrano l’indipendenza artistica e impegnano al concetto di cura critica; nasce e si sedimenta il carattere dell’animatore culturale, generalmente un artista che conosce i meccanismi della comunicazione e realizza avvenimenti che suscitano spesso clamore. Marinetti per il Futurismo, Duchamp e Tzara per il Dadaismo». Cfr. G. Galassi, Futuristi alla XV Biennale di Venezia, Corriere Padano, 9 giugno 1926. Cfr. T. Migliore, Macchina di visione. Futuristi in Biennale, in T. Migliore e B. Buscaroli, a cura di, Macchina di visione. Futuristi in Biennale, catalogo della Mostra Biennale-ASAC a Ca’ Giustinian, Venezia, 7 giugno - 22 novembre 2009, Marsilio, Venezia 2009, pp. 25-141.

[33]   Pietro Orsi, Antonio Maraini e Romolo Bazzoni in AA.VV., Catalogo della XVII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, maggio-ottobre, Carlo Ferrari, Venezia 1930, p. 6.

[34]   Sulla gestione di Maraini cfr. G. Tomasella, Biennali di Guerra. Arte e Propaganda negli Anni del Conflitto (1939-1944), Il Poligrafo, Padova 2001; M. De Sabbata, Tra diplomazia e arte: le biennali di Antonio Maraini (1928-1942), Forum Edizioni, Udine 2006.

[35]   L’Istituto nasce, come ricorda lo stesso Varagnolo, dalla ricerca infruttuosa di un dato informativo del passato. A ogni chiusura di edizione, Fradeletto aveva l’abitudine di presentare le sue dimissioni, che poi regolarmente ritirava su invito del sindaco Grimani. L’ufficio di segreteria si riteneva in diritto di ritirarsi anch’esso, cessando i lavori e poi riprendendo, ma da capo. Svolgere attività di conservazione, con queste premesse, era quasi impossibile. Quando Maraini assunse l’incarico, notò lo stato di primitività in cui versava l’ufficio organizzativo e ne decise il trasferimento, fuori da Ca’ Farsetti, a Palazzo Ducale. Cfr. D. Varagnolo, L’Archivio Storico d’arte contemporanea, in AA.VV., Catalogo della XVIII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, maggio – ottobre, Carlo Ferrari, Venezia 1932, pp. 55-72.

[36]   Ibid., pp. 55-57.

[37]   R. Pallucchini, introduzione in AA.VV., Catalogo della XXIV Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, maggio – settembre, Edizioni Serenissima, Venezia 1948, XIV.

[38]   R. Pallucchini, Venezia, 26 marzo 1948, ai commissari. ASAC, velina dattiloscritta su quattro facciate, priva di firma. ASAC, AV 7, Lettere ai commissari. Cfr. M.C. Bandera, Le prime Biennali del dopoguerra. Il carteggio Longhi-Pallucchini (1948-1956), Charta, Milano 1999, p. 77.

[39]   G. Ponti e R. Pallucchini in AA.VV, Catalogo della XXIV Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, giugno – ottobre, Alfieri, Venezia 1950, p. 10.

[40]   Cfr. G. Bianchi, Riviste a Venezia negli anni cinquanta: “La Biennale” ed “Evento” e G. Dal Canton, Riviste d’arte a Venezia negli anni sessanta: “La Biennale di venezia e “La vernice” , in G. C. Sciolla, a cura di, Riviste d’arte fra Ottocento ed età contemporanea: forme, modelli e funzioni, Atti del Convegno, Torino 3-5 ottobre 2002, Skira, Milano 2003, pp. 251-270 e pp. 271-281.

[41]   Per Pierre Rosenberg il fatto che il catalogo sia prodotto e pubblicato prima dell’arrivo delle opere – aspetto che contraddistingue il catalogo come genere «à part entière» - trasforma automaticamente l’esposizione in un banco di prova e di controllo delle ipotesi. Cfr. P. Rosenberg, L’apport des expositions et de leurs catalogues à l’histoire de l’art, in “Les Cahiers du Musée National d’Art Moderne”, 1989, 29, pp. 49-56.

[42]   Cfr. F. Bernabei, Lévi-Strauss e la critica delle arti figurative, La Biennale di Venezia, 1969, nn. 64-65.

[43]   Una mossa opportuna. In quel periodo la stampa italiana ed estera stava intentando un “processo alla Biennale”, a causa di uno nuovo Statuto atteso dal 1945, in sostituzione di quello del 1938, e invece mai discusso in Parlamento. Si reclamava inoltre una rassegna selettiva che tenesse conto dei filoni artistici rappresentativi della contemporaneità. «Il proposito dovrebbe essere vagliare i contenuti dell’arte separandoli da ciò che è soltanto avventura personale». Cfr. M. Bernardi, Processo alla Biennale, Corriere d’informazione, Milano, 19-20 novembre 1957.

[44]   R. Pallucchini, in AA.VV., Catalogo della XXIX Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 14 giugno - 19 ottobre, Stamperia di Venezia, Venezia 1958, p. 12.

[45]   G.A. Dall’Acqua, introduzione in AA.VV., Catalogo della XXX Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 18 giugno - 16 ottobre, Stamperia di Venezia, Venezia 1960, LXXI. ‘documenta’, l’esposizione d’arte quinquennale che si tiene a Kassel, in Germania, e che ha il suo fulcro espositivo nel Museum Friedericianum, è stata inaugurata da Arnold Bode nel 1955. Diventa istituzionale nel 1959, in occasione della seconda edizione, citata nel passo di Dall’Acqua. Per d2, Bode e Werner Haftmann, storico dell’arte e mente delle prime tre ‘documenta’, invitano a riflettere sul tema Art after 1945. La data non allude solo alla cesura politica, ma è uno spunto per approfondire l’indagine sul linguaggio dell’astrazione. Cfr. A. Cestelli Guidi, La Documenta di Kassel. Percorsi dell’arte contemporanea, Costa & Nolan, Milano 1997.

[46]   R. Pallucchini, in AA.VV., Catalogo della XXXI Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 16 giugno - 7 ottobre, Stamperia di Venezia, Venezia 1962, p. 2. Pallucchini era stato nominato presidente della commissione per l’edizione del 1962. Cfr. anche R. Pallucchini, Significato e valore della Biennale nella vita artistica veneziana e italiana, in Venezia nell’Unità d’Italia, Sansoni, Firenze 1962, pp. 157-188.

[47]   Cfr. L. Tonicello, La Biennale di Venezia 1962-2001. Quarant’anni di grafica per le arti, Tesi di laurea, Iuav, Venezia 2008.

[48]   W. Haftmann, introduzione a, in A. Bode, a cura di, documenta I. Kunst des XX. Jahrhunderts, Exhibition Catalogue, Kassel, Museum  Fridericianum, 1955, Prestel Verlag, Munich 1955.

[49]   G.A. Dell’Acqua, introduzione in AA.VV., Catalogo della XXXIV Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 22 giugno - 20 ottobre, Fantoni, Venezia 1968, XXIII-XXIV.

[50]   U. Apollonio, in AA.VV., Catalogo della XXXV Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 24 giugno - 25 ottobre, Stamperia di Venezia, Venezia 1970, XV.

[51]   Ibid., XVI.

[52]   M. Penelope, in AA.VV., Catalogo della XXXVII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 1 giugno - 1 ottobre, Alfieri, Venezia 1972, XVII. Il nuovo Statuto sarà approvato in Parlamento il 26 luglio 1973. Cfr. anche W. Dorigo, La contestazione delle manifestazioni artistiche e il problema della trasformazione della Biennale, “Questitalia”, 125-126, agosto-settembre 1968, pp. 69-101.

[53]   C. Ripa Di Meana, in AA.VV., Catalogo della XXXVII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 14 luglio - 10 ottobre, Alfieri, Venezia 1976, p. 9. Cfr. S. Giannattasio, Si delinea il volto della Biennale, “L’Avanti”, 28 luglio 1976.

[54]   Anche il Solomon Guggenheim di New York si cimenta in un’attività di “parcellizzazione” del catalogo e di distribuzione delle tematiche e delle competenze. La mostra Guggenheim International Exhibition (1971), a cura di Thomas Messer, Diane Waldman e Edward Fry, è supportata da una serie di fascicoli sciolti, gestiti dagli artisti e raccolti in una scatola di cartone rivestita con una carta specchiante.

[55]   Cfr. C. Ripa Di Meana, in AA.VV., Catalogo della XXXVII Esposizione Internazionale d’Arte..., 1976, p. 9.

[56]   Sulla differenza tra tipologia discorsiva, motivo, tema e genere cfr. T. Migliore, Lessico dei concetti, op. cit., voci “genere”, “motivo”.

[57]   R. Greenberg, B. Ferguson, S. Nairne, a cura di, Thinking About Exhibitions, Routledge, New York 1996, pp. 1-2.

[58]   S. Dalla Palma, in AA.VV., Catalogo della XL Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 13 giugno - 12 settembre, Electa, Milano 1982, p. 12.

[59]   Cfr. R. Fuchs, a cura di, ‘documenta 7’, catalogue (2 voll.), Kassel, vol. 1, XV, D.+V. Paul Dierichs GmbH& co., 1982 Kassel. Benjamin Buchloh ha pubblicato un articolo lucidissimo a riguardo. «È l’assenza di prospettiva, metodologica o storica, per non dire critica e politica, a conferire alla mostra l’impressione di fondo di un’obsolescenza pomposa e pretenziosa […]. Si fa passare per liberalismo quella che è un’egemonia dell’esoterico, restaurata dalla cultura elitaria moderna» (p. 104). B. Buchloh, Documenta 7: A Dictionary of Received Ideas, October, 22, Autumn, The MIT Press, Cambridge 1982, pp. 104-126.  

[60]   J. Clair, in AA.VV., Catalogo della XL Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 13 giugno - 12 settembre, Electa, Milano 1982, p. 46.

[61]   Vedi il saggio introduttivo di A. Lugli, curatrice della mostra, in Wunderkammer, La Biennale di Venezia, Electa, Milano 1986, pp. 9-28.

[62]   Cfr. Enciclopedia Treccani, Esposizioni d’arte, ad vocem a cura di A. Vettese, aggiornamento, 2000, p. 609. È una percezione che ha anche Francis Haskell, a proposito delle monografiche dei grandi maestri del passato. «Ciò che, per definizione, è “temporaneo” ottiene una parvenza di stabilità attraverso superbi ma ingannevoli cataloghi. Ingannevoli perché, dovendo necessariamente limitarsi ai prestiti del caso e non potendo rendere conto di tutte le rilevanti informazioni che emergono dalla mostra stessa, come anche dai contributi che nascono dalle conferenze connesse all’evento, questi cataloghi forniscono solo una visione incompleta e sbilanciata dei soggetti paventati nei loro titoli. Perciò devono forse scoraggiare al contempo il mercato editoriale, per via di promesse che pure erano in grado di mantenere». Cfr. F. Haskell, The Ephemeral Museum: Old Master Paintings and the Rise of the Art Exhibition, New Haven & London, Yale University Press 2000, p. 2. Traduzioni nostre.

[63]   Cfr. C. David & J.-F. Chevreir, a cura di, Das Buch. Politics/Poetics, Hatje Cantz, Verlag 1997b. Cfr. anche R. Storr, Kassel Rock - interview with curator Catherine David, ArtForum, May, 1997.

[64]   «Tra due artisti successivi X e Y, si attribuisce meccanicamente a X un’azione su Y, mentre, osservando attentamente, ci si accorge che è sempre il secondo elemento il vero motore dell’azione, che sceglie e attrae verso di sé il proprio precursore». Cfr. M. Baxandall [1985], Forme dell’intenzione, Einaudi, Torino 2000, p. 114. Sull’argomento cfr. anche G. Didi-Huberman, Devant le temps, Minuit, Paris 2000.

[65]   «Germano Celant a/z Futuro/presente/passato è un’esposizione che attraversa l’arte come fosse una galassia infinita e inafferrabile. Il libro cerca di riproporne una mappa cartacea che non aspira a definire, ma ad offrire alcuni punti di riferimento. Essi evidenziano alcune problematiche del nostro vissuto, indicando soggetti o elementi di illuminazione visuale e mentale. Al fine di costruire una mappa aperta, le definizioni si dispongono sulla pagina come punti-luce su uno stesso piano, così da permettere al lettore un viaggio libero nell’universo dell’arte» (XII). Cfr. G. Celant, in BV 97, Catalogo della XLVII Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 15 giugno - 9 novembre, a cura di G. Celant, Electa, Milano 1997.

[66]   Esce negli stessi giorni della short guide di Catherine David per ‘documenta X’, ma risente di un’appropriazione e di una personalizzazione distintivi. Pubblicata a qualche settimana dalla vernice della mostra, la guida di Celant contiene: le mappe, l’ubicazione degli artisti dalla A alla Z, un close-up sulla rassegna stampa del “giorno dopo”, i fotoreportage degli inviati de “Il Giornale dell’Arte”, un dossier sui premi, “Dove, come, quando e quanto. Chi comanda a Venezia”, e due curiosi articoli di Celant, in cui si intrecciano il punto di vista dello spettatore e quello del curatore, cioè “Una Biennale a cannocchiale rovesciato” e “L’ho fatta astronomica e titanica”.

[67]   Szeemann introduce la 48. Biennale con una sorta di manifesto, che indica cosa è dAPERTutto attraverso un elenco di termini, connessi o incrociabili, tra cui annovera, provocatoriamente, la «libertà dall’obbligo di prefazione» (XXI). Cfr. A. Szeemann, DAPERTutto, Catalogo della 48. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 13 giugno - 7 novembre, a cura di H. Szeemann, Marsilio, Venezia 1999.

[68]   Un atteggiamento altrettanto sferzante e ironico verso la mole di cataloghi si ritrova nel progetto artistico di Wiener Gruppe per la Biennale di Venezia del 1997. All’interno del Padiglione austriaco, sotto l’egida del curatore Peter Weibel, il gruppo espone una pila di copie omaggio di un consistente catalogo che ne ricostruisce l’attività. Così il collettivo mutua le leggi del sistema dell’arte, presentandone i modi di fare, e le piega alle proprie necessità.

[69]   Nell’ideale di Birnbaum gli artisti invitati “fanno mondi”, concedono all’occhio modelli per pensare. Iniziano sempre da mondi già esistenti; a livello astratto, ne esemplificano alcune proprietà e rivelano sfaccettature inedite. «“Il fare è un rifare” – scrive Nelson Goodman in Ways of Worldmaking – un libro ricco di osservazioni d’attualità che è stato fonte di ispirazione nella preparazione di questo progetto […]. Il fare ruota intorno all’idea di costruire qualcosa che sia possibile condividere». Cfr. D. Birnbaum, Fare mondi. Catalogo della 49. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, 04 giugno - 22 novembre, a cura di D. Birnbaum e J. Volz, Marsilio, Venezia 2009, V.

[70]   Pierre Rosenberg sostiene che «un buon catalogo è tale quando lo si cita e utilizza anche dopo che l’esposizione ha chiuso i battenti». Cfr. P. Rosenberg,L’apport des expositions et de leurs catalogues à l’histoire de l’art”, op. cit., p. 53. È dunque un oggetto “recalcitrante” anche per i grafici, perché si oppone a sperimentazioni che non ne colgano l’identità narrativa. Nel 2009, a questo scopo, Irene Bacchi e Daniela Venturini, insieme ai designer inglesi ÅBÄKE, hanno realizzato il laboratorio Iuav Cataloghi. Tutto il materiale informativo gratuito dei vari padiglioni è stato fotocopiato e impaginato in A3 per creare una versione alternativa al catalogo ufficiale, mirata a una raccolta di artisti, ma anche di grafiche. La deviazione, compiuta a partire dallo stato attuale dell’“originale”, permette una sua maggiore intelligibilità.

[71]   I numeri parlano. Tra mostra e librerie vengono vendute oggi circa 25.000 copie del catalogo, al prezzo di 50 euro la coppia, 30 euro il singolo tomo, di cui 1/3 in italiano, 2/3 in inglese, dai 10.000 ai 15.000 in mostra, 10.000 in libreria. La guida, che costa 5-10 euro, quasi un souvenir della visita, vende invece 50.000 copie. Sono cifre rese note da Emanuela Bassetti, direttore editoriale della Marsilio.

[72]   In proposito cfr. I. Mononi, L’orientamento del gusto attraverso le Biennali, La Rete, Milano 1958; AA.VV., Venezia e la Biennale. I percorsi del gusto. Catalogo della mostra di Palazzo Ducale e Museo di Ca’ Pesaro, Fabbri Editori, Milano 1995.

[73]   P. Citati La Biennale di Venezia, La Repubblica, 5 giugno 2009. Ringrazio Serena Giordano per avermi segnalato questo articolo nella giornata di Starting from Venice.

[74]   Cfr. A. Vettese, Artisti si diventa, Carocci, Roma 1996.



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Temi di Critica - numero 1

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