teCLa :: Rivista #4

in questo numero contributi di Stefano Colonna, Edoardo Dotto, Giuseppe Pucci, Gabriele Scaramuzza, Alexander Auf Der Heyde Stefano Valeri Michele Dantini Clarissa Ricci.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Winckelmann e il Sublime di Giuseppe Pucci

Esiste per Winckelmann uno stile sublime? La questione nasce fondamentalmente in relazione al secondo dei quattro stili individuati da Winckelmann nella sua trattazione dello svolgimento dell’arte greca[1]  [2], quello che segue allo stile antico e che Winckelmann chiama lo stile elevato (der hohe Stil). Per spiegare in che cosa questo stile differisce da quello successivo, lo stile bello (der schöne Stil), Winckelmann ricorre a un paragone: «io accosterei le opere del primo periodo a quelle di Demostene, e quelle del periodo successivo a quelle di Cicerone: il primo ci trascina quasi con veemenza, l’altro ci conduce docilmente con sé»[3].

Si tratta con tutta evidenza di una riformulazione del paragone che era già stato usato dallo Pseudo-Longino[4] (XII, 4), secondo il quale Demostene è sublime perché si erge perlopiù ad altezze impervie (en hýpsei tò pléon apotómo), laddove Cicerone si effonde profusamente (en chýsei); e mentre il primo è una folgore improvvisa, l’altro si propaga come un incendio che si accresce via via.

Possiamo perciò legittimamente affermare che Winckelmann attribuisce alle opere dello stile elevato i tratti del Sublime longiniano. Ma è possibile inferire da ciò che il Sublime si dà per Winckelmann solo nello stile elevato, e quindi coincide di fatto con esso? Ovvero: è corretta l’equazione stile elevato stile sublime, o esiste la possibilità di attingere il Sublime anche al di fuori di tale stile?

Se vogliamo cercare di acclarare questo punto, bisogna cominciare coll’osservare che Winckelmann chiama questo secondo stile sempre hohe e mai erhabene. Quest’ultimo aggettivo – quello che più propriamente corrisponde in tedesco a sublime – ricorre in più punti della Geschichte (e, prima ancora, nei Gedanken[5]), e quindi anche laddove si parla di artisti e opere del periodo dello stile elevato, ma mai in funzione classificatoria, con riferimento a uno stile preciso. Mai, in altri termini, ricorre nella Geschichte l’espressione erhabene Stil. Vi si parla sempre e soltanto di hohe Stil.

Giova insistere su questo punto, anche per sgomberare il campo dai possibili equivoci originati dal fatto che la costruzione storico-estetica di Winckelmann è stata conosciuta e divulgata inizialmente non tanto attraverso il testo originale (se non nei paesi di lingua tedesca) quanto attraverso le traduzioni; e i traduttori hanno spesso reso hohe Stil con stile sublime. Così avveniva nella prima traduzione (non autorizzata) francese apparsa ad Amsterdam (l’indicazione del luogo è probabilmente fittizia) nel 1766[6] e poi anche nella prima traduzione italiana, curata dall’abate Amoretti nel 1779[7].

Nel ripubblicarla qualche anno dopo a proprio nome, Carlo Fea – antiquario di indiscussa competenza – la emendò in più punti[8], ma mantenne la traduzione stile sublime. E nonostante che Huber nella sua traduzione francese nel 1781[9] avesse già utilizzato la più corretta espressione haut style, anche in ambiente francese si continuò a proporre la vecchia traduzione del 1766[10]. Del resto, neppure uno dei maggiori specialisti francesi di Winckelmann dei giorni nostri si perita di usare l’espressione style sublime[11]. In Italia la locuzione stile sublime è stata resa familiare da una fortunatissima opera divulgativa del nostro più influente storico dell’arte classica, Ranuccio Bianchi Bandinelli, il quale, nonostante sicuramente leggesse la Geschichte nel testo originale tedesco[12], nel riassumere l’esposizione di Winckelmann definisce appunto tale il secondo dei suoi stili[13] (è pur vero, tuttavia, che nella prima traduzione italiana moderna, ad opera di Maria Ludovica Pampaloni[14], hohe Stil è reso fedelmente con stile elevato, ed anche in quella più recente di Fabio Cicero[15] si preferisce comunque stile nobile a stile sublime). In ambiente anglofono, infine, la classica traduzione del Lodge[16] ha accreditato la traduzione grand style, mentre la nuova traduzione ad opera di H.F. Mallgrave opta per un più letterale high styl [17]. Questa preliminare messa a punto terminologica era necessaria, ma non ci porta ancora al cuore della questione che ci siamo prefissi di affrontare. Prima di concentrarci sul Sublime in Winckelmann occorre però fare alcune premesse di ordine più generale.

Nelle storie dell’estetica o della critica d’arte si attribuisce per solito a Winckelmann il merito di avere abbandonato per primo il vecchio armamentario dell’antiquaria e di avere finalmente indagato l’arte antica basandosi non più soltanto sulla cronologia degli artisti – desunta dalle fonti letterarie – ma su un criterio intrinseco alla forma artistica, ossia appunto sullo stile[18], ricavato dall’esame delle opere superstiti. In questo egli è indubbiamente originale, e sovrasta di ben più di una spanna tanto i suoi predecessori quanto i suoi contemporanei. E tuttavia spesso viene sottovalutato il ruolo che nella definizione dei suoi stili (antico, elevato, bello, degli imitatori o della decadenza) giocano le vecchie classificazioni degli stili della retorica antica. La cosa non deve stupire: in fondo Winckelmann non fece che applicare alla storia dell’arte il criterio che consigliava agli artisti del suo tempo – imitare gli antichi per diventare inimitabili. Dai suoi taccuini sappiamo con quanta attenzione aveva studiato Dionigi e Demetrio e Longino[19], e oltretutto, dal momento che – come onestamente dichiara egli stesso[20] – non era disponibile all’epoca una sufficiente documentazione archeologica per l’arte greca dell’età arcaica e proto-classica, fu praticamente obbligato ad appoggiarsi a una consolidata tradizione retorica antica e a modellare l’evoluzione stilistica delle arti visive sul paradigma della classificazione degli stili letterari[21].

Winckelmann muove in effetti dall’assunto che letteratura e arti figurative abbiano avuto in Grecia una evoluzione parallela. Esso è compiutamente esplicitato nei Monumenti Inediti, pubblicati nel 1767[22] e nelle Anmekungen dello stesso anno[23], ma è già presente e operante nella Geschichte, pubblicata tre anni prima[24].

Una valutazione esaustiva dell’apporto della retorica antica nella costruzione della teoria winckelmanniana richiederebbe troppo spazio. Ci limiteremo qui alle considerazioni più pertinenti alla tematizzazione del Sublime in rapporto agli stili.

Cominciamo per comodità di analisi dallo stile bello. Risulta a prima vista evidente che per definirlo Winckelmann ha preso a modello lo stile elegante (charactèr glaphyrós[25]) del Perì hermenéias di Demetrio[26]. Elemento caratterizzante di entrambi è la cháris, la grazia[27]. La grazia sta per Winckelmann nei gesti e nel movimento del corpo[28]  [29], così come per Demetrio e Dionigi essa nasce dal ritmo dei cola del periodo. In virtù della grazia lo stile bello, del quale in scultura fu iniziatore Prassitele, supera la residua angolosità della fase precedente e con la sua maggiore fluidità e ‘leggerezza’ riesce a dissimulare l’akríbeia (precisione, ricerca della perfezione) e il pónos (fatica), come nella castiglionea sprezzatura[30].

È importante anche sottolineare – come non manca di fare Giovanni Lombardo – che per gli antichi la grazia è connotata dalla reciprocità[31], e pertanto questa nozione appare «più idonea a definire non solo l’assetto formale dell’eleganza ma anche il suo effetto sull’ascoltatore»[32] (nel caso delle arti visive, sull’osservatore). L’eleganza e la piacevolezza di questo stile hanno un effetto sulla modalità percettiva dell’osservatore, in modo non dissimile dall’Anhemlichkeit (‘bello attraente’) di Kant. Lo stile bello, tuttavia, non è quello a cui dobbiamo indirizzarci in prima battuta per trovare il Sublime. Nel passo della Geschichte citato all’inizio di questo saggio si dice che il linguaggio formale degli artisti di questo periodo è assimilabile all’eleganza pacata di Cicerone, non certo alle sublimi arditezze di Demostene, che ricordano invece i maestri dello stile precedente. È dunque proprio allo stile elevato che converrà rivolgerci; ed è nella trattazione di quest’ultimo[33] che l’influenza delle teorie retoriche antiche appare più rilevante. Esso infatti è caratterizzato in Winckelmann da grandiosità (Grossheit) ed elevatezza (Erhabenheit) ma più ancora da un’altra categoria molto importante in Demetrio (al punto che nel suo trattato dà il nome ad uno stile a sé stante), quella di deinótes. L’aggettivo deinós deriva dal verbo déido (temere), e definisce qualcosa che incute soggezione, che è sì temibile, ma al tempo stesso, e perciò stesso, estremamente efficace[34]. In italiano può essere reso con ‘impressionante’ o ‘formidabile’. In Demetrio esso indica la cifra di uno stile potente, che colpisce e sbigottisce[35], lascia di sasso come Medusa[36]. Lo stesso Pseudo-Longino (XII, 4-5; XXXIV, 4) lo ascrive alla tavolozza del Sublime quando, descrivendo la forza dello stile di Demostene che si caratterizza per lo hýpsos apótomon (sublime scosceso), ne sottolinea la deinótes[37]. Ma mentre il Sublime longiniano ha tra le sue componenti la nobiltà e la compostezza, la deinótes – come ha ben visto Morpurgo-Tagliabue – si apparenta più al Sublime di Burke (‘delightful horror’)[38].

Lo stile elevato è dunque il terreno elettivo dell’incontro tra Winckelmann e il Sublime. Ma procediamo per gradi. Nello stile elevato Winckelmann trova un residuo della durezza, della rigidità dello stile antico, anche se ciò non va confuso con una carenza di maestria: al contrario, la nettezza del contorno, che contrasta con la transizione fluida dello stile bello, è la positiva manifestazione di una bellezza austera e solenne. Ancora una volta Winckelmann ricalca il metro di valutazione di Demetrio. Questi, parlando dello stile dei tempi antichi (§ 14-15), osserva che esso ha un qualcosa di periexesménon e di eustalés che ricorda le statue antiche, le quali erano caratterizzate da systolé e ischnótes; mentre lo stile dell’epoca avanzata assomiglia alle opere di Fidia, che hanno qualcosa di grandioso (megalêion) e di molto accurato (akribés). I termini usati da Demetrio sono assai significativi. Ischnótes vuol dire propriamente ‘asciuttezza’, ossia parsimonia di ornamento (è il tratto caratterizzante dello stile semplice, in latino oratio extenuata). Systolé invece vuol dire ‘compattezza’. I due concetti sono rafforzati dagli aggettivi periexesménon e eustalés.

Il primo deriva dal verbo perixéo, che significa ‘raschiare tutto attorno’ (da esso deriva il suo nome anche lo xóanon, il simulacro arcaico che si otteneva sbozzando un tronco di legno), e ribadisce l’idea di una forma sobria, essenziale. Il secondo – che non v’è necessità di correggere in eustathés[39] – è evidentemente antitetico ad akribés, così come megaleiótes si oppone a ischnótes, e mentre akribés significa qualcosa di portato a perfezione attraverso la rifinitura dei particolari, eustalés indica qualcosa di meno sofisticato, ben fatto ma senza fronzoli. È abbastanza vicino come significato a tetrágonos (in latino quadratus), altro termine entrato a far parte del lessico della critica d’arte (in quanto rimanda alla teoria delle proporzioni)[40]  [41], ma che ha innanzi tutto il senso di solido, ‘quadrato’ anche in senso traslato (tanto che si può applicare ad una persona ‘affidabile’)[42].

Demetrio vuol dire in sostanza che le statue arcaiche avevano forme semplici e compatte, erano prive di effetti ornamentali e non esibivano una particolare raffinatezza, ma erano comunque ben costruite e comunicavano una sensazione di autorevolezza. Proprio sulla scorta di queste suggestioni demetriane – più che dei pochi monumenti a lui noti – Winckelmann attribuisce allo stile elevato una persistenza della linea retta, e suppone che i contorni delle figure «si chiudessero ad angolo, il che sembra evidenziato dalla parola quadrato o angolato»[43]. Si sarebbe ottenuta in tal modo «quella grandiosità che tuttavia, nel confronto con i contorni ondulati dei successori di questi grandi maestri, può avere mostrato una certa durezza. Sembra essere questa la durezza della quale fu fatta colpa a Callon, a Egia, a Canaco e a Calamide e perfino a Mirone»[44].

Qui Winckelmann allude a un passo di Quintiliano, un altro autore antico interessato alle analogie tra retorica e arti visive, dove si mette in parallelo la storia degli stili oratori con quella degli stili pittorici e scultorei. Il discorso di Quintiliano è costruito in base a una scala di durezza: per gli scultori più antichi gli aggettivi usati sono rigidus e durus, per quelli più tardi mollis. La scultura si sarebbe evoluta dalla ‘durezza’ dello stile che oggi chiamiamo ‘severo’[45] (prima parte del V sec. a.C.) alla morbidezza delle opere dell’età classica[46]  [47]. Si tratta probabilmente del riecheggiamento di una dottrina del tardo ellenismo, che taluno ha ritenuto di attribuire a Posidonio[48], ma che potrebbe anche essere stata rielaborata da Pasitele, lo scultore e critico d’arte magnogreco attivo a Roma nel I sec. a.C.[49]Ma basti ciò sul rapporto tra stili winckelmanniani e retorica antica. Converrà solamente sottolineare che la differenza tra gli stili di Winckelmann in ogni caso non si traduce in una scala assiomatica. Anche se lo stile elevato precede cronologicamente quello bello, non per questo gli è qualitativamente inferiore. Anzi, riferendosi alla sopraccitata ‘durezza’ dello stile elevato, Winckelmann afferma che un disegno «dai contorni virili (männliche), anche se un po’ duri» conduce nondimeno «alla verità e alla bellezza della forma»[50]  [51].

 

 

È ora invece di ritornare sul parallelo tra Demostene e Cicerone che, come abbiamo visto, Winckelmann mutua da Longino per trasferirlo ai suoi stili elevato e bello. Mette conto infatti evidenziare che, nel farlo suo, Winckelmann vi introduce un elemento nuovo: dopo aver detto che Demostene «ci trascina quasi con veemenza» mentre Cicerone «ci conduce docilmente con sé», prosegue affermando che «quello (scil. Demo-stene) non ci lascia il tempo di pensare alle bellezze dell’esecuzione, mentre in Cicerone esse appaiono spontanee e si diffondono con luce uniforme sugli argomenti dell’oratore»[52]. Trasferito sul piano della creazione artistica, questo discorso equivale a dire che, come le opere di Demostene, le sculture dello stile elevato hanno sul destinatario un impatto tanto forte da fare passare in secondo piano i caratteri formali dell’opera (in qualche modo l’accento è spostato, per dirla in termini semiologici, dal destinatore al destinatario). La stessa cosa non avviene nelle opere dello stile bello, paragonate al bello stile di Cicerone, dove invece il fruitore è sempre conscio della compiutezza formale, e ne è intellettualmente gratificato. Sintetizzando, potremmo dire che il tratto sublime dello stile elevato si configura come rapimento e violenza, mentre in quello bello, dove il Sublime non si manifesta, c’è seduzione e rapporto consensuale. Il Sublime – che rappresentato in questi termini dovrebbe essere prerogativa esclusiva dello stile elevato – viene insomma definito non solo in base alle sue caratteristiche formali ma anche attraverso i suoi effetti.

La stretta connessione che nel suo sistema teorico esiste tra Sublime e stile elevato risulta con chiarezza dalla descrizione che nella Geschichte Winckelmann dà dell’opera a suo parere più rappresentativa di quello stile, la Niobe di Villa Medici. La bellezza di questa figura è come «un’idea concepita senza l’aiuto dei sensi, quale sorgerebbe in un intelletto elevato e in una felice immaginazione (Einbildung)[53] che potesse innalzarsi fino a contemplare da vicino la bellezza divina. Essa splende in una così grande unità di forma e di contorno che sembra essere stata creata non con fatica ma concepita come un pensiero e soffiata con un alito». Non è chi non veda dietro questa ispirata formulazione un preciso riferimento al Sublime longiniano. Mi sembra però che qui Winckelmann faccia sua anche la lezione di Boileau[54]  [55], secondo cui il più grande pensiero in un semplice linguaggio è la più alta forma di Sublime, perché così il pensiero opera direttamente riempiendo la mente di stupore e suscitando intense emozioni. E appunto questo è il nodo che avevo indicato all’inizio e su cui torno per concludere. In Winckelmann, lo si è già detto, il Sublime non si definisce solo in rapporto alle qualità formali, ma anche o soprattutto in rapporto all’effetto che ha sull’osservatore.

La Niobe è da questo punto di vista esemplare perché non mostra segni di emozione sul suo volto, solo uno stupefatto annichilimento di fronte all’incontenibile potenza distruttrice degli dèi. Possiamo parlare, a proposito di questa figura come paralizzata, di stille Grösse, ma non certo nel senso di quieta, serena grandezza. Non si dimentichi che still è lo stesso aggettivo che composto con Leben indica la natura morta, l’assenza di vita.

In questo caso l’immagine, purgata di sensualità, di espressività, e come privata della vita, è tuttavia sublime perché in essa il significato è tanto potente e terribile – deinós – da cancellare il significante. L’osservatore è posto senza mediazione di fronte all’esperienza del Sublime, entra empaticamente in contatto con esso proprio perché non è distratto dalla grazia e dal patetico.

Il contrario avviene invece nel celeberrimo Laocoonte, che Winckelmann colloca nell’ultimo periodo dello stile bello, dunque verso la fine del IV secolo. Il volto di Laocoonte è altamente espressivo, il suo dolore esposto in modo quasi didascalico.

Vediamo l’uomo soffrire ma non entriamo in contatto con la divinità che quel dolore ha provocato, perché il ritmo della composizione e i fluidi contorni ci distraggono, perché – come osserva Winckelmann – le parti dove è rappresentato il dolore più grande sono quelle di più grande bellezza. Nella Niobe siamo accecati dalla stessa folgore che annienta l’eroina, nel Laocoonte vediamo l’agonia, il lento soccombere dell’eroe, ma il suo dolore è straniato, e la visione non ci coinvolge altrettanto direttamente a livello emotivo[56]. È questo spiega come Winckelmann, che pure nei Gedanken lo aveva grandemente esaltato, nella Geschichte possa arrivare a dire che nel Laocoonte il Sublime «non ha avuto luogo»[57].

Il Sublime che manca al Laocoonte c’è invece – per esplicita affermazione di Winckelmann – nell’Apollo del Belvedere. Perché? Se il Sublime fosse esclusivo dello stile elevato, esso non avrebbe motivo di ritrovarsi nell’Apollo, che a quello stile non appartiene[58]. Ciononostante, questa statua è il paradigma del Sublime. «Alla vista di questa meravigliosa opera – dice Winckelmann – dimentico tutto il resto, e io stesso attingo una condizione sublime (einen erhabenen Stand) per contemplarla degnamente»[58]. L’effetto della visione è appunto quello di riversare il Sublime nell’osservatore: «la mia visione – continua infatti Winckelmann – sembra ricevere vita e moto come la beltà creata da Pigmalione».

È una possessione e un trasporto verso l’alto (l’aggettivo latino sublimis esprime appunto l’idea di un moto ascensionale[59]), un invasamento trasumanante: tant’è che l’osservatore, che si sente trasportato a Delo e negli altri luoghi sacri ad Apollo, tenta a sua volta di farsi demiurgo, «di diventare il creatore di una natura celeste»[60]. L’Apollo, in sostanza, è un’opera paradossale perché riesce ad essere sublime nonostante sia bella. Il miracolo, per così dire, è effetto della agency di cui questa statua è index[61]. La capacità unica di quest’opera è quella di mettere in moto – a prescindere dal suo inquadramento stilistico e a dispetto della sua bellezza – una dialettica tra referente e segno intrinsecamente diversa da quella operante nella percezione del bello. Il bello è piacere, ma il Sublime, come dice anche Boileau, è energia. Nel bello c’è la grazia che diletta i sensi ma ottunde le emozioni e fa schermo all’idea; il Sublime fa leva sull’emozione e trasporta al di là del bello sensibile verso l’idea.

 

* Il 7 novembre 2003 il Centro internazionale di Studi di Estetica tenne a Capo d’Orlando – dunque nei luoghi di Cecilio di Calatte, autore del perduto trattato Sul Sublime con cui polemizza lo Pseudo Longino – un seminario dal titolo “E la luce fu. Il Sublime alla vigilia del futuro”, moderato da Luigi Russo (per l’elenco completo dei partecipanti vedi http://www.unipa.it/~estetica/_home.html, alla rubrica Storia). In quell’occasione feci un breve intervento orale, che sono lieto di riprendere e ampliare ora per “teCla”.



[1]  La Geschiche der Kunst des Altertums (d’ora in avanti: Geschichte der Kunst…) fu pubblicata a Dresda nel 1764. Nel presente lavoro essa viene citata secondo la paginazione originale di quella prima edizione, che è stata mantenuta nell’edizione italiana con testo tedesco a fronte a cura di F. Cicero (Storia dell’arte dell’antichità, Rusconi, Milano 2003). L’analisi dei quattro stili è sviluppata nella Sezione III del quarto capitolo della prima parte (pp. 213-248.), dal titolo Sviluppo e decadenza dell’arte greca, nella quale si possono distinguere quattro epoche e altrettanti stili.

[2]  J. J. Winckelmann, Geschichte der Kunst…, p. 228.

[3]  Cfr. Pseudo Longino, Il Sublime, a cura di G. Lombardo, Aesthetica, Palermo 19922, p. 44 e p. 89, nota 147. Su questo testo fondamentale dell’estetica antica vedi anche L. Russo (a cura di), Da Longino a Longino. I luoghi del Sublime, Aesthetica Palermo, 1987; e G. Lombardo – F. Finocchiaro, Sublime antico e moderno. Una bibliografia, Palermo, Aesthetica Preprint, 1993.

[4]  J. J. Winckelmann, Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst, 1a ed. Dresda 1755. Per una moderna edizione italiana commentata, vedi J. J. Winckelmann, Pensieri sull’imitazione, a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica, 2001.

[5]  J. J. Winckelmann, Histoire de l’art chez les Anciens, 2 voll., Amsterdam 1766.

[6]  J. J. Winckelmann, Storia delle arti del disegno presso gli antichi, 2 voll., Milano 1779 (condotta sull’edizione viennese del 1776). In generale, sulle più antiche traduzioni italiane, vedi S. Ferrari, I traduttori italiani di Winckelmann, in G. Cantarutti, S. Ferrari, P.M. Filippi (a cura di), Traduzioni e traduttori del Neoclassicismo, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 161-174.

[7]  Originariamente stampata in 2 voll. a Roma nel 1783, fu poi ripresa senza modifiche in Opere di G.G. Winckelmann. Prima edizione italiana completa, 12 voll., Prato 1830-1834, a cura dello stesso Fea.

[8]  J. J. Winckelmann, Histoire de l’art de l’antiquité, 2 voll., Leipzig 1781.

[9]  Come nell’edizione stampata a Yverdon 1784. La traduzione di Huber fu invece ripresa in un’edizione parigina del 1801.

[10]  Cfr. E. Pommier, Winckelmann et la vision de l’antiquité classique dan la France des Lumières et de la Révolution, in Revue de l’art, 1989, n. 83, pp. 9-20.

[11]  La copia appartenutagli è oggi nella Biblioteca della Facoltà di Lettere dell’Università di Siena. Ricordiamo che per questo studioso il tedesco era una seconda madrelingua.

[12]  R. Bianchi Bandinelli, Introduzione all’archeologia classica come storia dell’arte antica, Laterza, Bari-Roma 1976, p. 14.

[13]  J. J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, trad. it. a cura di M. L. Pampaloni, Boringhieri, Torino 1961 (ried. Milano 1990).

[14]  Cfr. supra, nota 1.

[15]  J. J. Winckelmann, The History of Ancient Art, trad. di G.H. Lodge, Boston 1849 (più volte riedita). Vedi la recensione di A.A. Donohue in “Bryn Mawr Classical Review”, n. 38, July 2007 (on line su http://bmcr.brynmawr.edu/2007/2007-07-38.html, cons. il 28 ottobre 2011).

[16]  J. J. Winckelmann, History of the Art of Antiquity, Introduction by Alex Potts, Translation by Harry Francis Mallgrave, Getty Research Institute, Los Angeles 2006.

[17]  Valga per tutte l’affermazione di Jakob Burckhardt: «La storia dello stile comincia con Winckelmann, che per primo distinse i periodi dell’arte antica e collegò la storia dello stile alla storia del mondo. Solo dopo di lui la storia dell’arte divenne un settore della storia della cultura» (citato da H. Dilly, Kunstgeschichte als Institution: Studien zur Geschichte einer Diziplin, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1979, p. 86). Una buona discussione sul concetto di stile in Winckelmann si trova in S. Caianello, Scienza e tempo alle origini dello storicismo tedesco, Liguori, Napoli 2005, pp. 52 e sgg.

[18]  Si veda C. Justi, Winckelmann und seine Zeitgenossen, Vogel, Leipzig 1898, vol. 1, p. 165, nota 22, che fa riferimento al Ms. 4263 della Bibliothèque Nationale di Parigi.

[19]  J. J. Winckelmann, Geschichte der Kunst…, p. 227.

[20]  Cfr. A. Potts, The verbal and visual in Winckelmann’s analysis of style, in “Word&Image”, 6, n. 3 (1990), pp. 226-240; Id., Flesh and the Ideal. Winckelmann and the Origins of Art History, Yale University Press, New Haven and London 1994, specialmente pp. 67 e sgg.

[21]  J. J. Winckelmann, Monumenti antichi inediti spiegati e illustrati da Giovanni Winckelmann, prefetto delle antichità di Roma, I, Roma 1767, p. LXXVI: «Essendosi perdute totalmente l’opere di Lisippo, né rimanendovi speranza di ricuperarne alcuna, per essere state tutte in bronzo, non possiamo giudicar de’ lavori di questo artefice se non per via d’induzione, vale a dire dalla poesia (attesa la stretta connessione ch’ella ha con l’arte) e dalle commedie di Menandro in ispecie, come coetaneo di lui […]. Sicché l’arte, la quale camminò sempre di passo pari con la poesia, e con l’eloquenza, e con quelle si conformò al genio del secolo, dovrà pe’ tempi di Fidia vedersi qual’ell’era dalle immagini ardite e sublimi d’Eschilo e di Pindaro. E dall’eroica maestà di Sofocle, siccome lo stile di Prassitele sarà stato mosso da quelle medesime grazie, e da quella stessa purità che ammirasi in Senofonte e in Platone, scrittori rispettivamente coetanei all’uno e all’altro scultore: e per conseguenza l’idea più sicura che ci possiamo formare dell’arte di Lisippo, si dovrà trarre dal talento del sopraccitato Menandro».

[22]  J. J. Winckelmann, Anmekungen über die Geschichte der Kunst des Alterthums, Dresden 1767, p. 32.

[23]  Cfr. per es. ivi, pp. 222-223, 231 e 346.

[24]  Il significato originario dell’aggettivo glaphyrós è “incavato artificialmente”; in seguito esso prende quello di “polito”, “reso lucido” e, per estensione, “elegante”.

[25]  Tra le recenti edizioni si segnalano quelle di G. Morpurgo-Tagliabue (Demetrio, Dello stile, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1980), di P. Chiron (Demetrios, Du Style, Les Belles Lettres, Paris 1993) e di G. Lombardo (Demetrio, Lo Stile, Aesthetica, Palermo 1999). Di quest’ultimo autore si veda anche il saggio Il Sublime di Demetrio, in “Aevum Antiquum”, n.s. 3 (2003), pp. 135-154.

[26]  Per una sintetica trattazione dell’idea di grazia nell’estetica antica vedi J. J. Pollitt, The Ancient View of Greek Art: Criticism, History and Terminology, Yale University Press, New Haven and London 1974, p. 205 ss.

[27]  La flessuosità delle pose e il movimento erano considerati all’epoca di Winckelmann i fondamenti della bellezza. Nel 1753 William Hogarth aveva pubblicato The Analysis of Beauty, dove veniva enfatizzato il valore estetico della linea ondulata nella composizione delle figure. Sulla grazia come bellezza in movimento – un concetto propugnato da Joseph Spence nel suo Polymetis del 1747 – vedi W. G. Howard, Reiz ist Schöneit in Bewegung, in “PMLA”, a. 24, n. 2 (1909), pp. 286-293.

[28]  Nel Cortegiano la sprezzatura è definita come qualcosa “che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi… Da questo credo io che derivi assai la grazia”. Si veda in proposito P. D’Angelo, “Celare l’arte”. Per una storia del precetto “ars est celare artem”, in “Intersezioni” 9/2 (1986), pp. 213-235; e id., Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp, Quodlibet, Macerata 2005.

[29]  In età ellenistica le Grazie (Chárites) sono rappresentate come tre giovani donne che si abbracciano l’una con l’altra, a formare un cerchio. Seneca (De benef., I, 3), spiega che tale iconografia allude ai tre momenti implicati dalla grazia: la concessione, l’accettazione, il contraccambio: «Alii quidem videri volunt una essem, quae det beneficium, alteram quae accipiat, tertiam quae reddat; alii tria beneficiorum esse genera, promerentium, reddentium, simul accipientum reddentiumque». Si veda anche il noto saggio di E. Wind, Le grazie di Seneca, in Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, Milano 1971 (ed. orig. 1958), pp. 33 e sgg.

[30]  Demetrio, Lo Stile, p. 143, nota 309.

[31]  J. J. Winckelmann, Geschichte der Kunst…, pp. 225-227.

[32]  Come dimostrò L. Voit, Deinótes. Ein antiker Stilbegriff, Inaug.-Diss. Universität, München 1934.

[33]  Al § 283 Demetrio afferma che tutto ciò che colpisce è formidabile, perché incute timore (pâsa dè ékplexis deinón, epeidé phoberón).

[34]  Cfr anche Demetrios, Du Style, pp. XCVII-CVII; e B. Saint Girons, Fiat lux. Una filosofia del Sublime, Aesthetica, Palermo 2003 (ed. orig. Paris 1993), pp. 231-234, 529-530.

[35]  Vedi supra, nota 3.

[36]  Un’ottima traduzione italiana commentata è quella a cura di G. Sertoli e G. Miglietta (E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, Palermo, Aesthetica, 1998). In generale sulla storia dell’idea di Sublime dall’antichità ai moderni, oltre al volume della Saint Girons citato supra a nota 34, si segnala della stessa autrice Il Sublime, Il Mulino Bologna 2006. Vedi anche i saggi raccolti in G. Casertano, (a cura di), Il Sublime. Contributi per la storia di un’idea. Studi in onore di G. Martano, Morano Napoli 1983 e in T. Kemeny - E. Cotta Ramusino (a cura di), Dicibilità del Sublime, Campanotto, Udine 1990. Molto utili, inoltre, P. Giordanetti - M. Mazzocut-Mis (a cura di), I luoghi del Sublime moderno. Percorso antologico-critico, Led, Milano 2005; e G. W. Most, Sublime degli Antichi, Sublime dei Moderni, in “Studi di estetica” 12, 1-2, n.s. 4/5 (1984), pp. 113-29.

[37]  È uno dei rari casi in cui non concordo con l’ottimo commento di G. Lombardo (p. 97, nota 47).

[38]  S. Ferri, Nuovi contributi esegetici al «cànone» della scultura greca, in “Rivista dell’Istituto nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte” 7 (1940), pp. 117-152.

[39]  R. W. Johnston - D. Mulroy, Simonides’ use of the term tetragonos, in “Arethusa” a. 37, n. 1 (2004), pp. 1-10.

[40]  Cfr. supra e nota 36.

[41] J. Winckelmann, Geschichte der Kunst…, pp. 224-225.

[42]  L’aggettivo streng è usato varie volte in Winckelmann nella descrizione di opere di scultura, ma mai in funzione classificatoria, riferito a una precisa fase dell’arte greca. In questo senso fu usato per la prima volta da G. Kramer nel 1837. Cfr. Le osservazioni di D. Mertens in N. Bonacasa (a cura di), Lo stile severo in Grecia e in Occidente, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1995, p. 207 e sgg.

[43]  Quinitiliano, Institutio oratoria, XII, 10, 7 e sgg: «Similis in statuariis differentia. Nam duriora et Tuscanicis proxima Callon atque Hegesias, iam minus rigida Calamis, moll passo della mette iora adhuc supra dictis Myron fecit. Diligentia ac decor in Polyclito supra ceteros, cui quanquam a plerisque tribuitur palma, tamen, ne nihil detrahatur, deesse pondus putant. Nam ut humanae formae decorem addiderit supra verum, ita non explevisse deorum auctoritatem videtur. Quin aetatem quoque graviorem dicitur refugisse nihil ausus ultra leves genas. At quae Polyclito defuerunt, Phidiae atque Alcameni dantur. Phidias tamen diis quam hominibus effingendis melior artifex creditur in ebore vero longe citra aemulum, vel sinihil nisi Minervam Athenis aut Olympium in Elide lovem fecisset, cuius pulchritude adiecisse aliquid etiam receptae religioni videtur ; adeo maiestas operis deum aequavit. Ad veritatem Lysippum ac Praxitelen accessisse optime adfirmant. Nam Demetrius tanquam nimius in ea reprehenditur et fuit similitudinis quam pulchritudinis amantior».

[44]  Anche perché un disegno evolutivo molto simile, sebbene meno articolato, è esposto nel Brutus (69-71) da Cicerone, che di Posidonio fu allievo: «Quis enim eorum qui haec minora animadvertunt non intellegit Canachi signa rigidiora esse quam ut imitentur veritatem? Calamidis dura illa quidem, sed tamen molliora quam Canachi; nondum Myronis satis ad veritatem adducta, iam tamen quae non dubites pulchra dicere; pulchriora Polycliti et iam plane perfecta, ut mihi quidem videri solent. similis in pictura ratio est: in qua Zeuxim et Polygnotum et Timanthem et eorum, qui non sunt usi plus quam quattuor coloribus, formas et liniamenta laudamus; at in Aetione Nicomacho Protogene Apelle iam perfecta sunt omnia».

[45]  Vedi A. Rouveret, Histoire et imaginaire de la peinture ancienne (Ve siècle avant J.-C. – Ier siècle après J.-C.), Bibliothèque des Ecoles Françaises d’Athènes et Rome, 274, Roma 1989, p. 459. Per una disamina del pensiero estetico degli antichi in relazione alla scultura vedi G. Pucci, L’antichità greca e romana, in L. Russo (a cura di), Estetica della Scultura, Aesthetica, Palermo 2003, pp. 9-46, 129-145, 241-246.

[46]  J. J. Winckelmann, Geschichte der Kunst…, p. 222.

[47]  Ivi, pp. 228-229.

[48]  Si avverte qui un’eco della dottrina della phantasía, presente anche in Longino, e in particolare di quel passo (VI, 19) della Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato dove a Tespesione, che chiede ironicamente se artisti come Fidia e Prassitele siano per caso saliti in cielo a prendere il calco degli dèi per poterli scolpire, il sapiente Apollonio risponde che «a creare quelle statue fu la phantasía, che è artefice più sapiente della mímesis». Su questa tematica si vedano, oltre al classico studio di G. Watson, Phantasia in Classical Thought, Galway University. Press 1988, il lavoro di G. M. Rispoli, L’artista sapiente. Per una storia della fantasia, Liguori, Napoli 1985 e quello di A. Manieri, L’immagine poetica nella teoria degli antichi. Phantasia ed enargeia, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1998.

[49]  . Boileau-Despréaux, Réflexions critiques sur quelques passages de Longin (1694), in Œuvres complètes, Paris, La Place, Sanchez e Cie. 1873 (ed. orig., 1713).

[50]  A. Potts, The verbal and visual, p. 237 sgg., osserva che la differenziazione tra stille elevato e stile bello frantuma in realtà l’unità del concetto di bello ideale, in quanto la bellezza della figura significante e l’idea significata non coincidono più necessariamente.

[51]  J. J. Winckelmann, Geschichte der Kunst…, p. 154. Cfr. B. Saint Girons, De l’interpretation du Sublime chez Winckelmann, in Winckelmann et le retour à l’antique, Entretiens de la Garenne Lemot, Actes du Colloque 9-12 juin 1994, Paris 1995, pp. 73-84, spec. 81 sgg.

[52]  Per la verità, Winckelmann non dice mai chiaramente come si colloca l’Apollo. Non ne parla nella sezione sui periodi e gli stili, e la famosa descrizione che ne fa arriva del tutto inattesa nel capitolo dedicato alla decadenza dell’arte in età romana (p. 392 ss). L’unica cosa chiara è che per lui l’Apollo è opera greca e anteriore a Nerone.

[53]  F. Cicero (in Storia dell’arte dell’antichità, 2003, p. 393) traduce «io stesso assumo una posizione elevata per contemplarla con la dignità che merita», come se Winckelmann parlasse di uno sgabello su cui salire per vedere meglio la statua.

[54]  Cfr Ernout-Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 20014, s.v.

[55]  Tutta questa celeberrima pagina di Winckelmann è in fondo una straordinaria parafrasi di Longino, dove si legge: «L’effetto del Sublime non è la persuasione ma il trasporto fuori di sé (ékstasis) [ I, 4]; «la natura del vero Sublime è tale che la nostra anima si eleva, e traendone una magnifica esaltazione, si riempie di gioia e di eccitazione, come se essa stessa avesse generato ciò che ha ascoltato» [VII, 2].

[56]  Utilizzo la terminologia dall’antropologia dell’arte di Alfred Gell. Vedi G. Pucci, Agency, oggetto, immagine. L’antropologia dell’arte di Alfred Gell e l’antichità classica, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, n. 94 (2008), pp. 35-40.



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Temi di Critica - numero 4

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