teCLa :: Rivista #4

in questo numero contributi di Stefano Colonna, Edoardo Dotto, Giuseppe Pucci, Gabriele Scaramuzza, Alexander Auf Der Heyde Stefano Valeri Michele Dantini Clarissa Ricci.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Processo a Praga la città, il testimone, la legge di Gabriele Scaramuzza

«L’opera di Kafka – sostiene Benjamin in una lettera a Scholem del giugno del 1938 – è un’ellissi con due fuochi molto distanti tra loro, che sono determinati rispettivamente dall’esperienza mistica (che è innanzitutto esperienza della tradizione) e dall’esperienza dell’uomo che vive nella grande città moderna»[1]. La grande città moderna di cui Kafka ebbe esperienza è innanzitutto, e in modo pressoché esclusivo, Praga. Molto minore incidenza sulla sua vita ebbero altre grandi città che pur visitò, da Monaco a Zurigo, da Budapest a Milano; o metropoli quali Berlino, Vienna, Parigi. L’esperienza della città moderna resta fondamentale per lui, innerva l’intera trama delle sue opere. Anche se non ne è l’unica dimensione com’è ovvio: non è essa sola a motivare ciò che condiziona la vita di Josef K.: la paura, i sensi di colpa, i tormentosi interrogativi, e le ansie di liberazione che la percorrono.

È scontato ricordare che Kafka a Praga non solo nasce, ma trascorre tutta la vita – salvo i pochi mesi trascorsi a Berlino tra il 1923 e il 1924; e qualche antecedente breve soggiorno a Vienna, nei cui pressi morì. Praga è ossessivamente presente nella vita di Kafka, come risulta dai diari, dalle lettere, dalle testimonianze. Vi è inestricabilmente legato, malgrado qualche velleità di fuga: Praga «ha gli artigli», e «non molla», scrive a un amico. Come sintetizza efficacemente Ripellino, l’amore per la sua città «si accompagna in Kafka a un basso continuo di insofferenza e di maledizione»[2]. Nei diari e nelle lettere, «Kafka indica minutamente le strade, i caffè, i teatri, le sinagoghe, i dintorni»; e «con quanta sete di favola coglie, nella sfera praghese, i momenti pierrotici, i guizzi di incantamento, le bizzarrie da panoptikum, che coincidono con l’incolumità dell’infanzia»[3]. Tracce esplicite della città si possono trovare nei suoi racconti, in particolare in Descrizione di una battaglia; in una «lirica breve» di Kafka Praga, «sebbene non nominata, traluce da una buia filigrana»[4]. Evocazioni consistenti della città non mancano nei romanzi, già in America[5]; nel Castello Praga è presente sotto traccia. Ma v’è un romanzo in particolare che si svolge interamente a Praga: Il Processo è il «più praghese dei romanzi cechi e tedeschi», anche se «Praga non è mai nominata»; «la capitale boema è velata e anonima», eppure «molti punti reali sono identificabili»[6].

Ma il termine “Praga” racchiude in sé esperienze molteplici, e risvolti variegati: luoghi, ambienti, figure, certo; ma anche un’organizzazione sociale e giuridica, e un mondo di gesti e di parole, un’atmosfera, una cultura – tutto quello che fa la vita in una città, che segna le modalità del suo esserci. Nel Processo la città avvolge tutta la vicenda; ma non è tanto presente nell’incanto degli scorci offerti al nostro immaginario turistico, tanto meno nelle sue straordinarie bellezze artistiche e paesaggistiche, nelle suggestioni urbanistiche che conosciamo. È presente piuttosto nei suoi aspetti meno accattivanti, per nulla accoglienti: periferie squallide, bassifondi malsani, interni soffocanti, ambienti sporchi, uffici trasandati; e scorci inquietanti, atmosfere cupe, fredde, piovose, spesso irrespirabili. Cifre esse stesse del clima vissuto dai protagonisti, veri correlati oggettivi dello squallore che impregna di sé la loro vicenda.

Per il Tribunale e per i luoghi della città che lo ospitano vale quanto Ripellino scrive del Castello: più che un castello riconoscibile come tale, il castello del romanzo è «un’accozzaglia di casupole fatiscenti, serrata l’una sull’altra» (come peraltro è la Viuzza d’Oro, in alto vicino a San Vito, e al Castello praghese appunto, in cui Kafka abitò)[7]. «Il pigia pigia di fantesche e di aiutanti nella camera surriscaldata di K. all’Osteria del Ponte nel Castello kafkiano sembra riflettere l’accatastarsi di molti inquilini in un vaso esiguo nei vili pertugi di Josefov»[8], il quartiere ebraico “risanato”, la cui memoria persiste vivida in Kafka, come riferisce Janouch[9] – questo vale anche per gli ambienti in cui si svolge il processo. In entrambi i romanzi dominano condizioni di vita inquietanti: un potere accentratore e tentacolare, una burocrazia accanita, pervasiva; e interni conturbanti, casamenti sordidi, dove sempre si trovano gli uffici in cui viene esercitato il potere. Si potrebbe in generale vedere in Praga il luogo dell’estraneità. Lì vive l’uomo «che sa di essere in balia di un apparato burocratico impenetrabile la cui funzione è diretta da istanze che non sono chiare agli stessi organi esecutivi, per tacere di coloro che subiscono passivamente. (È noto che è questo uno degli strati del significato dei romanzi, specialmente del Processo[10]. La città è spazio di ramificazioni estreme, di accadimenti che si intersecano e si inibiscono vicendevolmente, fatti apposta per complicare anziché rendere più agevole la vita dei cittadini. Come osserva ancora Benjamin, l’abitante della grande città moderna è «il contemporaneo dei fisici attuali»; riprendendo un brano di Eddington, evoca l’immagine dell’uomo che vive “sulla soglia, in procinto di” compiere l’impresa banale, in realtà assai complessa, di “entrare in una stanza”, esposto ai mille condizionamenti che complicano il suo agire, e che la fisica moderna appunto ben conosce[11]. «Coi rimandi kafkiani si può rinvenire lo stesso disagio di creatura sui margini in ogni creatura praghese, straniera nella sua terra e soggetta agli abusi di autorità inaccessibili, a una solerte e sfuggente inquisizione, che scruta e traccheggia e manipola l’uomo. Intrappolato in tortuose macchinerie, il pellegrino non può decidere della propria sorte, di lui decide una burocrazia misteriosa»[12]. Talché a Josef K., non meno che a Josef Sveik[13], «non resta che cercare sotterfugi e stratagemme ingegnose, per passare attraverso il soffocante rituale di regole e di imposizioni»; «l’accusato non ha alternative: deve acquietarsi alle risoluzioni e ai soprusi di arcani giudici e funzionari, contro cui nulla valgono i criteri della consuetudine, i razionali argomenti. Non solo, ma, nel subire l’arbitrio, ovvero l’assurda logica dei loro cavilli, lui stesso finisce col credere che la sua anima sia imbrattata di imperscrutabili colpe. E così accade che accetti la propria colpevolezza e, sentenziato a morte, si faccia persino complice dei suoi manigoldi».

Il tribunale poi pervade la città in modo simile al castello del romanzo omonimo: si «continua nel villaggio con la sua falsa sacralità, col suo morto rituale oppressivo, con la sua fitta di agenti e di segretari», e coinvolge tutti coloro con cui il protagonista ha a che fare. Vale anche nel Processo quanto leggiamo nel Castello: i messaggi stessi «mutano continuamente di valore, le riflessioni a cui danno materia sono senza fine, il caso soltanto determina i punti di fermata»[14]. E Josef K., non meno che l’Agrimensore K., «si aggira e smarrisce nei consolati scurrili» di un «occhiuto potere», veri «luoghi di trivialità metafisica».

Chi vuol arrivare al Castello (e al Tribunale), e penetrarne le leggi, dovrà radicarsi «nel male, nella servitù, negli orrori» di un labirinto, dove gli stessi «abitanti dalla mente ormai distorta lo accolgono con raccapriccio e superstizione». E se «non saprà orientarsi nel groppo delle assurdità e accattivarsi i potenti, la colpa sarà ancora sua: è il sorcio la tirannia delle gatte». Josef K. è un pellegrino «braccato dagli occulti segugi di un tribunale invisibile, viaggio tra malintesi e cavilli»; e non saprà mai per quale colpa[15]. Tutto gli sarà inutile, fino alla fine: nel momento dell’esecuzione ancora si chiederà dove siano il giudice e il tribunale che mai aveva incontrato. Si rivelerà illusorio (e persino sfiorato da un senso di vergogna) anche l’attardarsi a stendere un memoriale a sua difesa. Leni lo esorterà a non insistere nel suo atteggiamento di ricerca senza fine, ma ad accettare il non senso e stare alle regole del gioco: «non sia più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può, bisogna confessare. Faccia la sua confessione, appena può. Solo dopo se la potrà cavare, solo dopo»[16]. Ma quella di cavarsela è una possibilità anch’essa illusoria, come i meccanismi di difesa nei processi staliniani ampiamente mostrano (e a Praga il processo Slansky già si affaccia a un orizzonte non così lontano…).

Kafka appartiene al mondo dell’«ebreo praghese di lingua tedesca, che vive come in contumacia in un mondo slavo. Che soffre tragicamente la sua alterità, estraneo in ugual misura ai tedeschi, di cui pur condivide il linguaggio, e ai cechi, dai quali è considerato un tedesco, un forestiero»[17].

Praga è infatti anche, e in modo tutt’altro che trascurabile, le lingue che vi si parlano: il ceco, predominante, che Kafka conosceva bene e considerava anzi la lingua che più gli stava nel cuore, anche se non era la sua lingua madre[18]. Kafka conosce la letteratura ceca, anzi vi si ispira per episodi quali quello di Amalia; il ceco si riflette anche in alcuni nomi, quali Klamm[19] o Odradek (oltre che in Kafka come noto). Ma soprattutto per Kafka l’atmosfera di Praga è condizionata dall’isola di un tedesco quasi artificioso in cui vive, e di cui si nutre il suo stesso tedesco: «A render più arcana e più onirica la città vltavina nel Processo concorre la stessa scrittura sobria e precisa, la scrittura monodica, vitrea, aliena da orpelli, la secca, oggettuale argomentazione talmudica»; un «linguaggio disadorno, monodico, di un rigore implacabile, che è quasi un vitreo rigor mortis, questa avvocateria metafisica, così diversa dal fiammeggiante e dal febbrile di altri scrittori ebraici di Praga»[20].

La città è dunque lo sfondo su cui si muove Il Processo; oltre a esser la trama non taciuta su cui si disegna l’intera vita di Kafka. Nel romanzo Praga sono scorci senza nomi, un clima spesso solo adombrato, sempre attivo tuttavia. Inseguire puntuali riscontri locali sarebbe ozioso; lo faremo solo occasionalmente; quello che più importa è ricostruire un’atmosfera, in cui certo si riflette anche un modo personale di vivere la città.

Sappiamo bene l’inizio: una congettura più che un dato di fatto: Jemand mußte Josef K. verleumdet haben, denn ohne daß er etwas Böses getan hätte, wurde er eines Morgens verhaftet. Qualcosa resta da subito in sospeso: non si sa chi, né perché, abbia calunniato il protagonista; e la presunzione della sua innocenza verrà presto smentita dai fatti.

Del tutto sconcertante resta poi la circostanza di partenza, l’arresto: strano, immotivato, e tuttavia greve di conseguenze: Josef K. viene lasciato a piede libero e continua la sua vita apparentemente normale. Ciononostante la sua vita cambia radicalmente (come la vita di Giobbe, o di Ivan Il’ič, di chiunque venga inopinatamente colpito da una grave disgrazia); e muta l’atteggiamento degli altri nei suoi confronti.

L’andamento è da giallo rovesciato: quello che in un giallo dovrebbe essere l’epilogo (l’identificazione e l’arresto del colpevole) è messo sotto gli occhi del lettore fin dall’inizio, inequivocabilmente. Salvo poi sfaldarsi a poco a poco, e confondersi del tutto nell’evolversi della storia, fino all’esecuzione, degno coronamento del verdetto iniziale, che dichiara da subito il protagonista colpevole, certo; ma essa stessa problematica, forse superflua. La condanna è infatti ampiamente anticipata, come è chiaramente detto nel testo: «La sentenza non viene a un tratto, è il processo che a poco a poco si trasforma in sentenza»[21]; l’iter stesso della vicenda si trasforma in colpevolizzazione accumulata; si fa di per sé verdetto ed espiazione. Senza contare che la truce esecuzione, per taluni più incubo che evento reale, non costituisce neppure il punto terminale del romanzo, che è dato piuttosto dalla vergogna, che sola gli sopravvive[22].

Nel secondo capitolo, qualcuno convoca Josef K. per telefono (e si dovrebbe indagare il ruolo delle telefonate nei romanzi di Kafka). C’è un Tribunale con cui deve fare i conti, e ogni tanto deve presentarsi a esso. Di fatto s’imbatte sempre in ambienti che ad esso riconducono; e in personaggi apparentemente estranei ad esso, ma che si rivelano sue emanazioni.

 

Il sedicente Tribunale in cui K. viene convocato non ha nulla della maestosità dei tribunali che subito riconosciamo; non è un palazzo, rientra perfettamente nello scalcinato paesaggio praghese, che Ripellino tratteggia magistralmente.

«Dell’architettura inquietante della città vltavina sono illustri esempi le afose e malconce casacce»; «collusione tra un sordido casamento operaio e una catapecchia del ghetto, intrico di scale buie, corridoi soffocanti, ballatoi, sgabuzzini – il tribunale a cui Josef K. vien chiamato per la prima volta il mattino di una domenica. Il quartiere in cui sorge quel palazzaccio, insieme fondaco e ufficio e lavanderia, con le botteguzze sotto il livello delle strade, le finestre piene di materassi e gli inquilini che si parlano dai davanzali, tiene del proletario quartiere di Zizkov e a un tempo della Città ebraica.

Altrettanto praghese, con le sue strette scale senza spiragli e sulle scale una frotta di ragazzine petulanti, è il casamento […] di sporco sobborgo nella cui soffitta risiede l’imbrattatele Titorelli».

Vi regna la stessa «stantia pragheità» che grava sulla «stanza a pigione abitata da Josef K.», che incontriamo all’inizio; non meno peraltro che sulle vie in cui abitò Kafka.

Qualcosa di simile si ritrova nell’abitazione di Brunelda in America, e il «sentimento di angustia e reclusione che è frequente negli scrittori praghesi» è rintracciabile anche in Durante la costruzione della muraglia cinese[23].

In termini similari Ripellino già aveva anticipato:

 

Il quartiere nel quale si acquatta l’enorme edificio, dove Josef K. subisce il primo interrogatorio, con le sue informi catapecchie, con le sue finestre piene di materassi, con le sue botteguzze al di sotto del livello stradale, benché sia detto che sorge in periferia, fa pensare alla diroccata Città ebraica. L’ancor più sudicio e grigio sobborgo in cui, arrampicata in cima a ripide scale, si annida l’opprimente bicocca di Titorelli, potrebbe essere quello proletario di Zizkov, amato da Kafka”. Può “darsi che, nella raffigurazione del sordido tribunale, Kafka avesse in mente gli uffici praghesi in genere”, rintanati “in taccagne stamberghe da sorci, con bui corridoi, con ciurmaglia di scartabelli ingialliti, con tanfo di muffa e di polvere.

 

«Ma la pragheità del Processo si appalesa in molte altre minuzie»: ad es. «il rapporto tra l’affittacamere e l’inquilino, un rapporto che avvince sovente l’inventiva kafkiana». Ma ancora: l’accidia, il malessere della città vltavina, un’accidia che collima con la sua ritrosia, con le sue ombrose ripulse, con le sue estenuazioni. Il continuo ricorso di letti e giacigli, l’odore di letto non rifatto», «l’universo molliccio di materassi nei quali i personaggi, sempre spossati, sprofondano». Dove si riflette non solo «l’infermità che serpeggia nel corpo di Kafka», ma anche l’«abulia», la «forzata indolenza di una metropoli, i cui impulsi sono perpetuamente stroncati»[24]. La parabola Davanti alla legge, che il sacerdote narra verso la fine della storia, in certo modo ne concentra il senso, e ne accentua l’«arcaicità»[25]. È sintomatico che Orson Wells nel suo film[26] prenda l’avvio proprio dalla lettura[27] del breve racconto scritto nella seconda settimana di dicembre del 1914[28] e inserito poi nel nono capitolo del Processo, che Bruno Schulz considerava «la chiave di volta di tutto il romanzo»[29]. Come osserva Steiner, può esser considerata «il nucleo del romanzo e della visione di Kafka»[30]; e Benjamin: la «breve storia Davanti alla legge è per me una delle migliori che ci siano in tedesco, oggi come dieci anni fa»[31]. Come Il messaggio dell’imperatore (che è parte del più ampio Durante la costruzione della muraglia cinese, e in questo va contestualizzato), così Davanti alla legge è stato dapprima pubblicato come racconto a sé[32]. Possiamo considerarlo come il nucleo intorno a cui si aggrumano le diverse dimensioni della città, lo scrigno di luce accecante in cui si custodisce la chiave della vicenda – e forse dell’intera vita di Kafka.Se quella del romanzo è la storia di una condanna immotivata e degli sforzi infruttuosi, continuamente ostacolati, di scoprirne le ragioni e di scongiurare la pena, Davanti alla legge narra dei tentativi disperati di penetrare nel mondo dei principi che dominano non solo la situazione dell’uomo di campagna e, di riflesso, di Josef K.; ma, in senso più ampio, l’esistenza dell’uomo contemporaneo, che vive assediato dal «negativo dei suoi tempi». Ha una conclusione sconcertante, tipica di Kafka, ma insieme costituisce una delle chiavi di volta del Processo. Il quale a sua volta ha un finale imprevedibile, che non coincide con quello che per solito passa per essere la sua conclusione (cioè l’esecuzione del protagonista). Entrambi i finali sembrano rimettere tutto in gioco, forse confermano soltanto il succo della vicenda, ma contengono anche qualcosa di eccedente e di incongruo rispetto alle storie di cui fanno parte. Di fatto la parabola dichiara l’inaffidabilità del Tribunale e, nel caso particolare, la diffidenza anzi l’ostilità del sacerdote cattolico; ma insieme l’ambigua evanescenza dell’intera vicenda. Prepara, non toglie l’esecuzione, che è già nelle cose, ma si concreterà di lì a poco in uno scenario grottesco e macabro, a tratti marionettistico, come lo sono gli attori coinvolti. Lasciando tuttavia aperta l’ulteriore, decisiva, questione su cui si chiude il romanzo.

Ma di quale legge si tratta nella parabola? Gesetz, Lehre, o Halacha, è a tutta prima quella in base alla quale Josef K. viene arrestato e condannato; le svariate letture[33] del Processo sono anche interpretazioni dei principi che decretano un destino individuale. Non ci soffermeremo qui sulle letture impegnate su di un piano filologico o storico-letterario, né su letture astrattamente metastoriche.

La Legge è cifra di una situazione sfuggente, simbolo del senso sommerso che avvolge la vicenda, e certamente intride il tessuto cittadino. Ha valenze più estese, psicologico-esistenziali, metafisiche, comunque più implicate di quanto non si creda nell’esperienza della città. La legge può essere l’insieme di principi della Tradizione (quelli che invano il messaggero dell’Imperatore cerca di diffondere), che reggono la vita delle società; e che Josef K. anche senza volerlo e senza saperlo ha violato. Ma che gli sono sconosciuti (si sono perduti, gli sono stati nascosti?), e che vuole sapere, su cui si interroga tormentosamente. Kafka darebbe voce dunque alla «malattia della tradizione» (secondo la felice formula benjaminiana) da cui è afflitto l’uomo contemporaneo – all’eclissi della Legge, che ha smarrito il proprio senso, ma serba pur sempre una sua atroce efficacia[34].

La città è anche le religioni che vi si praticano[35]. Il cattolicesimo dei più, l’ebraismo o altre fedi di minoranze. Kafka stesso è visto da taluni come uomo di fede, o al contrario come testimone di un mondo in cui si è persa ogni fede, di quell’assenza di Dio così ben presente ai deportati costretti ad assistere all’agonia atroce del bambino in La notte[36]. L’eclissi della Legge sarebbe in generale metafora dell’esistere umano tout-court, chiuso tra orizzonti di radicale insicurezza, di incertezza, di impenetrabile oscurità; minacciato dal naufragio di ogni via d’uscita, ma anche paradossalmente animato da pur infondate speranze.

L’evanescenza della legge condiziona lo smagliarsi infelice dei rapporti di Kafka col padre, la famiglia, le donne, la società; e vota al fallimento una vita. Elias Canetti in L’altro processo[37] vede nel romanzo l’eco di una vicenda personale: il fidanzamento con Felice Bauer (che nel romanzo sarebbe addirittura raffigurata da Fr. Bürstner), e del “processo” che ne seguì – il “tribunale” dell’Askanischer Hof di Berlino, di fronte al quale Kafka si vede imputato. E sullo sfondo preme una comunità coi suoi costumi e le sue leggi, radicata in una città. In una diversa prospettiva, agirebbe nel mondo kafkiano la colpa decretata dal tribunale dell’inconscio, individuale e collettivo insieme. Le leggi sarebbero quelle disperanti imposte da una patologia psichica, da pulsioni inconsce incontrollabili dal singolo, spesso indotte dall’ambiente. Un senso di colpa atavico, prodottosi nell’oscurità della vita psichica individuale, ma anche radicato nel destino di una comunità; e che condanna a una vita senza gioia, non vissuta. Per Orson Welles il romanzo mette in scena un “sogno, incubo”, che esprime angosce e responsabilità indecifrabili; tanto che del protagonista alla fine «non sappiamo perché lo giustiziano»[38]. Il suo stesso film ha sfondi autobiografici, che insieme riflettono terrori diffusi nell’immaginario contemporaneo: atmosfere da lager, la catastrofe atomica del finale.

La legge potrebbe poi essere l’insieme delle leggi di una natura matrigna ben radicata anche nella città. Kafka descriverebbe la realtà vissuta da chi vede la propria vita, i rapporti umani, sconvolti dall’insinuarsi improvviso di un male incurabile – come accade a Ivan Il’ič nel magistrale racconto di Tolstoj[39].

L’arresto simbolizzerebbe il momento in cui ci si scopre assaliti da una malattia mortale. Spaini aveva torto a vedere nel romanzo il riflesso della malattia che non era ancora stata diagnosticata a Kafka mentre scriveva Il Processo.

Ciononostante si possono vedere operanti nel romanzo le dure leggi che condannano immotivatamente a una vita stentata e infelice, e a una morte rapida – incubi da cui la normalità urbana abitua a distogliere gli occhi.

Legge per antonomasia è quella che regge le fila della convivenza civile: presiede all’organizzazione di una società, di uno stato, di una città. Di essa Kafka ebbe diretta esperienza negli uffici in cui lavorò a Praga, oltre che nei suoi studi giuridici.

Un’interpretazione diffusa è quella che vede nel romanzo lo specchio della società asburgica nella fase del suo declino, con la sua burocrazia lenta, elefantiaca, emanazione di un potere imperscrutabile. La legge decreta i principi in base a cui operano gli uffici pubblici, dove le pratiche subiscono interminabili rinvii e assurde complicazioni, magari vengono perse, e ogni volta si deve ripartire da zero. Gli utenti si sentono a priori colpevolizzati; intere vite si consumano, sono intralciate da un feroce legalismo. Ogni certezza del diritto, ogni fiducia nella giustizia sono messe a dura prova; ogni ragione si disperde e i torti non vengono puniti (uno dei sensi dopotutto di un processo che già di per sé si fa sentenza e condanna).

Più in generale c’è chi coglie in Kafka lo specchio realistico della società capitalistica, l’alienazione e la disumanizzazione che le appartengono. La legge sarebbe la dura, violenta legge che vige nel mondo borghese-capitalistico, che nei suoi ingranaggi stritola l’uomo. È la lettura che ne hanno dato studiosi quali Gyorgy Lukács, Ernst Fischer, da noi Lucio Lombardo-Radice; e insieme i socialisti “dal volto umano” dell’Est europeo (che quanto meno non hanno incitato a “bruciare Kafka”, come qualche zelante ortodosso non ha mancato di proporre), dissidenti presenti a un celebre convegno tenuto a Praga nel ’63[40], preludio della primavera che sarebbe stata soffocata di lì a qualche anno.

In causa potrebbero poi essere le leggi tenute celate (la gestione del potere se ne avvantaggia, tenendo così in ostaggio i cittadini) di una comunità che condanna senza mai motivare; e di fatto soffoca la vita dovunque si manifesti, e comunque.

Con sotterranea quando non scoperta violenza, tanto più umiliante quanto più ammantata da bon ton o da apparente benevolenza.

Le leggi di un iter che tacitamente decreta l’emarginazione e il fallimento di quanti non sanno adeguarsi a comportamenti prescritti o soltanto ammissibili. Tipica da questo punto di vista è la situazione di un popolo separato nei ghetti, vittima di violenze senza fine: della comunità ebraica praghese in particolare, emersa da un passato doloroso, e con il genocidio all’orizzonte. Kafka vive separato in una comunità che parla un’altra lingua, ma in quanto ebreo è isolato anche nel mondo che parla la sua stessa lingua. L’ebreo assimilato, inoltre, viene a contatto con la vita piena di fascino degli ebrei orientali (impersonati dall’attore Löwy), da cui si sente profondamente attratto, ma che gli resta estranea, incomprensibile; come lui risulta incomprensibile a loro (una situazione analoga si ripresenterà nei campi di sterminio). Un’interpretazione a portata di mano è quella che considera prefigurati nella legge i principi insensati e disumani, ma terribilmente operanti nella situazione in cui si sono venuti a trovare gli ebrei di Praga (ed europei in genere) durante l’occupazione nazista. Quella di Kafka sarebbe anche un forma di premonizione circa il destino degli ebrei, strappati con inaudita violenza alle loro case, alle loro consuetudini e affetti; mandati senza colpa e senza motivo nei campi di sterminio – come in un passato non lontano già vittime di pogrom, di persecuzioni ingiuste, e ciononostante tragiche nei loro esiti. Ad Auschwitz furono deportate le sorelle di Kafka, e perirono quasi tutti i nipoti, non pochi conoscenti; la stessa Milena, pur non ebrea, ne seguì il destino morendo a Ravensbrück[41]. Kafka dovette in certo modo presentirlo, non pochi lo leggono in questo senso. E in gioco a tutta evidenza è una situazione politico-sociale in cui ogni legalità è messa in discussione, sono abolite le garanzie dello Stato di diritto (Rectsstaat); come sa lo stesso Josef K.[42] Non a caso un amore per Kafka si può accompagnare a un interesse altrettanto vivo per la Shoah[43]; Kafka sembra prefigurare modelli di comportamento, forme della (in)sensibilità e della mente, che fanno terra bruciata di ogni valore etico, religioso, civile, e preparano il terreno alla visione del mondo da cui trae linfa lo sterminio nazista. Tipicamente praghese è l’ambientazione della fase conclusiva della vicenda. Lo scenario in cui avviene l’incontro col sacerdote è un non identificato ma identificabile duomo: «Il duomo è San Vito e, nel duomo, la ‘statua d’argento di un santo’ è il sepolcro del Nepomuceno»[44]. Siamo nella cattedrale di Praga, su in alto nel castello. Anche se qualcuno ha scorto in essa tratti che rinviano più all’interno del Duomo di Milano, che Kafka aveva visitato nel 1911, e di cui conservava cartoline[45].

La stessa scena dell’esecuzione è ambientata a Praga: «Al supplizio Josef K. si reca, passando per un ‘ponte’, che è il Ponte Carlo, al di sopra di un’isoletta, che è Kampa. Le ‘strade in salita’ corrispondono a quelle di Mala Strana, l’arena dell’esecuzione coincide con la cava di Strachov». Ripellino immagina altrove che «in senso contrario [a quello che va per il Ponte Carlo verso la Città Vecchia], ancor oggi, la notte, a lume di luna, due guitti lucidi e grassi, due manichini da panoptikum, due automi in finanziera e cilindro accompagnano per lo stesso ponte Josef K., verso la cava di Strachov al supplizio»[46].

Ma noi già sappiamo che la frase finale del Processo contiene un termine che ne decreta esso sì la chiusura, ed è innescato da quanto da ultimo si coglie sulle labbra di Josef K.:“Wie ein Hund”, sagte er, es war, als sollte die Scham ihn überleben. Il motivo della vergogna sopra ogni altro risuona a lungo nell’animo del lettore smarrito e lascia il campo a interrogazioni, che non investono solo il senso del romanzo, ma si estendono fino ad includere il senso dello scriverlo da parte del suo autore.

Sintomaticamente l’ombra della vergogna ricorre anche a proposito del memoriale che Josef K. progettava a sua difesa[47]. C’è motivo di ritenere che il progetto mai condotto in porto dal protagonista avesse un seguito poi e, sia pur in una luce diversa, nella scrittura del romanzo da parte del suo autore, e nella sua incompiutezza.

Nella parabola l’uomo di campagna tenta disperatamente di difendersi, cerca di individuare gli ostacoli che di volta in volta si oppongono alla sua salvezza; vede in ognuno di essi, simbolizzati dal guardiano della Legge, il nemico da affrontare. Alla fine scopre (e lo si evince dalla conclusione della parabola, dal dialogo che ne segue, e anche dalle parole conclusive del romanzo) che era tutt’altro in gioco: qualcosa che sembrava piuttosto stare dentro lui stesso, nel suo modo di vivere la propria vicenda. E su questo si doveva innanzitutto agire. In un passo famoso dei Quaderni in ottavo[48] Kafka ripone il compito di rispondere al negativo dei suoi tempi non nel combatterlo, ma nel rappresentarlo (ed è vertreten nell’originale, non vorstellen) scrivendo.

Un rappresentare che è testimoniare qualcosa che altri non sanno, o non hanno potuto, vedere; ma ci si annida una pur paradossale speranza, di cui la felicità della riuscita artistica è segno. In questa luce si può considerare la stessa vergogna finale[49].

Alla violenza inaudita esercitata dal potere e dai suoi complici, assecondati dalla vasta zona grigia dei conniventi – che di fatto portano acqua al mulino dei carnefici (giustificando magari la loro violenza come una inevitabile costrizione storica, o del sacro, o come violenza motivatamente imposta dalla circostanze) – fa da controcanto (e questo è decisivo per Kafka e per noi che in lui ci riconosciamo) chi non subisce passivamente, ma risponde, sente il dovere morale di testimoniare, ricorrendo a mezzi espressivi inediti, che sa predisporre.

Il problema della testimonianza è certo complesso; per un primo bilancio di esso posso qui solo richiamare un recente numero della “Rivista di estetica”[50]; e in esso in particolare (per intima adesione), la bellissima intervista concessa da Aharon Appelfeld a Daniela Padoan. Una testimonianza non è un documento storico in piena regola, ma alla ricostruzione storica (pure imprescindibile, com’è ovvio) offre materiali irrinunciabili; ne è un necessario complemento, che non può venir sottovalutato né tanto meno cancellato. Scrive significativamente Appelfeld:

 

Ogni parola che non sia concreta è per me un pericolo; ogni speculazione, quando si parla dell’essere umano, è un pericolo. I tedeschi sono molto bravi nel linguaggio astratto. Eichmann era solito citare Kant; il suo linguaggio era astratto, così come lo è stata la sua testimonianza. Ingaggiare una battaglia per giungere a una lingua non astratta è una questione etica[51].

 

Giuliana Tedeschi raccomanda di leggere prima «le testimonianze, poi gli storici. Prima è necessaria una fase conoscitiva, e poi una fase meditativa. La storia e la testimonianza sono due aspetti diversi che vanno integrati, ma certo non si può prescindere dai testimoni»[52]. Efficacemente sintetizza Daniela Padoan:

 

Nei discorsi delle discipline umanistiche, intransigenza, oggettività e distacco sono le virtù della ragione. Che questo si traduca in cecità, quando non in crudeltà, è qualcosa che va messo tra parentesi di fronte alla grandezza della costruzione teorica[53].

 

È proprio questo rischio mortale che deve essere contrastato, se si vuol un’immagine, veritiera in senso pieno, accettabile, della Shoah.

Accanto alle cose denunciate, ovviamente, un ruolo decisivo svolgono i modi, le forme (e anche questa è una ben ardua questione) in cui il testimoniare si esprime[54]. Di cui una, volendo esemplificare, è quella di Paul Celan[55]; ma anche è da tener presente Un viaggio di Hans Günther Adler, un tentativo che «non serve a dire esplicitamente, ma a rappresentare», appunto; e per questa via a testimoniare[56]. Il “tono spezzato” di cui il testimoniare si avvale è indubbiamente preannunciato dallo stesso stile di Kafka.

Della Shoah egli seppe cogliere i segni premonitori; delle “situazioni estreme” presenti nel “negativo dei suoi tempi”, e del negativo che erode dunque anche l’esperienza della città, fu un sismografo sensibilissimo. La sua testimonianza riflette il negativo nello specchio di una storia personale, certo; nei cui orizzonti aperti tuttavia confluiscono – per tacere dell’incomprensibile assurda speranza che pur sostiene lo scrivere – la memoria di un passato per nulla rassicurante e i presagi di un futuro atroce


[1]  G. Scaramuzza (a cura di), Walter Benjamin lettore di Kafka, Unicopli, Milano 1994, p. 53.

[2]  A.M. Ripellino, Praga magica, Einaudi, Torino 1973, p. 48. In questo affascinante libro, che terremo presente, il nome di Kafka ricorre spesso.

[3]  Ivi, pp. 46-47.

[4]  Ivi, p. 41.

[5]  Ivi, p. 40. Lo stesso «Rossmann rivela con nostalgia di esser nato nella città vltavina».

[6]  Ivi, pp. 46 e soprattutto 61.

[7]  Ivi, p. 114.

[8]  Ivi, p. 149. E qualcosa certo qui richiama i ghetti.

[9]  F. Kafka, Confessioni e diari, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1972, p. 1086: «Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Ora passeggiamo per le ampie vie della città ricostruita, ma i nostri passi e gli sguardi sono incerti. Dentro tremiamo ancora come nelle vecchie strade della miseria. Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento effettuato. Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati».

[10]  G. Scaramuzza (a cura di), Walter Benjamin…, p. 53.

[11]  Ivi, pp. 53-54.

[12]  Ivi, p. 61.

[13]  Hasek non meno di Kafka presenta «una sfuggente burocrazia disumana, che sotterra gli inermi sotto fastelli di pratiche e pentateuchi di leggi, impigliandoli in cavilli procedurali, affibbiando le colpe a casaccio». Un “caos amministrativo” analogo, frutto di “freddi e letargici funzionari”, si trova anche nel Castello: «la congerie di pratiche e di formulari e di carte legate come fascine che ingombra la casa del sindaco, le cataste di pacchi di documenti che gli inservienti, portandoli su carrettini, distribuiscono porta per porta ai segretari» (A.M. Ripellino, Praga magica, pp. 312-313).

[14]  Cit. da Ripellino, pp. 61-62.

[15]  A.M. Ripellino, Praga magica, pp. 46-48, 61-63 per tutto quanto citato sopra.

[16]  F. Kafka, Il Processo, trad. it. di P. Levi, Einaudi, Torino 1983, p. 107.

Da questa edizione sono tratte le nostre citazioni dal romanzo.

[17]  A.M. Ripellino, Praga magica, p. 60.

[18]  Ivi, pp. 42-44.

[19]  Ivi, p. 61.

[20]  Ivi, pp. 46 e 63.

[21]  F. Kafka, Il Processo, p. 201.

[22]  Rinvio per questo al mio Il Processo e la colpa, in “Persona e danno”, 2011, all’indirizzo on line http://www.personaedanno.it/CMS/Data/articoli/020789.aspx?abstract=true.

[23]  A.M. Ripellino, Praga magica, pp. 210-211, per quanto da ultimo citato.

[24]  Ivi, pp. 46-47, per i brani ripresi sopra da ultimo.

[25]  Ivi, Praga magica, p. 215. Per una discussione intorno a essa, cfr. H. Binder, “Vor dem Gesetz”. Einfürung in Kafkas Welt, Stuttgart-Weimar, J. B. Metzler, 1993.

[26]  Si tratta de Il Processo (1962), con Anthony Perkins, Jeanne Moreau, Orson Welles, Elsa Martinelli, Suzanne Flon, Romy Schneider, Madeleine Robinson, Arnoldo Foà; girato non a Praga ma in Jugoslavia e a Parigi (la Gare d’Orsay in disarmo), ambientato ai nostri giorni: «sulla civiltà delle macchine, sull’uomo-massa, e sulla crisi d’identità, risolvendo la vicenda con una esplosione atomica», come sintetizza Morandini nel suo Dizionario dei film 1999, Zanichelli, Bologna 1998, p. 1027.

[27]  La voce fuori campo, nella versione italiana, è quella di Arnoldo Foà, con l’Adagio di Albinoni sullo sfondo.

[28]  Vor dem Gesetz apparve sulla “Selbstwehr. Unabhängige jüdische Wochenschrift” (9, n. 34) del 7 settembre del 1915.

[29]  B. Schulz, Le botteghe color cannella, Einaudi, Torino 2008, p. 441.

[30]  G. Steiner, Una nota sul Processo di Kafka, “Nessuna passione spenta. Saggi 1978-1996”, trad. it. di C. Béguin, Garzanti, Milano 1997, p. 165.

[31]  G. Scaramuzza (a cura di), Walter Benjamin…, p. 8.

[32]  Questo vuol dire che gode di una relativa autonomia rispetto al contesto del romanzo, cui resta tuttavia funzionale. Possiamo ritenere che abbia un senso a sé, più ampio del senso che assume nel Processo: un senso cioè che coinvolge l’intero universo kafkiano, e forse qualcosa di noi che leggiamo. Esso resta una sorta di estrema sintesi del romanzo (che con esso inizi il film è sintomatico, perché ne propone a mo’ di prologo la paradigmaticità in ordine al romanzo), ma insieme esprime un motivo tra i più decisivi dell’intero mondo kafkiano

[33]  Per un panorama generale cfr. E. Pocar (a cura di) Introduzione a Kafka. Antologia di saggi critici, Il Saggiatore, Milano 1974; A. Flores (ed.) The Kafka Problem, Gordian Press, New York 1975; E. Gini (a cura di) Franz Kafka. Antologia critica, Led, Milano 1993.

[34]  Mi permetto qui di rinviare al mio Malattia della tradizione e tramonto del narrare, in “Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella”, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 263-274.

[35]  E Kafka scrive: «Praga. Le religioni si perdono come gli uomini» (Confessioni e diari, cit., p. 760).

[36]  E. Wiesel, La notte, prefazione di F. Mauriac, trad. di D. Vogelmann, Giuntina, Firenze 1980, pp. 66-67.

[37]  E. Canetti, L’atro processo, trad. di A. Ceresa, Longanesi, Milano 1973.

[38]  Cfr. O. Welles-P. Bogdanovich, Io, Orson Welles, a cura di J. Rosenbaum, prefazione di P. Mereghetti, Baldini & Castoldi, Milano 1996, pp. 280-295. Sui rapporti tra Welles e Kafka cfr. A. Costa, Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, Utet, Torino 1993, pp. 161-172.

[39]  Che Kafka ben conosceva: cfr. Lettere, a cura di F. Masini, Mondadori, Milano 1988, p. 442.

[40]  I cui Atti sono editi in Aa.Vv., Franz Kafka da Praga 1963, prefazione e trad. di S. Vertone, De Donato, Bari 1966.

[41] Cfr. M. Buber-Neumann, Milena, l’amica di Kafka, trad. di C. Zaccaroni, Adelphi, Milano 1986.

[42]  F. Kafka, Il Processo, p. 8.

[43]  È anche il mio caso, tra molti, se posso aggiungere; e di nuovo mi permetto di ricordare qui il mio L’inenarrabile e la testimonianza, in “Rappresentare la Shoah”, a cura di A. Costazza, Cisalpino, Milano 2005, pp. 69-84.

[44]  A.M. Ripellino, Praga magica, p. 47.

[45]  H. Binder, Kafka Kommentar zu den Romanen, Rezensionen, Aphorismen und zum Brief an den Vater, München, Winkler, 1976, pp. 239-240. Un’articolata conferma ci è offerta da G. Massino, Kafka a Milano, in “Cultura tedesca”, 23/2003, pp. 77-92.

[46]  A.M. Ripellino, Praga magica, pp. 5, 47, e 313-314.

[47]  F. Kafka, Il Processo, pp. 123-124.

[48]  Ho cercato di riprenderlo e commentato nel mio Franz Kafka: la speranza e l’oblio, “Millenarismi nella cultura contemporanea”, a cura di E.I. Rambaldi, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 117-132.

[49]  Su questi temi rinvio al mio Situazioni estreme ne Il processo di Kafka, in “Paideutika”, n. 12 Nuova Serie, dedicato a Forme di confine, anno VI 2010, pp. 23-37.

[50]<  “Rivista di estetica”, n. 45/2010, a cura di D. Padoan, dedicato appunto a “il paradosso del testimone”.

[51]  Ivi, p. 28.

[52]  Testimonianza raccolta in D. Padoan, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, presentazione di F. Colombo e la postfazione di D. Padoan, Bompiani, Milano 2004, p. 174.

[53]  Così nella sua introduzione alla “Rivista di estetica”, cit., p. 17.

[54]  Daniela Padoan richiama a questo proposito Imre Kertész: «nel tono spezzato che da decenni domina l’arte moderna in Europa, è implicita la rottura portata dall’Olocausto; non può anzi esistere “alcuna arte vera e autentica in cui non si percepisca questa rottura; per così dire, come se uno, rotto e irresoluto, si guardasse intorno nel mondo dopo una notte di incubi» (ivi, p. 30).

[55]  Cfr. ora, di P. Gnani, Scrivere poesie dopo Auschwitz. Paul Celan e Theodor W. Adorno, prefazione di P. Stefani, Firenze, Giuntina, 2010. Mi permetto di rinviare anche al mio Kafka e Celan negli scritti di George Steiner, in La parola in udienza. Paul Celan e George Steiner, a cura di S. Raimondi e G. Scaramuzza, Cuem, Milano 2008, pp. 199-230. Sul tema della testimonianza cfr. anche E. Wiesel, Tutti i fiumi vanno al mare, trad. di V. Accame e L. Prato Caruso, Bompiani, Milano 2002, passim.

[56]  H. G. Adler, Un viaggio, con una lettera di E. Canetti, trad. di M. Pugliano e J. Rader, Fazi, Roma 2010, p. 16; e cfr. la Postfazione di M. Pugliano alle pp. 379-383.



Scarica il numero della rivista in versione stampabile

Temi di Critica - numero 4

Scarica il documento PDF/OCR





Avviso! Gli utilizzatori di Safari, Opera, Firefox, Camino su piattaforma MacOS o Linux che non visualizzano correttamente il file pdf possono scaricare il plugin qui.
Gli utilizzatori di Google Chrome che non visualizzano correttamente lo zoom possono impostarlo in automatico digitando nella barra degli indirizzi "about:plugins" e abilitare la voce "Adobe Reader 9 - Versione: 9.4.1.222 Adobe PDF Plug-In For Firefox and Netscape '9.4.1'"

Licenza Creative Commons
"teCLa" - Temi di Critica e Letteratura Artistica by http://www.unipa.it/tecla/ is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License