teCLa :: Rivista #5

in questo numero contributi di Carmelo Bajamonte, Eleonora Charans, Francesca Gallo, Giuseppe Giugno, Michela Ruggeri, Vincenzo Scuderi.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

…Has arte povera ever existed? sulla costruzione problematica di un movimento artistico di Eleonora Charans

Nella primavera del 2008 viene pubblicato un numero speciale della rivista “October”, edito da Claire Gilman[1], dal titolo Postwar Italian Art che presenta una panoramica di riflessioni da parte di studiosi ed esperti internazionali di arte italiana del Dopoguerra: dall’opera di Alberto Burri e Lucio Fontana all’arte povera, esaminando in particolare la produzione di Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Marisa Merz e Michelangelo Pistoletto[2]. A nessun italiano viene richiesto un contributo e questo per spezzare forse il sistema delle solite penne, quella tirannia di pensiero che sembra perdurare in Italia, che Gilman poteva finalmente bipassare – per assecondarne un’altra forse persino più potente, diranno alcuni – dettato dalle Università della East Coast (Columbia, Harvard e Princeton). La pubblicazione risulta capace di innescare un vortice di interesse e di parziale restyling volto a sottolinearne i collegamenti con il contesto storico di diffusa contestazione e i riferimenti multidisciplinari al mondo culturale italiano. Il numero speciale viene seguito da due mostre monografiche: nel 2010 Michelangelo Pistoletto. Da uno a molti 1956-2011, curata da Carlos Basualdo e co-prodotto dal Philadelphia Museum of Art e dal MAXXI[3], e nel 2012 Alighiero Boetti. Game Plan, curata da Mark Godfrey, esito di una collaborazione tra Museum of Modern Art di New York, il Reina Sofia di Madrid e la Tate Modern di Londra. L’esposizione di Boetti rappresenta per l’istituzione inglese «la prima retrospettiva dedicata ad un artista dell’arte povera», come si legge all’interno del comunicato stampa, sebbene l’artista stesso abbia preso le distanze dal movimento già a partire dal 1968, ovvero in seguito alla sua partecipazione alla mostra amalfitana RA3 Arte Povera + Azioni Povere[4].

In mezzo a queste due mostre trova posto un complesso progetto espositivo, accompagnato da due pubblicazioni, a cura del medesimo critico-ideatore del movimento Germano Celant, che ha visto coinvolti da nord a sud i principali musei d’arte contemporanea italiani[5]. In Italia nulla di nuovo sotto il sole, tutto immutato come da quell’ormai lontano 1967: lo stesso critico, all’incirca gli stessi artisti ad essere presentati; del resto si dirà che l’arte povera è un movimento storicizzato, ma raramente si storicizza il critico insieme al movimento, ritenendolo quasi come un fattore insostituibile, come si trattasse di un creatore tra i creatori. Sulla scorta di questi eventi – editoriali e curatoriali – ritengo fondamentale riproporre la medesima basilare questione, esplicitata attraverso il quesito del titolo di questo intervento, ma già sollevata da Alanna Heiss nel 1985, in occasione della mostra del movimento organizzata – ancora una volta da Celant – presso il P.S.1 di New York.

Nell’introduzione al catalogo, la storica direttrice sostiene che sarebbe un errore considerare i dodici artisti facenti capo al movimento, come un gruppo dedicato a promuovere il messaggio dell’arte povera. In effetti lo scetticismo di Heiss si lega all’annoso problema di classificare gli artisti all’interno di un movimento, paragonabile alle stesse inadeguatezze tematiche che riguardano la Pop Art o il Minimalismo[6].

Certamente le etichette, pur nascendo spesso con una valenza dispregiativa, posseggono il dono della semplificazione manualistica avvicinando in questo modo il pubblico a questioni altrimenti difficili da afferrare. Ma sono anche destinate, per la loro ineluttabile genericità, a alimentare il dibattito storico-artistico. L’arte povera non costituisce un’eccezione in tal senso. Una volta ammessa la positività della risposta alla domanda di partenza, ovvero se l’arte povera sia mai esistita, essa ne genererebbe almeno altre due: quando e dove? La complessa ed itinerante geografia di questo movimento, all’interno della quale un ruolo fondamentale è giocato dalla città di Torino, venne proposta da Celant già nel 1976[7]: in quel caso ne forniva anche riferimenti ad una panoramica internazionale, ridiscussa di recente da Lara Conte[8].

Per cercare di rispondere ai quesiti sull’effettiva esistenza del movimento, in termini di assonanze formali e di principi condivisi, cercherò di partire dalle opere d’arte stesse considerandole come il primo documento, come dati portatori di un’evidenza non soltanto formale ma capace di dare conto di un network di relazioni e scambi alla base del sistema dell’arte della cronologia di interesse; nonché dalle considerazioni degli stessi autori.

Le risposte alle domande che ci poniamo sono in qualche modo sempre parziali, anche il nostro punto di vista può contenere un margine di errore e, nel caso dei protagonisti coinvolti, anche una dose di parzialità o distorsione dei fatti – è il rischio del resto di ogni intervista, che va comunque interpretata, ricalibrata e ricontestualizzata[9]. Questo concetto assume un valore fondamentale soprattutto quando le dichiarazioni e le testimonianze dei protagonisti o degli eredi coinvolti nelle vicende, nella maggior parte dei casi ancora in vita, possono risultare contraddittorie o dettate da interessi di natura altra rispetto alla verità storica, con un rischio molto alto di inattendibilità rispetto ad una ricerca basata su di una ricostruzione archivistica, che pure presenta inevitabili lacune.

Le opere assumono perciò una valenza capace di orientare oltre ogni possibile querelle – come vedremo tutt’altro che infrequente all’interno della travagliata storia di questo movimento – e di ristabilire l’equilibrio tra immagine e interpretazione di quella immagine. In questa sede mi riferirò anche a quei momenti che definisco come contestuali cioè le mostre, in cui le opere vengono presentate al pubblico, agli altri artisti e ai collezionisti.

Farò particolare riferimento all’attività dell’ancora poco investigato  Deposito D’Arte Presente, come curioso caso di rimozione della memoria.

Questo testo si prefigge di offrire dunque una riflessione sui problemi legati alla categoria storiografica di movimento, nello specifico, dell’arte povera. Come anticipato precedentemente, vorrei iniziare questa riflessione presentando due opere cartacee, entrambe di Alighiero Boetti, poiché questo artista fu uno dei pochi a tradurre la fitta rete di relazioni tra gli artisti all’interno di schemi visuali ed estetici[10]. La prima si intitola Manifesto, realizzata nel 1967, anno come vedremo affatto insignificante. Si tratta di un vero e proprio manifesto che presenta un elenco composto da sedici cognomi di artisti che non seguono un ordine alfabetico. Rilevante ai fini del nostro discorso, il fatto che Boetti abbia associato a ciascun cognome un numero variabile da due a quattro simboli astratti di natura geometrica, il significato dei simboli non è indicato all’interno dell’opera, bensì in un atto depositato da un notaio con il vincolo di aprire il documento, svelando così il mistero che si cela dietro quei simboli, soltanto dopo un certo lasso di tempo indicato dall’artista. Il notaio non è ancora stato identificato, forse quell’atto non è stato neppure scritto o depositato. In sintesi ancora oggi non disponiamo della chiave che ci consentirebbe la decifrazione dei simboli. L’opera suggerisce però alcune considerazioni: che Boetti conoscesse o avesse dei contatti più o meno stretti con gli artisti contenuti nell’elenco, che avesse visto, fosse venuto in contatto con le opere all’interno di qualche mostra; che avesse qualcosa da dire (un pensiero, un giudizio, un apprezzamento, una stroncatura) in merito all’artista, alla sua opera o anche soltanto in merito alla sua personalità. Infine che gli artisti fossero tra loro in qualche modo collegati e che esistessero delle relazioni o addirittura un sorta di gerarchia. Il 28 maggio 2011, nel corso dell’“Alighiero e Boetti Day”, un evento non-stop di dodici ore a cura di Luca Cerizza, Massimiliano Gioni e Francesco Manacorda, viene data lettura di una lettera di Paolini indirizzata a Boetti intitolata “A.B. & C.”. Il nome di Paolini risulta essere il primo della lista contenuta nel manifesto. Vi sono alcuni punti del breve testo di Paolini che occorre riprendere e che si riferiscono proprio all’opera-manifesto.

 

Quel manifesto – scrive Paolini –, elenco muto e imparziale di una visione privata, soggettiva e inespressa, annunciava però paradossalmente una scelta di campo esplicita e rigorosa: la considerazione che se di arte si parla di artisti si tratta, e non di tutto il resto [...].

 

Paolini nel suo breve scritto afferma anche che proprio grazie a Boetti si rese conto della «cerebralità, saputezza storica e citazionismo enciclopedico» che contraddistinguevano il suo fare artistico. Paolini evidenzia un importante fattore che li accomuna: la rincorsa alla semplicità.

 

Una semplicità intesa come fragile ma sublime traguardo della complessità che occorre sempre attraversare per cogliere il bersaglio dell’opera da realizzare. Furono queste le componenti che arricchirono il nostro linguaggio: dico di proposito “arricchirono” con esplicito riferimento ai materiali abituali dei nostri colleghi artisti “poveristi” di quegli anni.

 

Paolini giudica le sue opere, come quelle di Boetti, molto lontane dal territorio dell’arte povera; in effetti se si guarda ad opere come Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967), Autoritratto (1968) oppure la scultura Elegia (1969)[11] la distanza concettuale e stilistica appare evidente. La seconda opera sulla quale vorrei soffermarmi, è stata realizzata da Boetti l’anno successivo, nel 1968, e si intitola Città di Torino. Mostra un precocissimo interesse dell’artista per le mappe che diventeranno, dopo il primo soggiorno in Afghanistan nel 1971, un motivo ricorrente che lo accompagnerà lungo il suo percorso artistico, terminato con la morte nel 1994. Nel dedalo viario urbano torinese troviamo delle indicazioni prodotte al margine della mappa, in stampatello con una biro blu, che indicano gli indirizzi in cui si trovavano gli atelier degli artisti[12]. L’artista ci consegna quindi una sorta di itinerario, una mappa per compiere un Grand Tour dell’Arte Povera,  passando in rassegna i vari luoghi all’interno dei quali venivano pensate e realizzate le opere. Occorre però notare che lo studio di almeno tre degli artisti presenti in questo manifesto, ovvero Jannis Kounellis, Mario Schifano e Pino Pascali, non si trovavano a Torino ma a Roma.

Questa considerazione permette di questionare l’assoluta supremazia di Torino in quanto centro produttivo e capitale indiscussa dell’Arte Povera, immettendo anche Roma all’interno di questo discorso, città dove Palma Bucarelli in quegli stessi anni dirigeva la Galleria Nazionale di Arte Moderna, dimostrando un’apertura internazionale ma anche nei confronti dei giovani artisti[13]. Sempre a Roma si trovava la galleria L’Attico di Fabio Sargentini, che nel 1966 dedicò una personale a Pino Pascali e nel 1969 permise a Jannis Kounellis di realizzare la celebre installazione con dodici cavalli vivi[14].

Una galleria che, in quanto a sperimentazione, era al pari di quella di Konrad Fischer a Düsseldorf[15]. Un rimando al gallerista tedesco non risulta inappropriato dal momento che nel 1972 Fischer intraprese, nel biennio successivo, una joint venture con Gian Enzo Sperone proprio nella capitale. Nel mese di febbraio del 1973, furono organizzate due collettive che presentavano lavori di artisti internazionali quali Buren, Art & Language, Gilbert & George e Kosuth, insieme ad opere di artisti dell’arte povera: Anselmo, Boetti, Paolini e Penone, i quali ebbero anche una personale nel corso del medesimo anno.

L’importanza e la consistenza del network con il suo fulcro a Torino ma in dialogo con la capitale, come esemplificato nelle due opere di Boetti, venne veicolato anche attraverso il contributo di Celant, il quale si impegnò sia sul versante letterario – nel fissare quello che stava succedendo all’interno della produzione artistica italiana, come risposta o in dialogo con quanto accadeva nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, in particolare rispetto all’arte concettuale, al minimalismo e all’anti-form – che sul versante organizzativo, impegnandosi in prima persona nella realizzazione di diverse occasioni espositive che servivano come piattaforma di visibilità e momento di confronto per gli artisti.

Nel novembre del 1967, infatti, Celant pubblica un breve articolo incendiario dal titolo Arte Povera. Appunti per una guerriglia[16], a due mesi di distanza dalla mostra Arte Povera – Im Spazio presso la Galleria La Bertesca della sua città natale, Genova. Si tratta della prima mostra a presentare la dicitura «Arte Povera» e che riflette sulla nozione di spazio e sulla materialità, attraverso opere scultoree come pile di tubi (Boetti), cubi pressati di terra (Pascali), recipienti di acciaio riempiti di carbone (Kounellis).

Non si può negare che Celant dimostrò un formidabile fiuto e tempismo nell’inventare, prima di altri, un’etichetta per un movimento in un momento storico particolarmente ricettivo e sensibile a determinate tematiche e che desse conto della vivacità produttiva che si svolgeva proprio sotto i suoi occhi, collegando le varie personalità artistiche attorno a quell’aggettivo povero, desunto dalle contemporanee indicazioni teatrali di Jerzy Grotowski.

Come sostiene Robert Lumley, prima del 2001 in ambiente anglosassone, «Arte Povera» non era una definizione d’uso comune come è accaduto invece per altre correnti, ma in Italia l’etichetta era stata accettata senza sollevare troppe questioni, almeno all’inizio.

Si deve invece alla mostra Zero to Infinity, Arte Povera 1962-1972, organizzata congiuntamente dalla Tate Modern di Londra e dal Walker Art Center di Minneapolis[17], il merito di averne veicolato la conoscenza e la diffusione all’interno del linguaggio dell’arte contemporanea[18]; occorre ricordare però che già nel 1985 fu organizzata presso il P.S.1 una mostra.

La vivacità creativa tipica di quel decennio così eccezionale, fu sostenuta e portata avanti da un sistema molto strutturato, come avremo modo di vedere nel caso del Deposito D’Arte Presente, per nulla alieno alle dinamiche di mercato, una vera e propria struttura fatta di gallerie – la Sperone[19] e la Christian Stein[20] in modo particolare – che poterono contare su una solida base di collezionisti provenienti da famiglie aristocratiche, dall’alta borghesia imprenditoriale e da diverse categorie professionali come medici o avvocati. In un’ottica di contestazione secondo la quale bisognava disprezzare il padrone-oppressore, il manifesto di Celant tralascia volutamente quella maglia socio-economica che sosteneva il progetto culturale, poiché l’artista doveva sostituirsi alla catena di montaggio imposta dal sistema dell’arte.

Eppure erano proprio i padroni gli acquirenti privilegiati. Fin dagli esordi il movimento era quindi connaturato da una dinamica tensiva tra libertà espressiva e contenutistica e logica mercantile.

Nel celebre testo, il critico dedica un paragrafo a Michelangelo Pistoletto il quale, a suo avviso in maniera più evidente rispetto ad altri, si era posto il problema della libertà di linguaggio e di coerenza stilistica, attraverso la realizzazione, tra il 1965 ed il 1966, della serie degli Oggetti in Meno. Una serie che Pistoletto creò nel suo studio-abitazione di via Raymond 13 e che si presentava nell’aspetto come una collettiva, tanto erano dissimili tra loro le opere: un presepe poggiato su una base di cartone accartocciato, una rosa bruciata, una struttura metallica come una balconata per parlare in piedi, tavolo e sedie fatti con cornici di legno appesi al muro, un sarcofago, una lampada, una sfera di giornali pressata ecc.

Ciascuno degli Oggetti in meno rappresenta una sottrazione, un’estrazione dal mucchio delle pressoché infinite possibilità dalle quali un artista può attingere. Come ha di recente annotato Gabriele Guercio

 

gli Oggetti in Meno sono chiaramente evasivi in merito alla propria origine e destinazione. Questa incertezza, però, è curiosamente produttrice di senso. Induce a riconoscere che l’opera eccede una referenzialità autoriale come pure l’applicazione o la valorizzazione di un determinato saper-fare creativo[21].

 

Quindi l’autore riporta delle dichiarazioni di Pistoletto, il quale aveva rifiutato il suggerimento di Leo Castelli di trasferirsi negli Stati Uniti che significava far dipendere il successo della sua carriera in relazione all’adesione ad un gruppo di artisti rappresentati dal gallerista. Pistoletto rifiuta e torna in Italia dove appunto realizza questa serie, che si pone dunque in reazione a una concezione di mercato e di dominio culturale che imponeva l’affiliazione ad un clan.

 

Sulle analogie e sulle scatole chiuse

Appartenente agli Oggetti in meno è il Metrocubo d’infinito, di cui esistono diverse versioni prodotte e riutilizzate da Pistoletto a posteriori: una viene distrutta davanti al pubblico con l’ausilio di lunghi martelli e occhiali protettivi all’interno del progetto ARteATRO a Torino nel 1993, un’altra viene inserita al centro dell’installazione che prende il nome di Luogo multiconfessionale di raccoglimento e preghiera, realizzato a Marsiglia nel 2000[22]. Ultima versione in ordine di tempo si trovava inserita in un ambiente creato a Palazzo Grassi in occasione della mostra curata da Francesco Bonami Italics: Arte italiana tra tradizione e rivoluzione: 1968-2008[23].

Nell’ambiente che si intitolava The cubic meter of infinity in a mirroring cube, il visitatore entrava in una stanza le cui pareti ed il cui pavimento erano interamente rivestiti di specchi e contornati da neon. In termini strutturali, il Metrocubo d’infinito è realizzato tramite l’accostamento di sei specchi di un metro per lato, rivolti all’interno e legati con dello spago per pacchi, in modo da formare un cubo.

Il centro dell’opera è un luogo impenetrabile fisicamente e fruibile solo con il pensiero, poiché se si provasse ad aprire il cubo, allontanando così le facce degli specchi si interromperebbe immediatamente quel dialogo o meccanismo di riflessione all’infinito, che dà il titolo all’opera. Il cubo nella sua finitezza può in potenza contenere l’infinito al suo interno come concetto, accettato razionalmente, poiché alcuni angoli che sporgono dagli specchi ci permettono di verificare che si tratta di veri specchi, ma non arriviamo mai a verificare la riflessione al suo interno. Oltretutto essa è destinata ad un accesso meramente concettuale, poiché all’interno il metrocubo è buio, privo di illuminazione e noi sappiamo dalla nostra esperienza quotidiana che la riflessione non è realizzabile in assenza di luce e quindi nemmeno la riflessione ad infinitum. Infatti, se spegnessimo la luce di una stanza qualsiasi, non vedremmo più gli arredi e nemmeno la nostra faccia o sagoma riflessa nello specchio di fronte a noi; lo stesso succederebbe se avessimo due specchi, uno di fronte all’altro con uno spazio nel mezzo tra i due. Conscio della necessità della luce per la realizzazione della riflessione speculare, Pistoletto inserisce nella recente installazione di Palazzo Grassi un’illuminazione al neon. Praticamente coeva al Metrocubo è un’altra opera di Boetti che si intitola Lampada annuale (1966). Si tratta di un parallelepipedo, 76 x 37 x 37 cm, una scatola rettangolare di legno, metallo verniciato e vetro sulla sommità. Il vetro ci permette di vedere che si tratta di un dispositivo elettrico con una lampadina. In effetti, come esplicitato nel titolo, si tratta di una lampada senza interruttore, che quindi non si può accendere e si attiva una sola volta l’anno per undici secondi, regolata da un meccanismo e da leggi interne stabilite dall’artista, che l’osservatore non può vedere né controllare. Statisticamente difficile trovarsi presenti in quell’unico momento di accensione; il funzionamento prescinde e non richiede dalla presenza di un fruitore che anzi deve limitarsi, secondo quanto stabilito da Boetti, a un rapporto fiduciario con l’opera.

Di fronte a questa opera si può soltanto credere a quanto descritto nel suo titolo: che sia una lampada e che, in quanto tale, si accenderà, ma soltanto per undici secondi una volta l’anno, ogni anno senza una scadenza.

Esattamente come avviene per il Metrocubo: si deve credere alla riflessione speculare senza poterne avere un’esperienza diretta. Centrale per entrambe le opere, è l’idea. Non avviene nulla quando siamo di fronte a questi oggetti, eppure sono capaci di attirarci con la loro carica concettuale parlandoci di qualcosa che potrebbe avvenire in potenza, ma anche di qualcosa che è stato isolato dall’autore dell’opera, sia esso nel tempo o nello spazio, ma che avviene a prescindere da noi e dal tempo della nostra fruizione.

Allo stato non vi è notizia di documenti a sostegno dell’influenza degli Oggetti in meno sulle prime sculture di Boetti realizzate dal 1966 al 1968, per quanto il paragone ed una relazione sia stilisticamente sostenibile e cronologicamente plausibile.

Se guardiamo alla documentazione fotografica della prima personale di Boetti alla Galleria Christian Stein nel 1967, la vicinanza formale con le foto dello studio di Pistoletto occupato dagli Oggetti in meno impressiona. Anche se guardiamo la foto dell’allestimento presentato dall’artista nel 1968 in occasione della mostra di Amalfi ritroviamo la stessa logica di accumulazione: sopra un telone bianco, che aveva la funzione di delimitare il perimetro dell’intervento, erano infatti collocati vari oggetti quali sedie, una pianta, dei pezzi di legno, un rotolo di filo di rame di grandi dimensioni.

L’artista prese le distanze da questa installazione arrivando a paragonare alcuni momenti dell’Arte Povera a una drogheria.

La risposta di Boetti fu quella di ripartire in qualche modo da zero: con fogli quadrettati e matita, abbandonò Torino per Kabul e quindi Kabul per stabilirsi a Roma. Sulla stessa linea di distacco, Pistoletto e il suo collettivo “Lo Zoo” scrissero una lettera, il 5 dicembre 1968, indirizzata a Marcello Rumma, collezionista e editore che aveva coinvolto Celant nell’esperienza di Amalfi.

Nella lettera si legge:

 

Ecco ora il pensiero dello Zoo che ad Amalfi ha presentato L’Uomo ammaestrato: Noi non aderiamo, non facciamo parte e non accettiamo il termine arte povera benché amiamo gli amici con cui ci siamo trovati ad Amalfi[24].

 

Per tornare al fuoco di questo saggio, vi sono due domande da porre. Individuare ed evidenziare le analogie concettuali e formali tra le opere realizzate in uno stesso periodo – persino nella stessa città – dagli artisti appartenenti a uno stesso movimento – secondo la costruzione letteraria di un critico militante – può supportare la tesi del movimento stesso? È possibile, procedendo in questo modo ed allargando questo metodo comparativo arrivare ad ammettere l’evidenza e l’esistenza di una categoria superiore alla quale queste opere possono essere riferite?

 

Sui contrasti e le fratture

 

La situazione di straordinaria vitalità dell’ultima generazione di artisti, il cui lavoro, per il suo carattere di novità, ha in Torino difficoltosi riscontri sul piano della comprensione, ha sollecitato un gruppo di persone a riunirsi per dare vita ad un “Centro” che avrà la funzione di promuovere modelli di informazione attiva presso un più vasto pubblico. Tale Centro prende il nome di “Deposito D’Arte Presente” “D.D.P.” e articolerà la sua azione in manifestazioni diverse: mostre personali e di gruppo – esperienze dirette tra pubblico, artisti e critici d’arte – bollettino periodico che dovrà servire di collegamento fra l’iniziativa torinese ed altre affini nel mondo. Il Centro sta allestendo una sede propria, che sarà luogo di libero e cordiale incontro aperto a tutte le persone interessate alle espressioni più attuali dell’arte visuale. Le persone interessate che, su invito dei Soci Fondatori, aderiranno all’iniziativa, si impegnano a corrispondere per un periodo di almeno 2 anni una quota mensile di £. 10.000 sul c/c n- 6064 della Banca Mobiliare Piemontese (via Arcivescovado n. 16)[25].

 

Questa la trascrizione del volantino, che potrebbe essere definito di “reclutamento”, del Deposito D’Arte Presente, al quale fanno seguito i nomi di circa una cinquantina di Soci Fondatori.

L’idea di questo centro per l’arte contemporanea era nato nell’estate del 1967 per iniziativa di Marcello Levi, proprietario di un’azienda tessile ma la cui vera passione era collezionare arte moderna e contemporanea.

Levi frequentava la galleria di Gian Enzo Sperone dove ebbe modo di familiarizzare con il lavoro di artisti locali ma anche di artisti statunitensi – in considerazione della collaborazione con Sonnabend-Castelli e Fischer –, così decise di coinvolgere il gallerista e il critico d’arte Luigi Carluccio, il quale divenne il presidente dell’associazione.

La scelta del luogo ricadde su un’ex concessionaria di automobili di 450 metri quadrati, in via San Fermo numero 3, una via residenziale vicino Corso Fiume, al di fuori quindi del circuito di gallerie.

Il progetto era mirato a sostenere e presentare i talenti locali, offrendo spazio soprattutto ai giovani che non possedevano un proprio studio per sperimentare nuovi materiali o produrre installazioni particolarmente grandi, come nel caso di Zorio allora ventitreenne oppure Penone allora ventunenne.

Allo stesso tempo veniva offerta anche una piattaforma mondana dove entrare in contatto con collezionisti, che potevano quindi sostenerli acquistando le opere; questa considerazione non deve stupire dal momento che Sperone non era l’unico gallerista a comparire nell’elenco dei Soci Fondatori, all’interno dei quali figurava anche Christian Stein.

Del Deposito oggi esistono pochi scatti di vedute di insieme in bianco e nero. Lo spazio ci appare svuotato dalla presenza umana ma affastellato di opere, le quali sembrano gareggiare tra loro in quanto a tensione tra materialità ed una nuova forma di monumentalità non gerarchica.

Quello che non viene trasmesso dalle foto, è lo scambio, il confronto che in questo spazio si svolgeva tra gli artisti e i critici, tra autopromozione e presentazione ai collezionisti.

Altro fatto curioso da notare era che Germano Celant non fosse stato coinvolto in questo progetto di grande qualità ma caduto in qualche modo nell’oblio. Eppure al Deposito esposero tutti gli artisti individuati dal critico, con la sola esclusione di Pino Pascali che aveva fissato – come già è stato esposto – la propria base a Roma, e con l’aggiunta di Paolo Icaro e Ugo Nespolo.

Alla fine del novembre del 1968 accade un fatto che in qualche modo segnerà la fine del D.D.P. Pier Paolo Pasolini era stato invitato dal Teatro Stabile di Torino a presentare la sua nuova opera Orgia. L’artista aveva accettato ma aveva richiesto di allestire l’opera in uno spazio non tradizionale. A quel punto gli venne offerto proprio il Deposito, che per l’occasione venne svuotato e al posto delle opere furono collocate panche di legno, per sostituire le poltrone di velluto del teatro borghese che Pasolini attaccava. Sul piccolo palcoscenico con una scenografia disegnata da Mario Ceroli, trovano posto soltanto tre attori: un uomo una donna e una ragazza; si trattava di una dramma senza azioni, soltanto parola e ricordo. Gli artisti si sentirono oltraggiati e per protesta rinchiusero Pasolini in una stanza, contestandolo.

L’intromissione dall’alto del Teatro Stabile, in quanto istituzione pubblica esterna e che tra l’altro già disponeva di uno spazio, questa intromissione insieme alla disponibilità dei Soci Fondatori ad aprire lo spazio a progetti esterni al circolo di artisti, furono percepite da questi ultimi come mosse che limitavano la libertà di disporre dello spazio. Nell’aprile del 1969, cioè allo scadere del primo biennio di affitto lo spazio venne chiuso e l’associazione si sciolse. Questo progetto come del resto altri legati all’Arte Povera sul finire degli anni Sessanta, meriterebbero una più attenta ricognizione storica e critica, che ancora oggi manca, anche a causa della dispersione dei documenti in particolare del bollettino e di tutte le pubblicazioni collegate all’attività del D.D.P., o della difficoltà di capire a quale archivio riferirsi, quando gli archivi ancora non esistono, si stanno appena formando oppure sono ancora privati.

Molti studiosi si stanno interrogando sull’arbitrarietà dell’etichetta e su una sua contestualizzazione fondata anche sulla storia delle esposizioni tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Nonostante ciò il processo di musealizzazione risulta avviato e l’arte povera viene rincorsa dai principali musei del mondo, sotto forma di mostre-evento ma anche di acquisizioni.

Del resto è stato così fin dagli esordi del movimento e l’ingenuità dei discorsi celantiani della prima ora, della contestazione del sistema capitalistico, devono essere accompagnati da uno studio sulle gallerie che supportavano il movimento da un punto di vista tanto mercantile che collezionistico.

Questo solido sistema ha permesso, insieme alle mostre, la fortuna dell’etichetta, che deve molto all’impegno di Celant come project manager più che come teorico.

Finché gli studiosi non potranno consultare il suo archivio privato, le corrispondenze anche scomode, oppure ricostruire la spinosa questione dei falsi – che nel caso di Boetti ad esempio sembrano proliferare –, ma anche i registri contabili delle gallerie non sarà possibile valutare effettivamente questo fenomeno, che ad oggi appare come un romanzo, fondamentalmente cristallizzato, della durata di oltre quaranta anni.

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L’articolo non è corredato da immagini per espressa scelta dell’Autrice, che rimanda alla sitografia ufficiale degli artisti citati


[1]          La studiosa americana inizia ad interessarsi al fenomeno per la sua tesi di dottorato condotta alla Columbia University. La prima pubblicazione sul movimento risale infatti al 2001. C. Gilman, Arte Povera. Selections from the Sonnabend Collection, Wallach Art Gallery - Columbia University Press, New York 2001.

[2]          C. Gilman (edited by), Postwar Italian Art. A Special Issue, in “October”, n. 124, Spring 2008, The MIT Press. In parte in risposta al tentativo di Gilman e forse il primo tentativo di problematizzare l’arte italiana dal 1960 in avanti, viene pubblicato a cura di Gabriele Guercio e Anna Mattirolo un testo che riunisce voci tanto italiane quanto internazionali. Cfr. Il confine evanescente. Arte Italiana 1960-2010, Electa, Milano 2010.

[3]          Per una panoramica sulla produzione iniziale dell’artista rimando al testo E. Charans, Oltre il muro: l’aspetto partecipativo nell’opera di Michelangelo Pistoletto, in “Ricerche di S/Confine”, Vol. II, n. 1, 2011, pp. 89-104.

[4]          La mostra di Amalfi, che tra l’altro presentava un catalogo pubblicato a posteriori l’anno successivo a Salerno da Marcello Rumma – gallerista, collezionista e promotore dell’iniziativa giunta alla sua terza edizione con una prima a cura di Renato Barilli – era stata preceduta da una strategia espositiva attuata da Celant e basata su una serie di mostre collettive in gallerie private: Arte Povera - Im Spazio (settembre-ottobre 1967) presso la galleria La Bertesca di Genova – la prima ad impiegare la dicitura del movimento – e Arte Povera (febbraio-marzo 1968) presso la Galleria de’ Foscherari di Bologna, entrambe accompagnate da catalogo edito dalle gallerie.

[5]          Per le specifiche del fitto programma rimando al sito http://www.artepovera2011.org/ e alle due pubblicazioni di accompagnamento: G. Celant, Arte Povera 2011, Electa, Milano 2011 e G. Celant, Arte povera. Storia e Storie, Electa, Milano 2011. Quest’ultimo volume raccoglie e ripubblica tutti gli scritti di Celant apparsi su riviste o cataloghi e costituisce un aggiornamento rispetto al similare volume G. Celant, Arte Povera, storie e protagonisti, Electa, Milano 1985.

[6]          The Knot Arte Povera at P.S.1, a cura di G. Celant, (New York, 6 ottobre-15 dicembre 1985), Umberto Allemandi, Torino 1985.

[7]          G. Celant, Precronistoria 1966-1969: minimal art, pittura sistemica, arte povera, land art, conceptual art, body art, arte ambientale e nuovi media, Centro Di, Firenze 1976.

[8]          L. Conte, Materia, corpo, azione 1966-1970, Electa, Milano 2010.

[9]          Sull’argomento si vedano i vari contributi contenuti in Costruire il dispositivo storico. Tra fonti e documenti, a cura di J. Gudelj, P. Nicolin, Bruno Mondadori, Milano 2006.

[10]         La prima personale di Boetti venne organizzata presso la galleria Christian Stein di Torino nel gennaio del 1967 a cui seguì, nel dicembre dello stesso anno, quella organizzata presso la Galleria La Bertesca di Genova; quest’ultima era accompagnata da un catalogo con testi di Celant, Henry Marin e Tommaso Trini: Alighiero Boetti (Genova, dicembre 1967), Edizioni Masnata/Trentalance, Genova 1967.

[11]         Consultabili sul sito dell’artista http://www.fondazionepaolini.it/opere.php; per qualsiasi approfondimento sull’opera dell’artista, si rimanda a M. Disch, Giulio Paolini. Catalogo ragionato 1960-1999, Skira, Milano 2008.

[12]         Gli atelier erano rispettivamente quelli di Merz, Piacentino, Zorio, Anselmo, Pistoletto e Paolini.

[13]         Sulla gestione Bucarelli si veda M. Margozzi, Palma Bucarelli: il museo come avanguardia, catalogo della mostra (Roma, 26 giugno-1 novembre 2009), Electa, Milano 2009.

[14]         F. Sargentini, R. Lambarelli, L. Masina, L’Attico 1957-1987. Trenta anni di pittura, scultura, musica, danza, performance, video, catalogo della mostra (Spoleto, 1 luglio-30 agosto 1987), Mondadori-De Luca, Milano-Roma 1987.

[15]         Una disamina dell’attività di Fischer permette di spiegare la fortuna collezionistica di Mario Merz, ad esempio, in ambiente tedesco e più in generale nel Nord Europa. A riguardo si veda S. Richard, Unconcealed. The International Network of Conceptual Artists 1967-77. Dealers, Exhibitions and Public Collection, Ridinghouse, Londra 2009. Sull’attività della galleria di Fischer si rimanda invece alla pubblicazione che contiene le documentazione fotografica degli allestimenti, spesso site-specific: Ausstellungen bei Konrad Fischer: Düsseldorf Oktober 1967 – Oktober 1992, Edition Marzona, Bielefeld 1993; oppure al recente catalogo AA.VV., With a probability of Being Seen: Dorothee and Konrad Fischer. Archives of an Attitude, catalogo della mostra (Barcellona, 15 maggio-12 ottobre 2010), Museum d’Art Contemporani de Barcelona 2010.

[16]         G. Celant, Arte Povera. Appunti per una guerriglia, in “Flash Art”, n. 5, novembre-dicembre 1967, p. 3.

[17]         R. Flood, F. Morris, Zero to infinity: arte povera 1962-1972, Walker Art Center – Tate Modern, 2001.

[18]         R. Lumley, Arte Povera a Torino: l’intrigante caso del Deposito d’Arte Presente, in Marcello Levi: ritratto di un collezionista dal Futurismo all’arte povera, catalogo della mostra (Londra, 14 settembre-18 dicembre 2005), Hopefulmonster, Torino 2005.

[19]         Si rimanda alla storia della galleria contenuta in Gian Enzo Sperone: Torino, Roma, New York. 35 anni di mostre tra Europa e America, Hopefulmonster, Torino 2000.

[20]         B. Della Casa, Collezione Christian Stein. Una storia d’arte italiana, catalogo della mostra (Lugano 12 marzo-15 maggio 2011), Electa, Milano 2010.

[21]         G. Guercio, L’opera d’arte e il divenire generico del creativo. Cinque momenti “italiani”?, in Il confine evanescente. Arte italiana 1960-2010, Electa, Milano 2010, p. 348.

[22]         M. Farano, M.C. Mundici, M.T. Roberto, Michelangelo Pistoletto. Il varco dello specchio. Azioni e collaborazioni 1967-2004, Edizioni Fondazione Torino Musei, Torino 2005.

[23]         Questa mostra, la prima e forse la più riuscita nel ripensare a partire dalle opere d’arte gli ultimi quaranta anni di storia italiana, fu capace di attirarsi critiche ancora prima dell’inaugurazione, probabilmente poiché proponeva un vero rimescolamento secondo una logica tematica e non più sottomettendosi alla logica del movimento F. Bonami, Italics: Arte italiana fra tradizione e innovazione 1968-2008, catalogo della mostra (Venezia, 27 settembre 2008-22 marzo 2009), Electa, Milano 2008. Jannis Kounellis ritirò una sua opera dalla mostra (Scarpette d’oro, 1971). Come dichiarava Bonami in un articolo «Tutta questa confusione dimostra una cosa: c’è una lobby di potere che mette l’energia solo per bloccare. [...] se non appartieni alla “Famiglia” di Bonito Oliva o di Celant, non puoi e non devi fare niente». In G. Colin, Bonami: «Meglio io di certi artisti». Il curatore di Italics: se non stai con Bonito Oliva o Celant hai chiuso, in “Corriere della Sera”, 19 settembre 2008, p. 54.

[24]         In Michelangelo Pistoletto. Azioni materiali, catalogo della mostra (Innsbruck, 11 agosto – 10 ottobre 1999), König, Colonia 1999, p. 66.

[25]         R. Lumley, Arte Povera a Torino…, p. 22.



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Temi di Critica - numero 5

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