teCLa :: Rivista #5

in questo numero contributi di Carmelo Bajamonte, Eleonora Charans, Francesca Gallo, Giuseppe Giugno, Michela Ruggeri, Vincenzo Scuderi.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

“Qui arte contemporanea”: il presente nel solco della modernità di Francesca Gallo

 

«I redattori vogliono ribadire la loro completa disponibilità di fronte a coloro che operano creativamente, seguendo in ciò lo spirito di una rivista fondata nel 1966 da un gruppo di pittori e scultori»[1]. Con questa dichiarazione si apre l’inchiesta lanciata da “Qui arte contemporanea”, in quello che sarà l’ultimo numero di uno dei periodici più longevi, tra quelli promossi dalle gallerie private romane. Pur con inevitabili distinguo, infatti, le altre iniziative capitoline si collocano sotto il segno del transitorio[2]: da “Appia antica”, animata da Emilio Villa, a “Senzamargine”, dai bollettini della Salita o della Tartaruga, al “Notiziario della Medusa” a “Rondanini”[3]. L’informazione è il naturale polo di attrazione di questa costellazione editoriale, non solo per dare visibilità alle mostre e agli artisti, sostituendosi perfino al catalogo, talvolta; ma anche perché, proprio tra gli anni Sessanta e Settanta, la critica d’arte pare indietreggiare, sotto il peso dell’inadeguatezza dei propri strumenti ermeneutici, preferendo lasciare parlare i protagonisti, attestandosi non di rado sulla cronaca, piuttosto che interpretare[4].

Nata come costola dell’attività editoriale specializzata di Editalia, “Qui arte contemporanea” precede di pochi mesi l’inaugurazione ufficiale dello spazio espositivo. La rivista, diretta da Lidio Bozzini (condirettore responsabile Mario Guidotti), esce da luglio 1966 a giugno 1977, con una media di due numeri l’anno, per un totale di diciassette fascicoli. In redazione si alternano artisti e critici: originariamente il comitato redazionale era formato da Giuseppe Capogrossi, Ettore Colla, Lucio Fontana, Leoncillo Leonardi, Seymour Lipton, Victor Pasmore e Piero Sadun, affiancati da Giovanni Carandente e Marisa Volpi, fra tutti la più impegnata nell’attività dell’omonima galleria. Accanto a questi ultimi, negli anni, si avvicendano i critici Alberto Boatto, Aldo D’Angelo, Lorenza Trucchi e Mario Verdone. Le autorevoli firme che la animano, tuttavia, scelgono altre sedi per i contributi teorici che alimentano il dibattito critico nazionale di quegli anni, che fa da sfondo alle vicende qui tratteggiate. Le presenti note, infatti, gettano uno sguardo di insieme sul periodico, del quale sorprendono le scelte a favore di artisti e di correnti molto sperimentali, più che le singole posizioni critiche, spesso implicite, appunto, nel dare conto di determinate aree espressive piuttosto che di altre. Sotto questo riguardo, soprattutto tra il 1969 e il 1972, la rivista si interessa alle pratiche performative e alle ricerche di area poverista, in seguito estranee all’attività della galleria.

Oltre la longevità, altra caratteristica di “Qui arte contemporanea” è l’equilibrio fra documentazione del presente e interesse per l’arte dell’Ottocento e delle avanguardie: opzione da ricondurre, in sintesi, al debito dichiarato nei confronti de La tradizione del nuovo, il testo miliare di Harold Rosenberg[5], in cui si riconosce che la ricerca della novità è parte integrante della cultura, da Charles Baudelaire in poi, sostenendo pertanto una sostanziale sinonimia fra moderno e nuovo.

D’altro canto, la convivenza fra taglio storiografico e militanza – è stato scritto – è anche il tratto peculiare, di un drappello di critici vicini, in misura variabile, all’insegnamento di Giulio Carlo Argan e, quindi, a questa altezza cronologica, di area romana[6].

In tal senso, se nel primo numero di “Qui arte contemporanea” si ospita un ampio saggio su Umberto Boccioni, nel cinquantenario della morte[7], in seguito ci si occuperà della metafisica, del surrealismo e così via. Mentre di pari passo, l’omonima galleria propone la mostra documentaria Dada, cinquant’anni dopo (ottobre 1966) e la monografica su Dottori (marzo 1970); più oltre Maestri surrealisti (dicembre 1973) e il focus su Melotti (febbraio 1976). Un impegno che, negli anni Ottanta, prosegue con le mostre sul Futurismo.

All’idea del reportage si ispirano – oltre all’iniziale rubrica Pallacordasette, dedicata al dialogo con i lettori – sia la sezione sul mercato dell’arte, ora più articolato e dinamico che in passato, in cui Claudio Bruni registra l’andamento delle aste, per autori viventi e non[8]; sia la rubrica Quincontri, con rapide sintesi delle attività promosse da Editalia spesso accompagnate da fotografie a metà strada tra ufficialità e mondanità. Nel primo numero, in attesa delle sollecitazioni dei lettori, si propone un’ideale tavola rotonda fra addetti ai lavori, su temi di attualità: Lorenza Trucchi e Plinio De Martiis riflettono, da diverse prospettive, sulle trasformazioni presenti e futuribili del collezionismo di arte contemporanea; mentre Franco Russoli prova a tratteggiare le peculiarità del museo d’arte contemporanea, un apparente ossimoro[9].

Il secondo numero è sostanzialmente consacrato alla Biennale di Venezia, alla quale non vengono lesinate le critiche tanto di Cesare Vivaldi quanto di Nello Ponente, mentre più sfumate sono le reazioni ai padiglioni nazionali. Le restanti recensioni delle mostre sono raccolte nella rubrica Opere viste, che a lungo sottolineerà l’approccio diretto – giornalistico, ancora una volta – dell’autore, non di rado un corrispondente fisso, da Londra o da New York.

L’editoriale del terzo numero, del marzo 1967, precisa i confini della tradizione del nuovo, che da Baudelaire a Édouard Manet arriva, nel caso italiano, attraverso il futurismo e la metafisica, al Gruppo Origine, cui Maurizio Calvesi dà ampio spazio. Gli accenti polemici riguardano soprattutto i tentativi francesi di monopolizzare le avanguardie storiche, sotto l’egida omnicomprensiva di Scuola di Parigi, all’interno della quale, però, si stemperano le differenze fra maestri ed epigoni. Da segnalare, in questo fascicolo, il testo di K. L. McShine su Joseph Cornell, autore in posizione storicamente intermedia fra la prima ondata di emigrazione europea negli USA e la nuova generazione di artisti americani.

Dal numero successivo, del 1967, la rivista si anima parecchio, complice l’effervescenza dell’atmosfera artistica, con le nuove ricerche di area minimal, la crescita dell’happening e della performance. Si colgono, infatti, le diverse sfaccettature delle indagini sullo spazio, condotte sia in Italia sia all’estero: Marisa Volpi – che in galleria cura proprio una mostra sulla Terza dimensione con opere di Jannis Kounellis, Livi, Sergio Lombardo, Carlo Lorenzetti, Pino Pascali e Giuseppe Uncini – dà conto della rassegna Primary Structures (Jewish Museum) in cui gli artisti statunitensi, più degli europei, sembrano impegnati a “sbarrare la strada a qualsiasi interpretazione”[10]. I riferimenti di questi giovani sono diversi: da Mies van der Rohe, a Buckminster Fuller, fino a Tony Smith i cui lavori esigono una pluralità di punti di osservazione, sottolineando la continuità fra lo spazio dell’opera e quello dello spettatore. Nel medesimo numero, anche Claudio Cintoli si appassiona ai lavori di Smith, simili a cristalli – scrive – scheggiati secondo la composizione molecolare. D’altronde, basta sfogliare la rubrica Opere viste per ritrovare la sorprendente fioritura italiana di ricerche visuali e ambientali: dalle mostre Il tempo dell’immagine (Bologna), Lo spazio dell’immagine (Foligno), Nuove tecniche di immagine (San Marino), Impatto percettivo (Amalfi), al convegno della critica dedicato allo Spazio nelle arti visive[11].

 

Il fluire degli eventi

Dopo la battuta d’arresto del 1968 – dovuta non solo alla contestazione, che ha travolto la Biennale di Venezia e la Triennale di Milano, ma anche ai lutti – “Qui arte contemporanea” riprende le pubblicazioni nel marzo seguente: a Carandente, Sadun e Volpi nella redazione si affianca Lorenza Trucchi. Il rinnovamento interno porta a pubblicare il nutrito elenco dei collaboratori vecchi e nuovi, fra cui spicca la giovane generazione sia di critici, che in breve tempo distingueranno le proprie strade, sia di artisti[12].

Sviluppando alcune scelte dell’ultimo numero del 1967, adesso il periodico si sbilancia verso le ricerche più innovative, tanto che il quadriennio 1969-1972 corrisponde alla fase di maggiore vivacità. Così, ad esempio, nel primo numero del ‘69, tra i ricordi dei maestri scomparsi, Marisa Volpi sollecita tre coetanei di Pino Pascali a rendergli omaggio: Claudio Cintoli opta per la forma epistolare; Jannis Kounellis elenca le passioni dell’ami-co; ed Eliseo Mattiacci tesse l’elogio dell’estro inventivo. Ne viene fuori il ritratto sfaccettato della meteora Pascali: l’azione che arriva a sostituirsi all’oggetto; la fascinazione per la nuova arte americana; la manualità e il feeling con i materiali primari.

L’interesse per nuove forme di agire artistico, spesso svincolato dalla concretezza dell’oggetto – seguite all’epoca solo da rare e coraggiose gallerie d’avanguardia fra cui non è possibile annoverare Editalia – è testimoniato dalla cronaca dell’happening di Eliseo Mattiacci, Il tempo del vento, in occasione di Lavori in corso al Circo Massimo. A sua volta, Cintoli ne dà notizia con un testo quasi performativo, costituito dall’elenco delle azioni da compiere o da evitare, per assistere all’evento[13].

È da ricondurre all’incontro fra arti visive e teatro anche l’intervento del regista de I testimoni, andato in scena al Teatro Gobetti di Torino nel novembre 1968. Proprio in questo caso il numero sembra accogliere, senza filtri, il fluire degli eventi dato che pubblica due pagine manoscritte di Carlo Quartucci in cui parole e disegni, appunti e schizzi, sono un disordinato diario delle contaminazioni e dei prestiti letterari e visivi confluiti in uno spettacolo dirompente e nichilista. La scena era dominata dai carrelli di Kounellis, mossi dagli attori con ampio margine di libertà, metafora dell’instabilità dell’insieme, in cui nessuno sembra trovare il proprio posto.

L’idea dello spettacolo come collage o assemblage visivo, ancora valida per Cartoteca, è teatralmente superata, scrive Quartucci, poiché adesso «lo spettacolo andava visto da dentro: era un accadimento, non una rappresentazione […]. C’era un tempo teatrale quello sui carrelli, e un tempo reale quello degli attori che si muovevano fuori dei carrelli, che è appunto lo stesso tempo di chi guarda…»[14].

La contiguità fra pratiche artistiche e teatrali è ribadita dalla recensione di Giulio Paolini a Happening di Michael Kirby, appena tradotto in italiano. Si tratta della prima delle tre collaborazioni a “Qui arte contemporanea” da parte dell’artista torinese che, nell’aprile 1968, aveva partecipato alla collettiva Fabro Kounellis Paolini e del quale, all’inizio del 1970, Marisa Volpi cura la personale in galleria. La seconda collaborazione – nel numero successivo – è una rapida descrizione delle scene e dei costumi per il Bruto secondo[15], dominate dal bianco inteso come non colore, in riferimento alla natura astratta del dramma alfieriano.

Dell’ultima collaborazione a “Qui arte contemporanea” si parlerà più oltre. Gli sconfinamenti fra teatro e arti visive sono, oramai, all’ordine del giorno: per esempio, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, è inscenato dalla compagnia Cricot 2, Poule d’eau, specializzata nella pantomima e nell’improvvisazione, pratiche limitrofe e perfino coincidenti con l’happening[16]. D’altronde, nel maggio 1968 a Roma, la galleria La Tartaruga aveva dato vita a un “festival di spettacoli senza replica”, come potrebbe essere definito il Teatro delle mostre; mentre in ottobre, Arte povera + Azioni povere (Amalfi, Arsenale vecchio) suggerisce, quasi didascalicamente, la coesistenza alla pari di oggetti e di comportamenti nella poetica poverista, appena delineata da Germano Celant.

Tale chiave interpretativa si proietta perfino nella rilettura di Piero Manzoni, proposta da Tommaso Trini che, pur in assenza di inquadramento storico e di disamina critica, sottolinea la centralità dell’operazione Divorare l’arte, intesa come collaborazione fra artista e pubblico, più che come gesto neo-dada[17].

 

Parole d’artista

La rinuncia, da parte degli artisti, alle forme tradizionali della mediazione critica si fa sentire anche sulla carta stampata. Nel secondo numero del 1969, ad esempio, si pubblica il testo manoscritto con cui Cintoli accompagna Cucchiai del firmamento (1967-69). Accanto alle cronache d’arte, quindi, il marchigiano firma il racconto in cui un “Edmondo qualunque” scopre che il proprio ombelico, abbandonato il corpo, è finito in un cucchiaio da pasto. Il testo è intessuto di giochi di parole, anagrammi, nonsense, rime e ritornelli[18], degno accompagnamento a I cucchiai del firmamento che, straniati e obliterati rispetto alla funzione d’uso, sono strettamente imparentati con gli oggetti surrealisti. Riproduzione dell’opera e testo, su due pagine affrontate, si completano, prive di alcun commento o introduzione, sono autosufficienti.

Laura Grisi, in occasione della personale alla Marlborough Gallery di Roma, ad esempio, interviene per chiarire che gli oggetti presenti negli ambienti «sono i mezzi con cui metto in luce degli spazi diversi, “diversi” anche se generati da fenomeni piuttosto consueti»[19].

Il riferimento è agli ambienti dedicati agli elementi naturali come la nebbia, il vento, la pioggia, a cui l’artista lavora già da qualche anno, e nei quali l’opera è rappresentata proprio dai fenomeni atmosferici, provocati e regolati nel tempo. Controllati come esperimenti di laboratorio, ognuno di questi fattori genera spazio grazie alla dialettica con gli oggetti. È una ricerca particolarmente in sintonia con il clima internazionale, basti ricordare, durante il 1969, le operazioni di Robert Barry – sostenute da Seth Siegelaub – con i gas inerti dispersi nell’aria.

Il fascicolo ospita anche un ampio contributo di Germano Celant che, prendendo spunto da due importanti rassegne appena concluse, Op Losse Schroeven (Amsterdam) e When attitudes become form (Berna), mette a fuoco alcune contraddizioni della critica, sempre più inadeguata a rendere conto di un’arte basata sull’esperienza diretta dell’opera, spesso sinestetica ed effimera, rispetto alla quale descrizione e documentazione, per quanto estese, non potranno mai «ricostruire le condizioni psicofisiche, atte a ricreare l’apprensione diretta del lavoro»[20]. È evidente, infatti, che fotografia e testo sono poca cosa per rendere l’esperienza magmatica e frammentaria della visita a esposizioni di questo tipo. D’altronde gli strumenti tradizionali della critica d’arte si trovano a mal partito già di fronte a singole opere, come Splash Piece di Richard Serra (1968) o Scrittura simpatica (1968) di Gilberto Zorio: il resto di un’azione, la prima, opera in azione la seconda. Tuttavia una chiave ermeneutica emerge anche di fronte a tali proposte dirompenti: esse promanano dall’“artista-alchimista” nel cui lavoro corpo umano, animali, piante e minerali convivono pur con inevitabili disomogeneità morfologiche, perché «tutti questi sistemi vitali funzionano in modo simile, legati – come sono – a processi comuni di metabolismo. Per questo l’artista, insieme all’ecologo e al biologo, ha iniziato a portare l’interesse al funzionamento vitale, ha rinunciato alla descrizione e alla rappresentazione dell’aspetto esteriore della natura»[21].

Dopo un ulteriore anno di silenzio, la rivista riprende le pubblicazioni nel 1971, con l’entrata in redazione di Mario Verdone, che assicura gli approfondimenti sul cinema delle avanguardie storiche e degli anni Sessanta. Si inizia con Heartfield e Dada, affiancati dai saggi di Paolo Fossati su Max Ernst e di Marisa Volpi sul Blaue Reiter (al quale aveva appena dedicato una monografia). Il fascicolo si segnala per il lungo intervento in cui Celant ripercorre quasi ad annum la carriera di Robert Morris, mettendo in evidenza la centralità della danza, e quindi del corpo, nel rapporto con gli oggetti e con gli ambienti, e sottolineando il parallelo impegno teorico nella formulazione dell’Antiform[22]. Altra esponente di spicco di una nuova generazione di critici vicini alle tendenze più innovative è Lea Vergine, che si occupa di arte programmata. Due intellettuali militanti, la cui collaborazione a “Qui arte contemporanea” si concentra nel biennio 1969-70, momento difficile per “Marcatré”, rivista teorica alla quale collaborano con maggiore continuità[23].

 

Oltre la cronaca

Nel 1972, “Qui arte contemporanea” inaugura un taglio monografico, dedicato ad argomenti di volta in volta diversi. Si inizia con un tema di estrema attualità, come i rapporti fra Arti figurative, fotografia e cinema, nel quale confluiscono, ancora una volta, saggi di taglio storico (Marina Miraglia su Francesco Paolo Michetti fotografo, Dora Vallier sugli impressionisti e Enrico Crispolti sul futurismo) e interventi legati all’attualità come quello di Lorenza Trucchi sul fotografico nella pittura di Francis Bacon e di Daniela Palazzoli che – alla prima collaborazione con il periodico di Editalia – mette pittura e fotografia in alternativa, secondo la filosofia dell’imminente rassegna Combattimento per un’immagine. Frank Popper si occupa del movimento nell’arte, tema a cui ha dedicato un libro di ampia storicizzazione, appena tradotto in italiano; Mario Verdone si focalizza sul cinema astratto di Viking Eggeling e Alberto Boatto si concentra su Luca Patella, inventivo sperimentatore di mezzi fotografici e cinematografici, ibridati con l’intervento diretto dell’autore. Infine, di Annette Michelson si traduce il saggio su Michael Snow, apparso l’anno prima su “Artforum”[24]. È fondamentale sottolineare che l’attenzione è rivolta agli scambi fra la pittura e i nuovi media, rintracciando gli antecedenti ottocenteschi dell’introiezione dello sguardo e del prodotto fotografici, e valorizzando pratiche artistiche attuali ma liminari.

In sintonia con i rapporti fra pittura e immagine mediatica, Paolini conclude la collaborazione con il periodico romano con Una nuova confutazione del tempo: il testo – costituito da citazioni da Jorge Luis Borges e da Chaung Tzu, sulla natura ambigua della temporalità, fra soggettività e oggettività – accompagna le riproduzioni di Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967) e di L’invenzione di Ingres (1968). Nelle note introduttive, Marisa Volpi sottolinea che in Paolini la fotografia è strumento per dialogare con il passato (e con i maestri antichi, quindi), e oggettivare il tempo. Nel frattempo, l’artista ave-va partecipato in galleria a Understatement (Luciano Fabro, Maurizio Mochetti, Samuel Montealegre, Hidetoshi Nagasawa, Giulio Paolini, Antonio Trotta, gennaio 1971), curata dalla medesima Volpi, alla quale si devono buona parte degli interventi diretti degli artisti sul-le pagine della rivista.

Seconda novità introdotta da questo numero, oltre alla parte monografica, è la sezione Profilo, una sorta di inserto in quadricro-mia, dedicato ogni volta a un artista diverso: si inizia ovviamente con Sadun, e si prosegue con artisti già affermati, come Carla Accardi, Afro, Pietro Consagra, Umberto Mastroianni, Giulio Turcato, Emilio Scanavino.

La scelta di concentrare buona parte della rivista attorno a un tema, sembra rispondere all’esigenza di arginare l’eterogeneità della cronaca. Il dissidio è solo apparentemente risolto nel secondo numero del 1972, dedicato alle due rassegne internazionali: la XXXVI Biennale Internazionale d’Arte di Venezia e la quinta edizione di Documenta, a Kassel. È interessante notare come i giudizi critici raccolti siano divergenti: della rassegna veneziana, Pierre Restany censura alcuni eccessi dell’arte di comportamento, che hanno ridotto l’azione a puro volontarismo (è il caso di Gino De Dominicis, ad esempio), mentre approva le proposte di Mario Merz, Germano Olivotto e Franco Vaccari, per i quali l’azione verifica un sistema di intervento precostituito[25]. Al contrario, di Documenta 5 Germano Celant apprezza proprio le pratiche più ibride. Nella recensione, programmaticamente intitolata Iperrealismo come imperialismo, la referenzialità è equiparata al “ritorno all’ordine”. Con il sostegno di gallerie e istituzioni statunitensi, si fa largo un’arte rassicurante tanto economicamente quanto ideologicamente, latrice di un’esperienza estetica immediata e un po’ facile. Più interessante il clima che si respira nella seconda sezione, ordinata nel Museum Federicianum – continua Celant – con arte concettuale e minimal, performance e video, danza e musica, penalizzate, tuttavia, dall’allestimento caotico e affollato[26].

Più sfumato, ma sostanzialmente in linea con quest’ultimo, il giudizio di Marisa Volpi, che recensisce la medesima rassegna tedesca: il naturalismo di Edward Kienholtz, ad esempio, è interpretato come denuncia; l’indulgenza autobiografica e la messa in scena delle pulsioni più sopite – evidenti in Christian Boltanski, Marcel Broodthaers, Ben Vautier e Luca Sarmas – sono ricondotte alle avanguardie storiche che, per prime, hanno equiparato arte e vita.

Nel dare conto dell’ampia presenza di videotape e film d’artista, di cui il 1972 decreta l’ascesa anche in Italia, la storica dell’arte rimarca la somiglianza delle selezioni proposte a Kassel e a Venezia: fra tutti spiccano Eurasienstab di Joseph Beuys e Nature of our looking di Gilbert & George[27].

Chiude il fascicolo la raffinata riflessione di Filiberto Menna che, a proposito del Padiglione olandese alla Biennale di Venezia, rintraccia nell’attitudine analitica di Piet Mondrian le premesse del lavoro fotografico di Jan Dibbets[28].

 

1973: un anno di transizione

Perfino la copertina, fin qui essenziale e sobria, sovrastata dalla storica testata disegnata da Ettore Colla, su un fondo di colore differente a ogni numero, opta adesso per la riproduzione a colori di un’opera dell’artista a cui si dedica il Profilo. Ad inaugurare la nuova veste grafica – funzionale al periodico di una galleria privata, per vocazione sostenuta dal collezionismo[29] – pertanto, è Afro. Mentre a Giulio Carlo Argan è affidato il compito di ricordare Giuseppe Capogrossi, scomparso nell’ottobre 1972, fondatore della rivista e del quale lo storico dell’arte torinese aveva curato, nel 1967, il catalogo ragionato, proprio per Editalia. Anche nei contenuti si intravedono i segni del  lento virare degli interessi di “Qui arte contemporanea”, dato che il numero è incentrato sulle varianti del realismo, dal Settecento al presente, con un meditato saggio di Udo Kultermann – di cui era appena uscito New Realism – che rivaluta proprio le proposte dell’iperrealismo e del naturalismo con-temporanei, in evidente discontinuità con la linea precedentemente proposta da Celant, che per altro non prosegue oltre la collaborazione con il periodico romano.

Il secondo numero del 1973 è più vario: nel dare conto della mostra Philadelphia in New York, Marisa Volpi[30] opta per uno sguardo storicizzante che ribadisce la fecondazione europea dell’arte americana contemporanea, enucleando le opere più significative di due importanti collezioni private – Arensberg e Gallatin – donate al Museo di Philadelphia e spina dorsale della rassegna. Sono invece virati verso l’attualità, le analisi di Filiberto Menna delle Investigazioni linguistiche di Kosuth, e quelle di Gillo Dorfles sulla dimensione temporale condivisa dell’arte ambientale tanto quanto dal comportamento, negli USA, con particolare attenzione a Dan Graham. Per certi versi confluente è l’intervento di Lea Vergine, che sintetizza gli ultimi tre anni di attività di Gilbert & George, preludio al volume sulla Body Art[31].

Difatti la studiosa napoletana, nel numero successivo, si occupa del piacere regressivo, all’interno di un fascicolo consacrato alle categorie psicanalitiche applicate all’arte, con interventi che vanno dalle arti primitive a Pascali e Kounellis, sui quali fa il punto il lungo intervento di Alberto Boatto[32]. In tale cornice teorica, Vergine, più che di sublimazione, preferisce parlare di regressione, visto l’incremento di testimonianze biografiche che rifluiscono nelle opere, con punte di esibizionismo, spesso a sfondo sessuale, come è noto. Un’arte per la quale diventano adeguati sostantivi come autismo, narcisismo, «compiacimento sadico, non solo verso se stessi, ma nei riguardi dello spettatore»[33]. Modalità a cui si uniforma anche la rivista, sembrerebbe, visto il ricco apparato illustrativo.

 

Fuori dalla mischia: 1974-1977

Dal 1974, tuttavia, il rapporto proficuo con le neoavanguardie sembra interrompersi, il comitato redazionale concentra le proprie attenzioni sull’arte dell’Ottocento e del primo Novecento. D’altronde, anche l’attività editoriale ed espositiva di Editalia si sposta progressivamente su terreni più sicuri come la grafica d’autore, l’informale e le ricerche gestaltiche, allontanandosi da quella prima linea di sperimentazioni artistiche che finora aveva affiancato le mostre più tradizionali.

Simbolicamente il divorzio dall’arte nuova, o moderna nei termini di Rosenberg – sotto i cui auspici la rivista aveva mosso i primi passi – è sancito dalla presa di distanza di Volpi da Contemporanea, di cui apprezza soprattutto le sezioni dedicate alla danza e al teatro[34]. La rassegna promossa dagli Incontri Internazionali d’Arte è certo una novità nel panorama culturale italiano per contenuti e forme, e il dibattito critico è molto acceso anche tra gli addetti ai lavori[35]. La studiosa, tuttavia, pur non condividendo l’imponente “impacchettamento” di Porta Pinciana da parte di Christo, condanna gli atti vandalici di cui l’opera era stata vittima.

A conferma dell’impegno culturale dei redattori, nell’ultimo numero del 1974 aveva trovato posto l’ampio saggio in cui Enrico Crispolti contestualizza l’operato dell’artista bulgaro, in dialettica con lo spazio urbano[36].

Dal punto di vista della struttura del periodico, è da segnalare la rubrica Emeroteca, in cui Giovanna Dalla Chiesa analizza alcune riviste delle avanguardie storiche, partendo da quelle surrealiste. Poiché non è un caso isolato in quegli anni[37], è probabile che la crescente consapevolezza del ruolo culturale svolto dalla stampa periodica spinga a cercare radici e antenati illustri.

Anche se nel 1975 “Qui arte contemporanea” perde Pietro Sadun, l’anno si apre con lo speciale dedicato a Dopo il ’68 che raccoglie interventi di Pierre Restany, Renato Barilli, Maurizio Fagiolo dell’Arco, Abraham A. Moles e Verdone.

Se Barilli sottolinea l’emergere dell’estetico, come categoria più ampia e indistinta, rispetto all’artistico; Verdone propone un lungo excursus che dal cinema underground approda alla videoarte, con un taglio interpretativo in seguito prevalente negli studi italiani sul video d’artista[38].

L’ultimo numero, che porta la data del giugno 1977, sembra quasi preludere a una nuova fase, per altro non concretizzata.

Due gli elementi caratterizzanti: il testo di Simona Weller sulle donne nell’arte e le numerose interviste agli artisti.

La parte monografica del fascicolo, infatti, è dedicata a Bilanci e programmi: la parola agli artisti. Come ricordato in esordio, nell’intento di rilanciare l’osmosi fra arte e critica, si interpellano una quindicina di artisti – fra cui Carla Accardi, Nicola Carrino, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Umberto Mastroianni, Fausto Melotti, Giulio Paolini, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Giuseppe Uncini, Claudio Verna – sul proprio lavoro e sulle trasformazioni delle pratiche artistiche.

Paolini è l’unico rappresentante delle ultime tendenze, che, infatti, rivendica la natura non comunicativa della propria ricerca e il rifiuto a confrontarsi con la realtà extrartistica, coerentemente con la natura autoreferenziale che la critica gli ha attribuito in seguito.

Sebbene solo due, è importante che fra gli intervistati compaiano delle donne: la scultrice americana Beverly Pepper e la pittrice Accardi, loquace la prima, tanto quanto la seconda è elusiva.

Carla Accardi, all’epoca impegnata nel movimento femminista, nel 1971 aveva esposto da Editalia Le tre tende, in cui le trasparenze del sicofoil assumono dimensione ambientale. L’attualità del femminismo, di cui si fa interprete Marisa Volpi, introduce nel “bilancio del decennio” il tema della donna nell’arte, in un clima culturale in cui il femminismo ha un certo peso. Piuttosto che farlo in prima persona, tuttavia, la storica dell’arte preferisce affidare questo compito a Simona Weller, di cui era appena uscito Il complesso di Michelangelo. Negli ultimi anni anche le artiste italiane hanno sviluppato coscienza critica e si sono avviate sulla strada dell’autorganizzazione, grazie all’impegno di Nanda Vigo, di Romana Loda e di Lea Vergine, confortate da analoghi movimenti all’estero. Mentre, di pari passo, si sono rivalutate figure storiche come Artemisia Gentileschi o Lavinia Fontana[39].

Ancora una volta, sulle pagine di “Qui arte contemporanea”, si propone uno scambio vitale fra gli interessi dello storico e lo sguardo rivolto al presente


* Il presente studio si colloca nell’ambito dell’attività dell’Unità di ricerca della Seconda Università di Napoli, aderente al Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN) sull’Analisi critica delle riviste sulle arti nell’Ottocento e nel Novecento (coordinatore nazionale Rosanna Cioffi), al quale si devono due importanti convegni: Riviste d’arte fra Ottocento ed Età contemporanea. Forme, modelli, funzioni, atti del convegno (Torino, 3-5 ottobre 2002), a cura di G.C. Sciolla, Skira, Milano 2003; Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, atti del convegno (30 novembre-1 dicembre 2006), a cura di R. Cioffi, A. Rovetta, Vita e Pensiero, Milano 2007. Desidero ringraziare Silvia Bordini, Gaia Salvatori e Nadia Barrella, per gli scambi di opinioni e i generosi suggerimenti su questo campo di studi.

[1] “Qui arte contemporanea”, 1976, n. 17, giugno 1977, p. 13.

[2] Su tale aspetto del sistema dell’arte cfr. E. Di Raddo, Arte “privata”: l’attività delle gallerie private all’inizio degli anni Settanta, in L. Caramel (a cura di), Arte in Italia negli anni Settanta. Opera e comportamento, Edizioni Kappa, Roma 1999, pp. 173-198; G. Bianchi et al., Gallerie, mercato, collezionismo, in La pittura nel Veneto. Il Novecento, Electa, Milano 2008, t. II, pp. 537-626. In generale, sui periodici di questa stagione cfr. anche D. De Dominicis, M. De Luca, Le riviste d’arte, “La Tartaruga. Quaderni d’arte e letteratura”, n. 5-6, marzo 1989, pp. 160-169; In/forma di rivista, catalogo della mostra (Roma, 1991), Roma 1991; G. Maffei, P. Peterlini, Riviste d’arte d’avanguardia. Gli anni Sessanta/Settanta in Italia, Bonnard, Milano 2005.

[3] Cfr. F. Gualdoni, Arte a Roma 1945-1980, Politi, Milano 1988; Roma anni ’60 al di là della pittura, catalogo della mostra (Roma, 20 dicembre 1990 – 15 febbraio 1991), Roma 1990; Roma 1950-1959, catalogo della mostra (Ferrara, 12 novembre 1995 – 18 febbraio 1996) a cura di F. D’Amico, Ferrara 1995; Roma in mostra 1970 1979. Materiali per la documentazione di mostre azioni performance dibattiti, a cura di D. Lancioni, Joyce & co., Roma 1995.

[4] Cfr. A. Vettese, La critica d’arte. I luoghi di un’autoriflessione, in Arte in Italia 1960-1985, a cura di F. Alfano Miglietti, Politi, Milano 1988, pp. 23-39; M.T. Roberto, “Bit”, “Flash Art”, “Data” e la situazione artistica in Italia tra anni Sessanta e Settanta, in Riviste d’arte…, 2003, pp. 299-305; G. Contessi, “NAC” un caso italiano, in Riviste d’arte…, 2003, pp. 307-310; S. Bordini, Artisti e critici: note sul dibattito tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Arte del XX secolo. 1946-1968. La nascita dell’arte contemporanea, Skira, Milano 2007, pp. 222-233. Per certi versi in controtendenza, invece, è “Op. cit.”: cfr. G. Salvatori, Il progetto culturale di “Op. cit. Selezione della critica d’arte contemporanea” a Napoli 1960-1980, in Riviste d’arte…., 2003, pp. 283-298.

[5] H. Rosenberg, Tradition of the New, Grove Press, New York, 1961 (trad. it. Feltrinelli 1964); l’autore parteciperà al dibattito Critica e libertà, nel gennaio 1970, nella sede della galleria romana.

[6] Cfr. R. Barilli, L’estate delle mostre, “Quindici”, n. 4, settembre-ottobre 1967 (ora in Id., Informale Oggetto Comportamento, Feltrinelli, Milano 1979, Vol. II, pp. 22-30), cit. in A. Trimarco, Filiberto Menna. Arte e critica d’arte in Italia 1960-1980, La città del sole, Napoli 2008.

[7] Tema ricorrente nella stampa dell’epoca: cfr. V. Rubiu, Boccioni e la critica italiana, “Marcatré”, 1966, n. 26/27/28/29, pp. 140-142, in cui si ricordano Argan e Calvesi che, negli anni Cinquanta, fanno da apripista e la successiva monografia di Guido Ballo.

[8] Cfr. C. Bruni, Le aste in Italia, tutto da rifare, “Marcatré”, n. 11-12-13, 1965, pp. 330-331.

[9] Cfr. Tavola rotonda, “Qui arte contemporanea”, n. 1, luglio 1966, pp. 5-8.

[10] M. Volpi, Strutture primarie e minimal art, n. 4, novembre 1967, p. 30.

[11] L.M., L’estate calda dell’immagine, “Qui arte contemporanea”, n. 4, novembre 1967, pp. 40-41; la concentrazione delle manifestazioni attira l’attenzione dei critici più vigili, tra cui R. Barilli, L’estate delle mostre, cit.; e G. Veronesi, Su qualche mostra dell’estate italiana, “Op. cit.”, n. 10, 1967, pp. 53-59, cit. in G. Salvatori, “Op. Cit.”…

[12] Tra i quali, oltre ai nomi citati nel testo, G. De Marchiis, P. Portoghesi, S. Scarpitta, Ch. S. Spencer; a cui, negli anni, si aggiungeranno M. Bentivoglio, C. Brandi, G. Contessi, P. Descargues, M. Fagiolo dell’Arco, P. Fossati, M.L. Frongia, U. Kultermann, G. Lista, C. Maltese, G. Markopoulos, S. Pinto, V. Rubiu, C. Spadoni, E. Schloss, C. Strinati, A. Trimarco, E. Villa, e molti altri.

[13] C. Cintoli, Per una mostra di Eliseo Mattiacci al Circo Massimo, “Qui arte contemporanea”, n. 5, marzo 1969, p. 43, poi in “Cartabianca”, maggio 1969, pp. 30-40.

[14] Carlo Quartucci parla della regia de “I testimoni” di Rozewicz al Teatro stabile di Torino, “Qui arte contemporanea”, n. 5, marzo 1969, p. 27; Marisa Volpi, d’altronde, aveva già segnalato la radicalità dell’operazione su “Cartabianca”, 15 gennaio 1969, pp. 14-19.

[15] Cfr. G. Paolini, Note per le scene e i costumi, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 38.

[16] Cfr. “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, pp. 64-65: sebbene il testo non sia firmato, come la maggior parte delle segnalazioni della rubrica Cronaca, può essere verosimilmente attribuito alla curatrice, Simonetta Lux.

[17] Cfr. T. Trini, “La linea Manzoni”, “Qui arte contemporanea”, n. 5, marzo 1969, pp. 30-33.

[18] C. Cintoli, C’è chi…, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 40.

[19]         L. Grisi, L’aria e la certezza visiva di uno spazio, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 70.

[20]         G. Celant, L’adottarci del nostro territorio, “Qui arte contemporanea”, n. 6, settembre 1969, p. 21.

[21]         Ibidem, p. 19.

[22]         Cfr. G. Celant, Robert Morris, “Qui arte contemporanea”, n. 7, dicembre 1971, pp. 36-43: una delle prime volte in cui si fa riferimento a Information Documentation Archives, l’archivio fondato a Genova.

[23]         Celant e Vergine sono redattori di “Marcatré”, periodico a cui chi scrive sta dedicando uno studio specifico. Merita comunque di essere segnalata la presenza delle medesime firme – in questi anni – sulla maggior parte dei periodici di settore: un dato strutturale, probabilmente, che poco garantisce il pluralismo.

[24]         Cfr. “Qui arte contemporanea”, n. 8, giugno 1972, p. 42.

[25]         P. Restany, Venezia 1972 o i limiti del comportamento, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 11-12.

[26]         G. Celant, Iperrealismo come imperialismo, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 44-49.

[27]         M. Volpi, Autobiografismo, trompe l’oeil, concettualismo e violenza, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 50-57.

[28]         F. Menna, Dibbets: una rotazione di 360 gradi, “Qui arte contemporanea”, n. 9, ottobre 1972, pp. 16-20.

[29]         Sotto tale riguardo è da segnalare l’attenzione alla riproduzione fotografica, sempre ricca e di qualità, di cui fin dall’inizio si menzionano gli autori, con una sensibilità ancora rara all’epoca.

[30]         Quell’anno la studiosa presenta in galleria prima Glossario (Aricò, Battaglia, Cotani, Griffa, Morales, Verna, Bell, Hafif, Marden, Ryman, Zakanych) e poi Maestri surrealisti.

[31]         L. Vergine, Il «caso» Gilbert e George, “Qui arte contemporanea”, n. 11, giungo 1973, pp. 41-44.

[32]         Cfr. A. Boatto, L’immaginario in Pascali e Kounellis, “Qui arte contemporanea”, n. 12, novembre 1973, pp. 47-54; il critico è in procinto di curare Ghenos Eros Thanatos, alla galleria De Foscherari di Bologna.

[33]         L. Vergine, La difesa della perdita, o del “piacere regressivo”, “Qui arte contemporanea”, n. 12, novembre 1973, p. 57.

[34]         M. Volpi, Fine dell’avanguardia, “Qui arte contemporanea”, n. 15, settembre 1975, p. 41.

[35]         Cfr. A Roma, la nostra era avanguardia, catalogo della mostra (Roma, 23 gennaio – 5 aprile 2010) a cura di L.M. Barbero e F. Pola, Mondadori Electa, Milano 2010.

[36]         E. Crispolti, Appunti su Christo, “Qui arte contemporanea”, n. 13, maggio 1974, pp. 41-45.

[37]         Se ne erano avuti i primi sentori su “Marcatré”, già dal 1965, con alcune selezioni curate da D. Palazzoli, seguite, dal 1966, dall’istituzione di una specifica rubrica.

[38]         Cfr. M. Verdone, Dal cinema underground alla video-art, “Qui arte contemporanea”, n. 15, settembre 1975, pp. 21-28.

[39]         S. Weller, M. Volpi, Lettera aperta: le donne nell’arte, “Qui arte contemporanea”, n. 17, giugno 1977, pp. 50-56; tema d’attualità già comparso su “Data”: cfr. S. Bordini, La rivista come spazio espositivo: artisti e critici in “Data”, in Percorsi di critica…, 2007, pp. 501-508.



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Temi di Critica - numero 5

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