teCLa :: Rivista

in questo numero contributi di Diana Malignaggi, Roberta CinĂ , Ivan Arlotta, Roberto Lai, Raffaella Picello, Francesco Paolo Campione.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

L’ ‘apparire’ dell’opera d’arte di Simonetta La Barbera

Cinquant’anni fa, interrogandosi sulla necessità dell’arte, Ernst Fischer formulava l’ipotesi preliminare che essa sia uno strumento di completamento, una traccia per giungere a una interezza che l’uomo ben difficilmente raggiungerebbe rimanendo solo se stesso. Nell’arte dunque si realizza il singolare fenomeno di un’apparenza che diviene indispensabile, un surplus di esistenza che dà nuovi significati alle cose.
 Già a partire da Agostino fu chiaro che l’arte non può essere verità,  che anzi la sua essenza sta proprio nel falso e che senza questa menzogna essa non potrebbe aver luogo. Eppure l’arte costituisce un necessario completamento alla realtà stessa, e le offre un orizzonte infinitamente più ampio. E c’è da credere che questa linea di confine si sposti in avanti ogni giorno di più, come un universo in continua espansione.
 È un fenomeno che ha avuto origine sin dal primo segno che un uomo ha tracciato con finalità che esulassero dal semplice conto, ma che ha avuto un’accelerazione prodigiosa nell’ultimo secolo. La tecnica da un lato, e i nuovi media dall’altro hanno impresso un moto inarrestabile ai processi di trasformazione del mondo dell’arte, e all’imperativo che ogni cosa può divenire espressione artistica corrisponde un prodigioso allargamento del catalogo degli oggetti ascesi al dominio dell’arte.
Se un secolo fa uno scolabottiglie o un ferro da stiro, esautorati del loro statuto di oggetti d’uso comune e promossi al rango di pezzi da museo, potevano destare scandalo, oggi la sorpresa sta piuttosto nell’ovvio. Il cinema stesso, che cento anni fa aveva già mosso i primi passi suscitando meraviglia, riserve negli ambienti più tradizionalisti dell’arte e persino orrore, è una realtà parallela, un simulacro di cui oggi non potremmo fare a meno. Ho citato un termine caro a Pierre Klossowski, “simulacro”, poiché credo che pochi altri filosofi al pari del francese abbiano così acutamente individuato la natura del rapporto che lega l’uomo alla realtà che lo circonda: nel mondo contemporaneo l’individuo non ha più una relazione diretta con la effettività, ma con riproduzioni di una realtà assente. Tutto sembra esistere all’insegna del falso: cosa trasmette dunque l’opera d’arte? Una realtà doppiamente falsa? Oppure in questa duplice falsità sta il segno di una verità ancora più potente?
Gli articoli di questo nuovo numero di “teCLa” che ho il piacere di presentare, molto diversi nei temi e negli ambiti disciplinari entro cui si muovono, possono essere accomunati sotto il tema dell’“apparenza dell’opera d’arte”. L’ombra, un termine che attraversa indifferentemente l’arte, il cinema e la morte e che di “apparenza” è il sinonimo prossimo, è un simbolo che mi pare possa descrivere con una certa efficacia il contenuto di questi contributi.

La rivista si apre con il saggio di Diana Malignaggi dal titolo Antiporte e frontespizi incisi in Sicilia dal Barocco al Neoclassico. La studiosa, che da anni ha incentrato gran parte delle sue ricerche sulla grafica e sull’illustrazione, prende in esame una ricca campionatura di prodotti editoriali, dati alle stampe in Sicilia fra XVII e XVIII secolo, analizzandone le illustrazioni in antiporta. È questa una raffinata manifestazione d’arte che ha interessato soprattutto, nell’editoria palermitana e messinese, i libri d’apparato con precisa funzione celebrativa.
Lo studio mette a fuoco la ricca varietà di immagini poste a commento di libri di più diversi saperi – dall’agiografia alla botanica, dalla medicina all’architettura – e le tecniche artistiche impiegate nella realizzazione dei corredi iconici, con stampe sia di invenzione che di traduzione con bulini o acqueforti. Il complesso lavoro di équipe vede la partecipazione nel ‘cantiere libro’ di pittori, architetti e incisori (per il Sei - Settecento ricordo Antonino Grano, Pietro Novelli, Paolo Amato, Antonino Donia), secondo un’organizzazione del lavoro che contraddistinguerà anche alcune imprese editoriali del XIX secolo, come i monumentali in folio del Real Museo Borbonico.

L’“apparire” dell’opera d’arte, accostato al concetto di «visione» in un’accezione ancora simile a quella che informava l’Encyclopédie («L’apparition frappe ... les sens extérieurs, & suppose un objet au-dehors»), sembra emergere dalle parole di Paolo Giudice, conoscitore siciliano dell’Ottocento la cui attività critica è oggetto dell’articolo di Roberta Cinà. Di particolare interesse risulta la modalità di approccio all’opera d’arte messa a punto dal conoscitore e utilizzata sia al fine di esprimere giudizi di valore, sia nella pratica attributiva. Cinà offre, in questa sede, un completamento agli studi nei quali aveva già esaminato l’attività di corrispondente per la “Gazette des Beaux-Arts” svolta da Giudice tra il 1859 e il 1861. Sono qui esaminati, infatti, gli scritti degli anni Trenta dell’Ottocento, dei quali si sottolineano le influenze dell’empirismo inglese e dell’Illuminismo francese nella connoisseurship palermitana di quegli anni.

Segue l’articolo di Ivan Arlotta dedicato a Charlot, in cui si analizza il ruolo di icona, anche figurativa, cui assurge il personaggio di Chaplin negli anni Venti. Il contrasto tra l’aspetto dimesso e la volontà di affermazione della propria esistenza colpisce, infatti, soprattutto dell’intellighenzia surrealista,  specialmente nella contestazione dell’essenza democratica degli Stati Uniti. Numerosi sono i contributi, che Arlotta prende in considerazione, che vengono pubblicati in quegli anni sulle riviste da autori quali Soupault, Desnos, Goll (autore della Chaplinade), in cui l’analisi critica dei filmati prende in considerazione le sequenze dei film sotto l’aspetto sia visivo che simbolico.

Segue un contributo dedicato alla “settima arte”, in cui l’autore, Roberto Lai, ci conduce attraverso un lungo excursus della storia cinematografica del secolo scorso. Il tema – l’affermazione del colore nel cinema – è affrontato in un ampio raggio che inquadra alcuni momenti della storia del colore, dalla pittura al teatro popolare dell’Ottocento fino alla nascita del cinema nei molteplici esiti estetici (dal realismo all’espressionismo) che connotarono questa arte. Lai si avvale dell’analisi di numerosi passi di critica come gli scritti di Cesare Brandi, di Rudolph Arnheim o di Carlo Ludovico Ragghianti, riportando una ricca casistica di film-chiave di un determinato indirizzo estetico, alternato nell’impiego del bianco e nero o del colore, con puntuali rimandi alle tecniche artistiche impiegate nei film di Méliès, Wiene, Fleming, Ejzenŝtejn.

Grafica editoriale e recensioni – argomenti sempre fortemente in linea con le tematiche affrontate da “teCLa-Rivista” – unitamente a un’attenta analisi dell’attività pittorica di Mimì Quilici Buzzacchi, sono oggetto dell’articolo di Raffaella Picello. L’autrice, inserendosi nel recente filone di studi sul ruolo e gli apporti femminili all’arte, alla critica e alla storiografia artistica tra Otto e Novecento, analizza gli anni ferraresi dell’artista, contestualizzandone la produzione nell’ambito culturale del Ventennio e sottolineando come l’adesione della Quilici alle ideologie del tempo fosse velata da modalità delicatamente introspettive. Picello effettua dunque una puntuale analisi dell’opera di Mimì Quilici Buzzacchi anche in relazione agli eventi espositivi del tempo e al suo ruolo di artista e critico d’arte.

A un tema di stretta attualità critica, ma anche fortemente problematico per le implicazioni etiche che chiama in causa questo fenomeno “artistico”, si accosta l’articolo di Francesco Paolo Campione intitolato L’arte trapassata: Gunther von Hagens e la fine dell’esperienza estetica. L’autore gioca sin dal titolo sulla duplice ma anche contraddittoria valenza dell’aggettivo “trapassato”, che da una parte si collega all’idea della morte divenuta oggetto di fruizione estetica, dall’altro alla inattualità della proposta artistica di von Hagens. L’opera di Gunther von Hagens costituisce la deriva estrema cui è giunta l’“espressione artistica” negli ultimi anni, superato ormai il limite della liceità nella esibizione della morte come fenomeno artistico. Ma fino a che punto le esibizioni di Body Worlds, le mostre in cui l’anatomopatologo tedesco espone le proprie “creazioni”, rappresentano un fenomeno nuovo?
 L’articolo di Francesco Paolo Campione, ripercorrendo la vicenda della fruizione estetica dell’orrido a partire da Herder, propone una lettura delle plastinazioni di Gunther von Hagens e ne sanziona l’inefficacia dal punto di vista estetico.
 “teCLa” chiude dunque il 2012, oltre che con la nuova proposta dell’ipertesto – in aggiunta alla consueta versione stampabile – per la fruizione dei propri contenuti, anche all’insegna di una riflessione sullo statuto delle arti, in uno sguardo trasversale che le accomuna pur nelle specificità che ciascuna di esse esprime. Si tratti dell’analisi formale e simbolica dei frontespizi che aprono i libri siciliani tra Sei e Settecento; del contributo critico fino a ieri largamente misconosciuto di Paolo Emiliani Giudici; del cinema osservato sotto la duplice lente dei suoi valori cromatici e della malinconica declinazione da parte di Charlie Chaplin; del clima artistico ferrarese del “Ventennio” interpretato da Mimì Quilici Buzzacchi, e infine del valore estetico della morte esibito da Body Worlds, l’apparenza dell’opera d’arte è in realtà la necessità di un rispecchiamento, l’occorrenza di una estensione che prolunghi l’esperienza e che – in un vero e mirabile paradosso – impedisca che il mondo sia solo apparenza.



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Temi di Critica - numero 6

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