teCLa :: Rivista

in questo numero contributi di Diana Malignaggi, Roberta Cinà, Ivan Arlotta, Roberto Lai, Raffaella Picello, Francesco Paolo Campione.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

La faticosa affermazione del colore nel cinema di Roberto Lai

La storia dei film a colori è assai discontinua e presenta momenti rivoluzionari e di stasi, accelerazioni repentine e altrettanto repentini rallentamenti. Il colore è rimasto per lungo tempo ai margini della rappresentazione cinematografica, faticando ad imporsi come elemento attivo, per problemi tecnici (ed economici), ma anche per ragioni puramente estetiche. Il cinema, tuttavia, sin dalle sue origini l’ha considerato come un elemento attraente e assimilabile alla propria estetica: in realtà non è mai esistito un cinema completamente in bianco e nero1 (se non forse in un breve periodo degli anni ’20, come vedremo meglio in seguito); il colore e il b&n hanno esercitato l’uno sull’altro un’influenza sottile ma costante; i loro percorsi si sono intrecciati in rapporti dialettici di inclusione ed esclusione reciproca. Almeno fino alla metà degli anni ’10, quando la ricerca del colore naturale divenne un obiettivo prioritario e ossessivo di cineasti e tecnici, raramente sono percepiti come alternativi: i loro ambiti di pertinenza, le loro qualità rappresentative, non sono esclusive e quindi opposte. Il colore è considerato una semplice aggiunta al b&n, un artificio in più. La componente cromatica dalle arti al cinema «Il visibile prodotto dal cinematografo è il risultato di un fitto intreccio di pratiche spettacolari precedenti e parallele, caratterizzate da una stretta relazione fra media contigui»2. Per un’analisi più chiara degli esordi del colore al cinema, appare necessario quindi ricercare i suoi legami con le altre arti, per palesare le consonanze tecniche e visive con queste, le affinità nella costruzione dell’immagine e il lavoro sulle reazioni del fruitore.
È tutta la società dell’Ottocento che sembra investita da un’esplosione di colori; il commercio e la pubblicità se ne appropriano, cogliendo la «singolare capacità del colore e delle cose colorate: distrarre l’attenzione da un campo di esperienze per attrarla in una nuova orbita»3. Il mondo dell’occidente cresce economicamente trasformandosi sempre più in società dei consumi; più forte è l’offerta ma anche la domanda di colori. I manifesti pubblicitari iniziano a tappezzare con le loro tinte sgargianti i muri cittadini, come nei passages descritti da Benjamin4, in cui capita di addentrarsi in paesaggi totalmente artificiali, simili ad acquari, ed essere colpiti da colori che testimoniano appieno il sogno progressista del XIX secolo. Questi sembrano fungere da «comfort percettivo addizionale elargito all’immagine, ‘rivestimento’ o fodera cromatica di una visione in cui sprofondare»5.
Le tecniche riproduttive compiono passi importanti: la cromolitografia si diffonde rapidamente, consentendo la commercializzazione di beni popolari di consumo in coloratissimi supporti. Con la fotoincisione in tricromia, sul finire del secolo, i colori appaiono anche sulle copertine dei romanzi e dei fumetti, negli inserti dei quotidiani6. Il colore, che da sempre è stato connesso alla ricchezza, all’ostentazione del lusso, ha un valore «consumistico»7 che manterrà anche nel passaggio al cinema. Sarà «valore aggiunto» di un film visto come merce, prodotto che si vende più facilmente ostentandone la varietà qualitativa. Il colore così inteso al cinema richiama il concetto di novità, «la novità della vecchia modernità ottocentesca [...] è il nuovo come semprenuovo,il nuovo come semplice ‘effetto’ ricorrente prodotto dal mercato»8.
Mentre la cultura di massa sembra travolta dal colore, l’élite sembra considerarlo volgare, di cattivo gusto, distraente. Queste modalità di interazione con il colore si riproporranno anche per il suo utilizzo cinematografico. Da un lato infatti si penserà al colore come attrazione, veicolo di emozioni, dall’altro si cercherà di metterne in sordina la sua forza espressiva, di evitare l’eccesso.
L’utilizzo di tinte forti per le «vedute colorate» delle origini segnala il desiderio di proporre agli avventori del cinematografo una visione abituale, cromatismi e accostamenti già sperimentati con «le proiezioni di lanterna magica, gli spettacoli di féerie, le cromolitografie, le fotografie e le cartoline colorate e molte altre forme dell’imagerie popolare ottocentesca»9. Anche i luoghi di fruizione sono gli stessi: dai Music Hall ai piccoli teatri, a segnalare la continuità fra le forme di spettacolo.
La componente cromatica rivestiva per esempio un’importanza fondamentale per il teatro (soprattutto francese) ottocentesco, per la sua capacità di attrazione visiva e la sua azione spettacolare, definita «estetica del clou»10. Il pubblico era sempre più esigente e richiedeva trucchi sempre più sofisticati, cambi di scena repentini e vivaci, e il colore era perfetto per l’intrattenimento. Altrettanto importante era la pirotecnia, «una delle forme più prorompenti di spettacolarizzazione della luce e del colore [...] ambito sistematico e costante di applicazione del colore manuale nei generi e sottogeneri del meraviglioso»11. L’utilizzo di polveri colorate e giochi di luce ha una tradizione che arriva fino al medioevo12 e che fu applicata con sempre maggiore inventiva e sofisticazione dal teatro dell’Ottocento, in cui vari fenomeni naturali o artificiali erano rappresentati sulla scena dal fuoco, «imprescindibile esigenza spettacolare»13, e dagli altri elementi della natura attraverso scenografie sempre più grandiose. Il colore appare elemento centrale di tali spettacolari pratiche.
La prima pellicola cinematografica (ortocromatica) si mostra subito estremamente sensibile e adatta per un’applicazione diretta della tinta, dipinta a mano. È un metodo di coloritura che ha radici assai più lontane. L’editoria popolare già dalla fine del Cinquecento considera il colore un elemento fondamentale per veicolare emozioni e passioni; i colori dipinti da mani femminili, cui era lasciato un certo spazio creativo, qualificano prodotti spesso scadenti dal punto di vista culturale e grafico14. Si richiede, tuttavia, una sempre maggiore precisione esecutiva, con il riferimento puntuale ai codici miniati e alle cineserie nelle decorazioni di porcellane e ceramiche. Ad essere privilegiato qui è il disegno, mentre più attente agli accostamenti cromatici appaiono altre modalità di colorazione, dalle vedute stampate alle xilografie, fino alle stereoscopie. Il colore entra in queste opere «non come semplice ornamento, [...] ma come elemento di definizione indispensabile alla più precisa conoscenza dell’oggetto rappresentato»15. È un colore cui si lavora con estrema attenzione tramite tecniche artigianali sempre più elaborate. Le cosiddette carte turche realizzate già dalla fine del Seicento in Germania, «che istituiscono fra colore e forma un forte rapporto simbiotico»16, legano il colore all’astrazione attraverso «sorprendenti effetti di macchie, onde e patterns»17 e associano varie tinte in fantasiose e potenzialmente illimitate combinazioni. Da queste pratiche, da questa esperienza così lontana nel tempo e consolidata, arrivano tutte le artigiane del cinema.
I colori assumono un’importanza decisiva anche per le strategie espressive delle lanterne magiche, in particolare per il modo di guidare la visione, secondo varie modalità tanto produttive quanto fruitive18. Le più importanti per gli sviluppi futuri del cinema sono forse i life models: le lastrefotografiche vengono applicate alla lanterna e in genere costituiscono una rappresentazione dei problemi sociali dell’Inghilterra vittoriana, dall’alcolismo alla prostituzione. Essendo pensate per un pubblico povero e non istruito, necessitano di una comunicazione diretta ed essenziale, retorica e sentimentale. I personaggi e i temi sono pochi e studiati, le storie semplici e immediate. I colori usati, dipinti a mano ancora una volta da operaie, sono perlopiù tenui e la coloritura richiede un’estrema precisione ed abilità negli accostamenti, una sensibilità compositiva e visiva notevole. Al colore sembra attribuita «una carica simbolica destinata a colpire il destinatario con forza non inferiore rispetto alle immagini»19. A poco a poco la gamma cromatica si amplia concentrandosi soprattutto sui colori più squillanti e acuti, per «colorare» sensazioni sempre più intense, capaci di unire con un effetto sinestetico più sensi per emozioni nuove20.
Le pantomime luminose di Reynaud21 invece sono il primo esempio di disegno animato22. L’artista francese dipinge a mano una per una le immagini, con un’estrema abilità e pazienza (certi film constavano di 700 immagini...). Il movimento che le contraddistingue, la «festosa armonia di [...] accostamenti cromatici»23, rappresentano la realtà in modo assolutamente antinaturalistico, colorato e stilizzato. Le sue opere, basate perlopiù su spettacoli circensi e di clowns, mostrano ancora una volta come l’humus del cinema vada ricercato in una pluralità irrelata di pratiche artistiche, dalle lanterne magiche agli spettacoli di ombre cinesi, fino alle fiere e al circo24.
Il circo, sin dalle origini della settima arte, è visto come un referente importante in senso attivo e positivo, ma anche per caratterizzare negativamente il cinema, come si evince dalle parole del filosofo spagnolo Eugeni d’Ors: «Il circo era luce e colore e il cinematografo è grigio e oscurità. Il circo era lento, elastico, [...] il cinematografo è agitato e nervoso (restless and jittery). Il circo era come un sogno e il cinematografo è una aneddotica, quasi pedagogica lezione sulla realtà»25. Mentre il circo era un «mondo di sensazioni cromatiche vibranti», il cinema non è che una «povera copia della realtà». Anche per evitare questo effetto deprimente sul fruitore, si inserisce nel film l’elemento cromatico, prendendo come fonte di riferimento proprio gli spettacoli circensi. Al colore è assegnata la funzione di «colpire gli spettatori, attirare il loro sguardo attraverso il fascino per immagini che, anziché porsi come scure ombre, garantivano luminosità, brillantezza e splendore»26. D’Ors mette in evidenza un aspetto importante della componente cromatica: la capacità attrattiva che il cinema fa propria dall’inizio della sua storia; ma sottovaluta le possibilità espressive di un’arte che si potenzia proprio mutuando i codici di altre forme, sintetizzandoli e facendoli propri. Egli pensa, sbagliando, che il colore al cinema non possa andare oltre una riproduzione mimetica della realtà.
Proprio il lato documentario del cinema e il desiderio di rappresentare la realtà emergono invece dai legami stretti con l’arte fotografica. Il fotografare i colori, in particolare, è sempre stata un’aspirazione dei fotografi fin dalle teorie del fisico scozzese ottocentesco James Clerk Maxwell; tuttavia, è solo grazie alle ricerche del francese Du Hauron che possono essere applicati all’immagine fotografica nuovi metodi rivoluzionari, che anticipano di alcune decine di anni il Kinemacolor27.
Il cinema e la fotografia sembrano procedere assieme alla costruzione delle immagini, condividendo in una certa misura un valore testimoniale e riproduttivo della realtà. Gli stessi fratelli Lumière, inventori ufficiali del cinematografo28, lavorano nel settore della fotografia, producendo lastre di gelatina, prodotto essenziale per l’espansione della fotografia istantanea. Questa pratica è considerata un necessario predecessore del cinematografo. Luis Lumière si dedica specificamente alla fotografia a colori e ottiene risultati eccellenti attraverso le autochrome, diapositive a colori naturali brevettate nel 1903, con il risultato tanto atteso e inseguito dall’industria fotografica di eliminare la coloritura a mano delle immagini a favore di una meccanica29. Se le «vedute animate» degli esordi cinematografici di Lumière costituiscono una forma nuova e originale, la cornice produttiva, oltre che quella culturale e tecnica, è quella fotografica. Il loro cinema, formato da «immagini che portano dentro di sé i tratti essenziali delle pratiche fotografiche dominanti»30, è certamente fotografico.
Su queste immagini a colori, «si trasferisce l’iconografia della grande pittura impressionista, sembra di vedere i soggetti e gli effetti luministici dei quadri di Renoir e Monet, Sisley e Pizarro»31, mentre «l’aggiunta del colore pare attribuire alla fotografia un prestigio definitivo che l’affianca alla pittura, proprio quando il cinematografo ha ormai aperto un nuovo capitolo nella produzione e nella fruizione di immagini per le masse»32. La pittura per lungo tempo è stata il rifugio dell’elemento cromatico, spesso anche in antitesi al disegno: a quest’ultimo era conferita una forma quasi divina, intelligibile, eterea, lontana dalla realtà; il colore era invece strettamente legato alla sensibilità, era umano, materiale, solido33. Il cinema sin dalle sue origini mostra una predilezione per i codici della pittura, cerca di studiarla e di imitarla, tenendola come punto di riferimento costante. Le avanguardie pittoriche, da questo punto di vista, costituivano il modello cui costantemente si riferivano i cineasti. Appaiono evidenti i «parallelismi fra vocabolario formale del materiale pittorico (forme, colori, valori, superfici) e vocabolario da forgiare del materiale filmico»34. I cineasti subiscono il fascino dei pittori in particolare per il loro rapporto «immediato, personale e intenzionale»35 con le tinte, per la loro possibilità e capacità di creare assonanze o dissonanze visive.
Con la pittura moderna del XIX secolo il colore diviene «essere a sé stante [...], legislatore assoluto della tela, il valore supremo»36. Il contenuto dell’avvenimento e la sua rappresentazione visiva si sdoppiano37, secondo una declinazione nuova della costante lotta fra esigenza coloristica e tematica. I colori si sganciano dagli oggetti, li precedono come ben si evince dal goethiano Zur Farbenlehre38 e l’oggetto sembra dissolversi. Michel Eugène Chevreul avrebbe condotto al compimento questa teoria con i suoi studi sui colori complementari, che avrebbero avuto largo seguito presso i pittori impressionisti e divisionisti39. La componente cromatica affrancata dall’eccesso di mimetizzazione può così liberare tutto il suo potere formativo40. Il conflitto fra colore e tema, sarà però sempre più acceso come quelli equivalenti fra soggettività e oggettività, fra realtà e rappresentazione, fra riproduzione e astrazione dal simbolismo al surrealismo. A vincere è spesso una soggettività che comporta l’abbandono dell’oggettivo, il rifiuto del tema; il colore acquista così la precisa funzione di comunicare emozioni ed evocare sentimenti. Per Ejzenŝtejn questo conflitto sarà risolto dall’inquadratura cinematografica: il cinema a colori infatti rappresenta «una mediazione fra l’istantaneità del fuoco d’artificio e la lentezza del giorno solare che avvolge piano piano la cattedrale, e dirige sullo spettatore tutto il pathos di una sinfonia cromatica»41.
Lo scambio dialettico fra i due modelli, fotografico e pittorico, è palese sin dal più immediato predecessore del cinematografo, il Kinetoscope di Edison. Il colore assume qui un ruolo decisivo per allontanarsi da una piatta riproduzione della realtà, da quel naturalismo cui le immagini in movimento sembravano destinate42. Edison inserisce nell’immagine colori puri, gialli, verdi, rossi. Nella Serpentine Dance43 (1894), appare evidente «l’intenzione estetica»44, intorno a un movimento che cerchi di «simulare il lavoro cromatico della luce. Conferendo al colore pigmentario un’attribuzione fotografica»45, si ibridano regime fotografico e pittorico, con «una sorta di colonizzazione del mezzo principale (fotografico) su quello secondario (pittorico)»46. È il lato spettacolare a fare da tramite fra i due paradigmi, riunendo in una omogeneità performativa le componenti differenziate delle immagini riproduttive.
Nel cinema dei primi anni, continua a prevalere il modello pittorico: il cinema delle origini47 appare infatti «espressione poetica più che comunicazione, arte della visione, strumento di conoscenza estetica»48; non è ancora cosciente delle sue capacità rappresentative, delle sue qualità visive e si muove all’interno di «una visibilità indefinita, aperta sull’ignoto»49. È un’arte che «descrive la mostrazione piuttosto che la narrazione, la presentazione piuttosto che la rappresentazione, la temporalità istantanea piuttosto che l’organizzazione nella durata, l’interpellazione diretta dello spettatore piuttosto che il suo isolamento nel seguire la diegesi, l’esibizione accentuata dei propri mezzi figurativi piuttosto che la loro messa in secondo piano nei confronti della trasparenza dell’azione raccontata»50. Come si vede si tratta ancora di un’arte in fieri che si propone sovente almeno all’inizio come sintesi delle varie arti, e che ibrida i codici rappresentativi di svariate forme espressive, non necessariamente considerate artistiche; ne riproduce le tecniche e le modalità di fruizione, in una continua mescolanza di riferimenti e stimoli. Un ruolo prioritario assume allora la componente cromatica attraverso modalità non lineari di riferimento e utilizzo. Il colore nel cinema: naturale o astratto? Sin dalle origini sono due i ruoli essenziali assegnati al colore, ruoli che sono perlopiù in contrapposizione reciproca, ma che a volte coesistono in una delicata armonia espressiva:
1. Il colore naturale: ritenuto capace di riprodurre fedelmente la realtà, viene associato a un maggiore realismo. È visto come «elemento essenziale al compimento dell’ideale degli inventori del cinema»51, nato come «semplice procedimento meccanico di registrazione, di conservazione e di riproduzione degli spettacoli visivi mobili»52. Come nota acutamente Misek, citando Gorky, per tutti i primi anni del cinema il colore naturale è «come il suono un’assenza, immediatamente sentita»53. Tale mancanza dipende naturalmente da evidenti limiti tecnici, ma non possiamo trascurare, come vedremo meglio in seguito, anche una sorta di rifiuto dell’esattezza riproduttiva, riscontrabile specialmente in coloro che ritengono il cinema un’arte a tutti gli effetti.
Tutti gli esperimenti per inserire il colore naturale nel film54 non appaiono che «tentativi progressivi di portare sullo schermo i colori della vita reale»55. La storia del cinema a colori sembra dominata dall’ossessione dei colori naturali, ossessione che porta in breve tempo alla fine della colorazione a mano, senza tuttavia alcuna nuova definizione estetica. Dal 1906 si diffonde il pochoir56, alla ricerca di effetti sempre più realistici e decorativi: «la capacità di riprodurre più o meno fedelmente i colori della natura può configurarsi come elemento discriminante»57, e questo procedimento, pur imperfetto, poteva essere applicato ad alcuni generi (documentari di viaggio, film in costume) per rivendicare un primato tecnologico sul terreno del colore naturale.
La ricerca del realismo non è sempre legata a un utilizzo esclusivo della componente cromatica: il b&n è visto come più adatto a rappresentare la realtà, proprio per la ricchezza di sfumature e contrasti, ed è scelto come «forma riproduttiva della modernità»58. Il colore, inteso pittoricamente come luce, è visto come un pericolo, un rischio per la rappresentazione, è considerato volgare e grossolano e viene quindi relegato al superficiale e ad alcuni generi più legati al concetto di spettacolo e attrazione. Il b&n è invece ritenuto la vera essenza del cinema, più razionale e adeguato alla rappresentazione.
Eppure quello del colore rimane un problema in sospeso: dalla fine degli anni ’10 in vari manuali tecnici assistiamo al tentativo di fornire alla componente cromatica dei codici applicativi, molto minuziosi e precisi. Assieme alla consapevolezza che l’applicazione esterna delle tinte sia estremamente arbitraria ed estranea alla pratica cinematografica, emerge da questi scritti il desiderio di «trovare al più presto un sistema che potesse riprodurre fedelmente i colori della realtà»59. Sorgono tuttavia ulteriori resistenze: a seguito dell’affermazione di un cinema narrativo e realistico, la componente cromatica entra in contrasto con la narrazione: distrae dalla storia, allontana lo spettatore dall’azione sullo schermo e viene perciò relegata ai margini della rappresentazione, non esposta, addirittura evitata, per non minacciare la stabilità di canoni estetici ancora fragili e da consolidare. Alla fine l’estetica realistica, rassegnatasi alla presenza del colore, lo relega in alcuni generi (il musical, il western, i drammi in costume), lo esclude da tutti gli altri60, e continua a subordinarlo, con poche eccezioni, al narrativo.
Molti sono i fattori che portarono a una tardiva introduzione del colore (soprattutto naturale) al cinema, da problemi di percezione del fruitore (il colore non era percepito come realistico) a problemi tecnici ed economici (costava troppo e non rendeva)61. Ognuno di questi fattori condiziona l’altro e solo considerandoli singolarmente e confrontando in seguito i risultati ottenuti si può giungere a comprendere al meglio le motivazioni più profonde di questo ritardo. Fondamentale è tuttavia l’aspetto tecnico: finché la resa del colore sullo schermo si allontanava troppo dalla realtà e non riusciva a renderne tutte le sfumature e finché i colori si mostravano troppo aggressivi e distraenti, è stato impossibile convincere i cineasti e il pubblico stesso delle possibilità rappresentative dell’elemento cromatico e non si è potuta evitare la sua marginalizzazione.

2. Il colore astratto-espressivo: la seconda funzione dell’elemento cromatico tende a minimizzare la referenzialità nei confronti del reale; la componente cromatica non vuole rappresentare la realtà mimeticamente, ma interpretarla o astrarla. Perciò si contrappone spesso alla realtà stessa, presentandosi come «colore di tipo non-indexicale, non realistico, ma puramente sensuale, metaforico e spettacolare»62. Il colore ha allora una relazione ambivalente con la rappresentazione ed è sovente utilizzato per «sospendere la capacità indexicale dell’immagine fotografica e per produrre salti di invisibilità all’interno dell’immagine»63. Mostra uno status ambiguo, situandosi fra il visibile e l’invisibile.
Il colore, esposto in continue insorgenze, è attivo e formatore, e diviene «spettacolo a sé»64. Tale esibizione dell’elemento cromatico si afferma come una forzatura, una «effrazione visibile della natura fotografica del film»65. Il colore sembra uscire dallo schermo e «percuotere» lo spettatore (Dubois lo definisce significativamente «percutant»66...), sembra solidificarsi all’interno dell’immagine per poi distaccarsene, non prima di averle, per così dire, contagiato l’astrazione, di averla strappata dalla concretezza67, con il suo movimento dalla forte resa plastica. E l’immagine filmica che, come dice benissimo Venzi68, si nutre del reale, tende perciò a opporsi strenuamente a questa azione derealizzante, reagisce e facilita l’espulsione da sé della componente cromatica, la dirige verso un altro spazio, tentando di ricomporre il proprio contenuto nella sua integrità e organicità. È un colore simile a quello fantastico delle lanterne magiche o delle luci pirotecniche degli spettacoli teatrali, eppure il contrasto con il b&n dell’immagine, lo rende ancora più potente69.
Sono varie le modalità di inclusione del colore non realistico nel film: tra queste c’è la scelta di uniformare in una singola tinta ogni inquadratura o sequenza. La tintura, l’imbibizione e il viraggio70, usati spesso in combinazioni fantasiose, rendevano ogni copia unica, come se l’arte cinematografica si rifiutasse di eliminare l’aura benjaminianamente intesa dalle sue opere71. Le origini di queste pratiche arrivano fino all’incisione, che si serviva spesso di tinte diverse per uscire dalla monotonia del nero, avendo come fondamentale conseguenza quella di «arricchire il gioco delle luci e delle ombre, dei pieni e dei vuoti di un’immagine»72.
Le immagini colorate monocrome hanno come riferimenti essenziali inoltre il simbolismo dei colori e i loro effetti emozionali sui fruitori. Ben presto a prevalere è una certa convenzionalità nella rappresentazione delle atmosfere e degli stati d’animo, nel comunicare al pubblico emozioni e sensazioni. Appare altresì più intenso e diretto il legame con la narrazione, che viene assecondata da questi cambi di atmosfera. Tra le varie associazioni quella più stabile è fra blu e giallo, il primo legato alla notte e all’oscurità, il secondo legato alla luce e al giorno73. Ben presto l’immagine monocromatica definirà la propria «grammatica di base» proprio intorno a queste due tinte, mostrando una certa efficacia nella rappresentazione di albe e tramonti, di vari «effetti atmosferici, luministici e pirotecnici, nonché [...] [de]gli stati psicologici che essi potevano evocare»74. Questi ultimi sono legati da corrispondenze forzate con i colori come anche gli attori e soprattutto le attrici75.
Di fronte al rischio della banalizzazione si aprono due strade possibili, messe bene in evidenza da Federico Pierotti: «da un lato lo spostamento delle funzioni cromatiche verso la dimensione soggettiva, dall’altro la valorizzazione della possibile valenza musicale e sinestetica del colore»76. Nel primo caso, operando sulla discontinuità rispetto alle associazioni convenzionali, si mescolavano viraggi e tinture, spesso con accostamenti contrastivi, sfruttando l’intuizione di Chevreul: il contrasto di tinte può porsi come generatore di armonie ed espressività77. Altre volte un colore inatteso testimonia uno stato soggettivo particolare: esaltazione o esaurimento dei sensi possono così essere comunicati allo spettatore, portandolo a sintonizzarsi immediatamente con lo stato d’animo dei personaggi.
Nel secondo caso su una tradizione sinestetica che ha radici addirittura in Platone si innestano le teorie sullo spettro di Newton. Musica e colore sono congiunti per ricercare la coincidenza di ritmo ed emozione. Il colore, legato a esperienze sensoriali più che a oggetti particolari, è visto come un elemento astratto «che si armonizza sensualmente ed emozionalmente con il pubblico»78. Storie e personaggi fanno da tramite con lo spettatore, in una ridefinizione del linguaggio primitivo del colore; «i grossolani esperimenti con la sinestesia richiamano l’attenzione su come l’appeal sensuale e perfino spirituale dell’astrazione sia sovente sublimata da un più pragmatico richiamo all’elevazione (uplift) estetica del pubblico e della sua ‘coscienza dei colori’ (Colour Consciousness79. Il colore ha importanti proprietà contrappuntiste che saranno poi analizzate a fondo e messe in pratica soprattutto da Ejzenŝtejn.

b&n e colore fra inclusione ed esclusione

Fra gli anni ’10 e ’20, «momento di grande sperimentazione linguistica e filosofica»80, b&n e colore convivono in una stessa opera, prima di essere separati nel decennio successivo. Sono perciò mescolati in maniera asimmetrica due regimi visivi distinti: «il regime analogico della riproduzione fotografica [...] [e] il regime sintetico della rappresentazione pittorica»81. Una classificazione compiuta e precisa delle modalità di combinazione fra i due regimi, si trova in Hybridations et métissage. Lés mélanges du noir-et-blanc et de la couleur di Dubois. Dal saggio emergono tre figure fondamentali, che individuano tre tipologie di opere82:

1) Hybridations: colore e b&n sono presenti all’interno di una stessa immagine, come mescolanza di colore analogico e sintetico: è il caso delle pellicole dipinte a mano83.
2) Il viraggio e la tintura in sé, che implicano un effetto di «Demi-melange», in cui il gioco del bianco e del nero con i colori si sviluppa seguendo il simbolismo arcaico della luce e della chiarezza.
3) Métissages: in cui b&n e colore sono separati e si alternano in modo esclusivo sullo schermo, a contrapporre due mondi fra i quali è spesso difficile il passaggio. In questo caso l’immagine non rifiuta l’elemento cromatico che anzi consente di arricchirla simbolicamente e sostiene il regista nella narrazione.

1) Hybridations: le arti di Méliès
Nei film muti dei primi vent’anni del cinema, le Hybridations assumono un ruolo autonomo. Méliès, in particolare, è l’emblema dei tentativi compiuti dal cinema sin dalle sue origini di piegare, da un lato, la componente cromatica ad una maggiore verosimiglianza, potenziando l’aderenza delle immagini alla realtà rappresentata, e dall’altro, di conferirle maggiore libertà compositiva e formativa, senza per questo renderla totalmente astratta.
Secondo Sadoul, autore di una delle storie del cinema più attenta oltre che ai singoli autori anche alle componenti della rappresentazione, «Méliès che, come Walt Disney, non ha mai preteso di riprodurre tutte le sfumature naturali, ha capito molto presto quale dimensione avrebbe aggiunto l’introduzione del colore alla proiezione delle riprese animate»84. I suoi film sono pensati per essere proiettati a colori; in essi «il colore è indispensabile come nelle miniature, le immagini di Epinal e le cartoline postali»85.
Egli assembla con grande abilità materiali differenti provenienti dai più disparsati ambiti: dal teatro come dalla fotografia a colori, dalla lanterna magica come dagli spettacoli di magia o pirotecnia86. Il suo cinema fantastico e onirico è in realtà sin dagli esordi assai costruito. Méliès, preoccupato della verosimiglianza dei suoi colori, è convinto che ogni accessorio vada dipinto in diverse tonalità di grigio perché possa assorbire meglio il colore della successiva colorazione a mano; egli, con un’attenzione rara al profilmico87, «progetta architetture a dominante grigia, disegna costumi madreperlacei e costruisce forme di animali e veicoli fantastici ragionando unicamente sulla reazione degli oggetti ad uno stimolo luminoso semplice»88. Eppure le notevoli difficoltà tecniche allontanano da una buona resa del colore sullo schermo: «[Le scenografie] vengono orribilmente male. Il blu diventa bianco, i rossi e i gialli diventano neri, così come i verdi; ne deriva una completa distruzione dell’effetto»89.
Nella ricerca del continuo contatto con la realtà per Méliès rientra una concezione del movimento ineludibile per ogni elemento dell’immagine. Da tale moto perpetuo non sono esentati neanche gli oggetti più statici delle scenografie. L’immagine è priva di vuoti e si organizza «secondo le più ingannatrici necessità dello sguardo. Ogni oggetto produce la levitazione ‘immaginifica’ della propria presenza emergendo dall’oscurità, [...] e avventandosi sullo schermo affinché l’identificazione magica della realtà abbia finalmente luogo»90. L’obiettivo è quello di infrangere il limite dell’immaginazione; il compito della visione cinematografica è il «riacquistare la coscienza della felicità perduta»91, attraverso trucchi «la cui funzione è quella di alterare e modificare i parametri spaziali: alto/basso, lontano/vicino, dentro/fuori, piccolo/grande»92.
Con Méliès assistiamo a una vera e propria orchestrazione degli effetti visivi tanto nello spazio quanto nel tempo. Il regista vuole muovere l’attenzione dello spettatore su determinati particolari dell’immagine, messi in evidenza e poi collegati fra loro. Le tinte posate su alcuni frammenti dell’immagine seguono una «pur elementare sintassi figurativa»93, che si sviluppa fra oggetti colorati in primo piano e sfondi lasciati in b&n, non marcati dal punto di vista cromatico. Gli stessi effetti pirotecnici cui il regista ricorre in abbondanza sono fatti risaltare dall’applicazione di tinte che riflettono i colori esibiti negli spettacoli dal vero.
Nelle vedute a quadro multiplo tuttavia non sempre il colore agisce da «operatore di continuità»: a prevalere, almeno in certi generi, in particolare le féerie, sono «esigenze visionarie assai più forti»94. Inoltre le tinte sembrano disposte sullo schermo «senza alcuna preoccupazione per la centratura dell’immagine»95, o per la resa della profondità spaziale: possono a volte operare «in direzione degli effetti di continuità e di costruzione del mondo diegetico»96, altre disinteressarsene e coltivare solo l’aspetto spettacolare della loro funzione, pur nella consapevolezza che un eccesso di spettacolarizzazione possa nuocere alle immagini e ne renda complicata la fruizione.
Se agli occhi di una certa critica i film di Méliès appaiono ancora colorati in modo rozzo e ingenuo97, non possiamo ignorare, tuttavia, la presenza di una pionieristica riflessione sugli effetti del colore sulla psicologia dello spettatore, un lavoro embrionale sulle qualità delle tinte pure, sulla loro capacità di portare con sé sentimenti ed emozioni. Méliès, pur non rifiutando assolutamente il realismo, tenta in modo coraggioso e soprattutto consapevole di ottenere dal colore qualcosa di nuovo, lo considera come un effetto speciale, che diviene elemento ideale per il suo cinema. La magia di queste opere rimane intatta a distanza di più di un secolo, proprio per questa dialettica vero-falso, per «L’equivoca precisione con cui sono disegnati allo stesso modo tanto i lineamenti ‘verissimi’ di creature fantastiche [...] quanto le squisite falsitudini degli ambienti più quotidiani cui gli iperbolici colori davano una stravaganza in più»98.

2) Demi-melange: Dr. Caligari
La figura di maggiore successo nel decennio ’10/’20 fu il Demi-Melange che assieme a una grande quantità di opere assai convenzionali consegnò alla storia del cinema alcuni opere germinali.
Pensiamo in particolare a Das Kabinett des Dr. Caligari (Wiene, 1920)99, film simbolo dell’espressionismo, caratterizzato da una trama contorta100 e da uno stile assolutamente originale: inquadrature sghembe e perlopiù fisse, presenza di forti contrasti fra luci e ombre, scenografie allucinate e spigolose. Punte e spigoli prendono il posto di forme arrotondate o più squadrate, «le diagonali e le contro diagonali tendono a sostituire l’orizzontale e il verticale, il cono sostituisce il cerchio e la sfera»101. I personaggi sono rappresentati in modo deformato ed eccessivo, presentano volti truccati in modo pesante. Le distorsioni e i mascheramenti dell’opera «riguardano tre elementi essenziali della costruzione del film: la narrazione, la scenografia e la dinamica dello sguardo»102. Le scenografie rappresentano un mondo «segnato dalla stilizzazione deformante, dal configurarsi irregolare e anomalo della scenografia, dalla distorsione delle linee e delle figure. [...] si tratta di una stilizzazione antinaturalistica e antigeometrica»103. Lo spazio visivo diviene produttore di significati, forma significante.
Gli scenografi acquistano un ruolo fondamentale per esaltare una «stimmung dominata dalla crisi degli equilibri tradizionali e dalla impossibilità di determinare nuovi orizzonti di integrazione»104. Tutto il film riscrive le norme del perturbante: l’inatteso e il fantastico penetrano nella normalità, con un senso di tragedia incombente e di negatività.
Il viraggio acquista precise funzionalità autoriali: il film è pensato per i colori, come per Méliès: i set sono colorati per ottenere varie tonalità di grigio, che poi attraverso il viraggio danno vita a multiformi sfumature cromatiche; il décor fortemente stilizzato si carica di significati metaforico-simbolici, fino a «superare la propria funzione strutturalmente denotativa»105; è fondamentale «nell’economia linguistica ed estetica del film, ma anche sotto il profilo della costruzione della significazione e della produzione della sua radicale ambiguità»106. Certe tinte impregnano in modo ricorsivo la pellicola, metafora esplicita di sentimenti o emozioni.
Nella dialettica fra fotografia e pittura, fra realismo e espressività il film privilegia il secondo momento, con la «volontà di annullare gli effetti realistici della fotografia a vantaggio dell’espressività e della soggettività proprie della pittura»107. L’immagine è modellata sulla pittura e i suoi effetti pittorici «sono pensati in funzione di un effetto di disarmonia, di tensione non risolta»108, per produrre nello spettatore emozioni o concetti connessi all’irreale e al caos.
Caligari è il capostipite fondamentale di un cinema che non si limiti a una sterile mimesi del mondo, secondo il modello fotografico, ma aspiri a entrare in contatto con l’immaginario dello spettatore, tramite nuove forme, e voglia costituirsi come arte autonoma; questo desiderio passa anche attraverso un’attenzione particolare data ai singoli elementi della rappresentazione, fra cui naturalmente il colore. Come dice in modo appropriato Bertetto, uno dei più importanti studiosi italiani del periodo del muto, quello del film di Wiene è un cinema «in cui l’immagine è idea e la forma visiva risolve immediatamente il tono particolare dell’immaginario»109.

3) Métissage: il reale e l’immaginario da The Wizard of Oz a All That Heaven Allows
Dagli anni ’20 la componente cromatica, nelle prime sequenze interamente girate a colori, perse le sue caratteristiche attrattive, divenendo una sorta di proiezione visuale delle preoccupazioni economiche del produttore110. Nel passaggio al sonoro poi smarrì il suo ruolo predominante, venendo associata a un’idea di artificio, di volgarità: il colore sembra quindi abdicare, a parte rare eccezioni, al suo ruolo formativo, per ripiegare sulla mimetizzazione, originata dalla perseveranza dell’orientamento realista111.
Il colore e il b&n sono allora visti in contrapposizione come due mondi separati e discreti. Misek112 individua cinque modalità più comuni di questa opposizione e i loro effetti sulla rappresentazione, che sintetizzano al meglio i precedenti studi sull’argomento:
1) Sogno-veglia: il mondo onirico è rappresentato con i colori più sgargianti.
2) Sanità-malattia: il colore può segnalare la percezione distorta di un personaggio mentalmente instabile.
3) Vita-arte: si ritrova in quelle opere che connettono colore e pittura.
4) Paradiso-terra: esempio più tipico è A matter of life and death (Powell, Pressburger, 1946) in cui il colore è realtà, non fantasia, essenza, non addizione.
5) Passato-presente: per mostrare tale opposizione è necessario ignorare il futuro.
L’unico movimento, dice Misek riferendosi a Dubois, è quello fra realtà e immaginario. Il b&n è spesso usato per indicare prossimità spaziale e temporale: «è oggettività, non delusione, la chiarezza della coscienza, non la nebbia mentale della sonnolenza, il momento corrente vissuto ed esperito non la memoria di una esperienza precedente [...] Commisurato con il fatto che il b&n costituisse la norma estetica del cinema, il b&n dà forma agli stati regolari dei film, il colore a quelli alterati»113.
Possiamo, con Dubois, individuare due modalità di questo passaggio fra reale e immaginario: dalla realtà al sogno e dalla realtà alla pittura114. Il film emblema del primo tipo è The Wizard of Oz (Il mago di Oz, Fleming 1939), in cui «per la prima volta il colore è giustificato»115, ed esposto secondo quella «feticizzazione della tecnologia, tipica dei primi film Technicolor»116. Il colore è efficace anche senza «essere connesso a una riproduzione realistica»117: ha un alto valore attrattivo data la sua ostentazione e astrattezza. Le tinte, di cui è esaltata la componente ludica, non sono selezionate in modo esclusivo: lo schermo è invaso sovente da una miriade di colori, che si fanno solidi, rendendo i corpi e gli oggetti quasi tridimensionali. Nel passaggio da una realtà decolorata allo sfavillante regno di Oz si metaforizza il rapporto fra realtà e cinema, fra spettatore e film sullo schermo118. Il cinema è il regno del fantastico, dell’incredibile, è lontano dalla realtà, ma con una base in essa: è la sua rappresentazione iperbolica, la sua deformazione ed esaltazione, il mondo della felicità e i colori ne sono un emblema, la raffigurazione materiale119.
Il passaggio alla pittura è invece caratteristico dei melodrammi, dei generi a forte narratività: nel movimento verso un altro mondo, il colore irrompe sullo schermo come flash-couleur e rivela qualcosa di inaspettato. È illuminazione, presa di coscienza, «sentimento di nascita o rinnovamento della visione, […] designazione del quadro come portatore di un valore superiore o di una verità interiore che trascende la sua rappresentazione visibile»120. Si fa avvenimento puro, venendo «associato al piacere e alla soddisfazione di pulsioni»121. I due mondi possono comunicare e le differenze fra loro sono rese minime, si cerca anzi spesso la loro mescolanza fino alla fusione122.
Un esempio emblematico di questa figura è All that Heaven Allows (Secondo amore,Sirk1954) in cui il colore associato al melodramma mette alla prova le convenzioni del realismo hollywoodiano123. L’elemento cromatico agisce nei dettagli della messa in scena e contribuisce alla costruzione di uno spazio narrativo realistico che «rende evidente le pressioni sociali e ideologiche che contribuiscono alla definizione dei personaggi e del conflitto»124. Eppure la sua funzione principale consiste nell’enfasi del registro emozionale dell’opera. Il colore, se da un lato sembra fedele alle regole mimetiche del cinema hollywoodiano, dall’altro accoglie in sé un ‘di più’ che colpisce e distrae lo spettatore. Si scosta periodicamente dal realismo per poi rientrarvi. Ne è un esempio soprattutto il rosso che è spesso usato come un visual magnet, capace di fare dimenticare i personaggi e la storia, deviando l’attenzione sui sentimenti e sulle emozioni che sembrano predominare nella rappresentazione125. Il sistema coloristico risulta quindi assai complesso e stratificato per questa duplice qualità della componente cromatica: da un lato realistica e legata al narrativo, alla storia, dall’altro distraente ed emozionale. Siamo quindi a una nuova declinazione dell’opposizione iniziale fra colore mimetico e colore astratto, con un ruolo più attivo assegnato alla componente cromatica. Quest’ultima acquista un peso sempre maggiore all’interno di una rappresentazione ormai matura e sofisticata.

Il colore per la critica fra rifiuto e accettazione

Dal punto di vista di registi e tecnici, il colore, sin dalle origini del cinema, si è quindi sempre posto fra il naturalismo e l’espressività, anche se il paradigma naturalistico a partire dagli anni ’10 è stato quello dominante, fra l’entusiasmo per le tinte considerate naturali, adatte a fornire un’immagine mimetica della realtà e il rifiuto della componente cromatica, considerata come una distrazione e vista come un problema per la fedeltà della rappresentazione126. Assai differente fu invece l’atteggiamento dei critici o teorici che si occuparono del colore al cinema. Il desiderio di molti era quello di rendere il cinema un’arte autonoma rispetto alle altre e di cercarne perciò l’essenza che le consentisse l’emancipazione. Tale essenza è individuata proprio nel b&n, con motivazioni spesso opposte a quelle dell’industria del cinema: si rifiuta il colore non perché allontana dalla realtà, ma perché conduce a un eccessivo mimetismo. Compito e funzione del cinema è allontanarsi dalla mera riproduttività del reale e cercare di trasfigurarlo. Sarà questo un elemento che unirà teorici ed estetologi lontani, culturalmente e cronologicamente.
Lo psicologo tedesco Hugo Münsterberg fu uno dei primi e più convinti assertori dell’autonomia e dell’indipendenza estetica del cinema127. Se, infatti, in esso «è rappresentata la realtà nella concretezza delle sue dimensioni», «il cinema mantiene le caratteristiche di una suggestione fuggevole, superficiale, senza vera profondità e pienezza, diverso sia dalla semplice immagine sia dalla semplice rappresentazione teatrale»128. Il cinema deve tenersi lontano dal naturalismo e ha come scopo principale la rappresentazione delle emozioni in immagini. Queste sono legislatrici assolute: «il cinema del futuro si sarà certamente liberato da tutti quegli elementi che non hanno a che fare con le immagini»129. A partire dalla constatazione che il sonoro avvicina eccessivamente il cinema al teatro, indebolendolo come arte, Münsterberg si chiede fino a che punto il colore sia funzionale allo scopo del film130. Certamente non è tale se avvicina le immagini alla realtà: con il cinema «dobbiamo lasciar perdere le persone reali e i veri paesaggi e, [...] trasformarli solo in immagini suggestive. Dobbiamo essere pienamente consapevoli della loro irrealtà di immagini al fine di vedere realizzato sullo schermo quel meraviglioso gioco delle nostre esperienze intime»131. E conclude: «La consapevolezza dell’irrealtà verrà profondamente disturbata dalla presenza del colore»132. Münsterberg rifiuta quindi il colore nel suo aspetto ‘naturale’, non prendendo in considerazione le sue potenzialità espressive, astratte o metaforiche. Il cinema è nato in b&n e tale deve restare: «il colore agisce da freno nei confronti della funzione espressiva del film»133. Eppure la prospettiva dello psicologo tedesco è comune a cineasti e teorici convinti dell’originalità creatrice del cinema, che seppure a fatica si concreterà anche in un uso formatore della componente cromatica.
I formalisti russi, nei numerosi studi dedicati al cinema, rifiutarono invece «di estendere al cinema sonoro e a colori la qualifica, o meglio, la potenzialità di strumento d’arte» 134; erano infatti convinti «che il cinema a colori e sonoro avrebbe reso estremamente difficile, se non addirittura impossibile quell’operazione di consapevole deformazione del materiale che era per loro la condizione prima di ogni fare artistico»135.
Analizziamo allora una serie di articoli e saggi dei più importanti formalisti, apparsi in varie riviste intorno al 1927. Il rifiuto nei confronti del colore mimetico e realistico appare netto, se si eccettua il caso in cui la componente cromatica sia usata in modo simbolico o metaforico.
Per Tynjanov «l’arte come il linguaggio tende all’astrazione dei suoi mezzi e quindi non tutti i mezzi sono adatti»136; la povertà del cinema, l’assenza del colore e del sonoro, è in realtà «il suo principio strutturale»137. Queste carenze sono invece mezzi positivi, autenticamente «artistici». Se ci fosse il colore, le cose e gli uomini sarebbero più verosimili, ma meno significativi: il colore sarebbe una forzatura, una limitazione rispetto alla monocromia che deve solo sfruttare le sue enormi possibilità e qualità rappresentative138. L’assenza della componente cromatica «consente al cinema di procedere a un confronto non materiale, ma semantico fra varie grandezze»139, e quindi la sua presenza potrebbe invalidare tale rapporto e «l’essenza di una scena»140. In particolare il primissimo piano, che disancora l’oggetto dal rapporto spazio-temporale tra oggetti, perderebbe il suo significato con colori naturali141. Si presenterebbe lo stesso problema per l’angolazione, per la prospettiva e per le luci perché «qui il cinema, proprio grazie alla sua mancanza di rilievo e di colore, oltrepassa i limiti della superficie piana»142. Il cinema autentico è muto e in b&n; ogni deviazione da questo paradigma è considerata come un cedimento, una regressione.
Con Tynjanov concorda Sklovskij per il quale «l’introduzione del colore segnerà per il cinema un passo indietro»143. Il «compito dell’arte è piuttosto quello di accumulare le convenzionalità e non di evitarle»144 e i vari momenti convenzionali in cui si compone la rappresentazione sullo schermo sono legati ai momenti reali tramite associazioni e connessioni: «è come se noi completassimo lo schermo. È come se vedessimo sullo schermo il colore»145. Per questo «il cinema a colori e quello sonoro trovano ostacoli a sorgere non per difficoltà tecniche, ma per la loro inutilità»146. La rappresentazione non viene aiutata dal colore e dal sonoro, se questi portano a un maggiore realismo. Il pensatore russo ammette tuttavia una deroga a questa teoria, recuperando in certe circostanze il colore nella sua funzione simbolica e strutturale. Egli analizza, ad esempio, la famosa sequenza della Corazzata Potëmkin (Ejzenŝtejn, 1927) in cui all’improvviso appare sullo schermo una bandiera rossa, e arriva a sostenere che il colore rosso fosse lì necessario, in quanto materiale della rappresentazione: «Un’opera d’arte e, in particolare un’opera cinematografica viene elaborata mediante grandezze semantiche e nel tema ‘Anno 1905’ il rosso costituisce il materiale»147.
Ci sembra in definitiva che la funzione della componente cromatica sia ancora una volta semplificata ed appiattita sul mimetismo, anche se si affaccia la possibilità di un utilizzo diverso del colore, più libero e formatore: il solo ‘vero’ cinema è considerato comunque quello muto in b&n.
Arnheim dedicherà diversi studi al colore, partendo da una posizione estrema: sebbene «il cinema a colori rappresenti l’attuazione di tendenze da molto tempo presenti nell’arte grafica»148, anche per lo psicologo tedesco sono da considerare «forme autentiche» solo il cinema in b&n e quello muto. Pur convinto che il colore offra più opportunità rispetto al b&n, egli infatti non crede nella sua «utilità come mezzo formativo»149. Arnheim teme che la macchina da presa, perdendo le sue virtù formative, diventi «una macchina che registra meccanicamente»150; proprio da questa preoccupazione deriva la necessità di un controllo estremo sul profilmico, che consenta di evitare il rafforzamento dell’illusione di realtà151.
La posizione di Arnheim sarà in seguito sempre più sfumata. In Perché sono brutti i film a colori?152 egli mette a confronto il film monocromo con quello colorato per quanto concerne uguaglianza, contrasto e somiglianza delle tinte. Mentre nel film monocromo esiste un unico contrasto possibile (bianco-nero) nel film a colori sono «possibili tante distinzioni quanti sono i colori fondamentali»153. Sarà quindi più difficile che un’opera a colori possa accentuare un determinato oggetto: «il contrasto diventa meno duro, potendo distribuirsi su più che un’unica coppia di poli»154, come avviene invece nel monocromo. La «sintassi ottica» di un film policromo è assai più ricca, e questo determina da un lato rapporti più difficili fra gli oggetti di una singola immagine e dall’altro complica la composizione del quadro, rendendo possibili, anzi probabili accentuate disarmonie. Le disarmonie nascono se s’introducono tinte miste di gamme diverse, poiché il rapporto fra colori fondamentali perde la propria «monodimensionalità».
Il tema dell’armonia fra tinte è comunque per Arnheim sostanzialmente ancora tutto da scoprire. I colori cinematografici appaiono perlopiù esagerati, diversi da quelli della natura, falsificati dal cinema. L’immagine appare caotica, le tinte enfatiche e stonate. Non vediamo con gli stessi occhi la natura e l’immagine: «appena una fetta di realtà diventa immagine, noi la guardiamo con occhi diversi»155. I colori della natura si trovano al di là di armonie e disarmonie, il bello dell’arte è diverso dal bello naturale. Per questo i colori nell’arte devono essere messi al servizio degli oggetti, non apparire come macchie di colore. A giudizio di Arnheim è questo il motivo che rende la fotografia a colori così sgradevole: essa non è né arte né realtà (o natura). L’atteggiamento dello psicologo tedesco è certamente più attenuato in questo saggio rispetto a Film come arte, ma la fiducia nelle nuove forme filmiche non appare senza riserve: l’arte cinematografica deve imparare a usarle con attenzione, deve reinventarsi per non ridursi a infeconda riproduzione del reale.
In alcuni scritti successivi, emerge invece una convinzione crescente nelle possibilità espressive del colore sullo schermo; Arnheim non ha nei confronti della componente cromatica lo stesso pregiudizio riservato al sonoro. Il problema è essenzialmente percettivo: lo sguardo dello spettatore cinematografico è peculiare: a causa di una serie di elementi caratteristici del dispositivo e delle modalità di fruizione (riduzione da tre a due dimensioni, buio della sala effetto quadro, etc.) i colori apparentemente ‘giusti’, una volta proiettati diventano falsi, troppo forti156. Sebbene gran parte di questi problemi possano essere risolti dai progressi tecnici e dalla maggiore attitudine del pubblico a queste nuove immagini, sembra necessaria «la rinuncia all’uso puramente naturalistico del colore»157. Il colore può essere utile al cinema se entra a far parte di un ampio progetto estetico, se il regista e i suoi collaboratori riescono ad esercitare un controllo totale su di esso, con esperienza e sensibilità artistica. Proprio qui tuttavia si nasconde per Arnheim una trappola: «l’illusione del colore pittorico»158. Non si deve comporre ogni inquadratura come se fosse un dipinto perché peculiarità del cinema è il montaggio, e una serie di belle immagini pittoriche non darebbe al film quell’armonia auspicata. Non resta allora che creare una sorta di «pittura che si estende nel tempo»: sarà questo per lo psicologo tedesco il cinema del futuro159. Solo così la componente cromatica potrà entrare a far parte degli elementi essenziali alla rappresentazione.
Anche Balázs partì da posizioni scettiche per elaborare successivamente una teoria della componente cromatica assai ottimistica e innovativa. Egli, associando sempre il colore al movimento, si pone sulla stessa linea di Ejzenŝtejn nell’auspicare e teorizzare una chiara autonomia della componente cromatica all’interno della rappresentazione cinematografica160.
L’analisi di Balázs può essere pensata come «paradigma di un modo di pensare il cinema mirato a valorizzare la capacità di scoperta e di maggiorazione dell’immagine e, al tempo stesso, la qualità intransitiva dell’immagine stessa»161. Il cinema è sì «momento e recupero della sensibilità e della materia del mondo», ma anche «espressione della resistenza dell’immagine allo sguardo, alla riflessività di fondo»162. Esso può «superare i limiti del visibile attraverso risorse eminentemente visive»163 e può creare una nuova cultura visuale, far vedere la realtà in modi nuovi e sconosciuti. Il mondo visibile si scopre così non oggettivo o estraneo, ma percorso da «tonalità o atmosfere emotive che solo il cinema riesce a captare»164. Qui sta il valore della macchina da presa che riesce a cogliere nel caos del mondo naturale la sua fisionomia, «ossia la dimensione espressiva, simbolica, animata,del mondo visibile»165: stilizzando la natura, si fa produttrice e non solo riproduttrice166.
Sostiene Balázs in L’uomo invisibile167, «al cinema si giudica in base all’esteriorità e [...] ogni personaggio deve portare i simboli su di sé»168. L’arte, ogni arte, utilizza dei simboli nati da tradizioni inconsce, da convenzioni antiche. Essi servono «come procedure abbreviate per fornire informazioni di carattere generale»169. Il cinema si presenta come un’arte della superficie, la cui essenza è la «capacità di captare e restituire sullo schermo la dimensione fisiognomica della realtà»170.
Balázs è convinto che «da quando esiste la fotografia, la nostra meta ultima è sempre stata la fotografia a colori»171. Eppure tutti i progressi della tecnica hanno in realtà nuociuto al cinema: tutti i film colorati dei primi anni davano l’idea di «frivoli esperimenti», per cui «il risultato non appariva come un progresso della vecchia tecnica, bensì come l’inizio maldestro di una nuova»172. Quando poi è apparso sullo schermo un film a «colori naturali» a colpire più che l’interesse artistico era l’aspetto tecnico, anche se ricco d’imperfezioni. Ma a preoccupare il teorico ungherese è proprio il film a colori perfetto: «la fedeltà al reale infatti non sempre è vantaggiosa per l’arte»173; questa consiste infatti nella riduzione e sembra perciò più adatta al ‘grigio su grigio’ che non al colore. Siamo sulla stessa linea di Musterberg e Arnheim. Il b&n sembra più adatto al cinema, sembra la sua forma naturale. Eppure Balázs, più dei due autori citati, sembra convinto nella possibilità di un colore che non imiti la natura «in modo incondizionato e pedissequo. Una volta che la cinematografia avrà raggiunto la fedeltà alla dimensione a colori della natura, allora le diventerà nuovamente infedele, a un livello più alto»174. Così il cinema riuscirà «a fare ciò che la vera arte deve fare, e cioè trasporre l’interiorità in forme visibili e significanti»175.
In alcune opere successive Balázs risolverà definitivamente i suoi dubbi sulle potenzialità espressive della componente cromatica176. L’aspetto che egli considera determinante è il movimento, capace di farsi tramite unificante fra le cose, gli oggetti e i volti. Il colore in movimento può creare, attraverso affinità e contrasti tra le immagini, «relazioni ancora più profonde delle relazioni formali [...] relazioni non solo decorative»177. I colori, dalla grande forza simbolica, consentono un contatto diretto con le emozioni provocando sentimenti e passioni nello spettatore. Balázs sottolinea la «maggiore distinzione per le cose a colori»178 e il peso superiore delle figure colorate rispetto a quelle in b&n; i colori e le variazioni cromatiche possono acquistare «una funzione drammatica tale da influire su tutto lo svolgimento dell’azione»179. L’elemento cromatico «acquista un significato artistico solo quando esprime una particolare esperienza cromatica in forma cinematografica»180; l’immagine cinematografica può mostrare tutte le sue potenzialità specifiche proprio «nell’espressione di questa ‘esperienza’ cromatica»181 da parte del regista. Per farlo deve però evitare l’immobilità: il pericolo principale del film cromatico è proprio «nella tentazione di comporre le singole immagini mirando a ottenere un effetto pittorico, puntando sull’elemento statico della composizione [...] [che] spezza la continuità del film in una serie di staccati»182. Il colore in movimento è più libero, operativo: non deve essere subordinato all’azione e alla storia, ma è quest’ultima a dover essere condizionata dall’elemento cromatico e a subirne l’esposizione, con un ruolo formativo nell’opera, ruolo che per Balázs è assai ampio e va dal carattere astrattizzante, alla carica simbolica e drammaturgica. «Il movimento del colore [è] un mezzo espressivo per riqualificare l’immagine in volto e paesaggio»183. La componente cromatica sembra perciò poter acquisire l’autonomia che finora le era mancata, tramite un’esposizione specifica e determinante.
Nella disputa fra colore espressivo e riproduttivo184, fra chi considera il cinema un’arte in b&n che tale deve restare e chi invece vede nel colore un universo di possibilità rappresentative, appare interessante e decisivo il punto di vista teorico di uno dei più importanti tecnici del cinema degli anni ’30, Natalie Kalmus185. Nel 1935 presentò al Technicians Branch of the Academy of Motion Picture Arts ad Sciences una relazione intitolata Color Consciousness186, tesa a promuovere il nuovo sistema Technicolor di fronte ai critici e agli studios.
La Kalmus per chiarire i propri principi sul design della componente cromatica e legittimarli, «li riferisce a natura, arte alta, e psicologia percettiva dell’uomo»187. Il cinema non è isolato: può e deve studiare la altre arti (soprattutto la pittura), fare proprie le loro norme, servirsene iniziando una fruttuosa collaborazione.
Dalla relazione della Kalmus non è assente un rigido aspetto normativo specifico per il cinema, da cui Higgins astrae quattro principi generali per l’utilizzo della componente cromatica188:

1) la valenza emozionale del colore, che deve essere di supporto ad azione e dialoghi per controllare e dirigere le emozioni dello spettatore. Il colore tuttavia non deve prevaricare su questi, ma semplicemente amplificarne l’effetto. Ogni tipo di tinta ha un valore simbolico e proprietà espressive specifiche e si lega ai personaggi denotandone il carattere. Kalmus «presenta poi un catalogo dettagliato dei valori emozionali delle specifiche tinte»189, che possano essere ricollegate al narrativo.
2) Schemi coloristici più ‘naturali’ e armonici devono sostituire colori saturi e troppo luminosi, che, se usati in modo eccessivo, producono un effetto disturbante. Il colore va coordinato con il tono del film, e per questo è fondamentale l’importanza dei colori neutri, che in genere danno maggiore risalto ai colori significanti e che possono essi stessi acquisire forza espressiva, se giustapposti e abbinati.
3) Non vanno accentuati particolari marginali, che devierebbero l’attenzione del pubblico (legge dell’enfasi). Bisogna associare i colori più intensi con le azioni principali del film, mentre ogni informazione non necessaria per lo spettatore va comunicata attraverso colori più freddi e neutri. In generale Kalmus è convinta che il colore possa servire puntualmente a dirigere l’attenzione dello spettatore su certi elementi della storia e del film.
4) Non devono essere utilizzate giustapposizioni di colori che distraggano dal movimento dei personaggi nello spazio profilmico. È quindi di fondamentale importanza il problema dei complementari, e del loro rapportarsi sullo schermo. «Moderazione e attenzione all’armonia dei colori furono le chiavi per evitare giustapposizioni non volute»190. Ogni inquadratura, ogni scena, ogni sequenza va curata scegliendo i colori da porre in primo piano e quelli da sistemare sullo sfondo, cercando la massima armonia possibile, in particolare separando le tinte contigue.
Con questi principi la Kalmus vuole dimostrare che il colore Technicolor può a pieno diritto essere considerato un elemento costitutivo del film e contribuisce a determinarne la forma. Vuole rendere il colore doppiamente desiderabile: «come avanzamento progressivo del realismo e come contributo decisivo all’avanzamento dell’arte cinematografica»191.
La strategia Technicolor in realtà seguì negli anni ’30 varie strade che si discostarono in parte dalle indicazioni della Kalmus, che possiamo, con Higgins, ridurre a tre: 1) Demostrational Mode; 2) Restrained mode; 3) Assertive Mode. Queste tre fasi interrelate e simultanee saranno fondamentali per le modalità successive dell’esposizione cromatica192.
1) Demonstrational Mode. È il tentativo di dimostrare tutto il potenziale del colore Technicolor, che viene reso cospicuo, senza essere distraente, fatto agire liberamente sullo schermo e affrancato dalla corrispondenza univoca con il fantastico. La componente cromatica, in film come La Cucaracha (Corrigan, 1934) e Becky Sharp193, sembra in grado di assecondare la narrazione senza travalicarla, di avvicinarsi al naturalismo senza appiattirsi in esso. L’unico problema sembra la collaborazione con gli altri elementi stilistici: il colore appare un elemento fin troppo isolato sullo schermo194.
2) Il Restrained mode, vuole rispettare più pedissequamente le indicazioni della Kalmus e dimostrare che il sistema Technicolor è adatto anche a drammi e storie più complesse. Il colore non deve più legarsi a un singolo estemporaneo effetto spettacolare, ma deve agire sullo schermo durante tutto lo svolgimento del film. «Il colore è, come l’illuminazione, divenuto un fatto di messa in scena»195. Anche «piccole variazioni di colore possono divenire significanti»196. Le tinte acquistano nuove funzioni, senza l’eccesso e la convenzionalità del modo assertivo. E i colori vanno associati al paesaggio naturale con gradualità, evitando contrapposizioni troppo violente. I nuovi schemi coloristici sono da integrare con le convenzioni formali e stilistiche del classicismo hollywoodiano, senza per questo rinunciare alla spettacolarità197.
3) L’Assertive Mode è caratteristico di varie opere dei tardi anni ’30198. La paletta è più ampia e organizzata e il colore ha un ruolo più attivo nel dirigere l’attenzione dello spettatore e nel seguire gli svolgimenti della trama. Eppure il Restrained mode continua ad agire sottotraccia e, anche in queste opere, a sottolineare gli sviluppi dell’azione non sono solamente i bruschi contrasti o le corrispondenze più convenzionali fra colore ed emozione, ma anche contrapposizioni più sfumate e cambi di tono più lievi. Il colore non è più al servizio della storia narrata, ma dello spettacolo; può avere valore decorativo e simbolico. La componente cromatica a differenza di Becky Sharp e dei film del Demonstrational Mode non è isolata, interagisce con gli altri elementi stilistici, in particolare la luce, al «culmine della tendenza della cinematografia Technicolor degli anni ’30 di colmare il divario fra monocromo e colore»199.
La Technicolor alla fine degli anni ’30 perde il monopolio dei film a colori naturali. Aumentano i concorrenti che impongono un proprio modello espressivo differente dal precedente: è il caso della pellicola Agfacolor, più sensibile, ideale quindi per girare in esterni, per la dolcezza dei contrasti fra le tinte, laddove la Technicolor con i suoi colori densi e contrastati era l’ideale per i film d’interni200. Nasce una vera e propria battaglia che divenne, ci dice Aumont, ben presto ideologica, riproponendo la vecchia querelle fra colore ‘esatto’ ma piatto e colore ‘inesatto’ ma espressivo201.
Eppure il rifiuto di un colore troppo espressivo e di tinte chiassose è ormai affermato e fino agli anni ‘60 sarà assolutamente prevalente: il paradigma del Restrained Mode Technicolor che cerca di salvaguardare il realismo della rappresentazione e mette al primo posto il narrativo, ingabbia il colore, lo sottomette «alla storia, al tema, a un senso a esso esteriore»202.
Ragghianti mette in guardia proprio da questo rischio: un eccessivo mimetismo toglie creatività al cinema. Il colore può essere una risorsa solo nel suo uso espressivo. I perfezionamenti del cinema vanno tutti verso un maggiore realismo e una riproduzione della realtà più precisa. Le novità sono considerate dei miglioramenti del mezzo e delle modalità espressive: il colore è superiore al b&n come il sonoro al parlato. La perfezione allora sarebbe raggiunta nel momento in cui la macchina del cinema potesse consentire una visione uguale a quell’ottica naturale. Ma questo perfezionamento in realtà non è effettivo: un film «a colori naturali» è inferiore «come ricchezza, flessibilità, gradazione, intensità e qualità cromatica a un film in bianco e nero»203. C’è più colore, più espressività nei capolavori in b&n di Dreyer che in qualsiasi film a colori, in cui «il colore è mera tinta, perciò non costruito ed inespressivo, casuale e occasionale»204. Il colore può sì essere espressivo, ma non lo è necessariamente, anzi i film contemporanei sono troppo simili a una visione naturale e non esprimono affatto le potenzialità estetiche dell’elemento cromatico. Anche in questo caso il concetto di riferimento è quello di forma artistica: «le opere d’arte consistono in valori rappresentativi o figurativi, in forme che si svolgono secondo il proprio interno principio, la propria interna esigenza e necessità, e si attuano come tali al di là e al di fuori della relazione con il mondo fisico o empirico»205. Non si può confondere al cinema «la materia colorata con la costruzione cromatica o tonale»206. Il problema è proprio nel tentativo di avvicinarsi alla visione naturale: il cinema deve sfruttare le nuove acquisizioni tecniche per estendere le proprie possibilità rappresentative, per eliminare convenzioni vecchie e infeconde, per dare maggiori possibilità di scelta. Il perfezionamento tecnico è inutile se è solo un perfezionamento di riproduzione e mezzi riproduttivi, se non cerca di rappresentare lo spirito della vita ma si limita a imitarla nella sua forma esteriore. In un cinema in evoluzione costante, sono molte di più le possibilità espressive dei cineasti, molte di meno le limitazioni: si sta affermando la «soggettivazione» del cinema; a emergere sono le visioni personali degli artisti, che si differenzieranno sempre più fra loro. Eppure, come appare nella postilla al saggio scritta da Ragghianti qualche anno dopo, è significativo che pochi registi abbiano utilizzato le nuove tecnologie, il colore, la panoramica, preferendo ad esse le forme abituali di rappresentazione, che seppure classificate come incomplete dal punto di vista naturalistico o mimetico, rimangono intrinsecamente valide per l’espressione artistica207. Il colore non è ancora entrato pienamente a far parte del lessico cinematografico e viene percepito inoltre come un ostacolo a uno sviluppo autonomo del cinema. I cineasti non si fidano: troppo complessa e rischiosa la progettazione e la realizzazione di un film a colori, ancora troppo grossolane e distraenti le tinte. È palese come a essere sottovalutato sia il loro potere espressivo, la loro possibile autonomia, secondo un’idea di cinema ancora legata ai canoni del passato.

Ejzenŝtejn e il colore liberato

La teoria del colore del regista e teorico russo Sergei M. Ejzenŝtejn208, ponendosi, come già accennato, sulla stessa linea di Balázs, può finalmente fornire alla componente cromatica quell’autonomia che spesso era stata messa negata o limitata. Il regista di Mosca pensa che i film a colori, nell’inseguire una malintesa mimesi della realtà, abbiano finora subordinato ad essa ogni potenzialità compositiva e formale della componente cromatica209. Per Ejzenŝtejn, il colore «comincia dove non corrisponde più alla colorazione naturale, non è più attaccato alle cose»210 e va isolato per renderlo funzionale alla struttura del film. Legato alla componente emozionale della rappresentazione, la sua azione sullo schermo sta fra astrazione (qui si esprime il legame con la musica) e composizione plastica211. L’elemento cromatico è contrappunto visivo: le varie tonalità delle tinte conferiscono alla visione un certo ritmo di vibrazioni, ognuna differente, anche per le tonalità adiacenti, e tanto la dinamica delle percezione quanto il gioco del colore sono prodotti dal contrappunto fra le misure di vibrazione212.
Sono tre le fasi del procedimento ejzenŝtejniano, ben evidenziate da Montani213:
1) «la dissociazione dell’elemento-colore dall’oggetto con cui empiricamente convive»;
2) «il libero gioco dell’elemento-colore con la forma e con lo spazio»;
3) «la conversione dell’elemento-colore in una nuova oggettualità».
Questa terza fase, è la più importante: qui sono resi operativi infiniti codici, secondo le varie «istanze interpretative possibili». Ai colori possono essere infatti attribuiti significati ambivalenti ed ambigui, e gli stessi valori d’immagine sono relativi; da questa miscela nasce la varietà di significati che ad uno stesso colore vengono attribuiti da autori diversi214.
Il colore «investe l’immagine, la fa uscire fuori di sé e la rovescia»215; l’artista rompe l’armonia naturale o il contrasto fra tinte, e la ricompone in una diversa qualità, egli «ricostruisce cromaticamente il mondo»216.
Alcune tinte, selezionate dal testo, sono presentate come attive: è la formazione della gamma cromatica, un insieme di colori che costituiranno la «linea colorica autonoma del film»217. La linea del colore – «parte autonoma della polifonia drammaturgica dei mezzi dell’azione cinematografica»218 – ha una duplice funzione: da un lato è subordinata a un determinato sistema drammaturgico; dall’altro, in un’accezione più ampia, si forma in modo completamente diverso «rispetto alla sua datità naturale ed empirica, che resta esterna rispetto alla volontà di chi da questo esistente crea un inesistente»219. Perché il colore sia realmente espressivo vanno separate «la colorazione dell’oggetto e la sua risonanza colorica»220. A trasformarsi non sono gli oggetti ma i colori, alla cui modulazione luminosa «è affidato il compito di narrazione emotivamente generalizzata e di espressione di un contenuto interno che incide direttamente sul piano tematico»221.
Slegato dal naturalismo e isolato dagli altri elementi rappresentativi, pur facendo parte dello stesso sistema drammaturgico, il colore si assume il compito di completare il racconto, di arrivare dove recitazione e gestualità non sono in grado di arrivare, di esaltare «la risonanza interiore, la melodia interna alla scena»223. La componente cromatica può quindi realizzare un sottotesto che scorre parallelamente alla narrazione principale intrecciando diverse feconde relazioni con essa223.
Ejzenŝtejn applicò la sua teoria a un’unica sequenza della seconda parte di Ivan il Terribile224, analizzata più volte dal regista per precisare le motivazioni alla base di ogni scelta stilistica, dalla selezione delle tinte alla formazione della gamma cromatica, dal movimento all’interazione delle stesse. In una di queste analisi225 viene considerato nello specifico il processo di determinazione e rifinitura della gamma cromatica che consta di otto fasi226, che, con Montani, possiamo ridurre a tre227:
1) le considerazioni di pertinenza ambientale e storica;
2) la generalizzazione emozionale del colore, astratto dal suo portatore materiale; è la fase più importante in cui «il tema è sentito in termini di colore […] e […] l’immagine-colore è arricchita con il sentimento di una riflessione»228;
3) l’organizzazione della linea colorica.
Grande importanza riveste l’intuizione (il «sentimento iniziale») dell’artista riguardo alle tinte che saranno attive nell’opera, un «confuso presentimento delle conseguenze cromatiche deducibili da una lettura complessiva dei contrassegni»229. Tale intuizione sembra nascere da mistero e caso. C’è un’apparente contraddizione: da un lato il colore sembra essere determinato da una matrice razionale, che lo lega alla propria funzione drammaturgica, dall’altro è legato dall’irrazionale, dalla creatività misteriosa dell’artista e della sua attività formatrice. Questo dualismo è in realtà espressione del desiderio di Ejzenŝtejn di un cinema capace di soddisfare sia l’intelletto sia i sensi dello spettatore, che sia posto sotto la tutela dell’intellettualità, ma contemporaneamente crei immagini plastiche, musicali, melodiose230. In un cinema così inteso, il colore non può che avere un ruolo primario e fondatore.

Anni Sessanta e redenzione del colore

Il colore nel cinema ha vissuto una storia tormentata, fatta di successi e cadute, e la sua accettazione è stata, come abbiamo visto, assai complicata. La componente cromatica, considerata per lungo tempo un’intrusa, è stata amata e odiata dai cineasti, che, pur comprendendo il suo potenziale formativo ed espressivo, temevano le difficoltà del suo utilizzo. Nei critici e negli estetologi, d’altro canto, come si è visto, è stato predominante a lungo un atteggiamento di sufficienza nei confronti del colore con le poche fondamentali eccezioni. Tuttavia, a partire dalla seconda metà degli anni ‘50, sembra profilarsi un cambiamento decisivo: il colore entra in tutti i generi cinematografici, perché la richiesta di colori anche al cinema si è fatta molto pressante: la componente cromatica è presente sempre più massicciamente nella realtà quotidiana, nella moda, nelle auto, nelle abitazioni. Al cinema che nella sua fase moderna s’impone di «riconfigurare il visibile quotidiano»231 non resta che rimodellare anche il rapporto degli oggetti della realtà con il colore.
Così negli anni ‘60, il colore è finalmente liberato, con le opere di Fellini, Antonioni, Godard, Demy, può esprimere tutto il suo potenziale formativo, finalmente in grado di guidare la nostra percezione e di dare compiutamente forma al film232.
Un’interessante classificazione di Johnson considera le tendenze capaci di creare «un sistema coerente per il colore in un film intero». Sono quattro e caratterizzano il cinema fino ai giorni nostri:
1. Unica tinta: quella che regge il film, secondo lo schema più semplice per unificare l’opera.
2. Realismo organizzato: ogni scena è colorata naturalmente, mentre ciò che conta è la progressione delle tinte fra le varie sequenze e le influenza di esse sullo svolgimento della trama del film.
3. Film caleidoscopio: colori abbondanti, artificiali, multiformi, e perlopiù frivoli; l’assemblaggio delle tinte è assai complicato ed è difficile che il film si mostri organico.
4. Naturalismo, usato in modo artificiale come in Resnais e Varda233.
Attraverso queste (e tante altre) modalità, il colore finalmente libero, andando oltre perplessità e dubbi, si è definitivamente ritagliato un ruolo centrale e insostituibile nella rappresentazione cinematografica, convincendo gli scettici e, in definitiva, facendo rinascere (di nuovo) il cinema.

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1 D’ora in avanti b&n.

2 La meccanica del visibile. Il cinema delle origini in Europa, a cura di A. Costa, La casa Usher, Firenze 1983, p. 23. Per Ragghianti: «Non bisogna da un’insufficienza storica e critica che è nostra, trarre la conclusione erronea che prima del 1890 la visione cinematografica non sia esistita». C.L. Ragghianti, Cinema arte figurativa, Einaudi, Torino 1964, p. 151.

3 F. Pierotti, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema,Le Mani, Genova 2012, p. 25.

4 Cfr. W. Benjamin, I «passages» di Parigi,Einaudi, Torino 2010.

5 M. Dall’Asta, G. Pescatore, Ombrecolore, in Il colore nel cinema, a cura di M. Dall’Asta, G. Pescatore, numero monografico di “Fotogenia”, a. I, n. 1, 1994, p. 11.

6 Cfr. F. Pierotti, La seduzione..., pp. 25-27.

7 M. Dall’Asta, G. Pescatore, Ombrecolore..., p. 12.

8 Ivi, p.13.

9 F. Pierotti, La seduzione..., p. 28. Sul tema del nuovo, cfr. T. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1970, p. 37.

10 J.J. Roubine citato in F. Pierotti, La seduzione..., p. 35.

11 Ivi, p. 36.

12 Se l’interesse per i colori è attestato almeno sin dal De Coloribus di Aristotele, quello più specificamente legato al medium di essi si riscontra nella Naturalis Historia di Plinio, per essere proprio oggetto dei ricettari medievali quali la Schedula diversarum artium del monaco Teofilo e alla fine del XIV secolo del Libro dell’Arte di Cennino Cennini, per divenire quindi oggetto della più raffinata trattatistica dei secoli XVI e XVII.

13 J.J. Roubine citato in F. Pierotti, La seduzione..., p. 36.

14 Cfr. G.P. Brunetta, C.A. Zotti Minici, Il colore del pre-cinema al cinema, in Il colore nel cinema muto, a cura di M. Dall’Asta, G. Pescatore, L. Quaresima, Mano, Bologna 1996, pp. 9-10.

14 Ivi, p. 11.

16 Ivi, p. 12.

17 Ibid.

18 Ivi, pp. 13-15.

19 Ivi, p. 17.

20 Ibid. Come esempio di incomprensione di fronte alle possibilità del cinema, il testo riporta un frammento che rivela le prime impressioni di Gorkij sul cinematografo: «i vostri nervi si tendono, l’immaginazione vi trasporta in una nuova vita, innaturale e monotona, una vita senza colori e senza suoni, una vita di fantasmi o di uomini, colpiti dalla maledizione dell’eterno silenzio, di uomini privati di tutti i colori della vita, di tutti i suoi suoni, insomma della sua parte migliore... È terribile vedere questo grigio movimento di ombre silenziose, mute»./p>

21 Emile Reynaud fu l’inventore prima del prassinoscopio, poi soprattutto autore delle pantomime luminose, azioni colorate che dal 1888 in poi divertirono gli avventori del museo Grevin di Parigi. Queste opere, andate perlopiù perdute (furono in gran parte gettate nella Senna dal suo autore), hanno titoli vari, alcuni dei quali sembrano presi da libri per bambini: Clowns et ses chiens (1890), Pauvre Pierrot (1891), Un rêve au coin du feu (1893) e altri simili.

22 Cfr. M. Verdone, Émile Reynaud pittore di film, in Il colore nel film, a cura di G. Aristarco, numero monografico di “Sequenze”, n. 1, 1949, p. 13.

23 F. Montesanti, Lineamenti di una storia del cinema a colori, in “Bianco e Nero”, nn. 2-3-4, 1954, pp. 13.

24 M. Verdone, Émile Reynaud...,p. 13.

25 Eugeni d’Ors citato in J.M. Minguet Batllori, Segundo de Chomón and the fascination for colour, in “Film History”, vol. 21, n. 2, 2009, p. 94.

26 Ibid.

27 Primo procedimento additivo bicromatico applicato al cinema da George Albert Smith (1906). Cfr. L. Ducos Du Hauron, Les couleurs en photographie. Solution du problème, Marion, Paris 1869; Id., La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie, système de photochromographie […], Gauthier-Villars et fils, Paris 1897.

28 I due fratelli brevettano l’apparecchio per le «immagini cronofotografiche» nel 1894.

29 G. Fiorentino, Dalla fotografia al cinema, in Storia del cinema mondiale. Teorie, strumenti, memorie, a cura di G.P. Brunetta, vol. 5, Einaudi, Torino 2001, p. 78.

30 Ivi, p. 77. Come scrive Costa: «la (loro) avventura cinematografica rappresenta un allargamento e una differenziazione della loro attività di produttori di supporti e di apparecchi fotografici». A. Costa, I padri fondatori: Lumière e Méliès, in Storia del cinema mondiale, I. L’Europa. Miti, luoghi, divi, a cura di G.P. Brunetta, Einaudi, Torino 1999, p. 80 e pp. 85-87.

31 G. Fiorentino, Dalla fotografia..., p. 77.

32 Ibid.

33 Cfr. J. Aumont, Introduction à la couleur: des discours aux images, Armand Colin, Paris 1994, pp. 120-121.

34 J. Aumont, L’occhio interminabile, Marsilio, Venezia 1998, p. 119 (ed. originale L’œil interminable. Cinéma et peinture,Séguier,Paris 1989).

35 J. Aumont, Introduction…, p. 183.

36 E. Rohmer, Il gusto della bellezza, Pratiche Editrice, Parma 1991, p. 119 (ed. originale Le gout de la beauté, Editions de l’étoile, Paris 1984).

37 Cfr. S.M. Ejzenŝtejn, Il colore, Marsilio, Venezia 1989, p. 28. (Titolo originale Iz neokončennogo issledovanija o cvete, vari scritti sul colore degli anni 1946-1947, riordinati non dall’autore). Cfr. A. Cervini, Sergej M. Ejzenštejn. L’immagine estatica, Ente dello Spettacolo, Roma 2006.

38 Cfr. G.C. Argan, Introduzione, in W. Goethe, La Teoria dei colori. Lineamenti di una teoria dei colori, Il Saggiatore, Milano 1989, p. XXI (ed. or. Zur Farbenlehre, Tubinga 1810); Id., Materialien für Geschichte der Farbenlehre, Cotta, Tübingen 1810, München 1971.

39 Per questi aspetti, cfr. A.B. Costa, Michel Eugène Chevreul: Pioneer of Organic Chemistry, State Historical Society of Wisconsin for the Dept. of History, University of Wisconsin, 1962; M. Kemp, The Science of Art: Optical Themes in Western Art from Brunelleschi to Seurat, Yale University Press, New Haven-London1990.

40 Ancora di più dopo l’invenzione del cinema e della fotografia, i cui mezzi espressivi sono «più funzionali per la rappresentazione»; così la pittura potrà dedicarsi alla pura organizzazione del colore, e, liberandosi di qualsiasi riferimento oggettuale, potrà divenire «pittura assoluta, che ha il proprio oggetto in sé stessa, la cui base è l’azione (biologica) del colore», cfr. L. Moholy-Nagy, Pittura, fotografia, film, Einaudi, Torino 1987, pp. 11-17 (ed. originale Malerei Fotografie Film, Florian Kupferberg Verlag, Mainz 1967). Per il rapporto dialettico colore-tema, cfr. fra gli altri K.S. Malevič, Scritti, a cura di A.B. Nakov, Feltrinelli, Milano 1977.

41 Cfr. S.M. Ejzenŝtejn, Da una ricerca..., pp. 30 e segg. e Id., La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 2003, p. 112.

42 Cfr. F. Montesanti, Lineamenti di una storia..., pp. 12-14.

43 Il film riproduce gli spettacoli di Loïe Fuller, pionieristica ballerina e attrice americana.

44 F. Montesanti, Lineamenti di una storia..., p. 13.

45 F. Pierotti, La seduzione..., p. 34.

46 Ibid.

47 Per «cinema delle origini» intendiamo il primo ventennio della produzione cinematografica, dal 1895 al 1915 circa, «zona franca di ricerche e sperimentazioni», che si distanzia dall’universo precedente delle vedute animate, ma non è ancora giunto a quella istituzionalizzazione che caratterizzerà la seconda metà degli anni ’10; Gaudreault lo chiamerà appropriatamente della «cinematografia-attrazione». Cfr. A. Gaudreault, Cinema delle origini o della «cinematografia-attrazione»,Il Castoro, Milano 2004,pp. 25-27.

48 S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche editrice, Parma 1990, p. 10.

49 Ivi, p.11. Sul tema si veda anche Benjamin per il quale «la natura che parla alla cinepresa […] [è] diversa da quella che parla all’occhio […] per il fatto che al posto dello spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente». W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 2000, p. 41.

50 P. Dubois, Hybridations et métissage. Les mélanges du noir-et-blanc et de la couleur, in La couleur en cinéma..., p. 79.

51 T. Gunning, Metafore colorate: l’attrazione del colore nel cinema dei primi tempi, in Il colore nel cinema…, p. 25. Gunning considera esemplare a tal proposito la posizione di Bazin. Sul tema si vedano anche R. Richetin, Note sur le couleur en cinéma, in “Cahiers du cinéma”,n.182, settembre 1966, pp. 60-67 e E. Cauda, Il cinema a colori, numero monografico di “Bianco & Nero”, 1938, pp. 6-7. Quest’ultimo parla di «riproduzione dei colori naturali» e aggiunge: «Non sappiamo bene chi abbia usato per primo questa infelice locuzione; […] chi lo fece ha contribuito largamente a complicare l’idea che voleva definire, a renderla univoca e confusa», in quanto si è cercato di «imporre alla […] cinematografia un compito ristretto e rigido che nessuno ha mai cercato di imporre ad altre arti rappresentative».

52 C. Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1972, p. 143.

53 R. Misek, Chromatic Cinema. A History of Screen Color, Wiley-Blackwell,Oxford2010, p. 14. Per i vari momenti dell’espressione «colori naturali» nel discorso critico, cfr. F. Albera, Il modello linguistico e il modello pittorico, in “Bianco e nero”, LXV-LXVI, nn. 550-551, settembre-dicembre 2004, gennaio-aprile 2005, pp. 157-162. Per Pierotti la contrapposizione fra colore espressivo e realistico «si riflette nella contrapposizione lessicale fra colore naturale [...] e colorato. Al primo vengono ascritti i colori ottenuti con i sistemi di riproduzione analogica, al secondo quelli ottenuti con le tecnologie alternative della colorazione, della tintura e del viraggio». Si definiscono i colori analogici naturali per il «bisogno di iscriver[li] [...] in un ordine culturalmente distinto». Inizialmente tuttavia i colori analogici possono essere difficilmente definiti naturali, sono troppo imprecisi e poco realistici. F. Pierotti, La seduzione..., pp. 116-118.

54 Per una cronologia esaustiva delle invenzioni sul colore al cinema, cfr. fra gli altri P. Cherchi Usai, La passione infiammabile. Guida allo studio del cinema muto, UTET, Torino 1991, p. 11.

55 T. Gunning, Metafore colorate..., p. 36. Cfr. anche J. Aumont, Introduction..., p. 194.

56 È uno strumento di colorazione meccanica che consente di riprodurre circa dieci tinte. Il suo successo fu assai effimero: le produzioni in pochoirnon durarono che un decennio, principalmente a causa della lunghezza e dei costi del procedimento. Cfr. P. Cherchi Usai, Una passione..., p. 12.

57 F. Pierotti, La seduzione...,p. 124.

58 Ivi,pp. 88-89.

59 G. Fossati, Quando il cinema era colorato, in Tutti i colori del mondo. Il colore nei mass media tra 1900 e 1930, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1998, p. 46.

60 Cfr. E. Buscombe, Sound and Color, in Movies and Methods, vol. 2, An Anthology, ed. B. Nichols, University of California Press, London-Berkeley 1985, p. 91.

61 Misek, rifacendosi alle teorie di Kindern, considera cinque cause collegate fra loro: semplicità, costi di produzione e di distribuzione, disponibilità, verosimiglianza («perché il colore divenisse parte di un’estetica del cinema consolidata, i colori che risultavano dai film dovevano essere simili a quelli tipicamente percepiti») e ideologia (ancora più importante della questione se il colore fosse verosimile, era se fosse percepito come tale). R. Misek, Chromatic Cinema...,pp. 45-46. Per le motivazioni del ritardo dello sviluppo del colore al cinema cfr. anche J. Belton, Il colore: dall’eccezione alla regola, in Storia del cinema..., p. 800.

62 T. Gunning, Metafore colorate..., p. 36.

63 T. Lundemo, The colour of haptic space. Black, blue and white in moving images, in Color: the Film Reader, ed. A. Dalle Vacche, B. Price, Routledge, London-New York 2006, pp. 91-93.

64 L. Venzi, Il colore e la composizione filmica, ETS edizioni, Pisa 2006, p. 41.

65 Ivi, p. 45.

66 Cfr. P. Dubois, Hybridations et métissage…, p. 76.

67 Il colore per Venzi, «consegna all’immagine un immediato, radicale livello di astrazione, di stilizzazione figurativa». L. Venzi, Il colore…, p. 48.

68 Ivi, pp. 31-34.

69 Cfr. J. Belton, Il colore: dall’eccezione...,p. 806. Per Montesanti il colore è utilizzato per mettere in evidenza degli oggetti, dei frammenti del pro filmico, per allontanarsi dal quotidiano, e legarsi al fantastico e all’onirico. F. Montesanti, Lineamenti di una storia..., p. 22.

70 Per Petrucci i film così colorati cercavano comunque di rendere la pellicola più verosimile, ma più «si sforzavano di imitare la natura più se ne allontanavano, creando suggestioni ed atmosfere». A. Petrucci, Il colore nel cinema, in L’avventura del colore, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1956, p. 82. Sui viraggi e la tecnica, cfr. S. Colanari, I Viraggi, in “La vita cinematografica”, III, n. 3, 15 febbraio 1912, pp. 2-5, riprodotto in Cinema muto italiano. Tecnica e tecnologia, vol. I, Discorsi, precetti, documenti, a cura di G. Carluccio, F. Villa, Carocci, Roma 2006.

71 Come i fotografi per Benjamin, i cineasti cercano di salvaguardare l’aura delle immagini, attraverso ritocchi o espedienti tecnici, cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era..., p. 68. Anche nella fotografia «il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un’ultima trincea che è costituita dal volto dell’uomo». Ivi, p. 28.

72 F. Pierotti, La seduzione..., p. 55.

73 Si consideri a tal proposito Kandinsky che riprende la teoria goethiana dei colori fisiologici e li mette in parallelo con i suoni e la musica. Il pittore russo definisce «il carattere caldo o freddo del colore [...] un’inclinazione del tutto generale verso il giallo o verso il blu» e considera il movimento orizzontale dei colori, quelli più legati al giallo (caldi) verso lo spettatore, quelli più legati al blu (freddi) dallo spettatore. Al primo contrasto blu-giallo è associato poi un secondo contrasto: fra bianco e nero, contrasto che testimonia della profonda affinità fisica esistente fra il giallo e il bianco. Le due coppie giallo-bianco e blu-nero sono così nettamente separate anche per affinità morale. V. Kandinsky, Dello spirituale nell’arte. Scritti critici e autobiografici,a cura di P. Sers, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 107 e segg. (ed. originale Uber das geistige in der Kunst, insbesondere in der Malerei, 1912). Si consideri parallelamente Goethe: «Il colore è ogni volta specifico, caratteristico, significativo. [...] Esso presenta un’opposizione che chiamiamo polarità e che possiamo designare abbastanza bene con un più o con un meno». Al più sono associati fra gli altri il giallo, l’azione, la luce, il caldo, la vicinanza, l’attrarre; al meno l’azzurro, la privazione, l’ombra, il freddo, la lontananza, il respingere. Cfr. W. Goethe, La Teoria dei colori..., pp. 140-145.

74 F. Pierotti, La seduzione..., p. 61. Pierotti considera gli effetti atmosferici in relazione ai fenomeni culturali dell’ottocento, tratteggiandone una complessa genealogia da quattro diversi ambiti: pittura con un posto centrale (dal romanticismo in poi) al paesaggio e alla luce; teatro, e nuova effettistica ambientale, dovuta ai progressi nell’illuminazione; immagini colorate di paesaggi (cartoline, cromolitografie); proiezioni e vari spettacoli ottici, con il loro repertorio legato ai cambi di luce e di atmosfera.

75 A volte le tinte assumono una «funzione simbolica di rincalzo». A. Petrucci, Il colore nel cinema..., p. 84. Si veda anche anche Montesanti, che si riferisce alle ‘dive’ italiane, Francesca Bertini, Lidia Borelli, etc. e ai loro primi piani a colori (rosa, azzurro, arancione…) nei quali «sussiste intatto un fascino […] sempre inversamente proporzionale all’aderenza dei colori alla realtà». F. Montesanti, Lineamenti di una storia..., p. 22.

76 F. Pierotti, La seduzione..., p. 70.

77 Ivi, p. 71.

78 Y. Yumibe, ‘Harmonious sensations of sound by means of colors’: Vernacular colour abstractions in silent cinema, in “Film History”, vol. 21, n. 2, 2009, p. 172.

79 Ivi,p. 173.

80 A. Sainati, Il cinema oltre il cinema, ETS, Pisa 2011, p. 24.

81 F. Pierotti, La seduzione..., p. 32.

82 Cfr. P. Dubois, Hybridations et métissage…, 75-79. Per comodità espositive abbiamo invertito l’ordine dell’esposizione dell’autore francese, che analizza primariamente i Métissages. Per l’immagine ibridata cfr. fra gli altri R. Misek, Chromatic Cinema...;L. Venzi, Il colore...; G. Legrand, “«Dans le même film». Proposition pour l’étude du passage noir et blanc/couleur (ou l’envers)”, in La couleur en cinéma,éd. Y. Tobin, in “Positif”, nn. 375-376, maggio 1992, pp. 140-142 e J. Aumont Da les couleurs à al couleur, in La couleur cinéma..., pp. 30-49.

83 Per Dubois tre possono essere gli effetti di questi disegni: -descrittivo: la colorazione ha un ruolo ornamentale e non ha niente del mondo rappresentato; -narrativo: i colori sono motivo stesso della narrazione; -attrattivo (o spettacolare): le componenti cromatiche servono a mostrare più che a narrare, secondo una logica dell’attrazione legata al continuo movimento del colore, P. Dubois, Hybridations et métissage..., p. 78.

84 G. Sadoul, Histoire générale du cinéma, Denoël, Paris 1978, p. 90.

85 Ibid.

86 Sugli inizi del teatro Robert Houdin diretto da Méliès dal 1888, cfr. G. Méliès, Le memorie di Méliès, in Verso il centenario,a cura di R. Redi, Di Giacomo, Roma1987, pp. 101-102.

87 Interessante (e del tutto condivisibile) è l’opinione di Bernardi per il quale «il colore agisce sui codici anche precedentemente alla sua introduzione, dall’esterno, […] se solo si pensa a quanta considerazione avessero per i colori gli scenografi, che dovevano perfettamente conoscere l’effetto di certi abiti o di certe stanze rispetto alla gamma dei grigi offerti dalla fotografia in bianco e nero». S. Bernardi, Introduzione, in Svolte tecnologiche nel cinema italiano. Sonoro e colore. Una felice relazione fra tecnica ed estetica, a cura di S. Bernardi, Carocci, Roma 2006, p. 12.

88 P. Cherchi Usai, George Méliès, Il Castoro, Milano 1983, p. 60.

89 G. Méliès, Le vedute cinematografiche, in A. Gaudreault, Cinema delle origini..., p. 148.

90 P. Cherchi Usai, George Méliès..., p. 86.

91 Ivi, p. 57.

92 A. Costa, I piccoli film del grande Méliès, in Verso il centenario..., p. 13.

93 F. Pierotti, La seduzione..., p. 38.

94 Ivi, p.45. I personaggi cambiano di continuo colore dei vestiti, come nelle stesse féerie teatrali in cui il cambio repentino d’abito era un’attrazione fra le altre.

95 Ibid.

96 Ivi, p.47.

97 I film di Méliès sono «colorati con tinte ingenue, da acquerello in maniera molto rozza […] l’effetto che se ne aveva era quello di una macchia di colore che si agitasse dinanzi all’immagine in bianco e nero». S. Masi, La luce nel cinema, La Lanterna magica, L’Aquila 1982, pp. 121-122.

98 F. Montesanti, Lineamenti di una storia..., pp. 15-16.

99 M. Dall’Asta, G. Pescatore, Ombrecolore..., p. 14.

100 Per la trama del film rimandiamo a R. Wiene, Il gabinetto del dottor Caligari, a cura di P. Bertetto e C. Monti, Lindau, Torino 1999, pp. 11-14.

101 G. Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, p. 69. Sugli effetti della diagonale sullo spettatore cfr. anche L. Eisner, Lo schermo demoniaco, Editori Riuniti, Roma 1991.

102 P. Bertetto, Lo sguardo del nulla, in R. Wiene, Il gabinetto..., p. 23.

103 Ivi, p.97.

104 Ivi, p.104.

105 J.P. Berthome, Le décor au cinéma, Cahiers du cinéma, Paris 2003, p. 57. Il gabinetto del Dottor Caligari è per Kessler un film esemplare dal punto di vista espressivo: riesce a mostrare «ciò che è tra le cose, la loro qualità emozionale». F. Kessler, La ‘métaphore picturale’: notes sur une esthétique du cinéma expressioniste, in Cinéma et peinture. Approches, éd. R. Bellour, Presses Universitaire de France, Paris 1990, p. 92. Per Deleuze l’espressionismo, di cui il film di Wiene è da molti considerato il capostipite, per la sua lotta costante fra luce e tenebre, per i contrasti di bianco e nero, per le variazioni chiaroscurali, fu il vero precursore del colorismo al cinema. Cfr. G. Deleuze, L’immagine...,pp. 70-71.

106 P. Bertetto, Lo sguardo...,p. 96.

107 A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p. 71.

108 P. Bertetto, Lo sguardo..., p. 104.

109 Ivi, p.108.

110 Cfr. P. Dubois, Hybridations et métissage..., p. 79.

111 Dopo il 1920, con l’introduzione del sonoro scomparvero i film colorati (soprattutto per imbibizione), per ragioni di ordine tecnologico, ma soprattutto estetico. Fossati fornisce una duplice possibile spiegazione: da un lato l’introduzione del sonoro potrebbe aver «soddisfatto da sola quell’esigenza di riproduzione della realtà che veniva prima ricercata con l’aggiunta del colore»; dall’altro si potrebbe pensare che «la portata spettacolare del suono sincronizzato abbia reso irrilevante la presenza dei colori sullo schermo». Cfr. G. Fossati, Quando il cinema..., p. 43.

112 Cfr. R. Misek, Chromatic Cinema..., pp. 44-46.

113 Ivi, p.34.

114 Cfr. P. Dubois, Hybridations et métissage..., pp. 79-84.

115 R. Misek, Chromatic Cinema..., p. 31.

116 Ibid.

117 J.P. Telotte, Minor hazards Disney and the color adventure, in Color..., p. 39.

118 Cfr. P. Dubois, Hybridations et métissage..., pp. 80-83. Di questa contrapposizione colore-b&n come sogno-realtà, diventato subito cliché, non mancano le parodie: ci basti ricordare A matter of Life and Death (Powell e Pressburger, 1946) cui abbiamo già accennato, in cui è la realtà ad essere colorata, con un dominio di rosso e verde, mentre l’aldilà è rappresentato in un b&n pallido che mette in evidenza ancora di più la bellezza colorata del mondo. Ivi, p. 82. Sui film di Powell e Pressburger cfr. anche J. Finler, De Becky Sharp à Lola Montès. Comment la couleur vint au cinéma entre 1935 et 1955, in Dossier. La couleur..., p. 130 e N. Ghelli, Funzione estetica del colore nel film, in “Bianco e Nero”..., p. 110.

119 Saranno i musical in seguito il terreno d’elezione del ‘passaggio al sogno’: i colori, funzionali a rendere la visione onirica, acquisiscono il massimo potere formativo. È il periodo dei film dalle tinte chiassose e sature di Minnelli e Donen, delle grandi coreografie, delle citazioni dalla pittura, dell’eccesso che conduce a due attitudini differenti: «l’accumulo dei colori, cui si fa conservare palesemente una qualità ‘pittorica’ […] [e] più spesso […] la rarefazione del numero dei colori e l’esasperazione di certe loro qualità (luminosità, saturazione, ‘purezza’». J. Aumont, Introduction...,pp. 184-185. Per Venzi questa è uno delle fasi in cui il cinema impiega più attivamente il colore, sfruttandone appieno le potenzialità, esibendolo come qualità pura, visibile e pensabile in sé. L. Venzi, Il colore..., pp. 11-15. Si veda anche l’interessante analisi che l’autore compie di Funny Face (Donen, 1957) in ivi, pp. 110-124.

120 P. Dubois, Hybridations et métissage..., p. 83.

121 Ivi, p.85.

122 Per Dubois non si tratta ancora un colore-cinema, in quanto spesso il pittorico è contrapposto, in un altro rapporto dialettico, al cinematografico (che è legato al fotografico), secondo quella relazione fra pittura e fotografia nei loro rapporti con il reale e con la componente cromatica, cui abbiamo accennato in precedenza, in ivi, pp. 86-87.

123 Cfr. M.B. Haralovich, All that Heaven Allows. Color, Narrative Space and Melodrama, in Color..., pp. 145-153.

124 Ivi, p.147.

125 Ivi, p.150.

126 Aumont vede l’immaginario del colore dominato, nei commentatori, da un doppio paradigma: il primo oppone la magia della componente cromatica alla fedeltà ai colori naturali e il secondo confronta due ideali estetici, la policromia e il poco di colore valorizzato. Il “troppo colore” è associato spesso all’eccesso di espressività, al cattivo gusto, ed è considerato contrario della fedeltà alla natura, che è povera di colori, mentre la discrezione cromatica è più esatta, più mimetica. J. Aumont, Da les couleurs..., p. 46.

127 Cfr. H. Münsterberg, Film. Il cinema muto nel 1916, Pratiche Editrice, Parma 1980 (ed. originale 1916. The photoplay: A Psychological Study, Appleton & Co., New York 1916).

128 Ivi, p.39.

129 Ivi, p.109.

130 Ivi, p.113.

131 Ibid.

132 Ibid.

133 O. Silvestrini, Rudolph Arnheim e il problema del colore, in Figure della modernità nel cinema italiano (1900-1940), a cura di R. De Berti, M. Locatelli, ETS, Pisa 2008, p. 251.

134 G. Kraiski, Introduzione, in I formalisti russi al cinema, Garzanti, Milano 1971, p. 8.

135 Ibid.

136 J. Tynjanov, Le basi del cinema, in I formalisti russi..., p. 56 (titolo originale Ob osnovach kino, pubbl. in Poetica Kino, Mosca 1927).

137 Ivi, p.57.

138 Ibid.

139 Ivi, p.60. D’altronde «il mondo visibile viene reso al cinema, non come tale, ma nelle sue correlazioni semantiche», e il cinema «è la ripianificazione semantica del mondo, spostamento del rapporto tra uomini e oggetti». Ivi, p. 61 e p. 64.

140 Ivi, p.60.

141 Ibid.

142 Ivi, p.62.

143 V. Sklovskij, Le leggi del cinema, in I formalisti russi..., p. 163 (titolo originale O Zakonach kino, in “Russkij Sovremennik”, 1, 1927).

144 Ibid.

145 V. Sklovskij, Le leggi fondamentali dell’inquadratura cinematografica, in I formalisti russi..., p. 170 (titolo originale O Snovnye zakony kinokadra, in Ich Nastojascee, Mosca 1927).

146 Ibid.

147 V. Sklovskij, Cinque feuilletons su Ejzenŝtejn, in I formalisti russi..., p. 195 (titolo originale 5 Fil’otonov ob Ejzenŝtejn, in Gremburskij scet, Leningrado 1928).

148 R. Arnheim, Film come arte, Feltrinelli, Milano 1983, p. 178 (ed. originale Film als Kunst, Ernst Rowohlt, Berlin 1933).

149 Ivi, p.175.

150 Ivi, p.176.

151 Per Aumont il colore in Arnheim si situa a metà fra realismo ed irrealismo: «Il colore non è realista ma non è più reale: è il reale-sullo-schermo, e dunque partecipa, come il cinema tutto, di un nuovo modo di vedere il mondo, di uno specifico apprendistato percettivo». J. Aumont, La trace et sa couleur,in “Cinémathèque”, n. 2, novembre 1992, p. 7.

152 R. Arnheim, Perché sono brutti i film a colori?, in “Scenario”, V, n. 3, marzo 1936, pp. 112-114 (ed. originale Remarks on the colour film, in “Sight and Sound”, IV, n. 16, 1935-1936).

153 Ivi, p.112.

154 Ibid.

155 Ivi, p.113.

156 Cfr. O. Silvestrini, Rudolph Arnheim..., pp. 256-257.

157 Ivi, p.257.

158 Ivi, p.258.

159 Ivi, pp. 258-259. Arnheim pensa infatti che un cinema di questo tipo non esista, che tutti i film a colori realizzati finora non siano che esperimenti solo raramente riusciti. Fra le opere più interessanti egli considera Becky Sharp (Mamoulian 1935), in particolare per la sequenza del ballo, e Ramona (King 1936). Il più delle volte, tuttavia, i color naturali risultano artificiosi e poco realistici. Caso diverso è invece il cinema di animazione, capace di esprimere realmente un sentimento poetico, perché non è necessario preoccuparsi del realismo e del distrarre lo spettatore.

160 È la linea che inizia con i film di Walt Disney dei primi anni ’30 è proseguita, fra gli altri, dallo scenografo Robert E. Jones, il cui ultimo esponente è proprio Ejzenŝtejn. Cfr. J. Aumont, Introduction..., pp. 209-210.

161 A. Sainati, Il cinema..., p. 44.

162 Ibid.

163 Ivi, p.53.

164 Ivi, p.59.

165 Ivi, p.58.

166 Su Balázs e in particolare sulla «stilizzazione della natura necessaria perché un film divenga arte», cfr. F. Kessler, La ‘métaphore picturale’: notes sur une esthétique du cinéma expressioniste, in Cinéma et peinture. Approches, éd. R. Bellour, Presses Universitaire de France, Paris 1990, p. 90.

167 B. Balázs, L’uomo invisibile, Lindau, Torino 2008 (ed. originale Der Sichtbare Mensch, Berlin 1924).

168 Ivi, p.157.

169 Ivi, p.158.

170 A. Somaini, Il mondo nel colorito di un temperamento. Cinema ed estetica delle atmosfere, in “Fata morgana”, I, n. 1, gennaio-aprile 2007,p. 55.

171 B. Balázs, L’uomo invisibile..., p. 249.

172 Ivi, p.250.

173 Ibid.

174 Ibid.

175 Ivi, p.257.

176 Cfr. B. Balázs, Estetica del film, Editori Riuniti, Roma 1975 (ed. originale Der Geist des Films, Kapp Verlag, Halle 1930) e B. Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova,Einaudi, Torino 1987 (ed. originale Der Film. Werden und Wesen einer neuen Kunst, Globus Verlag, Wien 1952).

177 B. Balázs, Estetica..., p. 134.

178 B. Balázs, Il film..., p. 281.

179 Ibid.

180 Ibid.

181 Ibid.

182 Ibid. Sul tema si veda A. Petrucci, Il colore nel cinema..., p. 89.

183 F. Pierotti, La seduzione..., p. 180. Nella riflessione di Aumont la teoria di Balázs è contrapposta a quella di Rohmer, come base di due estetiche paradigmatiche intorno al film: mentre Balázs vede la perfezione della riproduzione come una contro-utopia, e considera piatto il colore troppo vero, Rohmer ha fiducia nelle possibilità artistiche di una esatta riproduzione attraverso i colori. Egli, come il maestro Bazin, «crede nell’utopia di un cinema a colori pienamente realista», cfr. J. Aumont, La trace..., p. 13. Rohmer, infatti, crede che il colore renda «la realtà degli oggetti ancora più precisa, più tangibile», anche laddove sembra stridere con il resto. Il film ci insegna a vedere un mondo che ha già in sé i colori. Cfr. E. Rohmer, La lezione di un fiasco, in Il gusto della..., p. 179 e E. Rohmer, Dei gusti..., pp. 119-123.

184 Alcuni teorici, la cui posizione non riguarda tanto i singoli elementi del film quanto il film in sé, rifiutano la possibilità che il cinema possa costituirsi come arte. Tra loro emblematica è la posizione di Cesare Brandi. Lo studioso italiano, in Carmine o della pittura, primo dei quattro dialoghi che costituiscono l’Elicona, considera il cinema incapace di raggiungere ciò che la vera arte richiede, la realtà pura della forma. Questa nuova forma espressiva, legata fin dalla sua nascita alla pittura, mostra con essa differenze sostanziali: mentre gli oggetti rappresentati e le modalità di rappresentazione sembrano le stesse (linee, luci, piani sono nell’uno come nell’altra), il fotogramma «mantiene in sé qualcosa che nella pittura non c’è mai [...] l’esistenza». Il cinematografo che vuole imitare i canoni di altre arti pecca di «estetismo di contaminazione, che accresce gli equivoci dell’essenza del cinematografo e non attribuisce nessuna dignità propria al cinema come arte». Il cinema è sempre una riproduzione di qualcosa che ha un’esistenza fisica e tale premessa è stata troppo a lungo trascurata facendolo confondere con la pittura o il teatro. Ogni elemento del film, la pellicola, l’obiettivo, la luce (il colore aggiungiamo noi) serve solo alla riproduzione, e la posizione di esistenza del film è un’esistenza mediata, in cui l’immagine si lega sempre a qualcosa di esistente, e quindi non è mai autonoma. Ciò che rimane al cinema è «la cruda indubitabile documentazione dell’esistente». In definitiva più che all’astanza, irriducibilità dell’opera e legame spezzato con l’oggetto della rappresentazione, che la rende unica, assieme nel mondo e fuori da esso, il cinema va riferito alla fragranza, alla semplice esistenza degli oggetti, da cui mai si possono separare le immagini. Cfr. C. Brandi, Carmine o della pittura, Valsecchi, Firenze 1947, soprattutto alle pp. 169-170 e p. 182. Queste posizioni saranno in parte corrette in C. Brandi, Teoria generale della critica,Einaudi, Torino 1974, in cui il cinema è considerato un linguaggio proteiforme che può raggiungere l’astanza proprio per la presenza esasperata in lui della realtà. Cfr. anche M. Carbone, Cesare Brandi: teoria e esperienze dell’arte, Jaca Book, Milano 2004; M. Sbacchi, Cesare Brandi: schema e progetto, in Attraverso l’immagine. In ricordo di Cesare Brandi, a cura di L. Russo, Aesthetica Prepint, 19, dicembre 2006, pp. 149 e segg.; R. De Gaetano, Il cinema tra problema della forma e dinamica delle forze, in ivi, pp. 157-165.

185 Natalie Kalmus nata nel 1882 a Houlton, nel Maine, ex-moglie del cofondatore della Technicolor, fu la prima color consultant dell’azienda americana. Per i compiti del color consultant cfr. R. Neupert, Technicolor and Hollywood: exercising restraint, in “Post Script”, Fall 1990, p. 23 e S. Street, Colour Consciousness: Natalie Kalmus and Technicolor in Britain, in “Screen”, L, n. 2, 2009, p. 192.

186 La relazione fu letta in assenza della Kalmus da K. MacGowan e poi stampata pochi mesi dopo nel “Technical Bullettin” e nel “Journal of the Society of Motion Picture Engineers”,S. Higgins, Harnessing the Technicolor Raimbow: Color Design in the 1930s, University of Texas Press, Austin 2007,p. 41. Noi facciamo riferimento alla recente ristampa, N. Kalmus, Color Consciousness, in Color..., pp. 24-29.

187 S.Higgins, Harnessing..., p. 41.

188 Ivi,pp. 42-47.

189 Ivi, p.44.

190 Ivi, p.45.

191 F. Pierotti, La seduzione..., p. 143.

192 Cfr. S. Higgins, Harnessing..., in particolare le pp. 46-47, pp. 74-75, p. 108 e p. 209.

193 L’opera ha un’immensa importanza storica e tecnica, la stessa per la componente cromatica che molti critici e teorici del cinema attribuiscono a The Jazz Singer (1927) per il sonoro. Fu girata completamente in studio e il direttore della fotografia Rennahan, assistito da vari consulenti e tecnici del colore, poté gestire al meglio le luci e gli effetti cromatici: esposti in tinte peculiari e selezionate, i colori sono legati al narrativo, eppure riescono a ritagliarsi un ruolo importante e autonomo. Il loro peso grafico li collega ai vari personaggi, che vengono quasi inglobati dalle tinte. Sul film cfr. fra gli altri S. Higgins, Demonstrating Three-Strip Technicolor: Becky Sharp,in Color..., pp. 155-159; F.F. Basten, The Glorious Technicolor. The Movies’ Magic Rainbow, A.S. Barnes & Co, Thomas Yoseloff, Cranbury, London 1980, pp. 51 e segg. e J. Aumont, La trace..., p. 20. Sull’apporto del regista Mamoulian e dello scenografo Jones al film, cfr. S. Higgins, Harnessing..., pp. 48-75. Per le teorie degli stessi artisti coinvolti nel film. Cfr. R. Mamoulian, Quelques problèmes liés à la réalisation de films en couleurs, in “Positif”n. 307, 1986, pp. 53-55; R. Mamoulian, Color and light in film, in “Film Culture”, n. 21, 1960, pp. 68-79, e Robert E. Jones, cit. in J.P. Telotte, Minor hazards Disney..., p. 30.

194 Higgins lo definisce appropriatamente «extrusive», in S. Higgins, Harnessing..., p. 73.

195 Ivi, p. 89.

196 Ivi, p.98.

197 Esempio fondamentale di questa modalità di esposizione del colore è, negli anni ’30, The Trail of the Lonesome Pine (Hathaway 1936). In un’opera dominata da colori neutri e colori a saturazione costante, sono le gradazioni dei toni a definire lo spazio, come l’illuminazione i personaggi. Il trattamento della componente cromatica si ibrida con lo stile classico, ma marca anche delle differenze: in particolare per il suo utilizzo nei panorami spettacolari delle montagne e nelle sottolineature, con una paletta più intensa, della relazione fra i due protagonisti. Ivi, p.104 e F. Pierotti, La seduzione..., p. 151.

198 Tra le più interessanti annoveriamo The Adventures of Robin Hood (Le avventure di Robin Hood, Keighley, Curtiz 1938) e Gone with the Wind (Via col vento, Fleming 1939). Del primo si ricordano i costumi brillanti, dominati da colori cospicui e da accostamenti fra complementari (contro il Restrained Mode). L’immagine è stilizzata e non si insegue più un singolo effetto cromatico, ma si lavora a inserirlo fra gli altri elementi stilistici, creando dei contrasti e delle armonie più complesse rispetto a quelle teorizzate dalla Kalmus. Cfr. S. Higgins, Harnessing..., pp. 140 e segg. Gone with the Wind dà un contributo fondamentale all’integrazione degli effetti coloristici nello stile hollywoodiano classico, anche attraverso l’utilizzo di tecniche strettamente legate al b&n. Gli effetti classici dell’illuminazione monocroma sono esposti assieme a nuovi colori forti e intensi; il film, come altri del modo assertivo, oscilla fra sottomissione ed esposizione del colore. Il colore crea una nuova sintesi con la luce, il cui problema appare connesso con quello del design delle tinte stesse. Ivi, pp. 205-206. Per le idee sul colore di Selznick, produttore di Gone with the Wind, ivi pp. 174-176 e F. Pierotti, La seduzione..., p. 154.

199 Ivi, p.201.

200 Cfr. D. Andrew, The post-war struggle for color, in Color..., pp. 44-45.

201 Cfr. J. Aumont, La trace..., p. 14.

202 Ivi, p.18.

203 Cfr. il saggio del 1953 Cinema «a rilievo» e soggettivazioni dell’immagine, in C.L. Ragghianti, Cinema..., p. 117.

204 Ivi, p.118.

205 Ivi, p. 119.

206 Ibid.

207 Questa teoria sarà ribadita in vari saggi successivi, La televisione come fatto artistico e Cinema e libertà in C.L. Ragghianti, Cinema..., passim.

208 Cfr. soprattutto S.M., Ejzenŝtejn, Il colore, Marsilio, Venezia 1989. Per molti teorici o critici del cinema in realtà le teorie del colore di Ejzenŝtejn non sono così innovative: Deleuze sostiene, ed esempio, che il colorismo di Ejzenŝtejn non condusse mai a un’immagine colore, ma solo a un’immagine colorata, cfr. G. Deleuze, L’immagine..., p. 141. Aumont invece ritiene che l’autonomia della componente cromatica sia relativa, perché da mettere «al servizio di una ‘grande’ forma filmica nella quale tutti gli elementi si rinforzano reciprocamente», cfr. J. Aumont, Introduction..., p. 211. Sul tema cfr. anche P. Dubois, Hybridations et métissage..., p. 89.

209 Per Ejzenŝtejn è opinione corrente che «è buono quel film a colori in cui il colore non si fa notare». Cfr. S.M. Ejzenŝtejn, Il colore..., p. 77.

210 J.L. Leutrat, De la couleur-mouvement aux couleurs fantômes, in La couleur en cinéma..., p. 26.

211 Cfr. P. Montani, Introduzione, in S.M. Ejzenŝtejn, Il colore....

212 Cfr. S.M. Ejzenŝtejn, Il montaggio, Marsilio, Venezia 1992, p. 25. Per Grande, il colore è «promosso a costante semiotica dell’operare artistico». L’opera acquista un ritmo e una musicalità attraverso l’associazione di vari elementi che vanno oltre la realtà del fenomeno. Il colore si fa musica ed emozione. Questo colore-musica fa nascere una gamma espressiva dai vari toni visivi. Non è impiegato in modo automatico né è un semplice eccedente espressivo senza legami con gli altri elementi dell’opera filmica, ma è parte della gamma emozionale e ritmica. Quest’ultima può connotare «sottotesti psicologici» legati alle ‘componenti naturali’ e alla drammaturgia dell’opera. Suono e immagini naturali vanno scisse e poi ricomposte secondo una intonazione emozionale: i rapporti normali sono alterati, nasce la musica del colore in contrapposizione alla coloritura degli oggetti quotidiani. È proprio da tale alterazione che ha origine l’emozione estetica, garantita dalla capacità dell’arte di porsi fra oggetto fenomenico e soggetto, nelle sue relazioni con la sua cultura, le emozioni le idee. Così e solo così la componente cromatica sarà emancipata dai legami con la neutrale quotidianità e con la natura. Cfr. M. Grande, Il cinema in profondità di campo, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, Roma 2003, pp. 267-278.

213 Cfr. P. Montani, Introduzione..., pp. XIII-XV.

214 Cfr. S.M. Ejzenŝtejn, Il montaggio..., pp. 161 e segg.

215 Montani lega il processo di formazione dell’immagine-colore, «interamente segnato dalle figure del rovesciamento e dell’ambivalenza» alla teoria dell’estasi e del pathos, caratteristica del pensiero di Ejzenŝtejn. P. Montani, Introduzione, in S.M. Ejzenŝtejn, Il colore..., pp. XV-XVI.

216 S.M. Ejzenŝtejn, Il cinema..., p. 89.

217 Cfr. L. Venzi, Il colore..., p. 84.

218 S.M. Ejzenŝtejn, Il cinema..., pp. 79 e segg.

219 Ivi, p.79.

220 Ibid. Tipico a questo proposito l’esempio ejzenŝtejniano della disgiunzione fra scricchiolio e stivale che scricchiola. Sulla risonanza colorica si veda un articolo interessante di Panella, per cui “la risonanza colorica apre la possibilità dell’esperienza del mondo delle cose colorate senza relegarle nella dimensione della pura tecnica cinematografica”. Il colore è inteso da Ejzenŝtejn come mezzo di conoscenza ed è l’unico elemento capace di fondere immagine e suono. G. Panella, Riflessioni su risonanza colorica e stile cinematografico, in Ondavideo. Il colore elettronico, “I quaderni di Ondavideo”, n. 3, 1987, pp. 18-20.

221 S.M. Ejzenŝtejn, Il cinema..., p. 84.

222 Ibid.«Alla modulazione luminosa del flusso cromatico [...] è affidato il compito di narrazione emotivamente generalizzata e di espressione di un contenuto interno che incide direttamente sul piano tematico».

223 In Ejzenŝtejn «la drammaturgia del colore è pensata in termini di sdoppiamento del testo». P. Montani, Introduzione..., p. XVII.

224 In italiano La congiura dei boiardi, mentre il titolo originale è Ivan Groznyi; il film, benché terminato nel 1946, uscì solo nel 1958, prima per problemi con la censura staliniana, poi per la sopravvenuta morte del regista. La sequenza nell’edizione in DVD del film va dal minuto 56 al 73, con un’appendice nei momenti finali dell’opera, al min. 83.

225 S.M. Ejzenŝtejn, Da una ricerca ..., pp. 30-44.

226 Queste fasi sono: 1) considerazione dei problemi del soggetto e dei vari oggetti, dai costumi agli arredi; 2) inventario dei colori dell’ambiente, in modo da ottenere una gamma cromatica iniziale; 3) inserimento dei motivi tematico-narrativi legati alla gamma cromatica e alla gerarchia delle immagini-colore (oro-rosso-nero); 4) messa a punto definitiva della gamma cromatica con l’aggiunta del celeste; 5) definizione dei motivi cromatici: i movimenti delle immagini-colore, nei vari oggetti, divengono dettagli significanti; 6) precisazione dei toni maggiori e minori e degli accordi di colore; 7) determinazione dei tratti del movimento generale dei colori e della struttura del contrappunto colorico; 8) precisazione dei dettagli dell’orchestrazione dei colori e dei vari movimenti dei motivi del colore. Cfr. in particolare S.M. Ejzenŝtejn, Da una ricerca..., pp. 30-44.

227 Cfr. P. Montani, Introduzione..., pp. XVI e segg.

228 Ivi, p.XVII.

229 S.M. Ejzenŝtejn, Da una ricerca..., p. 40.

230 «Ejzenŝtejn ama la composizione, che non è mai geometrizzazione, ma mira sempre all’articolazione di senso». J. Aumont, Introduzione, in S.M. Ejzenŝtejn, La natura..., pp. XXV. E altrove: «La riflessione sul colore (di Ejzenŝtejn) è basata su una questione che molto lo preoccupava: come può l’immagine filmica essere nel contempo da vedere e da comprendere, [...], trasmettere un senso, [...], e una sensorialità». J. Aumont, L’occhio..., p. 134.

231 F. Pierotti, Dalle invenzioni ai film. Il cinema italiano alla prova del colore (1930-39), in Svolte tecnologiche…, p. 102.

232 Cfr. L. Venzi, Il colore..., p. 22.

233 In W. Johnson, Coming in terms with color, in Color...,p. 234.

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Temi di Critica - numero 6

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