teCLa :: Rivista #7

in questo numero contributi di Giacomo Pace Gravina, Giuseppe Giugno, Claudia Caruso, Valentina Raimondo, Giuseppe Cipolla, Simone Ferrari.

codice DOI:10.4413/CARUSO - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

L’ATTIVITÀ DI ETTORE GABRICI DIRETTORE DEL R. MUSEO DI PALERMO di Claudia Caruso

In occasione della mia tesi di laurea[1] è stato possibile riconsiderare la figura di Ettore Gabrici (Napoli 1868 – Palermo 1962) – studioso poco noto ma il cui peso culturale si è rivelato di grande importanza – grazie all’analisi dei suoi scritti editi, pubblicati su argomenti vari, dall’archeologia alla storia dell’arte medievale e alle arti decorative, e di documenti inediti, rintracciati presso l’Archivio Centrale di Stato di Roma, preziosa testimonianza dell’attività di funzionario statale, come direttore del R. Museo di Palermo.

Ettore Gabrici giunge a Palermo portando con sé le esperienze pregresse. Particolarmente interessanti appaiono gli anni della formazione napoletana, caratterizzati da rapporti lavorativi che hanno inciso sulla sua formazione culturale e ne hanno indirizzato il lavoro verso più campi di ricerca. Il giovane Gabrici, dopo la laurea nel 1889, era entrato nell’entourage culturale partenopeo sotto la guida di Giulio De Petra, ordinario di Archeologia e direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli[2]. De Petra, dovendo stilare un nuovo inventario e la guida del museo, chiese la collaborazione nel 1893 di una équipe di studiosi, fra cui Gabrici, incaricato di redigere il catalogo delle monete[3]. Nella Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli[4] del 1908, Gabrici sarà tra i compilatori e curatore della sezione di Numismatica del museo e in relazione a ciò cominciò a lavorare a fianco del maestro, conseguendo poi nel 1902 la qualifica di Ispettore del Museo.

Successivamente troviamo Gabrici a Firenze, impegnato negli scavi presso Bolsena[5]. A Firenze, città in cui rimarrà per circa tre anni, collabora con Luigi Adriano Milani, direttore dal 1882 del Museo Archeologico di Firenze e fondatore del giornale “Studi e Materiali di Archeologia e Numismatica”, sul quale pubblicarono numerosi suoi allievi e colleghi tra cui Luigi Pernier, Nicola Terzaghi e Giuseppe Petroni. Nel 1910 partecipò al concorso per la carica di direttore del Museo Archeologico di Napoli, ma il vincitore risultò Vittorio Spinazzola, anche dopo il ricorso tentato da Gabrici. Dopo Napoli[6] preferì trasferirsi a Roma per lavorare al Museo Archeologico di Villa Giulia[7].

Da questo momento in poi Gabrici è presente in Sicilia. Dalla Topografia e Numismatica dell’antica Himera (e di Terme)[8] del 1894 apprendiamo che un primo viaggio in Sicilia era stato compiuto nel 1891, durante il quale aveva avuto occasione di vedere a Palermo, grazie ad Antonino Salinas, la collezione di numismatica del museo da lui diretto, varie collezioni private e il sito archeologico di Himera.

Durante e negli anni successivi la Grande Guerra, Gabrici riprese gli scavi di Salinas che interessavano varie aree della Sicilia occidentale. Si dedicò agli scavi di Termini Imerese legando il suo nome soprattutto a Selinunte. Portò a compimento lo scavo già iniziato da Francesco Saverio Cavallari del Santuario della Malophoros poi oggetto di una pubblicazione[9]. In seguito si dedicò all’acropoli, procedendo con il metodo stratigrafico appreso dai suoi maestri e concependo il reperto come punto di partenza dell’indagine storica. L’interesse del mondo archeologico verso questo sito così importante spinse Gabrici a pubblicare molti articoli sul tema fino a organizzare una raccolta critica del suo lavoro su Selinunte in due ampie monografie pubblicate in “Monumenti Antichi dei Lincei” nel 1933[10] e nel 1956[11].

Gabrici, allontanandosi momentaneamente dai suoi studi di archeologo affronta anche alcuni aspetti dell’arte medievale dall’architettura alla pittura. Tale interesse comincia a dare frutti attorno agli anni venti con la pubblicazione di La materia del cantare di Elena nel soffitto Chiaramonte[12] (1923) e di Il soffitto istoriato nel Palazzo Steri di Palermo[13] (1928), studi che poi confluiranno in un più ampio studio scritto in collaborazione con Ezio Levi[14]. È del 1923 lo studio su Il Palazzo di Re Ruggero[15], interessante per l’analisi storico-artistica e il riesame delle fonti, Gioacchino Di Marzo in primis, e dei contributi più recenti come La storia dell’Arte Italiana di Adolfo Venturi. Ma più interessante, nel contesto dei nostri studi, è la dimostrazione ancora una volta del grande approccio critico analitico che Gabrici manifesta in ambiti che esulano dalla sua formazione di archeologo, come emerge dal discorso inaugurale sostenuto per l’apertura dell’anno accademico 1934-35 che Gabrici intitola L’Abbozzo[16].

Gli argomenti affrontati nell’Abbozzo del 1935 sono ripresi dopo la seconda guerra mondiale in Riflessioni sul travaglio dell’arte figurativa contemporanea[17], nel discorso inaugurale tenuto in occasione dell’apertura del nuovo anno accademico nel gennaio 1946[18]. Ancora ricordo gli articoli apparsi in “Giglio di Roccia” riguardanti la ceramica siciliana, argomento che in quegli anni sarà oggetto di articoli anche su riviste nazionali come “L’Arte” o “Faenza”. Sia il primo di questi articoli, Collesano nella storia della maiolica siciliana[19], sia il secondo, intitolato Appunti sulle officine ceramiche di Palermo e Sciacca[20], dimostrano l’attenzione nei confronti delle cosiddette “arti minori”[21] che, come vedremo, Gabrici confermerà anche nella sua attività di funzionario museale.

Ettore Gabrici assunse la carica di direttore del Museo Nazionale di Palermo, poco dopo la dipartita del professore Antonino Salinas, esattamente il 26 agosto 1914[22]. Nella “Rivista Italiana di Numismatica” del medesimo anno, in occasione della commemorazione funebre tenuta in onore di Antonino Salinas[23], apprendiamo che

 

Il nuovo Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Palermo succeduto al compianto professore Antonino Salinas, è il professore Ettore Gabrici, già Dirigente del Gabinetto Numismatico di Napoli e Ispettore poi degli scavi presso il Museo di villa Giulia in Roma. Al valente numismatico, le congratulazioni della rivista di cui fu collaboratore[24].

 

Come nuovo direttore, Gabrici intraprese una fitta corrispondenza con il Ministro della Pubblica Istruzione Corrado Ricci per tenerlo costantemente aggiornato sulle necessità dell’amministrazione del museo, tanto che la sua prima relazione risale solamente al 31 agosto, a distanza di pochi giorni dalla sua nomina. Da questa prima relazione, che lo stesso Gabrici specifica essere solo una descrizione delle prime impressioni, emerge da una preliminare ricognizione tra le sale e gli uffici del museo svolta sotto la guida dell’ispettore Cesare Matranga e del segretario Francesco Tommasi, una situazione “anomala”. Percorrendo le sale e i corridoi e l’area riservata agli uffici e alla direzione, Gabrici constata subito una condizione di generale degrado in cui versava il museo: fra l’altro, trovò i corridoi della direzione ingombri di casse in cui erano conservati i volumi del lascito Salinas, vicenda veramente annosa che durò per tutto il mandato di Gabrici.

Già il 4 settembre 1914, Gabrici aggiornava il ministro sulle pratiche aperte dal Matranga il quale aveva informato il Ministero delle disposizioni testamentarie di Salinas e richiesto l’autorizzazione ad accettare il legato in parola, risposta che tardava a giungere e che ora Gabrici riproponeva. Gabrici ricorda al ministro che Salinas da direttore aveva acquistato numerosi oggetti di arte medievale, moderna e antica con fondi personali e li aveva conservati in una stanza degli uffici della direzione a cui, sopraggiunta la sua morte, furono apposti i sigilli dalla autorità giudiziaria. Una gran confusione regnava pure nelle sale della Scuola di Archeologia e nelle varie sale. Queste accoglievano le collezioni classiche esposte alla rinfusa, parte in vecchi armadi e parte all’aperto in terra accanto agli armadi stessi senza un criterio di selezione «che non deve mai perdersi di vista nella esposizione dei monumenti»[25].

Da ciò conseguivano, come egli riferisce, due gravissimi inconvenienti:

 

l’uno che l’estetica delle sale già compromessa dallo stato di deperimento dei battenti delle porte e vetrate e degli armadi, è addirittura soppressa, l’altro che la nettezza giornaliera riesce altrettanto difficile, a questo va aggiunta una deplorevole inerzia del personale di custodia vecchio e lento[26].

 

A distanza di pochi mesi segue una relazione in data 9 dicembre 1914, in cui emergono i propositi e i primi interventi che Gabrici ha intenzione di attuare per risollevare il museo che

 

è ancora come un immenso organismo addormentato, che solo potenti stimoli possono scuotere, è come una grande macchina, invasa dalla ruggine per lungo stato di inerzia ed alla quale grandi cure occorrono avanti che si rimetta in moto[27].

 

In primo luogo, si premurò di mettere in sicurezza alcuni accessi del museo munendo alcune lunette al pianterreno e gli accessi delle terrazze contigue alla chiesa di S. Ignazio all’Olivella con grate di ferro. Lo stato di abbandono del fabbricato perdurato per molti decenni, aveva causato lo scrostamento dell’intonaco delle pareti che col tempo erano state ricoperte da una fitta vegetazione che, oltre a provocare infiltrazioni di umidità, invadeva anche le finestre schermando la luce all’interno delle sale. Tra i primi propositi sono i lavori di manutenzione per rendere più decoroso l’aspetto dell’edificio. Anche il vestibolo del museo necessitava di interventi, perché:

 

la porta principale del museo, sulla via Roma, dà accesso ad un’ampia sala terrena. Questa era tutta occupata da un brutto monumento sepolcrale di marmo nero del XVII secolo, a sinistra da una grande baracca di legno adibita alla vendita dei biglietti, le pareti erano letteralmente ricoperte di quadri ad olio dei secoli XVII e XVIII con ritratti prelati[28].

 

Gabrici fece rimuovere il monumento sepolcrale e smontare la baracca; mise nei depositi le vecchie pitture e, con qualche pezzo archeologico e qualche sedile, decorò l’ingresso «ottenendo per ora la decenza», ma, «nulla potei fare finora per rendere meno ripugnante l’aspetto di un lungo corridoio che dal vestibolo introduce al Museo».

Biancheggiate le pareti di alcuni corridoi e delle sale più frequentate dai visitatori, munì le finestre, prive di scuri, di tende blu per proteggere le suppellettili d’argento dai raggi solari diretti e in altri casi spostò alcuni monumenti per proteggerli da danni maggiori come i preziosi affreschi di Solunto che, dalla parete del cortile principale, furono trasportati nelle sale dei grandi bronzi di stile pompeiano. Per quanto riguarda la zona dedicata agli uffici acquistò alcuni mobili per la stanza della direzione, per il corridoio e per la sala di aspetto e divise questa dalle stanze private con una parete in vetro. Questi dunque, i primissimi interventi che Gabrici nel giro di tre mesi compì[29]. Nei mesi successivi su richiesta del ministro, che chiede costanti ragguagli, le relazioni si fanno più dettagliate e riguardano i vari ambiti museali dalla manutenzione a interventi straordinari di ristrutturazione; dalla risoluzione di problemi riguardanti la conservazione e la tutela dei monumenti, a un ripensamento della “didattica” del museo.

Gli spazi dedicati all’arte classica erano esigui e in un’unica sala erano riunite le Grondaie di Imera, la statuaria romana, le Metope selinuntine. Una gran quantità di materiale archeologico, proveniente dagli scavi di Giardini e Randazzo, rimaneva ancora chiusa nelle casse dal giorno in cui era pervenuta al museo. Gabrici sottolineava la necessità di restaurare molte opere presenti nelle sale e di esporre, una volta catalogate e studiate, quelle dimenticate nei depositi. Un altro punto debole erano gli scaffali ormai obsoleti: le sale che ne avevano di «tollerabili» erano quelle dei vasi greci, per le quali considerava: «non si può certo pretendere che tutti gli scaffali siano di ferro battuto con palchetti di cristallo, ma certi vecchi credenzoni e scaffali del settecento bisognerà pure metterli da parte»[30]. Nelle stesse condizioni si trovava la pinacoteca, in cui le raccolte medievali e moderne erano ammassate o disposte in file lungo i corridoi «a guisa di magazzino d’antiquario».

Il problema principale era la mancanza di spazio e, osservava il direttore, solo quando «il passaggio di questa pinacoteca con le collezioni accessorie nel monumentale palazzo Abbatelli si sarà avverato, i due musei che oggi stanno a disagio in questo edificio potranno guadagnare spazio e soddisfare le esigenze della estetica»[31]. La biblioteca del museo era collocata entro vecchi scaffali in uno dei corridoi della direzione, con uno schedario incompleto e reso inutile dallo spostamento che i libri avevano subito quando, dopo la morte del Salinas, furono raggruppati insieme. Urgente era dunque per Gabrici cominciare una verifica e una successiva schedatura, a maggior ragione quando al cospicuo fondo librario si unì la biblioteca del lascito di Salinas che constava di circa 8.000 volumi. La nuova acquisizione costrinse Gabrici a trovare una nuova sede. Furono scelte le sale della Scuola di Archeologia e questa fu spostata nei locali sopra gli uffici della direzione. Le due biblioteche occuparono così due sale e un corridoio. Anche se con l’accorpamento della raccolta di Salinas la biblioteca colmò parecchie lacune, soprattutto nel campo numismatico, Gabrici segnala al ministro la necessità di arricchirla soprattutto con opere moderne che potessero servire da supporto alle ricerche degli studiosi. Disorganizzazione e confusione erano riscontrabili anche tra le sale dell’archivio del museo:

 

Dicono che il Prof. Salinas usasse di trattare affari al museo, talvolta delicatissimi, senza mettere penna su carta, che si portasse nei suoi viaggi lettere del Ministero, le quali non sempre erano rimesse a posto. Ho toccato con mano l’esattezza di questa asserzione, poiché le carte d’ufficio, trovate a casa sua e quelle che egli teneva sparse nelle stanze della vecchia e nuova Direzione, oltrepassano il migliaio. Molte sono protocollate, moltissime altre non protocollate; e per queste ultime ho istituito un registro di Protocollo Speciale che potrà raggiungere il mezzo migliaio. […] l’archivio è ora in via di ordinamento, e tra non molto quando meglio sarà fornito di scaffali adatti, che non mancano nei depositi del Museo, potrà funzionare regolarmente, senza spese di sorta[32].

 

Anche l’inventario generale del museo gravava in pessime condizioni. Gli innumerevoli oggetti accumulati nei depositi e chiusi in casse, provenienti dai principali luoghi di scavo siciliani – Selinunte, Marsala, Mozia (Gabrici fu qui a stretto contatto con il proprietario dell’isola, l’inglese Joseph Whitaker) – erano privi in certi casi pure del giornale di scavo, mai descritti o numerati né presenti nel giornale d’entrata.

Il lavoro di riordino e d’inventariazione dei manufatti abbandonati all’interno dei magazzini fu un’importante occasione di studio, e alcuni scritti di Gabrici sono inerenti la sua attività all’interno dell’istituto: si tratta di articoli nei quali esprimeva, spesso avvertendo un certo peso di responsabilità, l’urgente e fondamentale studio dei manufatti, come nel caso di alcuni frammenti epigrafici provenienti da Selinunte e Mozia:

 

i frammenti epigrafici che pubblico furono da me, in gran parte, rinvenuti nei magazzini di deposito presso le rovine di Selinunte e nel Museo Nazionale di Palermo. Avendo in animo di cercare a cognizione dei dotti un numero considerevole di monumenti antichi d’ogni genere, ancora inediti, da me studiati e raccolti nel detto Museo, stimo opportuno di cominciare dalle seguenti epigrafi arcaiche, le quali contribuiranno un poco la scarsa serie delle iscrizioni selinuntine finora conosciute[33].

 

Così pure dedicò tempo allo studio dei documenti e delle relazioni lasciate negli archivi, grazie ai quali riuscì a ricostruire le dinamiche degli scavi e i reperti emersi identificandoli con quelli conservati al museo. Partendo proprio dalla documentazione fu capace di ricostruire da un frammento un manufatto nella sua interezza.

L’esempio più evidente che Gabrici descrive con entusiasmo al ministro Corrado Ricci in una sua relazione[34] è il Gorgoneion del Tempio C di Selinunte [fig. 1][35], oggi esposto in una sala del museo proprio intitolata a Gabrici. Egli cercò di reperire informazioni su alcuni frammenti che giacevano nei depositi privi d’identificazione, chiedendo ai vecchi custodi e agli operai scavatori, fino a quando non decise di recarsi a Selinunte dove trovò, a nord ovest del Tempio C, un frammento di un enorme sopracciglio fittile policromo, che risultò coincidere con gli altri resti conservati al museo. Grazie a questa scoperta sul luogo ebbe la conferma che il tempio possedeva un enorme Gorgoneion di cui fu possibile la parziale ricostruzione.

 

La direzione del Museo di Palermo dispone del prezioso materiale finora imperfettamente e parzialmente studiato ha dinnanzi a sé, fra gli altri molti, anche questo importantissimo compito. […] ma il tema di questa mia nota, pur avendo grande attinenza con quello accennato, assurge all’importanza di una vera e propria rivelazione per la scienza, in quanto dimostra che la decorazione fittile policroma del Tempio C di Selinunte non limitavasi alla sima ed alle tegole semicilindriche lungo la linea d’incontro al sommo dei due pioventi, ma comprendeva bensì delle colossali maschere in terracotta, collocate come acroterii; e nel bel mezzo del timpano forse del solo frontone orientale, era applicato un immenso “gorgoneion” policromo a bassorilievo alto metri 2.50 all’incirca[36].

 

Frutto dei suoi continui studi sul materiale conservato al museo furono anche due scritti dedicati uno ad alcuni vasi inediti e l’altro alla celebre collezione Casuccini. In Vasi greci inediti dei Musei di Palermo e Agrigento[37] nota che le ultime relazioni, in merito ai manufatti in terracotta presi in esame, risalgono al 1871 e che mancano anche altri ragguagli riguardo l’incremento delle raccolte di ceramica greca fatte dopo questa data. L’identificazione e la catalogazione è estremamente complessa ed egli cerca di approfondire l’analisi solo di quei manufatti che possono essere comparati con gli incartamenti dell’archivio. Tra questi considera di gran pregio una lekythos attica a figure nere con Achille consegnato a Chirone della quale trova il documento di acquisizione risalente al 1898.

Nel 1928 Gabrici dedica ai manufatti chiusini lo scritto La Collezione Casuccini del Museo Nazionale di Palermo[38]. Alcune terrecotte della collezione, appartenuta al conte Pietro Bonci Casuccini acquisita dal museo di Palermo nel dicembre 1865, avevano subito restauri invasivi, quando si trovavano a Chiusi e ancora in occasione del loro trasporto in Sicilia, che Gabrici documenta fornendo una precisa descrizione di interventi e alterazioni.

L’inventariazione generale rimase uno dei problemi più annosi da risolvere procedendo con una verifica generale lunga e faticosa di tutti gli oggetti. In attesa di disporre di un personale più qualificato che potesse aiutarlo nella verifica, attraverso i vecchi cataloghi e nella compilazione di nuova inventariazione di tutti i beni, Gabrici divise in grandi gruppi il materiale distinguendolo in archeologico, librario, fotografico, affidando ad ogni ambito un funzionario responsabile. Cominciò il riordino dell’archivio, sistemando le pratiche riguardanti gli atti dell’Ufficio degli Scavi e del Museo Nazionale per poi procedere con i documenti della Galleria e con gli incartamenti degli Uffici di Esportazione.

Quanto al medagliere, che necessitava di ulteriore sforzo per il valore e la quantità di oggetti ammassati e conservati entro armadi, cassette, buste, Gabrici decise di porre i sigilli alla porta della vecchia direzione dov’era il medagliere, per rimandare temporaneamente il lavoro di inventariazione che richiedeva, secondo la sua previsione, più di un anno di lavoro.

Alla luce di questa situazione negativa in tutti i suoi aspetti, gli interventi di Gabrici e i suoi sforzi sono notevoli ma non esaustivi né immediati a causa dei pochi fondi a disposizione e di un personale numericamente scarso e poco efficiente. Per assicurare la disciplina del personale nell’istituto, tra i primi provvedimenti presi fu l’introduzione del registro di presenza.

Il monitoraggio del ministro Ricci sull’operato di Gabrici era costante e più volte il ministro spese parole di stima e ammirazione nei confronti del direttore. Il sostegno di Ricci però era molto oculato o si arrestava quando le richieste economiche avanzate da Gabrici diventavano più onerose e spesse volte i programmi per risollevare le sorti del museo avviati coi pochi fondi a disposizione venivano bruscamente rallentati. Tanto che l’esito di un’ispezione del 1916 è ancora sfavorevole.

 

L’ispezione eseguita all’ufficio di Economato permise di constatare che l’attuale Soprintendente agli scavi e direttore del Museo Ettore Gabrici esercita una lodevole sorveglianza sull’andamento dei servizi contabili-amministrativi e che le scritture relative alla gestione dei fondi della dotazione sono tenute molto più regolarmente che non negli altri Istituti di Palermo dipendenti dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti […]. Deplorevole invece è lo stato delle scritture inventariali […]. Vi sono stati immessi libri, manoscritti, stampe, fotografie ed altri oggetti, che il Prof. Salinas legò al Museo, sebbene non siano ancora compiuti gli atti per l’accettazione del legato […] per i depositi degli Enti e dei privati non esiste un registro di entrata e di uscita, e, quindi, qualsiasi notizia sulla consistenza di quelli non può desumersi che dai documenti di archivio, non sempre facilmente reperibili. Il museo possiede una Biblioteca speciale di opere di archeologia, arte e storia abbastanza notevole, ma il numero dei volumi non può essere precisato, poiché non esiste un inventario e nemmeno un catalogo regolare. […] inoltre il personale di custodia è assolutamente insufficiente […] così da essere costretti a tener chiuse alternatamente la sezione dei ricordi patrii e quella dei vasi greci, delle maioliche e dei bronzi, e senza alternazioni le sale dei merletti, delle oreficerie e stoffe antiche […][39].

 

I lavori proseguono lenti ma con costanza e la dimostrazione degli esiti positivi dell’operato di Gabrici si avrà quando, in occasione del cinquantenario del museo nei locali dell’Olivella (1918), si organizzerà una commemorazione in ricordo di Salinas. I preparativi per l’evento e la raccolta fondi cominciano sin dal 1916 e dureranno fino al 1922. La cerimonia sarà occasione per Gabrici di mostrare e consegnare alla città un museo nuovo. Nell’invito che Gabrici scrive il 26 maggio 1922 al ministro Arduino Colasanti leggiamo:

 

Mi onoro di annunziare all’On. Ministro, che il giorno 7 giugno, alle ore 16, con l’intervento del nostro Augusto Sovrano verrà celebrato il cinquantesimo anniversario della istituzione di questo glorioso istituto nei locali che presentemente occupa, verrà inaugurato il busto di Antonino Salinas e saranno aperte sei sezioni, costituite in gran parte da materiale archeologico ed artistico finora chiuso nei depositi e cioè: la Sezione della Preistoria della Sicilia (4 sale del 3o piano); la Sezione Topografica Siceliota (2 corridoi del 1o piano); la Sezione delle Terrecotte greche votive (4 sale del 3o piano); la Sezione delle Majoliche siciliane e ferri battuti (2 saloni); Pinacoteca di scuole diverse (10 salette); Merletti e ricami siciliani (3 salette)[40].

 

Nei corridoi del primo piano dunque, dove prima vi erano accolti materiali classici e medievali, furono disposti ordinatamente l’antiquarium e la raccolta topografica, seguiti dalle sale dedicate alla raccolta di ceramiche greche anch’essa accresciuta con una serie di edicole funerarie dalla necropoli punica di Lilibeo e da esemplari di ceramica, acquistati da Gabrici, e provenienti da Centuripe (III sec a.C.). Ma Gabrici, esulando dalle sue competenze specifiche, apportò alcuni cambiamenti anche nell’allestimento della pinacoteca, iniziato da Cesare Matranga. Rimanendo fedele al progetto museografico di Matranga, che consentiva la comparazione fra scuole, offrendo adeguata collocazione alla pittura siciliana, Gabrici aggiunge dieci salette in cui furono esposte opere di scuole italiane o fiamminghe rimaste per molto tempo nei depositi, così come gli affreschi della seconda metà del XV secolo di Tommaso De Vigilia[41], giunti al museo nel 1881 dalla cappella dell’ordine dei Teutonici di Risalaimi presso Marineo.

L’attività di Gabrici nelle vesti di direttore è complessa, e riguarda naturalmente anche la conservazione delle opere: nell’ottobre del 1916, comincia a sottoporre all’attenzione del ministro Ricci i necessari e urgenti interventi di restauro sugli affreschi di De Vigilia. Dopo aver esaminato accuratamente gli affreschi, Gabrici si rese conto che le parti più rilevanti come i volti e le mani erano ricoperte da una vernice grassa e lucida che sotto l’azione dell’alta temperatura tendeva a sciogliersi rigando la superficie dei dipinti. Tra gli affreschi il più danneggiato e «soggetto a progressivo deperimento cagionato dal cattivo restauro»[42] è Abramo e i tre Angeli [fig. 2]. Il viso, il collo e alcune parti del terzo angelo a destra presentavano gravi lacune «formatesi dal distaccarsi e accartocciarsi di una vernice sovrapposta dal restauratore la quale trae seco tutto il colore originario. Questo deperimento è limitato per ora ad alcuni punti dell’affresco ma si vede che il processo di distruzione ha invaso tutte le figure»[43].

La difficile operazione su un’opera d’arte così «rara e pregevole» richiedeva un abile restauratore che Gabrici non trovò a Palermo; chiese quindi al Ministero di procurargliene uno di fiducia. Appresa la notizia, Ricci contattò la Soprintendenza ai Monumenti del Lazio e degli Abruzzi per decidere quale restauratore proporre a Gabrici. In un primo momento la scelta cadde su Tito Venturini Papari il quale era disposto a recarsi a Palermo per un sopralluogo, ma che avrebbe potuto dare avvio ai lavori solo dopo l’estate. Si preferì un altro restauratore, Vito Mameli – che aveva già ottenuto numerosi incarichi dal Ministero della Pubblica Istruzione – subito disponibile a compiere un primo sopralluogo per stilare un preventivo. Sappiamo dallo stesso Mameli che il compenso per la trasferta constava di una diaria di 19 lire, mentre per il lavoro di restauro la diaria era di 20 lire. Con una missiva del 5 gennaio 1917, Ricci fa sapere a Gabrici che il restauratore giungerà a Palermo «i primi della ventura settimana».

Giunto a Palermo, Mameli sotto suggerimento di Gabrici esamina tutti gli affreschi di De Vigilia che, come confermato dal resoconto del restauratore, necessitavano di cure. Il preventivo di 1.200 lire proposto da Mameli, che doveva essere approvato dal ministero, riguardava per ora due affreschi, Abramo e i tre Angeli e le SS. Anastasia, Agata, Lucia e Apollonia [fig. 3]: Gabrici chiese che il lavoro del restauratore cominciasse dal primo affresco, per il quale era più urgente intervenire. Ma al contempo, sempre su indicazione di Gabrici, Mameli esaminò l’altro grande affresco del De Vigilia raffigurante La Madonna in trono tra Angeli e Santi [fig. 4] che «è più di tutti spalmato di colla densa che si è incominciata a sciogliere»[44].

In verità Gabrici confidava che il ministero decidesse per un intervento generale su tutti gli affreschi, sperando che ciò non avrebbe influito né sui tempi di lavoro né sul preventivo iniziale. Mameli così preparò un secondo preventivo dichiarando che l’affresco raffigurante La Madonna in trono era di dimensioni triple rispetto a quello rappresentante le quattro sante e che si trovava in condizioni di deterioramento tanto più gravi da rendere il lavoro più complesso. Gli interventi che Mameli aveva in programma consistevano in una ripulitura generale dalle colle grasse sovrapposte e in un’operazione di consolidamento della superficie pittorica. I lavori avrebbero impegnato il restauratore per un periodo di due mesi e per una spesa complessiva di 1.200 lire; mentre per il restauro dell’affresco con Abramo il periodo previsto era di un mese e mezzo di lavoro per una spesa di 900 lire, per un compenso totale di 2.100 lire:

 

tale somma non può ritenersi eccessiva se si consideri l’importanza e la dimensione dei dipinti, la delicatezza e la responsabilità del lavoro che dovrà dal sottoscritto essere compiuto fuori dalla propria residenza e infine l’alto costo che oggi hanno raggiunto le materie prime[45].

 

Con il decreto del 25 maggio del 1917 è approvato il contratto che verrà registrato alla Corte dei Conti il 6 giugno 1917. Da un documento stilato da Gabrici risalente al 29 novembre 1917, si apprende che il lavoro eseguito da Mameli fu eseguito in due tranche, dal 27 aprile al 26 maggio e dal 20 ottobre al 16 novembre 1917, con un’interruzione dovuta al richiamo alle armi del restauratore. Il 12 dicembre 1917 una minuta ministeriale informa Gabrici dell’avvenuto pagamento come retribuzione dei restauri svolti. Vale la pena sottolineare come la volontà di restaurare Tommaso De Vigilia rientri nell’indirizzo di gusto di questi anni, favorevole alla pittura del Trecento e del Quattrocento, testimoniato anche dal collezionismo delle opere dei Primitivi che contribuirono ad arricchire importanti quadrerie come quella di Gabriele Chiaramonte Bordonaro[46].

Mentre proseguono i lavori di restauro di Mameli sugli affreschi di Risalaimi, Gabrici riesce ad ottenere gratuitamente un delicato lavoro di restauro sul dipinto attribuito ad Andrea del Sarto raffigurante S. Miniato. La tavola, danneggiata dai pesanti interventi precedenti che coprivano le mani e le vesti del santo, fu liberata dalle sovrapposizioni dei colori rivelando anche la data 1563[47]. La collaborazione con il restauratore sardo prosegue nel tempo. Nel 1919 Mameli fornisce alcuni preventivi a Gabrici riguardanti altre opere conservate al museo. Questi riguardano altri affreschi di Tommaso De Vigilia raffiguranti uno le SS. Anastasia, Agata, Lucia e Apollonia, e gli altri due con le SS. Agnese, Cecilia e SS. Cristina e Oliva; una Maria Maddalena di Van Dyck e la Madonna con il Bambino tra angeli (inv. 68), opera che, sebbene attribuita al Memling, era difficilmente apprezzabile perché sporca e ingiallita. Dai documenti si apprende che la cifra stabilita raggiunge in questo caso il totale di 3.550 lire e che i lavori dovranno terminare entro la fine di febbraio del 1920. Il contratto è approvato dal ministro Arduino Colasanti col decreto del 12 gennaio 1920, registrato il mese successivo alla Corte dei Conti (il 26 maggio 1920 verrà effettuato il pagamento[48]).

È sempre grazie ai rapporti che Gabrici invia al ministro che si viene a conoscenza che Mameli, già il 26 novembre 1919, terminava i lavori sulla tavola con la Madonna con il Bambino tra angeli, le cui fotografie allegate alla pratica inviata al ministro ne testimoniavano lo stato di conservazione prima e dopo l’intervento[49]. Dopo il restauro, la tavola fu posta accanto al Trittico di Malvagna con un’attribuzione diversa voluta da Gabrici, che avanzò l’ipotesi che l’opera fosse di un ignoto pittore della cerchia di Quentin Metsys (identificato poi con il Maestro del Santo Sangue).

Al di là di questi ambiti di tutela, Gabrici contribuì ad ampliare le collezioni del museo intraprendendo trattative d’acquisto con antiquari siciliani. A distanza di un solo anno dall’inizio del suo mandato, esattamente il 16 dicembre 1915, cominciano le trattative con l’antiquario palermitano Mario De Ciccio, figura di spicco nella storia del collezionismo italiano[50], per l’acquisto, per 1.000 lire, di un vaso attico a figure rosse a forma di pelike con un’amazzone a cavallo e guerriero greco che «rivela chiare note l’influenza della pittura polignotea»[51]. Gabrici è interessato al manufatto, proveniente dal territorio di Gela, non solo per la sua rara dimensione (49 cm.) e per il buono stato di conservazione ma anche perché, insieme al già presente cratere polignoteo gelese anteriore di circa un ventennio rispetto alla pelike, forniva una testimonianza importante per il museo dell’arte ceramica attica nel periodo di maggiore sviluppo cioè verso la metà del V sec a.C.

Il direttore è anche preoccupato del fatto che se la compravendita non fosse andata a buon fine il vaso avrebbe rischiato di essere venduto a compratori esteri. Il 21 gennaio del 1916 Ricci accetta la proposta e si avviano le pratiche per l’acquisto. In seguito, nel 1917, lo stesso De Ciccio proporrà a Gabrici la vendita di alcune placchette antiche in oro [fig. 5], appartenenti probabilmente a due collane diverse, per 800 lire. Gabrici manifesta al ministro il suo interessamento per tali oggetti, perché andrebbero ad ampliare la collezione già esistente del museo, e riporta un’accurata descrizione accompagnata da una fotografia.

 

Tenuto conto della diversa lega del metallo e dei particolari decorativi ciascuna laminetta ha nel mezzo una mascherina muliebre con ornati disposti a raggi chiusi da un cordoncino. La forma di tali laminette ed alcuni elementi della decorazione richiamano simili oreficerie rodie ed etrusche, il cui tipo apparso in età arcaica si protrasse fino ai secoli IV-III a. C.[52].

 

Gli oggetti però non hanno nessuna certificazione né è conosciuta la provenienza, per quanto Gabrici creda alle rassicurazioni dell’antiquario e sia a favore dell’acquisto, rifiutato dal ministro.

Con una relazione datata 19 luglio 1921, Gabrici informa il ministero che si presenta la possibilità di acquistare, tre urne cinerarie [figg. 6-8] «prodotti rarissimi della ceramica lavorata a Centuripe, l’unica fabbrica di vasi conosciuta nella Sicilia antica»[53]. I tre vasi sono considerati esemplari rarissimi per tipologia e per l’ottimo stato di conservazione rispetto ai pochi frammenti conservati a Siracusa e a Londra. I loro ornati a rilievo conservano in parte la lamina in oro che li rivestiva. La superficie era dipinta a tempera su fondo chiaro con i pigmenti ancora molto nitidi e ben conservati. Le scene raffigurate, come sostiene Gabrici, devono essere ancora studiate ma è già possibile identificare una rappresentazione di un rito o di consacrazione o di iniziazione. «Se l’On. Ministero approverà la mia proposta il Museo di Palermo, per questo genere di monumenti si metterà in primissima linea fra i musei del mondo»[54]. I vasi appartenevano a due differenti antiquari: uno a Michele Trovato di Taormina, che avanzava la richiesta di 3.500 lire; gli altri due, in migliori condizioni, al negoziante palermitano Giuseppe Ingrassia, che chiedeva 10.000 lire. A distanza di un mese Gabrici non ha ancora risposta da Roma e i suoi telegrammi cominciano ad essere frequenti, dato che, come egli stesso fa presente, gli antiquari facevano pressioni per concludere l’affare, minacciando di prendere in considerazione altri acquirenti. Ottenuto dal ministro Colasanti il consenso per proseguire le trattative, il direttore rasserenato il giorno seguente comunica:

 

A seguito al mio telegramma espresso di ieri, sono lieto annunziare che mediante mie argomentazioni persuasive gli antiquari hanno consentito consegnarmi i tre vasi che ora si trovano al museo. Riconfermo mia preghiera di sollecito pagamento nella maniera da me indicata e ciò a incoraggiamento e premio dei due negozianti che cedono allo Stato tre monumenti cospicui per un prezzo di molto inferiore al loro valore commerciale e poi quali avevano avuto offerte rilevantissime da antiquari romani[55].

 

Il 7 ottobre 1921 il Consiglio Superiore per le Antichità e per le Belle Arti delibera l’acquisto per la somma complessiva di 13.500 lire.

Ma non sempre le proposte di Gabrici vengono accolte positivamente da Roma. Un chiaro esempio di ciò sono le trattative con l’antiquario Giuseppe Spanò nel 1920 per l’acquisizione di una ricca collezione di suppellettili proveniente dalle necropoli lipariote del IV sec. a.C. Già in passato lo Stato si era fatto sfuggire un prezioso acquisto di manufatti provenienti sempre dallo stesso sito archeologico e che erano finiti tra le collezioni inglesi di cui restava «a noi il magro conforto di possedere l’album di fotografie di quei vasi»[56]. Gabrici stila un dettagliato elenco delle opere, 47 oggetti tra i quali alcuni di notevole valore, e comunica che la richiesta è di 3.000 lire [figg. 9-10].

Il ministro Colasanti prima di dare una risposta al direttore chiede la consulenza alla Soprintendenza ai Musei e agli Scavi della provincia di Roma la quale così risponde:

 

La raccolta di vasi e di figurine in terracotta offerta in vendita al Direttore del Museo Nazionale di Palermo non presenta nessun oggetto di valore artistico o archeologico. i vasi sono tra i prodotti più comuni e meno squisiti delle fabbriche ceramiche dell’Italia Meridionale […]. L’acquisto pertanto mi sembrerebbe consigliabile solo per la ragione storica-topografica di avere rappresentazioni al Museo di Palermo la necropoli del IV sec. a.C. di Lipari. purtroppo anche a questo scopo la suppellettile offerta in vendita non può corrispondere in modo scientificamente adeguato perché non si ha da essa nessun corredo completo di tomba ma solo oggetti sporadici della necropoli ed oggetti che con la necropoli non hanno nulla a che fare come le lucerne romane. L’acquisto potrà avvenire Io se la provenienza da Lipari è assicurata, trattandosi di materiale che è nel commercio antiquario, IIo se si potrà ottenere un notevole ribasso sul prezzo richiesto[57].

 

Gabrici però non riuscì a ottenere dall’antiquario un ribasso della richiesta, ma ritenendo comunque importante per il Museo entrare in possesso magari di alcuni esemplari presentò al Ministro un nuovo elenco questa volta di soli 9 manufatti proposti a una cifra di 2.100 lire. Ma anche questa volta il ministero rimase irremovibile nella sua decisione e le trattative si fermarono.

Quando è offerto dall’antiquario Giovanni Battista Furno per 2.000 lire un Elmo greco di bronzo [fig. 11] risalente al VI-V sec. a.C., Gabrici senza aspettare l’autorizzazione del Ministero lo prende in custodia e comunica al ministro Colasanti che il museo ha ancora a disposizione dei fondi per poter fronteggiare la spesa. A distanza di una sola settimana dalla comunicazione del direttore arriva l’approvazione e a seguire di pochi mesi il relativo decreto.

Proveniente da una villa palermitana demolita per motivi di ampliamento della città, era un Sarcofago strigilato con teste di Medusa, databile alla metà del III secolo d.C.[58] [fig. 12] che l’antiquario Antonino Anastasi proponeva a Gabrici per la cifra iniziale di 2.000 lire, dopo trattative scesa a 1.200. Anche questa volta Gabrici si mostra interessato a un «monumento ovvio per altre zone archeologiche ma rarissimo nella Sicilia occidentale»[59]. Poco dopo un mese giunge da Roma il consenso del ministero che fa entrare il sarcofago all’Olivella.

Proprio come il suo predecessore, Ettore Gabrici non ignora le offerte d’acquisto o anche le donazioni di privati di opere d’arte, comprese le arti decorative che erano state fortemente volute da Salinas per testimoniare nella sua completezza la storia dell’arte siciliana. Le collezioni vengono arricchite anche grazie all’attività dell’ufficio per l’esportazione degli oggetti d’arte e antichità di Palermo che si trova all’interno dello stesso museo. La Commissione[60], incaricata di prendere in esame gli oggetti di valore artistico e di rilasciare l’eventuale licenza per l’esportazione, può avvalersi dell’art. 9 della legge del 20 giugno 1909 n. 364 ed esercitare il diritto di prelazione se ritiene che il valore degli oggetti sia superiore a quello dichiarato. È quanto accade il 5 dicembre 1920. Il negozio dei Daneu, fra i più importanti antiquari di quegli anni[61], presenta una richiesta di licenza per poter esportare all’estero un orologio Impero di bronzo dorato con l’allegoria della Primavera degli inizi del XIX secolo [fig. 13] e un comodino Luigi XVI con applicazioni in bronzo dorato con testa di Ercole [fig. 14], dichiarando un valore complessivo per i due manufatti di 1.000 lire. La Commissione esaminati gli oggetti negò la licenza dichiarando che conveniva «allo Stato esercitare il diritto di prelazione a vantaggio delle collezioni del Museo Nazionale di Palermo, la cui galleria possiede una sezione di oggetti d’arte e di pitture dei principi del XIX secolo»[62]. Il 16 febbraio 1921 si stila l’atto, il 18 marzo è emanato il decreto dal ministro Colasanti e, il 13 giugno, predisposto il pagamento. Il lavoro della Commissione continua negli anni a seguire e nel 1923 esercita nuovamente il diritto di prelazione su altre opere che stavano per essere esportate all’estero. La ditta Perricone Violante di Palermo chiedeva all’ufficio di esportazione la licenza per quattro Candelabri Impero di bronzo dorato, per un valore complessivo dichiarato di 2.000 lire, e per due fiasche per polvere da sparo, una con placche in osso incise con scene di caccia al cervo e al cinghiale [figg. 15-16][63] e un’altra di cuoio con ricami in filigrana d’argento, per un valore complessivo di 150 lire.

Gli oggetti, i cui prezzi vengono indicati come «semplicemente derisori», provenivano dalla vendita attraverso un’asta pubblica dei beni Baucina e i soli candelabri erano stati pagati per poco più di novemila lire «lo speditore aveva la piena consapevolezza di frodare lo Stato dichiarando il prezzo di 2.000 lire per essi»[64]. Gabrici prega il ministro affinché la richiesta della Commissione venga accolta anche perché il «museo sta formando una raccolta di oggetti d’arte Impero la quale dovrà servire per lo studio delle influenze che l’arte francese esercitò sullo sviluppo dell’arte industriale siciliana in quel periodo»[65]. La richiesta per l’acquisto delle opere per un prezzo totale di 2.150 lire viene favorevolmente accolta dal ministro Colasanti; il 24 maggio 1924 è emanato il decreto e il 21 agosto il direttore sarà informato che il ministero ha provveduto a stipulare una polizza a favore della ditta Perricone Violante per la cifra stabilita.

I rapporti con gli antiquari locali proseguono nel 1923: vanno a buon fine le trattative con Giuseppe Spanò, relative all’acquisto di un albarello di maiolica (Palermo o Faenza del XVI secolo) raffigurante un Santo [fig. 17]. Il 2 aprile del 1924 il Ministro Colasanti acconsente all’acquisto per la somma di 600 lire e la maiolica va ad aggiungersi alla già ricca collezione museale[66]. Contemporaneamente continuano in quegli anni le lunghe trattative che Gabrici ha con gli eredi di Salinas per un abito di seta ricamata in oro di Piana degli Albanesi della fine del XVIII secolo[67].

Dunque, Gabrici è sempre consapevole del fatto che ogni oggetto, traduzione finale attraverso l’abilità manuale della creatività e dell’inventiva artistica, è documento del gusto estetico di un determinato periodo storico e sociale, non perde occasione per ampliare le collezioni del museo. Con questo spirito e sensibile al momento di rivalutazione artistica locale, convinto che era necessario non soltanto per motivi di tutela ma soprattutto per fini di documentazione arricchire il museo di opere siciliane, nel 1922 comincia le trattative per acquistare il dipinto di Pietro D’Asaro, noto come il Monocolo di Racalmuto, rappresentante il Martirio di S. Stefano[68].

 

Considerato che il museo possiede solo un dipinto sicuramente attribuibile a questo artista finora imperfettamente studiato […] e tenuto presente che esso dipinto ha molti pregi che rivelano influenze esterne, propongo che esso sia acquistato per le raccolte di questo museo[69].

 

L’opera – databile fra il 1613 e il 1618, e firmata Monocvlo Racalmvtensis P – era racchiusa entro una coeva cornice di legno intagliato e dipinto e in buono stato di conservazione. Dopo lunghe trattative Gabrici riuscì a ottenere un notevole ribasso sul prezzo richiesto dall’antiquario Anastasi che, versando in gravi condizioni economiche, acconsentì la vendita per 1.650 lire invece che per 3.000 ma pose come condizione di vendita l’immediato pagamento. Il ministro diede al direttore il permesso di procedere con le pratiche, fu fatto l’atto di vendita e coi fondi del museo acquistato il quadro per il quale, per la prima volta, possiamo indicare la data d’ingresso nelle collezioni museali.

Ma non sempre le vicende legate alle acquisizioni delle opere d’arte seguono percorsi lineari. Il caso del dipinto su tavola raffigurante La Madonna in trono col Bambino tra due Angeli musicanti [fig. 18], opera firmata e datata Nicolò da Pettineo 1498, può essere d’esempio. Tutto ha inizio da una richiesta di indagini sull’antiquario Giulio Sarrica fatta alla questura di Messina dal soprintendente alle Gallerie e ai Musei medievali e moderni Enrico Mauceri[70]. L’antiquario aveva proposto la tavola di Nicolò da Pettineo per una somma di 25.000 lire ma a condizione di trattare l’affare “a scatola chiusa”, senza esaminare il dipinto né svelare il nome del proprietario.

 

la strana proposta mi fece l’impressione di avere a che fare con un furfante il quale tentava un ricatto allo Stato, e che dopo aver tentato lo stesso raggiro col Direttore del Museo Nazionale di Palermo, com’è naturale senza successo, ricorreva agli stessi illeciti mezzi col sottoscritto[71].

 

Sarrica si era in effetti rivolto a Gabrici, ma inutilmente, e cercava ora di piazzare l’opera a Messina[72]. Questa fu posta sotto sequestro per evitare che Sarrica riuscisse a eludere la sorveglianza degli uffici di esportazione e venderla all’estero. A distanza di un anno le vicende attorno a questo quadro si fanno più chiare. Il reale proprietario del dipinto era Giuseppe Spanò il quale con tutta probabilità aveva preso accordi con l’antiquario per ricavare un maggior guadagno nella vendita del dipinto. Diventa cruciale e determinante in questa vicenda il ruolo di Gabrici che, in qualità di soprintendente, ottiene la rimozione dei sigilli posti dall’autorità di pubblica sicurezza e incomincia le trattative per acquistare l’opera. Gabrici, infatti, vorrebbe che il Ministero si esprimesse sulla controversia e che acquistasse a una cifra più bassa di 14.000 lire. Il Consiglio Superiore per le Antichità e le Belle Arti decide che:

 

tenuti presenti i vincoli che gravano su quest’opera d’arte attualmente sotto sequestro per l’imposta notifica di importante interesse, è di avviso che questa tavola sola opera firmata dall’arcaico maestro siciliano, possa essere utilmente acquistata per la Galleria Nazionale di Palermo per un prezzo che non superi lire 10.000[73].

 

Accettata l’offerta, Spanò finalmente firma l’atto di vendita con lo Stato[74].

Pur avendo tralasciato in questa sede l’importante attività di archeologo e numismatico di Ettore Gabrici, sono emersi, dunque, alcuni aspetti della sua figura (quale direttore del R. Museo di Palermo, impegnato in uno strenuo lavoro di catalogazione, riallestimento, e incremento delle collezioni museali) che hanno messo in luce le sue qualità di studioso, il suo metodo di lavoro, i suoi orientamenti estetici


[1] C. Caruso, Ettore Gabrici (1868-1962), tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 2010-2011, Relatore Prof.ssa S. La Barbera.

[2] A lui Gabrici dedicherà uno dei suoi primi scritti Topografia e numismatica dell’antica Himera e di Terme, pubblicato a Napoli nel 1894.

[3] Per la vicenda legata alla catalogazione del Medagliere Santangelo del Museo Archeologico di Napoli si veda V. Nizzo, Documenti inediti per la storia del medagliere del Museo Archeologico Nazionale di Napoli tra la fine dell’800 e inizi del ‘900, in “Annali dell’Istituto italiano di Numismatica”, 56, 2010, pp. 157-291.

[4] G. De Petra, Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli, Richter, Napoli 1908. Tra i compilatori troviamo: Domenico Bassi direttore della sezione Papiri Ercolanensi; Ettore Gabrici direttore della sezione Numismatica; Lucio Mariani professore presso l’Università di Pisa; Orazio Marucci direttore del Museo Gregoriano Egizio in Vaticano; Giovanni Patroni professore presso l’Università di Pavia; Antonio Sogliano direttore degli scavi di Pompei e professore presso l’Università di Napoli.

[5] Durante la campagna di scavi porta alla luce il recinto etrusco-italico consacrato alla divinità locale Nortia che Gabrici identifica in base allo studio delle stipi votive rinvenute. Gli sviluppi delle sue ricerche e i progressi sulle identificazioni del documento inedito sono costantemente pubblicati nella rivista “Notizie degli scavi di Antichità”, dove appaiono Bolsena: scoperta di antichità nell’area della città romana, 1903, pp. 357-375, e Bolsena: scavi e trovamenti fortuiti, 1906, pp. 59-93.

[6] Di ritorno da Firenze, Gabrici è a Napoli dal 1907. Il primo interessamento che lo studioso ha per l’antica Napoli coincide con l’approvazione del piano di risanamento. Il grande intervento che cambiò l’antico volto della città di Napoli fu ipotizzato fin dalla prima metà dell’Ottocento e fu portato a compimento dopo una gravissima epidemia di colera avvenuta nel 1884. Nel 1885 sotto la spinta del sindaco Nicola Amore, appoggiato dal presidente del consiglio, Agostino Depretis, fu approvata la legge per il risanamento della città di Napoli e successivamente nel 1888 fondata la Società pel Risanamento di Napoli. Gabrici si occuperà dello studio della topografia di Napoli tra il 1896 e poi 1912-13, studi che riunirà nel 1951 in uno scritto più organico e unitario Contributo archeologico alla topografia di Napoli e della Campania in “Monumenti Antichi dei Lincei”, XLI, 1951, pp. 553-674. Il nome di Gabrici rimane ancora legato nell’area campana soprattutto in riferimento agli scavi di Cuma. Nacque così nel 1912 in “Monumenti Antichi dei Lincei” Cuma, un grande corpus organico che diede una visione completa sulla antica città.

[7] Gabrici giunse in un momento in cui il museo, sembrava risollevarsi grazie al nuovo riassetto degli istituti archeologici e artistici voluto da Corrado Ricci, Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, che conferì la carica di direttore del museo a Giuseppe Angelo Colini. Cfr. Villa Giulia dalle origini al 2000, guida breve, a cura di A.M. Moretti Sgubini, Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, Roma 2000, pp. 43-44.

[8] E. Gabrici, Topografia e Numismatica dell’antica Himera (e di Terme), in “Atti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti” , XVII, Napoli 1894, pp. 109-117.

[9] E. Gabrici, Selinunte: Temenos di Demeter Malophoros alla Gaggera. Relazione preliminare degli scavi eseguiti nel 1915, in “Notizie degli Scavi di Antichità”, 1920, pp. 67-91.

[10] Id., Per la storia dell’architettura dorica in Sicilia, in “Monumenti antichi dei Lincei”, XXXV, 1933, pp. 139-250.

[11] E. Gabrici, Studi archeologici selinuntini, in “Monumenti antichi dei Lincei”, XLIII, 1956, pp. 206-391.

[12] Id., La materia del cantare di Elena nel soffitto Chiaramonte, in “Giornale di Sicilia”, a. LXIII, n. 202, 1923.

[13] E. Gabrici, Il soffitto istoriato nel Palazzo Steri di Palermo, in “La Siciliana”, IV, 1928, pp. 78-85.

[14] E. Gabrici, E. Levi, Lo Steri di Palermo e le sue pitture, Treves, Milano 1932.

[15] E. Gabrici, Il Palazzo di Re Ruggero, “Atti dell’Accademia di scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, 1923, pp. 3-15.

[16] Id., L’Abbozzo, in “Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, vol. XIX, fasc. III, 1935, pp. 3-11.

[17] E. Gabrici, Riflessioni sul travaglio dell’arte figurativa contemporanea, in “Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, 1946-47, pp. 3-17.

[18] Per questi aspetti si veda C. Caruso, Gli scritti teorici di Ettore Gabrici, in corso di stampa.

[19] E. Gabrici, Collesano nella storia della maiolica siciliana, in “Giglio di Roccia”, ottobre-novembre 1939, pp. 6-7.

[20] Id., Appunti sulle officine ceramiche di Palermo e Sciacca, in “Giglio di Roccia”, 1961, pp. 11-13.

[21] G.C. Sciolla, La riscoperta delle arti decorative in Italia nella prima metà del Novecento. Brevi considerazioni, in Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale, atti del convegno internazionale di studi in onore di Maria Accascina (Palermo-Erice, 2006), a cura di M.C. Di Natale, Sciascia, Caltanissetta 2007, pp. 51-58.

[22] Nello stesso anno ottiene l’incarico per l’insegnamento di Archeologia presso l’Università degli Studi di Palermo, mentre nel 1927 copre la cattedra di Archeologia e Storia dell’arte antica rimanendo a insegnarvi fino al pensionamento del 1939.

[23] «Il 25 decorso aprile, nella sede dell’Istituto in Castel S. Angelo, fu tenuta una solenne commemorazione in onore del compianto presidente professore Salinas. La mesta cerimonia ebbe principio con brevi parole del Cav. Martinori vice presidente dell’Istituto Italiano di Numismatica […], prese la parola il professore Bormann […] legato da un’amicizia più che cinquant’enne […]. Tenne poi un discorso commemorativo il professore G. De Petra dell’Università di Napoli. Con parola elevata e intensa commozione rievocò la nobile e cara figura dell’amico carissimo, come niun altro avrebbe potuto fare, stretto d’amicizia com’era a lui da intima e quasi fraterna dimestichezza da comunanza di studi fin da giovinezza […]», in “Rivista Italiana di Numismatica e Scienze affini”, vol. XXVII, f. II, 1914, pp. 294-295.

[24] In “Rivista Italiana di Numismatica e Scienze Affini”, vol. XXVII, fascicolo IV, 1914, p. 486.

[25] Archivio Centrale di Stato - Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, Divisione I, 1908-1924 [da ora ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924], Busta n. 208, Sguardo agli uffici, alle collezioni, al fabbricato, 31 agosto 1914.

[26] Ibidem.

[27] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 208, Il fabbricato del Museo Nazionale di Palermo, 9 dicembre 1914.

[28] Ibidem.

[29] Ibidem.

[30] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 208, Lo stato delle collezioni, provvedimenti urgenti, 10 dicembre 1914.

[31] Ibidem.

[32] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 208, L’archivio del Museo Nazionale di Palermo, 10 dicembre 1914.

[33] E. Gabrici, Selinunte e Motye: frammenti epigrafici, in “Notizie degli Scavi di Antichità”, 1917, pp. 341-348.

[34] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 676, Selinunte, frammenti di un grande Gorgoneion in terracotta a rilievo, 10 giugno 1916. Si veda anche E. Gabrici, Il Gorgoneion fittile del tempio C di Selinunte, in “Atti della Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, 1919, pp. 3-15.

[35] Le immagini del presente saggio sono pubblicate su concessione del Ministero per i Beni Culturali, Archivio Centrale dello Stato di Roma (n. 1046/2012).

[36] Ivi, p. 3.

[37] E. Gabrici, Vasi greci inediti dei Musei di Palermo e Agrigento, “Atti della Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo”, XV, 1928/29, pp. 3-21.

[38] Id., La Collezione Casuccini del Museo Nazionale di Palermo, “Studi Etruschi”, II, 1928, pp. 3-29. Si vedano anche i saggi in La Collezione Casuccini, ceramica attica etrusca e falisca, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1996 e il più recente Gli Etruschi a Palermo. Il Museo Casuccini, catalogo della mostra a cura di A. Villa, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2012.

[39] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 676, Ispezione al Museo Nazionale di Palermo, 24 agosto 1916.

[40] Ivi, Busta n. 1025, Cinquantenario del Museo e onoranze ad A. Salinas, 26 maggio 1922.

[41] Per gli affreschi si veda M.C. Di Natale, Tommaso De Vigilia. I, “Quaderni dell’A.F.R.A.S.”, n. 4, i.l.a. palma, Palermo 1974, pp. 25-28; L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani. Pittura, vol. II, ad vocem De Vigilia Tommaso, a cura di M.C. Di Natale, Novecento, Palermo 1993, pp. 163-165. Per le vicende conservative cfr. L. Spatola, Gli affreschi di Risalaimi. Vicende conservative in età sabauda, in Gli uomini e le cose. I. Figure di restauratori e casi di restauro in Italia tra XVIII e XX secolo, atti del Convegno nazionale di studi (Napoli, 18-20 aprile 2007), a cura di P. D’Alconzo, Clio Press, Napoli 2007, pp. 219-239.

[42] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Affreschi di Tommaso De Vigilia nel Museo Nazionale, 9 ottobre 1916.

[43] Ibidem.

[44] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Restauri a due affreschi del De Vigilia, 8 febbraio 1917.

[45] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Preventivo interventi di restauri, 17 febbraio 1917.

[46] Cfr. V. Abbate, Gioacchino Di Marzo e la fortuna dei “primitivi” a Palermo nell’Ottocento, in Gioacchino Di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno a cura di S. La Barbera, Bagheria 2004, pp. 181-198.

[47] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 675, Restauro dipinto Andrea Del Sarto, 13 novembre 1917.

[48] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Preventivo interventi di restauri, 28 novembre 1919.

[49] Ivi, Busta n. 1026, Intervento di restauro, 26 novembre 1919.

[50] Per la cui figura rinvio a B. Molajoli, in La donazione Mario De Ciccio, Soprintendenza alle Gallerie, Napoli 1958, pp. 5-13.

[51] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 676, Proposta d’acquisto di un vaso greco, 16 dicembre 1915.

[52] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 676, Oreficerie antiche, 21 febbraio 1917.

[53] Ivi, Busta n. 1025, Proposta d’acquisto vasi di Centuripe, 19 luglio 1921.

[54] Ibidem.

[55] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1025, Telegramma/i>, 30 agosto 1921.

[56] Ivi, Busta n. 1026, Vasi greci della Necropoli di Lipari, 30 luglio 1920.

[57] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Vasi greci della Necropoli di Lipari, 7 settembre 1920.

[58] Il sarcofago era stato pubblicato senza alcuna indicazione relativa alla provenienza in V. Tusa, I sarcofagi romani in Sicilia, Accademia di Scienze, Lettere e Arti, Palermo 1957, pp. 147-148.

[59] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 675, Sarcofago Romano, 21 febbraio 1917.

[60] La Commissione è composta dal direttore Ettore Gabrici, da Vincenzo Pitini e da Francesco Valenti.

[61] Per l’attività degli antiquari cfr. A. Lavagnino, I Daneu: una famiglia di antiquari, Sellerio Editore, Palermo 2003.

[62] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, 5 dicembre 1920.

[63] La fiasca è stata pubblicata da Luciana Arbace in Wunderkammer siciliana alle origini del museo perduto, catalogo della mostra (Palermo 2001-2002) a cura di V. Abbate, scheda n. II.47, Electa Napoli, Napoli 2001, p. 221, con un’indicazione di provenienza dal Museo di S. Martino delle Scale non pertinente.

[64] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1027, 12 luglio 1923.

[65] Ibidem.

[66] Ivi, Busta n. 1026. Nella richiesta di acquisto la maiolica è datata agli inizi del XVII secolo.

[67] Nel 1912, l’abito era stato offerto in vendita a poco più di mille lire dalla signora Vita Barbacia. Salinas lo comprò, anticipando personalmente la cifra, e non venendo mai rimborsato dal ministero. Come altri oggetti acquistati da Salinas, l’abito diventa oggetto d’interesse degli eredi di Salinas che ne reclamano la proprietà. Il ministero tramite Gabrici propone l’acquisto della gonna per un prezzo di 2.500 lire, mentre Gabrici propose la restituzione della veste agli eredi dai quali in un secondo momento lo Stato l’avrebbe riacquistata, cosa che avvenne nel maggio 1923. L’intera vicenda testimonia il vivo interesse e la rivalutazione per questa tipologia di manufatti provenienti da Piana degli Albanesi. Cfr. M. La Barbera, Il costume e i gioielli di Piana degli Albanesi, in Tracce d’Oriente. La tradizione liturgica greco-albanese e quella latina in Sicilia, a cura di M.C. Di Natale, Plaza Fondazione, Palermo 2007, pp. 111-131.

[68] Per il pittore (1579-1647) si veda M.P. Demma (a cura di), Pietro D’Asaro il «Monocolo di Racalmuto» 1579-1647, catalogo della mostra (Racalmuto, 9 novembre 1984-13 gennaio 1985), Arti grafiche Siciliane, Palermo 1984, scheda n. 12, p. 57.

[69] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1025, Proposta d’acquisto di un dipinto di Pietro D’Asaro, 18 aprile 1922. Dalla consultazione di tale documento si apprende per la prima volta la data di acquisizione della tela oggi conservata nei depositi della Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia di Palermo.

[70] Per l’attività di Mauceri rimando a Enrico Mauceri (1869-1966). Storico dell’arte tra connoisseurship e conservazione, atti del convegno internazionale (Palermo, 27-29 settembre 2007) a cura di S. La Barbera, Flaccovio, Palermo 2009.

[71] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Richiesta di indagini di un dipinto denunciato dall’antiquario Sarrica, 20 gennaio 1920.

[72] Il soprintendente Mauceri, non credendo alle parole dell’antiquario, riteneva possibile, invece, che Sarrica fosse il vero proprietario dell’opera probabilmente prelevata da qualche chiesa e che cercava di venderla allo Stato con questo espediente.

[73] ACS, AA.BB.AA. Div. I, 1908-1924, Busta n. 1026, Dipinto di Nicolò da Pettineo, 11 novembre 1921.

[74] A distanza di alcuni mesi, vediamo Gabrici interessarsi ancora alle trattative: non ricevendo il decreto dal Ministero per avviare i pagamenti a favore del proprietario, Gabrici solleciterà costantemente l’iter burocratico, concluso dopo sei mesi con la registrazione del contratto alla Corte dei Conti.

 

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Temi di Critica - numero 7

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