teCLa :: Rivista #7

in questo numero contributi di Giacomo Pace Gravina, Giuseppe Giugno, Claudia Caruso, Valentina Raimondo, Giuseppe Cipolla, Simone Ferrari.

codice DOI:10.4413/CIPOLLA1 - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

LA CULTURA FIGURATIVA SICILIANA NEGLI INTERVENTI CRITICI DI LEONARDO SCIASCIA (1964-1987) di Giuseppe Cipolla

Nella premessa a una delle sue opere fondamentali, Costruzione della critica d’arte (1955 [1] ) – che rappresenta idealmente la continuazione del volume Genesi e paternità della critica d’arte (1951 [2] ) – Luigi Grassi sottolineava «l’importanza, o la esclusiva validità, dell’attività critica dovuta al giudizio immediato, frammentario, istintivo e però aderente al significato di un’opera d’arte, quale è quello formulato felicemente da artisti o poeti», sebbene si tratti pur sempre di «critica frammentaria, intuizione isolata, di ordine eccezionale», ma che, tuttavia, concorre, nella brillante metafora della «costruzione dell’edificio della critica d’arte», accanto ai contributi estetici e storiografici, al procedimento costruttivo su cui si fonda la moderna storiografia artistica [3] . É in questo territorio che si inserisce l’attività di Leonardo Sciascia nel panorama della critica d’arte, che come emerso in alcuni studi recenti sul rapporto dello scrittore con le arti visive è individuabile – appunto – in una tipologia di scritti di ‘ordine eccezionale’[4].

I testi di Sciascia sull’arte antica e moderna, distribuiti in un arco temporale che va dal 1964 al 1987, rivolti principalmente ad artisti e fatti figurativi siciliani o comunque riconducibili al territorio isolano, nascono come interventi e articoli sulla stampa periodica, locale e nazionale, e come presentazioni a monografie d’arte. Questi interventi consistono principalmente in recensioni o saggi che toccano argomenti siciliani relativi alla cultura figurativa quattrocentesca (Il Maestro del Trionfo della Morte, Antonello da Messina, Francesco Laurana, Antonello e Domenico Gagini) o alla questione delle influenze caravaggesche in Sicilia tra fine Cinque e inizio Seicento (Filippo Paladini, Pietro d’Asaro).  Si tratta di scritti comunque riconducibili, anche sul piano degli effetti di una attenzione alle vicende culturali coeve, alle mostre storiche siciliane del Novecento (Antonello da Messina, Messina 1953; Paladini, Palermo 1967; Antonello da Messina, Messina 1981; Pietro d’Asaro, Racalmuto 1984; Caravaggio, Siracusa 1984), e dove si riscontrano, in alcuni casi, interessanti riflessioni sulle problematiche figurative isolane, parallelamente alla coeva storiografia artistica.

I primi significativi scritti appaiono negli anni Sessanta sul noto quotidiano palermitano «L'Ora», periodico che ebbe un ruolo fondamentale nella cultura di sinistra siciliana del Novecento, diretto da Vittorio Nisticò[5].  Il giornale palermitano, per quanto concerne le pagine di cultura, raccoglieva articoli e interventi delle più prestigiose firme di quegli anni, con un particolare riguardo alle arti figurative (si pensi, ad esempio, agli scritti di Maria Accascina, Renato Guttuso, Franco Grasso), con recensioni e brevi interventi di critica d'arte[6].

Tra i primi spunti critici e giudizi, sparsi nei diversi articoli pubblicati nel quotidiano “L’Ora”, che contribuiscono a illuminarci sulla sua visione della storia artistica siciliana e, in particolare, in merito alle commistioni di culture diverse, significativa appare questa riflessione sui monumenti normanni: «I monumenti che ci restano del regno normanno di Sicilia hanno come peculiarità morale ed estetica la tolleranza religiosa e politica in cui si sono realizzati, il ‘dialogo’ tra le culture mediterranee da cui originalmente (e finora irripetibilmente) sono sorti»[7]. Per Sciascia la cultura figurativa siciliana nell’età medievale aveva subìto questo processo di ibridazione costante, parallelamente alle diverse dominazioni e influssi di culture eterogenee. Se ne ha ulteriore esempio  nella presentazione al Libro Siciliano (fig. 1) di Giuseppe Bellafiore e Vincenzo Tusa in cui, citando la celebre opera di Gioacchino Di Marzo, Delle Belle Arti in Sicilia[8], lo scrittore afferma: «Ammesso che si possa parlare di una civiltà siciliana (poichè una civiltà non può lungamente coesistere, senza neutralizzarle o trasformarle in effetti opposti alla loro origine e natura, con forme e fenomeni di inciviltà) questa appunto risulta dalla compenetrazione e fusione di civiltà diverse»[9]. Tuttavia, tali processi di vivace contaminazione culturale e artistica – aggiunge Sciascia, sulla scia di Denis Mack Smith[10] e di Rosario Assunto[11] – emergono soprattutto in «sovrastruttura, al vertice», secondo un disegno politico dei re normanni rivolto a «glorificare esteticamente l’istituto monarchico» senza stravolgere l’assetto socio-culturale precendente[12]. Ne consegue, in ultimo, che «l’arte arabo-normanna era la creazione artificiale di un despotismo illuminato, non una vera compenetrazione vitale di per se stessa»[13] e dal basso. E qui, il sottile relativismo sciasciano dimostra già una singolare concezione del rapporto tra arte e politica, tra strutture e sovrastrutture, tra cultura e potere. Aspetto, come noto, che rappresenta una chiave interpretativa non trascurabile in tutti i suoi scritti, compresi quelli sull’arte.

Nel 1965, su “L’Ora”, esce una breve nota di ‘rettifica’ riguardante il Busto di Pietro Speciale, opera la cui attribuzione oscillava in quegli anni tra Domenico Gagini e Francesco Laurana[14]. La nota, facendo riferimento a un suo testo precedente, apparso sempre su “L’Ora”, nel quale lo scrittore si interrogava in merito all’ubicazione del manufatto, ci mostra uno Sciascia lettore di Gioacchino Di Marzo[15] – la cui consultazione dell’opera in due volumi sui Gagini[16] relativamente alla collocazione del busto, assegnato dallo studioso a Domenico Gagini, lo porta a un fraintendimento (il Di Marzo, giustamente, non poteva segnalare il luogo di conservazione dell’opera, essendo di collezione privata), che gli viene chiarito dalla spiegazione del senatore Simone Gatto sull’affido temporaneo dell’opera a Palazzo Abatellis, dove era esposta.

 

Quest'errore, comunque, mi ha portato la conoscenza di un altro ritratto di Pietro Speciale, un bassorilievo, che si trova a Trapani nella collezione Barresi: ed è riprodotto nell'opuscolo «Sculture inedite o poco note del Laurana di Domenico e Antonello Gagini nel trapanese» che l'autore, Vincenzo Scuderi, mi ha gentilmente inviato. Debbo dire, però, che il ritratto che c'è a Militello, e di cui ho parlato, è molto più forte: e se quello di Trapani è attribuito a Domenico Gagini, è possibile quello di Militello sia d'altra mano, del Laurana probabilmente[17].

 

L’opera di Militello in Val di Catania[18] affascinò lo scrittore al punto da occuparsene in un saggio più ampio apparso su “l’Espresso” nel 1981 e riedito nel 1989[19], dove, ricostruendo con quel suo inconfondibile stile narrativo, ma fondato su solidissime basi storiografiche - e non senza punte di ironia – le vicende della famiglia Speciale, torna sulla querelle attributiva della scultura divisa tra uno dei Gagini e Laurana. Sciascia – («senza competenza alcuna e soltanto per sensazione») - lo ritiene di Francesco Laurana, in base a un ragionamento di carattere stilistico e a un confronto con il Busto di Eleonora d’Aragona di palazzo Abatellis:

 

[...] nulla che ho visto dei Gagini mi porta a credere che questo prodigioso ritratto sia uscito dalla loro officina. La stessa pietra, di un caldo colore ambrato, fa pensare al gusto del Laurana, al suo cercare nel marmo una luce, una tonalità, una ispirazione, un effetto: e si pensi a quel ritratto di Eleonora d’Aragona in cui la luminosità della materia dà il senso di una luminosità interiore[20].

 

 Discorso questo, sulla corrispondenza tra luminosità formale e luminosità iconologica, che lo porta, seguendo naturalmente aspetti ben noti nella critica figurativa di quegli anni[21], ad accostare il ritratto di Pietro Speciale con il Ritratto d’Ignoto di Antonello del Museo Mandralisca di Cefalù (fig. 2), aggiungendo, tuttavia, un giudizio sul carattere rappresentativo e universale delle due opere:

 

Ritratti, questo di Antonello, questo che diciamo del Laurana, in cui c’è un carattere, una storia – e non soltanto individuale, ma di un’epoca. Ritratti che sono una visione della vita»[22].

 

Negli scritti su Laurana, Sciascia mette in risalto la ‘familiarità’ tipica dei modelli dell’opera dello scultore dalmata e, a proposito del Busto di Gentildonna detto di Eleonora d’Este di Palazzo Abatellis (fig. 3), su cui tornerà in diverse occasioni, afferma:

 

[...] pochissime opere, e per noi questa primamente, valgono a dare idea della scultura in assoluto, della scultura “oggetto eterno”.

 

 Aggiungendo più avanti che:

 

[...] la straordinaria forza del pezzo di Laurana sta proprio in questo: che totalmente esprimendola, “facendo del marmo quel che il marmo voleva”, stupendamente ha espresso la norma della “vita che pensa”[23].

 

L’artista che più affascinò Sciascia, culturalmente e formalmente, fu certamente Antonello da Messina:

 

Scegliere nell’intera storia della pittura un pittore, un quadro, non è per me (e credo per ognuno che quella storia, più o meno sommariamente, conosca) difficile. Nulla di più facile, anzi, che rispondere con un solo nome, un solo titolo, alla richiesta di esprimere una preferenza assoluta. La risposta affiora immediata, quasi automatica. Se mi chiedessero quale pittore, senza esitazione risponderei: Antonello. E se mi chiedessero di un solo quadro, altrettanto sicuramente risponderei: il “Ritratto di ignoto” che si trova al Museo Mandralisca di Cefalù[24].

 

Nel 1967 esce il primo scritto – forse uno dei saggi più illuminanti mai scritti sul contesto culturale in cui operava il pittore messinese – quale presentazione al volume curato da Gabriele Mandel della serie dei Classici dell’Arte Rizzoli per la Biblioteca Universale delle Arti Figurative, diretta da Paolo Lecaldano, e di cui fu consulente anche Carlo Ludovico Ragghianti. Il testo, intitolato L’ordine delle somiglianze, offre alcuni spunti sugli elementi costitutivi dell’arte e della letteratura dei siciliani (il rapporto tra la roba e l’anima, che per i siciliani a partire da Antonello, dice Sciascia, sono la stessa cosa, fatti oggettivi come la morte) [25].

Partendo dagli spunti biografici sul pittore siciliano, lo scrittore, citando il celebre quanto fantasioso passo della biografia vasariana relativo alla vita mondana condotta da Antonello nell’ipotetico viaggio a Venezia[26], viene suggestionato al punto da elaborare un suadente parallelismo in campo letterario con i personaggi di Brancati:

 

E viene la tentazione di cercare riscontro a questa “persona molto dedita a' piaceri e tutta venerea”, alla distanza di cinque secoli, nei personaggi di Brancati, in tutti quei personaggi che pensano “sempre a un cosa, a una sola cosa, quella!”, e più precisamente a quelli del Don Giovanni in Sicilia: “Ma il verme dei viaggi era entrato nei loro cervelli, e non smetteva di roderli...Anche il piacere di restare a letto, dopo essersi svegliati dal sonno pomeridiano, e di sprofondare gli occhi nel buio, ignorando se si guardi lontano o vicino, era guastato dal pensiero che, in quel preciso momento, i caffè di via Veneto si riempivano di donne”[27].

 

Il rimando a riferimenti letterari è un elemento che ricorre spesso negli scritti di Sciascia sull’arte siciliana, e se ciò può apparire scontato e persino banale per uno scrittore come lui, un po’ meno lo è il concetto dell’importanza della caratterizzazione geografica nel considerare le opere d’arte, che lo scrittore applica con fermezza su Antonello, ma che adotterà frequentemente anche negli altri scritti sull’arte. Certo, il suo è un punto di vista di narratore e di conoscitore della ‘sicilianità’ tout court, letteraria e antropologica, nel quale scrittori, artisti, poeti, sono visti nel loro rapporto contestuale con la storia culturale della Sicilia. Per Sciascia, come emerge chiaramente in molte sue pagine su artisti siciliani, ogni artista esprime nella propria opera, sul piano formale, quei tratti, quegli elementi di cultura, anche popolare, che caratterizzano un luogo; in merito Natale Tedesco parlerà, giustamente, di ‘coscienza dei luoghi’[28]. Al riguardo, risultano esemplari due passi, uno, nel quale, descrivendo il San Sebastiano di Dresda (fig. 4), afferma che

 

[...] nella donna che si affaccia da una quinta col bambino in braccio, nelle figure che si affacciano ai terrazzi, nelle graste e nelle grate, in quella borraccia appesa a lato alla finestra alta, c'era un'aria di casa, di pomeriggio messinese. Si direbbe che c'è scirocco: quello scirocco da cui l'inglese Brydone, a Messina, si sentiva trafitti i nervi quasi quanto san Sebastiano dalle frecce. E l'uomo stramazzato nel sonno sul pavimento nudo, la scena galante che la coppia recita sotto il pergolato, le nuvole ferme, la luce: tutto sembra dire della snervata ora del pomeriggio sciroccoso.

 

Mentre, poco dopo, il concetto è espresso in maniera più esplicita e con tono  perentorio:

 

Antonello, dunque: e il suo essere siciliano, come personaggio e come artista; come uomo insomma la cui vita, la cui visione della vita, il cui modo di esprimere nell'arte la vita, sono irreversibilmente condizionati dai luoghi dagli ambienti dalle persone tra cui si trova a nascere e a passare l'infanzia, l'adolescenza. Un critico letterario dei giorni nostri ha dichiarato che non riesce a capire come si possa legare ad un luogo una vita, e l'opera di tutta una vita; per parte nostra non riusciamo a capire come si possa far critica senza aver capito questo inalienabile e inesauribile rapporto, in tutte le sue infinite possibilità di moltiplicarsi e rifrangersi, di assottigliarsi, di mimetizzarsi, di essere rimosso e nascosto. Nessuno è mai riuscito a rompere del tutto questo rapporto, a sradicare completamente questa condizione; e i siciliani meno degli altri[29].

 

Più avanti, lo scrittore, in un passo della Cronachetta siciliana dell’estate 1943 di Nino Savarese – edito nel 1945 dalla Sandron a Roma, e poi riedito nel 1963 da Salvatore Sciascia a Caltanissetta – che descriveva le donne siciliane poco prima della fine della seconda guerra mondiale, individua una perfetta rispondenza con i personaggi femminili delle ‘madonne’ dipinte da Antonello:

 

In queste donne la pudica timidezza, che contrasta col calore del temperamento, fa sbocciare sui loro volti una grazia contrastata tutta particolare...Col volto stretto tra le falde della mantellina, essa par chiusa in un’armatura che sa di chiostro e d’ovile. Questo classico copricapo, rende la fragranza delle sue guance e l’ardore dei suoi occhi, favolosi e irraggiungibili.

 

 Poche descrizioni, come questa di Savarese – acutamente selezionata da Sciascia -, rendono la caratterizzazione dei modelli scelti da Antonello nelle sue opere e, soprattutto, per le ‘Annunciate’. A proposito dell’Annunciata di Palermo (fig. 5), infatti, lo scrittore, significativamente, aggiunge:

 

[...] si noti la piega della mantellina che scende al centro della fronte: che per il pittore, al momento, avrà avuto un valore soltanto compositivo, ma a noi dice di un capo conservato nella cassapanca tra gli altri del corredo, e tirato fuori nei giorni solenni, nelle feste grandi; e si noti anche l’incongruenza, stupenda, della destra sospesa nel gesto ieratico (mentre è del tutto naturale al soggetto – diciamo alla donna contadina – il gesto della sinistra a chiudere i lembi della mantellina); e l’altra incongruenza di quel libro aperto, sul quale si ha il dubbio che mai gli occhi della giovane donna potrebbero posarsi a cogliere le parole e il senso; e poi il mistero del sorriso e dello sguardo, in cui aleggia carnale consapevolezza e nessun rapimento, nessuno stupore (se non si vuole, nel sorriso che appena affiora, scorgere magari un’ombra di malizia)”[30].

 

Molti anni dopo, nel 1981 – in seguito all’inaugurazione della mostra del Museo Regionale di Messina -  lo scrittore tornerà ad occuparsi del pittore messinese in un articolo apparso su “La Stampa”, dove ricorda la vivida atmosfera culturale della mostra messinese del 1953, curata da Giuseppe Vigni, Giovanni Carandente e Giuseppe Fiocco, cui evidentemente, come lascia supporre il testo, egli visitò:

 

Non ho ancora visto la mostra di Antonello che si è aperta giorni addietro a Messina, ma ho ben vivo il ricordo di quella del 1953. Intorno era ancora il dopoguerra: sicchè la mostra era come un segno, quieto e luminoso, della pace ritrovata, della ritrovata Europa. E dentro il simbolo che era la mostra, più d'ogni altro era simbolo quel piccolo quadro che era arrivato dalla Romania: «La crocifissione» di Sibiu. Come era finita, quella piccola «crocifissione» cui faceva da sfondo lo Stretto di Messina, in quel remoto paese della Romania? E come mai la «cortina di ferro» si era aperta a prestarla alla lontana patria del pittore? Andando per le sale della mostra, davanti a quei quadri di straordinario splendore e vigore, ci si sentiva come dentro una dimensione di serenità, di libertà e di speranza[31].

 

Ma ciò che più interessa in questa sede, in merito alle letture sciasciane nel campo della storiografia artistica, è la citazione che, sempre a proposito della mostra messinese, fa del longhiano Frammento Siciliano[32]. Pur elogiando il celebre studio longhiano, ne contesta la considerazione dello iato nella cultura figurativa siciliana precedente ad Antonello[33], sostenendo l’importante precedente del Trionfo della Morte (fig. 6), in cui, secondo lo scrittore – sulla scia degli articoli di Consoli – non era del tutto da escludere il probabile intervento del pittore messinese[34].

L’attenzione di Sciascia al celebre affresco risale ai primi anni Settanta, anni in cui la critica specialistica si dibatteva sulle ipotesi attribuzionistiche (Crescenzio, Spicre, Pisanello, Antonello ecc..) attraverso incessanti ricerche documentarie svolte in parallelo con i restauri in corso presso l’Istituto Centrale di Roma[35]. Nel 1974 ne scriverà un ampio articolo, apparso su «L’Illustrazione italiana», dove, prendendo in analisi le varie ipotesi avanzate dagli storici dell’arte, propone un’interessante osservazione – sulla scia di una fonte inesauribile quale il Di Marzo – riguardo al valore poetico e iconografico del dipinto che riconduce a un preciso passo dei Trionfi di Petrarca[36] (fig. 7):

 

Giustamente il Di Marzo notava come il dipinto muovesse dalla «idea sublime del Petrarca». E se proviamo a leggere il Triumphus Mortis davanti al quadro, scopriamo che anche l’articolazione figurativa viene dal Petrarca: e parte dalla donna colpita dalle due frecce – una al petto, una al collo – e che è poi l’unica donna colpita dalla Morte. «La bella donna e le compagne elette / tornando da la nobile vittoria / in un bel drappelletto ivan ristrette; / poche eran, perché rara è vera gloria, / ma ciascuna per sé parea ben degna / di poema chiarissimo e d’istoria...»: ed ecco che la Morte la sceglie e senza dolore, a «fuggir vecchiezza e’ suoi molti fastidi». La bella donna acconsente: «ed ecco da traverso / piena di morti tutta la campagna.../ Ivi eran quei che fur detti felici, / pontefici, regnanti, imperadori...». E questo «da traverso» è impressionante come si ripeta nel dipinto, nella linea leggermente obliqua dei «muertos regogidos» che muove dal gruppo che possiamo chiamare dei popolani-spettatori, in cima al quale sono i ritratti del pittore e de suo aiuto.

Per questi elementi, e per altri che intravediamo (e per esempio: che nel dipinto trascorra un’alba di primavera - «l’ora prima era, il dì sesto d’aprile»), sembra non ci sia da dubitare che il pittore abbia preso ispirazione e cognizione dal Trionfo petrarchesco[37].

 

Lo scrittore, quindi, individuava nell’opera l’intervento di una personalità colta, sostenendo, inoltre, che l’ambientazione è memore di alcune pagine del Decameron di Boccaccio e precisamente in quel:

 

[…] vagheggiare la morte da una specie di “hortus conclusus”, di rifugio, di luogo d’immunità: per cui il piacere dei sensi e dell’intelletto, il gusto della vita, il ricrearla e favoleggiarla nella parola, nei segni, nei colori, ne sono come moltiplicati.[38]

 

Concludendo, infine, che: 

 

[…] non per nulla il pittore si è posto, sereno, in cima al gruppo di coloro che guardano lo spettacolo della Morte: il che può anche essere considerato come molto siciliano, e a favore dell’attribuzione a un pittore siciliano di cui il giovane Antonello da Messina poteva benissimo essere l’aiutante[39].

 

Nel 1983, recensendo il libro di Vincenzo Consolo, Il ritratto dell’ignoto marinaio (1976), Sciascia, riferendosi al celebre dipinto cefaludese - «il più vigoroso e certamente il più misterioso e inquietante»- si sofferma sulla leggenda degli sfregi che la figlia del farmacista, che possedeva l’opera nell’Ottocento prima di venderlo al Barone di Mandralisca, fece al dipinto, forse perché irritata dallo «sguardo fisso, persecutorio, ironico e beffardo» dell’effigiato. Ma, nota ancor più rilevante, più avanti torna sul Frammento Siciliano di Longhi, intervenendo sulla querelle sull’identità del personaggio ritratto, non escludendo, in definitiva, l’ipotesi che si tratti del primo autoritratto di Antonello, problema tuttora aperto[40].

 

Proveniente dall’isola di Lipari, quasi che in un’isola soltanto ci fossero dei marinai, all’ignoto del ritratto fu data qualifica di marinaio: «ritratto dell’ignoto marinaio». Ma altre ipotesi furono avanzate: che doveva essere un barone, e comunque un personaggio facoltoso, poiché era ancora lontano il tempo dei temi «di genere» (il che non esclude fosse un marinaio facoltoso: armatore e capitano di un vascello); o che si trattasse di un autoritratto, lasciato ai familiari in Sicilia al momento della partenza per il nord. Ipotesi, questa, ricca di suggestione: perché, se da quando esiste la fotografia i siciliani usano prima di emigrare farsi fotografare e consegnare ai familiari che restano l’immagine di come sono al momento di lasciarli, Antonello non può aver sentito un impulso simile e, sommamente portato al ritratto com’era, farsene da sé uno e lasciarlo[41]?

 

A partire degli anni Sessanta, Sciascia si mostra sempre più sensibile alla politica culturale siciliana, intervenendo criticamente, con articoli e recensioni, sulle principali mostre di arte antica e moderna. A questo filone appartengono le recensioni su quella palermitana su Filippo Paladini del 1967[42], quella siracusana su Caravaggio e il suo influsso in Sicilia, del 1984[43]; e, infine, quella su Pietro D’Asaro a Racalmuto dello stesso anno, che lo stesso scrittore promosse in prima persona[44].

Nel 1967, per le «Cronache parlamentari siciliane»[45], esce un breve articolo sulla mostra di Filippo Paladini a Palazzo dei Normanni - che estendeva l’attenzione critica al pittore toscano, anche in relazione all’influsso caravaggesco[46] - suggerita da Brandi all’Assemblea Regionale in occasione del ventennale dell’Autonomia siciliana, e curata da Maria Grazia Paolini e Dante Bernini.

Sciascia, nell’incipit della recensione, elogia la scelta di Brandi di far anteporre la mostra di Paladini a quella di Pietro Novelli, considerandola più rilevante sul piano critico per la singolare commistione stilistica operata dal pittore toscano in Sicilia (cultura manierista toscana e influssi caravaggeschi). Sulla scia del saggio dello storico senese, che introduceva la mostra, lo scrittore annovera tale passaggio stilistico tra le ‘unioni impossibili’ della cultura figurativa siciliana, che si attuò «per una condizione di ricettività e disponibilità che è nella vita e nella cultura siciliana»[47].

Tuttavia, più avanti, lo scrittore aggiunge alcune considerazioni alla tesi brandiana in merito all’influenza caravaggesca: lo storico senese considerava tale influsso non in chiave di totale conversione al naturalismo, ma quale ‘fortuito’ arricchimento (segnatamente ai contrasti chiaroscurali e all’uso della luce funzionale) della matrice manieristica (sostenendo, in definitiva, che il Paladini rappresentò, semmai, «l’ultima luce del manierismo toscano»); lo scrittore, invece, tende a inquadrare Paladini nell’ottica di una netta conversione al naturalismo caravaggesco, che lui spiega quale conseguenza della ‘vocazione al realismo’ per tradizione connaturata alla cultura siciliana – e in questo, considerando il pittore toscano ormai del tutto ‘naturalizzato’:

 

Avesse continuato ad operare in Toscana, forse il Paladini avrebbe sentito molto meno le suggestioni caravaggesche e senz’altro il risultato sarebbe stato quello di un “incenerimento”, nella sua pittura, della maniera cui più lungamente si era dedicato e delle istanze caravaggesche che avrebbe tentato di risolvere. L’ambiente siciliano gli è propizio non soltanto per l’occasione di un più immediato incontro col Caravaggio, ma per il risultato di una “unione impossibile” che viene a realizzarsi senza segnare una remora e senza lasciare scorie. [...] E si può anche osservare, in aggiunta alle acute osservazioni di Brandi, che il Paladini, del tutto sicilianizzato (e un po’ commuove, da un atto del 1601, il trovarlo, come già Antonello, sulla roba: una vigna che acquista da un tale Vincenzo de Xortino), si sia volto a Caravaggio come a un nuovo modo di far pittura che rispondeva alla profonda e sempre viva vocazione al realismo dei siciliani[48].

 

Certo, si tratta di considerazioni borderline da non ‘addetto ai lavori’, legate più a una visione globale della storia culturale siciliana. Non va dimenticato che l’interesse dello scrittore per la pittura seicentesca, in merito anche agli epigoni del pittore lombardo, rientra più nel quadro di suggestioni letterarie, come avviene, ad esempio, per il dipinto La tentazione di S. Antonio Abate di Rutilio Manetti in Todo modo (1974) (fig. 8) e, come nel caso del dipinto rubato che diventa movente di una serie di delitti, nel suo romanzo giallo Una storia semplice (Milano, Adelphi, 1989) allusivo, con ogni probabilità, al furto della Natività di Caravaggio (fig. 9), trafugata nel 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo di Palermo.

Tuttavia, nel corso dei primi anni Ottanta, lo scrittore si mostra interessato ai nuovi studi sul caravaggismo in Sicilia, confluiti nella grande mostra di Siracusa Caravaggio in Sicilia (1984), al punto da farsi promotore della mostra di Pietro d’Asaro a Racalmuto.

Il saggio di presentazione della mostra (riedito poi in forma di articolo su “Malgrado Tutto”[49]) - esemplare e vivida ricostruzione storico-culturale (con un respiro che fa pensare a un’impostazione da kulturgeschichte) della «microstoria» di Racalmuto nel XVII secolo, sotto la Signoria dei Del Carretto che fa da sfondo alle vicende biografiche della singolare figura artistica di Pietro d’Asaro – risulta interessante per la critica che muove ai ritardi della rivalutazione della pittura del Seicento, in primis Caravaggio, negli studi del primo Novecento[50]. E cita, ad exemplum, quale caso eclatante in negativo, il Libro degli artisti[51] del critico idealista e carducciano Enrico Panzacchi[52]:

 

Nel 1902 Enrico Panzacchi, poeta e autorevole critico d’arte, pubblicava un Libro degli artisti che era un’antologia, divisa per secoli, di testimonianze e precetti, intendimenti e giudizi sull’arte e sugli artisti del loro tempo da parte degli stessi artisti o di letterati a loro vicini. Ma nella sezione relativa al Seicento, sul Caravaggio altro non troviamo che uno scritto di Francesco Albani, pittore che fieramente lo accusa di portare al precipizio e alla totale rovina la “mobilissima e compitissima virtù della pittura”. Secondo l’Albani, dunque, e secondo il Panzacchi, il Caravaggio altro non sarebbe stato che un corruttore della pittura. E a parte questo avverso giudizio, tanto poco si parla nel libro di Michelangelo da Caravaggio che nell’indice lo si confonde con Polidoro da Caravaggio, vissuto un secolo prima. Siamo, ripeto, al 1902. Il che vuol dire ancora, all’inizio del nostro secolo, Michelangelo da Caravaggio, oggi considerato tra i grandissimi di ogni secolo, era un pittore quasi misconosciuto. E figuriamoci i suoi seguaci ed epigoni. Il fatto è che tutto il secolo era misconosciuto, e nelle lettere e nelle arti. E quasi relegato in un giudizio di formalismo e di vuotaggine riguardo alle lettere, di corruzione diciamo realistica riguardo alle arti. Giudizi in effetti contrastanti e che nessuno si preoccupava di confrontare, di contemperare, di far pervenire a una sintesi che desse, per così dire, l’anima del secolo, pur tenendo conto di tutte le contraddizioni che il secolo portava in sé, come del resto ogni secolo[53].

 

Sulla cultura figurativa del pittore, infine, non entrando nel merito delle influenze stilistiche, Sciascia si sofferma su alcuni aspetti iconologici della sua pittura di carattere profano, considerandoli per certi versi ‘misteriosi’:

 

Di Pietro d’Asaro, per questa mostra di suoi quadri che finalmente si realizza, in questo catalogo, altri dirà con più competenza di me. Io voglio soltanto segnalare che c’è nella sua pittura – pur classificabile nella epigonia manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi, nella vicinanza allo Zoppo di Ganci – un che di misterioso, e principalmente nei suoi quadri “profani”, nelle sue allegorie: che sarebbero da studiare attentamente, da disvelare nei loro significati. C’è poi da tener conto della cecità del suo occhio destro – “monoculus racalmutensis” amava a volte firmare – che avrà compensata e risolta in un certo virtuosismo e con effetti che mi sembrano ravvisabili. Un mistero anche questo, in definitiva: da affidare ad un oculista, prima che a un critico d’arte[54].

 

In un’intervista rilasciata a Giusi Ferrè nel 1985 su “L’Epoca”, Sciascia, ricordando i momenti dell’allestimento della mostra racalmutese - segno questo che lo scrittore seguì attivamente i lavori – esprime, inoltre, le sue preferenze per alcuni aspetti della pittura del Monocolo di Racalmuto: «...confesso di preferire certi quadretti, certi dettagli di interno dei grandi quadri, cesti di frutta, cesti di pane, i fiori alla maniera del Caravaggio»[55]. (fig. 10)

La mostra di Pietro d’Asaro, forse anche grazie alla promozione di uno scrittore come il Nostro, ebbe una certa risonanza mediatica. Infatti, la terza rete nazionale dedicò un documentario televisivo, curato da Aldo Scimè, sulle due mostre di Siracusa e Racalmuto, nel quale furono intervistati Gesualdo Bufalino e lo stesso Sciascia e dove intervennero, inoltre, il giornalista Luigi Necco, lo studioso francese Georges Vallet e il soprintendente di allora Giuseppe Voza[56].

Un ultimo intervento sulle due mostre siciliane, dal titolo significativo Caravaggio & C. in Sicilia, appare il 19 dicembre sulle pagine culturali del “Corriere della Sera”[57]. Sciascia, qui, esprime il suo apprezzamento per le due mostre, per la particolare validità scientifica e filologica, ma non manca di lanciare – profeticamente, diremmo oggi - acute critiche nei confronti della proliferazione di iniziative culturali e  mostre ‘di massa’, che si andavano affermando proprio negli anni Ottanta[58]:

 

Convegni, mostre e pubblicazioni a volte (e forse è più giusto dire spesso) senza criterio alcuno e si va dalla volgarità festaiola alle astrattezze accademiche o avaguardistiche. E si dice per dire, avanguardistiche: poiché si tratta piuttosto di sparute e quasi sparite retroguardie. E sarebbe da fare un elenco di tutte le iniziative che sotto l'Egida dei Beni culturali, e a spese dei contribuenti, sono state realizzate in Italia in questi ultimi tempi: e senza che i contribuenti ne abbiano minimamente goduto. Sicchè quel che è stato legiferato a fin di bene, e per la protezione e valorizzazione dei beni, è andato ad effetti del tutto opposti: ad alimentare astratte velleità e a lasciare che i beni continuino a degradarsi e a dissolversi[59].

 

Più avanti, riferendosi alle opere centrali della mostra, il Seppellimento di Santa Lucia (fig. 11) –  presentata in quell’occasione dopo il restauro dell’Istituto Centrale di Roma - e le due opere messinesi, l’Adorazione dei Pastori (fig. 12) e la Resurrezione di Lazzaro (fig. 13), lo scrittore si stupisce come, specialmente le due tele di Messina, abbiano sollevato nella critica novecentesca dubbi sull’assegnazione al pittore lombardo[60]:

 

I tre quadri del Caravaggio sono portentosi, e riesce difficile da capire come i due del museo di Messina siano stati dati, tolti e ridati al Caravaggio, se anche ad incompetenti come noi appaiono indubitabilmente suoi. O si capisce benissimo, considerando come la critica attribuzionistica sia andata a finire nelle fosse di Livorno[61].

 

 E, a tal proposito, tornando sul Seppellimento e sull’Adorazione, lo scrittore muove una sottile critica alle lettura berensoniana dei due dipinti:

 

Ma è da dire che anche la critica descrittiva (quella di ascendenza vasariana, in cui si può credere, ma evidentemente con cautela) ha le sue defaillances. E mi accade di notarne due, proprio riguardo al Seppellimento di Santa Lucia e alla Natività che viene dal Museo di Messina, in Berenson. Del Seppellimento dice: «Qui l'incongruenza di allontanare nello sfondo le figure del dolore, mettendo in grossolana evidenza il fatto materiale, rasenta il cinismo»: e non è per nulla vero, poiché è dal fatto materiale, quasi brutale, che le figure del dolore diventano più dolorose. Ed è altrettanto non vera l'osservazione sulla Natività, che iconograficamente gli sembra «molto singolare» per quei due anziani che «hanno l'aspetto grave e intellettuale di eletti teologi»[62] e non di pastori: e sono invece, puramente e semplicemente, due anziani pastori. E basta guardare le loro mani per esserne certi. Ma si vede che Berenson non aveva nozione di quanto possa essere «intellettuale» un pastore errante nell'Asia o nella campagna siciliana, romana, abruzzese[63].

 

Al di là degli aspetti intrinseci dei giudizi di Berenson su Caravaggio – che, come noto, rientrano nella sua valutazione complessivamente negativa sulla pittura seicentesca[64], la nota di Sciascia – che può apparire persino anacronistica e, tuttavia, non classificabile come specifica argomentazione critica sulle problematiche caravaggesche – attesta il suo interesse mai superficiale per la storiografia artistica, anche in ambito anglosassone.

La pittura seicentesca, in relazione alla storia siciliana, continuò ad affascinare lo scrittore fino agli ultimi anni, come mostrano le sue ulteriori letture in questo ambito.

Nel 1988 - traendo spunto dal saggio critico di Jane Costello, The twelve pictures «ordered by Velasquez» and the trial of Valguarnera[65], che Giuliano Briganti aveva mandato allo scrittore prima del 1988 - esce sulla rivista “Nuovi Argomenti” una incisiva “esegesi storiografica” ricostruendo, in forma di ‘cronachetta’, le vicende collezionistico-giudiziarie di Fabrizio Valguarnera dei baroni di Godrano, medico ed esperto d'arte, amico e committente di pittori di fama tra cui Rubens (che aveva curato dalla podraga a Madrid) ed appassionato di pittura, a tal punto che arrivò ad acquistare dipinti direttamente da Reni, Lanfranco, Poussin, Valentin e altri per riciclare diamanti ‘fortuitamente’ rubati a dei nobili fiamminghi in viaggio in Spagna[66] -  siano accostabili per tipologia alla fortunata antologia storica raccolta nella selleriana collana Delle cose di Sicilia, edita in quattro volumi dal 1980 al 1986[67]. Confronto che mette in evidenza una forte componente storiografica, nel senso di uno Sciascia, che anche negli scritti sulle arti si mostra ‘scrittore storico’ e cioè che «non rifugge dal mestiere dello storico»[68] e, inoltre, come è stato notato, viene fuori un critico che, proprio in virtù della lucida visione dei fatti storici e culturali (e qui anche le arti occupano per lo scrittore un ruolo centrale), mostra notevoli interessi per la tradizione storiografica siciliana di matrice erudita che va da Tommaso Fazello a Gioacchino Di Marzo[69].

In definitiva, sebbene  gli interventi di Sciascia sui pittori attivi in Sicilia nel Seicento non si possano inquadrare quali scritti di natura scientifica, tuttavia, ci mostrano quanto lo scrittore fosse aduso alla critica d’arte e attento lettore di testi specifici, oltre che frequentatore di alcuni tra i maggiori esponenti del panorama storico-artistico del Novecento in Sicilia, tra cui Cesare Brandi, docente dell’Università di Palermo dal 1959 al 1967, Vincenso Scuderi[70], Maria Pia Demma, allieva di Maurizio Calvesi a Palermo, Giuliano Briganti e altri studiosi del panorama nazionale che si sono occupati di argomenti siciliani, tra cui anche Ragghianti, come si vedrà soprattutto per l’arte contemporanea


[1] L. GRASSI, Costruzione della critica d'arte, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1955.

[2] L. GRASSI, Genesi e paternità della critica d'arte, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1951.

[3] L. GRASSI, Costruzione..., 1955, p. 7.

[4] Sul rapporto tra Sciascia e le arti visive cfr. N. TEDESCO, Le genealogie artistiche di Leonardo Sciascia, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leonardo Sciascia, catalogo della mostra (Palermo-Racalmuto, luglio-novembre 1992) a cura di M. Pecoraino, Palermo 1992, pp. 48-50; F. IZZO, Come Chagall vorrei cogliere questa terra. Leonardo Sciascia e l’arte. Bibliografia ragionata di una passione, in La memoria di carta, a cura di V. Fascia, Edizioni Otto/Novecento, Milano 1998, pp. 191-276; La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, catalogo della mostra (Racalmuto, 20 novembre-15 dicembre, 1999) a cura di P. Nifosì, Salarci Immagini,  Comiso-Racalmuto 1999;  G. CIPOLLA, L'universo sciasciano delle arti figurative: “un sistema di conoscenza dal fisico al metafisico”, in “El Aleph”, a. I, f. 11, 2009, pp. 82-88; G. CIPOLLA, Le radici di una passione. Leonardo Sciascia e le arti figurative attraverso la direzione di “Galleria. Rassegna bimestrale di cultura” 1949-1989, in “Malgrado Tutto”, “Speciale Leonardo Sciascia vent’anni dopo”, a. XXVIII, f. 4, novembre 2009, p. 15; G. CIPOLLA, “Io lo conoscevo bene...”. Renato Guttuso visto da Leonardo Sciascia, Palermo, Università degli Studi di Palermo, 2010, DOI: 10.4413/978-88-904738-21, http://www.unipa.it/tecla/articoli_noreg/temicritica1_noreg/art_cipolla1_noreg.php, aprile, pp. 109-129; G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e le arti figurative in Sicilia, tesi di dottorato di ricerca, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2011, relatore Simonetta La Barbera; G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e le arti visive. La rivista «Galleria. Rassegna bimestrale di cultura 1949-1989», I parte, in  “Annali di Critica d'Arte”, VII (2011), collana diretta da G. C. Sciolla, CB Edizioni, Poggio a Caiano 2012, pp. 359-408; G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e le arti visive. La rivista «Galleria. Rassegna bimestrale di cultura 1949-1989», II parte, Scritti di Sciascia sulle arti visive del Novecento su «Galleria» (1952-1990), in “Annali di Critica d'Arte”, VIII (2012), collana diretta da G. C. Sciolla, CB Edizioni, Poggio a Caiano 2012, pp. 193-269;; G. CIPOLLA, Leonardo Sciascia e l’architettura in Sicilia tra strutturalismo e immagini letterarie, in «Aa. Quadrimestrale dell’Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Agrigento», a. XV, n. 30, dicembre 2012, pp. 31-37 (ISSN n. 1827-854X); L. SPALANCA, La tentazione dell'arte, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 2012.

[5] “L’Ora”, fondato dall'imprenditore siciliano Ignazio Florio, nel corso della metà del Novecento ebbe tra le più autorevoli firme, per quanto concerne la critica d'arte, oltre a Sciascia,  Guttuso, e inoltre Maria Accascina, Adolfo Venturi, Emilio Cecchi e altri. Per un inquadramento generale del periodico cfr. G. DE MARCO, “L'Ora”. La cultura in Italia dalle pagine del quotidiano palermitano (1918-1930). Fonti del XX secolo, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2007. In particolare, sulla collaborazione di Sciascia a “L’Ora” cfr. M. FARINELLA, Sciascia e l’Ora, in L. SCIASCIA, Quaderno, introduzione di V. Consolo, Nuova editrice meridionale, Palermo 1991, pp. 13-14..

[6] Ibid.

[7] L. SCIASCIA, Il libro di Ruggero, in “L’Ora”, 25 giugno 1966, ripubblicato in L. SCIASCIA, Quaderno...,1991, p. 165. Per un aggiornamento su queste tematiche legate alla cultura figurativa siciliana nella storiografia tra Otto e Novecento si rimanda ai contributi di Simonetta La Barbera, Carmelo Bajamonte e Roberta Cinà presentati a Bologna nel 2011 al convegno di studi Francesco Malaguzzi Valeri (1867-1928). Tra storiografia artistica, museo e tutela, in c.d.s.

[8] Cfr. G. DI MARZO, Delle Belle Arti in Sicilia dai Normanni alla fine del secolo XVI, voll. 4, S. Di Marzo, F. Lao, Palermo, 1858-1864. A. BUTTITTA, Gioacchino Di Marzo e la cultura siciliana tra locale e globale, in Gioacchino Di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno, Palermo, 15-17 aprile 2003, a cura di S. La Barbera, Officine Tipografiche Aiello&Provenzano, Bagheria (Palermo) 2004, pp. 121-127; L. RUSSO, Estetica e critica d’arte nell’Ottocento, in ibid., pp. 128-141.

[9] L. SCIASCIA, Presentazione, in AA.VV., Libro siciliano, D. Flaccovio, Palermo 1972, p. 8.

[10] Sciascia cita alcune pagine, relative al regno normanno, della Storia della Sicilia di Smith che era apparsa in Italia, tradotta da Lucia Biocca Marghieri, nel 1970 (cfr. D. M. SMITH, Storia della Sicilia medievale e moderna, trad. di L. B. MARGHIERI, Laterza, Bari 1970), considerandole una «esatta sintesi» delle problematiche dell’età arabo-normanna in Sicilia.

[11] R. ASSUNTO, La critica d’arte nel pensiero medievale, Il Saggiatore, Milano 1961.

[12] L. SCIASCIA, Presentazione, in Libro Siciliano...,1972, p. 9.

[13] Ibid., p. 10

[14] L. SCIASCIA, Una rettifica, in “L’Ora”, 2 gennaio 1965, poi in L. SCIASCIA, Quaderno..., 1991, p. 22. Il Busto di Pietro Speciale (inv. 5998), originariamente di collezione privata e pervenuto negli ultimi decenni nelle collezioni lapidee della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Palermo, è stato esposto qualche anno fa nella mostra palermitana Materiali per la Memoria al Palazzo Ajutamicristo, cfr. Materiali per la Memoria. Preciosa Cautius Servantur, catalogo della mostra (Palermo, Palazzo Ajutamicristo, 2010), Palermo 2010. L’opera, datata nella lapide sottostante 1469, ha suscitato da sempre tra gli studiosi un acceso dibattito, divisi sull’attribuzione a Domenico Gagini (Di Marzo, Accascina, Kruft, Bernini, Caglioti) o a Francesco Laurana (Mauceri, De Logu, Patera). Oggi il busto è dato a Domenico Gagini (cfr. M. DE LUCA, Il monumento celebrativo di Pietro Speciale, in Materiali per la Memoria..., 2010, pp. 37-38 ), in base un riferimento nel documento di commissione che lo scultore bissonese stipulò con Pietro Speciale per la realizzazione del monumento sepolcrale del figlio Antonio Speciale della chiesa di San Francesco d’Assisi a Palermo, nel quale si impegnava, inoltre, a scolpire due busti, uno dello stesso Pietro e l’altro del figlio, identificabile secondo la De Luca con il Busto di giovinetto della Galleria di Palazzo Abatellis. É da aggiungere, come noto, che a Pietro Speciale sono dedicati altri due bassorilievi, quello della chiesa di Santa Maria la Stella di Militello in Val di Catania – quello su cui Sciascia si concentrerà, ritenendolo di Laurana – e l’altro già a Calatafimi, oggi in collezione privata (Barresi) a Trapani. Anche questi due bassorilievi hanno visto l’alternarsi dell’attribuzione ora a Domenico Gagini ora a Laurana. Per una sintesi delle problematiche attributive di Laurana e Gagini cfr. F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il sud angioino e aragonese, vol. II, Il Quattrocento in Sicilia, Donzelli, Roma 1998, pp. 235-238

[15] Sciascia apprezzava molto l’opera dello studioso palermitano – al punto da inserire il suo Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti (Società Siciliana per la Storia Patria, Palermo 1903) in una edizione critica nel secondo volume della collana Delle cose di Sicilia (cfr. Delle cose di Sicilia, a cura di L. Sciascia, Sellerio, vol II,  Palermo 1996, pp. 188 sgg.) – citandolo frequentemente nei suoi scritti sulle arti, elogiandone, inoltre, lo spiccato “regionalismo”. Al riguardo lo scrittore, sostenendo di fatto l’opinione di Giovanni Gentile riguardo al regionalismo del Di Marzo, unitamente a Giuseppe Pitrè e a Salvatore Marino, scrisse: «Non del tutto accettabile, la tesi è però sostenibile nel senso che la scomparsa di queste tre personalità, nello stesso anno e in piena guerra europea, avverte appunto del tramonto di una cultura regionale, siciliana e sicilianistica; di una cultura regionale negli intendimenti e nell’oggetto» (cfr. Delle cose di Sicilia...., 1996, p. 188). Sull’opera di Di Marzo, si rimanda all’esaustivo e ricco volume degli Atti del Convegno di Palermo del 2003 curato da Simonetta La Barbera, cfr. Gioacchino Di Marzo…, 2004.

[16] G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVII. Memorie storiche e documenti, voll. 2, Tipografia del “Giornale di Sicilia”, Palermo 1880-1883.

[17] L. SCIASCIA, Una rettifica..., 1965, p. 22.

[18] Il bassorielievo raffigurante il Ritratto di Pietro Speciale (attualmente conservato nella “Stanza del tesoro“ in Santa Maria della Stella a Militello in Val di Catania), che già Sebastiano Agati ed Enrico Mauceri attribuivano a Francesco Laurana (cfr. E. MAUCERI, S. AGATI, Francesco Laurana in Sicilia, in “Rassegna d’arte”, a. VI, f. 1, 1906, p. 7), ha mantenuto tale attribuzione, salvo il Kruft che lo assegnava alla scuola di Domenico Gagini (cfr. H. W. KRUFT, Domenico Gagini und seine Werkstatt, Bruckmann, München 1972, pp. 44-45, 245), fino alla critica degli ultimi anni (cfr. B. PATERA, Francesco Laurana in Sicilia, Novecento, Palermo 1992, p. 58).

[19] L. SCIASCIA, Viaggio a Militello, in “L’Espresso”, a. XVII, f. 42, 25 ottobre 1981, p. 241 (poi riedito e ampliato in L. SCIASCIA, Il ritratto di Pietro Speciale, in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 1989, pp. 135-137; e ristampa ed. Adelphi, Milano 2009, pp. 197-201)

[20] Ibid. Sull’attività di Laurana in Sicilia cfr. B. PATERA, Francesco Laurana…, 1992; e sulla sua produzione limitatamente ai busti femminili cfr. C. DAMIANAKI, I busti femminili di Francesco Laurana tra realtà e finzione, Cierre Edizioni, Sommacampagna 2008.

[21] Tra gli studi di questi anni su Laurana, incentrati su tali aspetti, cfr. B. PATERA, Francesco Laurana e la cultura lauranesca in Sicilia, in “Quaderni de «La ricerca scientifica»”, f. 106, 1980, pp. 211-230; D. BERNINI, Architettura e scultura del Quattrocento, in Storia della Sicilia, vol V, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli 1981, pp. 231-271

[22] L. SCIASCIA, Il ritratto di Pietro Speciale...., 2009, p. 200. Sui rapporti stilistici tra Antonello e Laurana, cfr. B. PATERA, Sui rapporti tra Antonello da Messina e Francesco Laurana, in Antonello da Messina, Atti del Convegno di Studi, Messina 29 novembre-2 dicembre 1981, Messina 1987, pp. 325-340

[23] L. SCIASCIA, La corda pazza, in Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1987, pp. 1188-89.

[24] L. SCIASCIA in Artisti e scrittori. Brera, Chiara, Marchi, Milani, Moravia, Pivano, Raboni, Sciascia, Soavi, Testori, a cura di O. Patani, Allemandi, Torino 1984, p. 111.

[25] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze, in L'opera completa di Antonello da Messina, presentazione di L. Sciascia, apparati critici e filologici di G. Mandel, Rizzoli, Milano 1967, pp. 5-7. Lo stesso scritto sarà poi ripubblicato in L. SCIASCIA, Cruciverba, G. Einaudi, Torino 1983, pp. 23-29. Il testo sarà ristampato anche nel 2000: cfr. L. SCIASCIA, Antonello da Messina: l'ordine delle somiglianze, in Scritti d'arte: dieci maestri della pittura raccontati da dieci grandi della letteratura, Rizzoli, Milano 2000, pp. 89-101.

[26] Il passo citato da Sciascia è il seguente: «E, stato pochi mesi a Messina, se n’andò a Vinezia; dove, per essere persona molto dedita a’ piaceri e tutta venerea, si risolvé abitar sempre e quivi finire la sua vita, dove aveva trovato un modo di vivere appunto secondo il suo gusto», cfr. G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, a cura di L. Bellosi, A. Rossi, Einaudi, Torino 1986, p. 362.

[27] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze..., 1967, p. 5

[28] Cfr. N. TEDESCO,“Coscienza dei luoghi”: le genealogie artistiche di Leonardo Sciascia, in La cometa di Agrigento, E. Sellerio, Palermo 1997, pp. 48-50

[29] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze..., 1967, p. 6.

[30] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze..., 1967, pp. 6-7. Sciascia tornerà più volte a sottolineare il carattere etnoantropologico delle “madonne” di Antonello, rifacendosi alla teoria di un suo “professore di storia dell’arte”, che noi potremmo identificare con Enzo Maganuco (essendo stato l’unico docente di storia dell’arte nel periodo di formazione messinese), e ponendo tuttavia l’accento sugli alti livelli di espressività e luminosità raggiunti dal pittore siciliano: « Un mio professore di storia dell'arte teneva moltissimo a una sua scoperta: che le donne raffigurate da Antonello sotto vesti e titolo di “Annunciata” erano certamente di Palazzolo Acreide, paese in provincia di Siracusa in cui quel tipo di bellezza come “in vitro” si conservava. E non intendeva soltanto, credo, i lineamenti, le fattezze: ma anche, per così dire, l'interna luminosità, l'espressività, l'intelligenza» (cfr. L. SCIASCIA, Annunciata e Annunciatina, in  “L’Espresso”, 22 novembre 1981, p. 179)

[31] L. SCIASCIA, Il sorriso di Antonello è un mistero che ancora ci turba, in “La Stampa”, “Tuttolibri”, 14 novembre 1981, p. 3.

[32] Cfr. R. LONGHI, Frammento Siciliano, in “Paragone Arte”, a. IV, f. 47, 1953, pp. 3-44.

[33] Lo scrittore si mostrerà più volte sensibile a problematiche relative all’arte siciliana quattro e cincquecentesca. Nel saggio Sicilia e sicilitudine, posto nella raccolta di scritti La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, pubblicata da Einaudi nel 1970, Sciascia, osservando a proposito della storia della cultura siciliana - che sarebbe «da rifare in un disegno organico e magari partendo dai dati più umili» - chiama in causa un aspetto dell’arte isolana, e precisamente la produzione pittorica quattro e cinquecentesca che usciva dalle botteghe locali e veniva esportata in altri centri italiani. E più avanti, sempre nello stesso passo, si chiede come mai gli architetti siciliani barocchi ebbero più contatti con Parigi che con Roma.  Ciò dimostra l’attenzione costante dello scrittore anche per gli ambiti meno noti della cultura e delle problematiche figurative connesse all’arte siciliana del passato.

[34] L. SCIASCIA, Il sorriso di Antonello..., 1981, p. 3: «La mostra del '53 diede occasione a Roberto Longhi di scrivere quel mirabile «Frammento siciliano», su Paragone, che oggi, davanti a questa seconda mostra, dovrebbe essere assunto, dagli addetti ai lavori, come una sollecitazione: e specialmente da questo punto: «Una grandezza che spaura nell'ambiente siciliano, quando si pensi ch'egli “cominciò a sormontare” in Messina ad un tempo con Tommaso de Vigilia a Palermo; forse anche prima, quando i carretti siciliani ancora portavano sui monti gli ultimi “retablos” del gotico fiorito. La sua posizione in Sicilia è insomma quella di un Masaccio a Firenze...». Dove, a parte i carretti, che non portavano sui monti un bel niente (sui monti andavano le lettighe e i carretti, per così dire retablati, erano di là da venire: e mi pare che tra i primi a vederli sia stato Maupassant), non persuade molto che la pittura di Antonello esploda come in un deserto. C'è da risolvere il problema dello stupendo «Trionfo della morte» di Palazzo Sclafani (ora alla Galleria Nazionale), e se non sia di qualche attendibilità l'ipotesi che Antonello vi abbia lavorato come aiuto». La prima ipotesi in questo senso,  facendo riferimento a supposte iscrizioni, come noto, fu fatta da Giuseppe Consoli nel 1966, (cfr. G. CONSOLI, «El servo» del «Trionfo» Sclafani, in “Arte Antica e Moderna”, a. IX, f. 33, 1966, pp. 58-77; G. CONSOLI, Antonello e Spicre: una ipotesi sul «Trionfo della Morte» di Palazzo Sclafani, in “Cronache di Archeologia e Storia dell’Arte”, a. IV , f. 5, 1966, pp. 134-149; G. CONSOLI, Rettifiche e acquisizioni per Antonello, estratto da “Archivio Storico Messinese”, III s., vol. XXIX, Messina 1978). In generale su tutta la problematica delle firme “presunte” si veda: M. CORDARO, Resoconto degli interventi dell’Istituto Centrale del Restauro sul «Trionfo della Morte», in Il «Trionfo della morte» di Palermo: l'opera, le vicende conservative, il restauro, catalogo della mostra (Palermo, Palazzo Abatellis, luglio-ottobre 1989) a cura di V. Abbate, M. Cordaro, Sellerio, Palermo 1989, pp.76-78. Sempre sullo stesso argomento si veda, inoltre, lo studio di A. MAZZE, Il Trionfo della Morte a Palermo, lo Zingaro e la peste, in “Storia dell’arte”, a. XIV, ff. 44-46, 1982, pp. 153-159; e M. CALVESI, Il “Trionfo della Morte” di Palermo; quando Dio rende grazie, in “Art e dossier”, a.X, f. 106, 1995, pp. 22-27.

[35] Sul restauro del Trionfo della Morte, cfr. M. CORDARO, Resoconto degli interventi dell’Istituto Centrale del Restauro sul «Trionfo della Morte»..., 1989, pp. 76-85

[36] Cfr. F. PETRARCA, Trionfi, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano 1957, cap. I, vv. 5-80, pp. 27-31

[37] L. SCIASCIA, Il Trionfo della Morte, in “L’Illustrazione italiana”, f. 1, 1974, p. 64

[38] Ibid.

[39] Ibid., p. 65

[40] Il misterioso sorriso dell’”Ignoto marinaio” (aspetto che ispirò il celebre libro di Vincenzo Consolo) ha portato Sciascia a parlare di “ordine bioetnico delle somiglianze” e della “rete  infinita di associazioni involontarie e volontarie” che, da un lato, richiamano il sistema della sinestesia, mentre dall’altro, sostengono gli elementi metaforici che avviano il lettore all’apprezzamento totale di una letteratura viva, dinamica e universale. E, in linea con l’attenzione dello scrittore per le storie legate a un dettaglio (come spesso accade nei suoi romanzi gialli), egli si sofferma sul “presunto” sfregio: L. SCIASCIA, L’ignoto marinaio, in “La Stampa-Tuttolibri”, 23 ottobre 1983, p. 3 (ripubblicato in Cruciverba, Einaudi, Torino 1983): «Lo sfregio – e ce lo insegna tanta letteratura napoletana, e soprattutto quel grande poeta che è Salvatore Di Giacomo – è un atto di esasperazione e di rivolta connaturato all’amore; ed è anche come un rito, violento e sanguinoso, per cui un rapporto d’amore assume uno stigma definitivo, un definitivo segno di possesso: e chi lo ha inferto non è meno “posseduto” di chi lo ha subito. La ragazza che ha sfregiato il dipinto di Antonello è possibile dunque si sia ribellata per amore, abbia voluto iscrivere un suo segno di possesso su quel volto ironico e beffardo. A meno che non si sia semplicemente ribellata – stupida – all’intelligenza da cui si sentiva scrutata ed irrisa». Sul Ritratto d’uomo del Museo Mandralisca di Cefalù, con bibliografia precedente esaustiva, cfr. M. LUCCO, scheda 14, in Antonello da Messina. L’opera completa, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 18 marzo-25 giugno 2006) a cura di M. Lucco, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2006, p. 162.

[41] L. SCIASCIA, L’ordine delle somiglianze..., 1967, p. 6. Qui emerge un’ulteriore sferzata storiografica nei confronti di Longhi, che nel Frammento Siciliano (cfr. R. LONGHI, Frammento Siciliano...., 1953, p. 29) aveva negato perentoriamente che si potesse trattare di un marinaio (per le condizioni economiche e per il fatto che non esisteva ancora il ritratto di genere), al quale Sciascia controbatte col suo razionalismo relativista e pungente.

[42] Cfr. Mostra di Filippo Paladini, catalogo della mostra (Palermo 1967) a cura di M. G. Paolini e D. Bernini, saggio introduttivo di C. Brandi, Palermo 1967. Sulla mostra, lo stesso Brandi scriverà, poi, un articolo sul “Corriere della Sera”, cfr. C. BRANDI, I siciliani hanno riscoperto i capolavori di Filippo Paladini, in “Corriere della Sera”, 29 maggio 1967.

[43] Cfr. Caravaggio in Sicilia, il suo tempo, il suo influsso, catalogo della mostra (Siracusa 1984) a cura di V. Abbate, Sellerio, Palermo 1984.

[44] Cfr. Pietro d’Asaro il «Monocolo di Racalmuto», catalogo della mostra (Racalmuto 1984-1985) a cura di M. P. Demma, prefazione di L. Sciascia, Arti Grafiche Siciliane, Palermo 1985.

[45] L. SCIASCIA, Un fatto culturale siciliano: la pittura di Filippo Paladini, in “Cronache parlamentari siciliane”, a. VI, f. 11, novembre 1967, pp. 851-852.

[46] Il rapporto tra Paladini e Caravaggio, considerato in minima parte nella storiografia novecentesca precedente al 1967 - a partire da Enrico Mauceri (E. MAUCERI, Due volumi di disegni di Filippo Paladini, in “Bollettino d’arte”, a. IV, f. 10, ottobre, 1910, pp. 396-405),  fino a Stefano Bottari (S. BOTTARI, Filippo Paladino, in “Rivista d’arte”, a. XX, f. 2, 1938, pp. 23-47; S. BOTTARI, Nuovi documenti sul manierismo fiorentino in Sicilia, in “Siculorum Gimnasium”, 1943, pp. 300-304), e a Carlo Ludovico Ragghianti (C. L. RAGGHIANTI, Mischellanea minore di critica d’arte, Laterza, Bari 1946, pp. 163-165) – giunge a una maggiore attenzione nell’articolo di Dante Bernini del 1967 (D. BERNINI, Sull’attività siciliana di Filippo Paladini, in “Commentari”, f.3, 1961, pp. 203-210), dove era sostenuta una rimeditazione del caravaggismo nel tessuto di matrice manierista dell’opera paladiniana,  ponendo, in sostanza, le premesse per la grande mostra dello stesso anno a Palazzo dei Normanni, dove Brandi sosteneva la “felice” coesistenza delle due tendenze, negando tuttavia la totale conversione al naturalismo caravaggesco (cfr. Mostra di Filippo Paladini..., 1967). In anni recenti, ulteriori elementi di riflessione si sono aggiunti a quelli messi in luce nella mostra del 1967. L. SEBREGONDI FIORENTINI (Francesco dell’Antella, Caravaggio, Paladini e altri, in “Paragone”, a. XXXIII, ff. 383/385, 1982, pp. 107-122) datava la Decollazione del Battista al 1608; V. ABBATE (I tempi del Caravaggio: situazione della pittura in Sicilia (1580-1625), in Caravaggio in Sicilia..., 1984, pp. 54-58) poneva in rilievo i rapporti fondamentali della cultura artistica isolana con l’azione degli ordini religiosi, e più avanti (V. ABBATE, Per il collezionismo siciliano: la quadreria mazzarinese dell’Ecc.mo Signor Principe di Butera, in L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli, in Sicilia e a Malta, a cura di M. Calvesi, Ediprint, Siracusa 1987, pp. 293-314) evidenziava il ruolo promotore dei Branciforti nei confronti degli artisti operanti nell’isola. Una nuova ricostruzione delle vicende biografiche di Paladini si deve a Maria Grazia Paolini (M. G. PAOLINI, Filippo Paladini, in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, catalogo della mostra (Firenze 1986-1987), Cantini, Firenze 1986, vol. II, pp. 145-147 e vol. III, pp. 136-140) che riproponeva il problema della data di nascita del pittore rilevando le affinità con il Pocetti negli affreschi di Malta, tornando a spostare la Decollazione del Battista agli ultimi anni della sua attività. La mostra Pittori del Seicento a Palazzo Abatellis (a cura di V. Abbate, Electa, Milano 1990) recuperava altri due dipinti dell’artista, il Caino e Abele e lo studio del S. Francesco dalla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto. Infine, V. ABBATE, Maestri del Disegno nelle collezioni di Palazzo Abatellis, catalogo della mostra (Palermo 1995), E. Sellerio, Palermo 1995, documentava l’attività di Paladini collezionista di monete e medaglie antiche. In definitiva la questione sul grado di influenza caravaggesca nell’opera di Paladini rimane tuttora aperta.

[47] L. SCIASCIA, Un fatto culturale siciliano....., 1967, p. 851. Nell’articolo lo scrittore, pur elogiando le scelta del Governo regionale democristiano (la carica di Presidente dell’Assemblea Regionale in quegli era occupata da Rosario Lanza, che la detenne dal 1963 al 1971) di avvalersi della competenza di Brandi nella politica culturale, esprime alcune considerazioni sulla blanda attenzione nei confronti dello storico durante il suo periodo di docenza nell’ateneo palermitano (come noto Brandi fu titolare della cattedra di Storia dell’arte a Palermo, succedendo a Giulio Carlo Argan, dal 1959 al 1967). Sciascia, infatti, scrive: «Che il consiglio di Brandi sia stato accettato e realizzato, che alla glorificazione del maggior pittore siciliano si sia preferito un discorso, più sommesso nel senso, per cosi dire, della politica e più importante nel senso della cultura, sul pittore toscano, è un fatto senza dubbio positivo. E viene da considerare  quante altre cose si sarebbero potute realizzare o avviare nel periodo in cui Cesare Brandi è stato a Palermo, titolare della cattedra di storia dell’arte all’Università: ma contentiamoci che almeno sul punto del suo trasferimento a Roma si sia fatto ricorso alla sua competenza (e ce ne contentiamo nella speranza che le altre iniziative suggerite da Brandi trovino realizzazione nell’arco di questa legislatura, e la mostra di Pietro Novelli al più presto)», (L. SCIASCIA, Un fatto culturale siciliano..., 1967, p. 851).  La mostra su Novelli, come noto, si realizzerà poi soltanto nel 1990, Cfr. Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra (Palermo, Real Albergo dei Poveri, 1990), D. Flaccovio, Palermo 1990.

[48] Ibid., p.852. Il concetto della ‘vocazione al realismo’ nell’arte siciliana ricorre spesso negli scritti di Sciascia sulle arti, ma si tratta, va puntualizzato, di un pensiero che esula dalle specifiche problematiche di carattere formale, e si pone, semmai, su un versante più ampio, di carattere storico-culturale, dove lo scrittore esprime una visione universale della cultura siciliana, insieme figurativa e letteraria.

[49] Cfr. L. SCIASCIA, Presentazione in Pietro d’Asaro...,1984, pp. 19-22.

[50] Come noto, la riscoperta critica di Caravaggio si deve alla celebre mostra, curata da Roberto Longhi, del 1951 a Milano, cfr. Mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale 1951), introduzione di R. Longhi, Sansoni, Firenze 1951

[51] Cfr. E. PANZACCHI, Il libro degli artisti. Antologia, Cogliati, Milano 1902.

[52] Enrico Panzacchi (Ozzano dell'Emilia, 16 dicembre 1840 – Bologna, 5 ottobre 1904), poeta, critico d'arte e critico musicale italiano, nonché oratore e prosatore. Nel 1865 si laureò in filologia a Pisa, e l'anno seguente fu nominato professore di storia al liceo Azuni di Sassari. Insegnò Belle Arti all'Università di Bologna e fu deputato e sottosegretario alla Pubblica Istruzione. Assieme a Olindo Guerrini e a Giosuè Carducci formò il cosiddetto triumvirato bolognese. Fondò e diresse diverse riviste tra le quali spiccano Lettere e Arti, fondata a Bologna nel 1889 e la Rivista bolognese di scienze, lettere, arti e scuola. Fu anche critico musicale prediligendo fra tutte le opere di Wagner e di Verdi e, applaudito oratore, tenne conferenze sui più svariati argomenti. Nell’ambito della critica d’arte italiana a cavallo tra Otto e Novecento, Panzacchi si inserisce nel filone estetizzante e lirico rappresentato, tra gli altri, da figure come Angelo Conti, Gabriele D’Annunzio e Ugo Fleres. Su Panzacchi si veda almeno: E. LAMMA, Enrico Panzacchi. Ricordi e memorie, Zanichelli, Bologna 1905; A. ALESSANDRI, Il mondo poetico ed umano di Enrico Panzacchi, Gastaldi, Milano 1955; C. L. RAGGHIANTI, Profilo della critica d’arte in Italia, e complementi, Università Internazionale dell’Arte, Firenze 1990, p. 22 (1ª ed, Edizioni U stampa, Firenze 1948); G. C. SCIOLLA, La Critica d’arte del Novecento, Utet, Torino 1995, p. 52.

[53] L. SCIASCIA, Un pittore del profondo Sud, in “Malgrado Tutto”, ottobre-novembre 1984, p. 8 (si

tratta di una versione ampliata della prefazione di Sciascia al catalogo della mostra racalmutese su Pietro d’Asaro, precedentemente citata).

[54] L. SCIASCIA, Presentazione, in Pietro d’Asaro....., 1984, p. 7

[55] G. FERRÈ, Viaggio fantastico con Leonardo Sciascia: il mondo abita qui nella mia Racalmuto, in “Epoca”, f. 1791, 1 febbraio 1985, p. 33.

[56] Cfr. Il Caravaggio visto da Sciascia e Bufalino in “La Sicilia”, giovedì, 21 febbraio 1985.

[57] L. SCIASCIA, Caravaggio & C. in Sicilia, “Il Corriere della Sera”, 19 dicembre 1984, p. 13

[58] É da sottolineare anche la suadente ironia con cui Sciascia mette in relazione le due mostre, attraverso un sottile fil rouge che si interpone tra esse, ossia la presenza, il protagonismo e la protezione di Santa Lucia. Ed infatti, Santa Lucia viene festeggiata solennemente dalla città di Siracusa in occasione della sua ricorrenza il giorno 13 dicembre; si veda, inoltre, che il d’Asaro in veste di monocolo di Racalmuto, fu certamente devoto alla Santa, «quasi che Santa Lucia […] gli avesse dati facoltà di vedere con un occhio solo e di ritrarre con goduta virtù, quel che agli altri era dato di vedere – soltanto di vedere – con due». A partire dalla metà degli anni Settanta, l’innovazione introdotta dai “nuovi” Assessorati alla Cultura degli Enti locali puntò molto sulle mostre come strumento per innovare le politiche nel campo dell’arte e della cultura e per allargare la base sociale dei suoi pubblici. Nel settore delle mostre si è assistito non solo alla loro proliferazione, ma anche a una loro crescente differenziazione, a seconda che a gestirle fossero le istituzioni museali o gli enti, piccoli o grandi operatori privati, che si puntasse sulla valorizzazione delle collezioni esistenti o sulla loro circolazione, sul valore scientifico o sul ritorno economico, generando esposizioni di diversissima qualità e impatto, tanto sul piano economico e occupazionale quanto su quello culturale. Da questo scenario si sviluppa il fenomeno delle grandi mostre (o meglio: le mostre-evento a carattere commerciale, dette anche blockbuster = “spaccabotteghini”), cui Sciascia, in questo articolo sembra riferirsi denunciando i rischi di impoverimento culturale e scientifico, e soprattutto i rischi per la minore attenzione alla conservazione delle collezioni museali. Lo scrittore, come noto, era un attento e assiduo visitatore di mostre, in Italia e in Francia, come dimostrano le sue numerose recensioni. E, se si pensa al fatto che, contemporaneamente, frequentava gli ambiti più ristretti come le piccole gallerie, gli antiquari e gli ateliers degli artisti, si comprende bene che il suo giudizio sulla politica culturale “di massa” fosse particolarmente negativo, eccezion fatta per le mostre e gli eventi di una certa valenza scientifica e culturale. Sul fenomeno delle mostre blockbuster in Italia gli studi precursori sono: C. BRANDI, Museografia, mostre e restauro, in Problemi della tutela del patrimonio artistico, storico, bibliografico e paesistico, Atti del Convegno, Roma Accademia dei Lincei 6-7 marzo 1969), Accademia dei Lincei, Roma 1970, pp. 77-92; R. LONGHI, Mostre e musei (1959), riedito in R. LONGHI, Critica d'arte e buongoverno. 1938-1969, Sansoni, Firenze 1985, pp. 59-74. Mentre, tra i testi-chiave sui termini del dibattito sul fenomeno al suo sorgere negli anni Settanta e Ottanta si annoverano: A. CHASTEL, Editorial. Les expositions, in "Revue de l'Art", f. 26, 1974, pp. 4-7; R. SPEAR, Art History and the "Blockbuster" Exhibition, in "The Art Bulletin", a. LIVIII, f. 3, 1986, pp. 358-359; S.J. FREEDBERG, G. JACKSON-STOPS, R. SPEAR, Discussion. On "Art History and the 'Blockbuster' Exhibition, in "The Art Bulletin", a. LXIX, f. 2, 1987, pp. 295-298; il numero di "Art in America" del giugno 1986 conteneva una sezione speciale intitolata Museum Blockbusters in cui si dibatteva dell'argomento; L. MIOTTO, La memoria esposta. Esposizioni e musei, Mondadori, Milano 1986. Infine, per un quadro generale, che ricapitola bene il problema, anche in prospettiva storica, cfr. F. HASKELL, The Ephemeral Museum. Old Master Paintings and the Rise of the Art Exhibition, Yale University Press, New Haven - London 2000; D. LEVI, "At What Expense? At What Risk?" Qualche riflessione sulla legittimità delle mostre, in "Predella", a. IV, f. 16, 2005, pp. 15-23.

[59] L. Sciascia, Caravaggio...., 1984, p. 13.

[60] In realtà, i maggiori dubbi sull’autografia, nella critica novecentesca, dettate principalmente da fattori conservativi (interventi e ridipinture ottocentesche), riguardarono principalmente la Resurrezione di Lazzaro (E. MAUCERI, Restauri a dipinti del Museo Nazionale di Messina, in “Bollettino d’Arte”, s. II, a. I, f. 10, 1922 pp. 581-586; E. MAUCERI, Il Caravaggio in Sicilia ed Alonso Rodriguez pittore messinese, in “Bollettino d’Arte”, s. II, a. IV, f. 12, 1925, pp. 559-571;  N. PEVSNER, Eine revision der Caravaggio-Daten, in “Zeitschrift für bildende Kunst”, 1927-1928, pp. 386-392; M. CINOTTI, G. A. DELL’ACQUA, Caravaggio, Bolis, Bergamo 1983). Per la storia attribuzionistica dei tre dipinti si rimanda, con bibliografia specifica, alle rispettive schede nel catalogo della mostra del 1984 (cfr. G. BARBERA, scheda n. 8, pp. 147-152, C. CIOLINO MAUGERI, schede n. 9-10, pp. 153-157 e 158-161, in Caravaggio in Sicilia..., 1984).

[61] L. Sciascia, Caravaggio...,1984, p. 13. Qui, naturalmente, il riferimento è rivolto al noto caso delle teste false di Modigliani, scoppiato in occasione della mostra, promossa per il centenario della nascita, nel 1984 al Museo progressivo di arte moderna di Livorno, che portò gran parte degli studiosi del tempo in uno degli “infortuni” attribuzionistici più eclatante del Novecento. 

[62] Il testo di Berenson su Caravaggio a cui lo scrittore fa riferimento è lo studio del 1951, cfr. B. BERENSON, Del Caravaggio, delle sue incongruenze e della sua fama, Electa, Firenze 1951 (trad. ingl., Caravaggio, His Incongruity and His Fame, Chapman & Hall, Londra e Macmillan, New York 1953), pp. 39-42

[63] L. SCIASCIA, Caravaggio..., 1984, p. 14

[64] Su questo cfr. G. C. SCIOLLA, La critica d’arte ..., 1995, p. 65.

[65] J. COSTELLO, The twelve pictures «ordered by Velasquez» and the trial of Valguarnera, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, f. 13, 1950, pp. 237-284

[66] L. SCIASCIA, Quadri come diamanti, in “Nuovi Argomenti”, 1988, febbraio, numero speciale, pp. 6-13 (poi ripubblicato in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo, 1989, pp. 30-43; e recentemente  nella riedizione Adelphi: Fatti diversi di storia letteraria e civile, Adelphi, Milano 2009, pp. 45-65).

[67] Cfr. Delle cose di Sicilia...,1980, 1982, 1984, 1986.

[68] F. RENDA, Leonardo Sciascia e la storia, in Sciascia: scrittura e verità, Atti del convegno, Palermo, novembre -dicembre 1990, D. Flaccovio, Palermo 1991, p. 91.

[69] Ibid., pp. 92-93.

[70] I rapporti tra Sciascia e Scuderi – come ho appreso in seguito a una piacevole conversazione con quest’ultimo, che ringrazio vivamente – hanno inizio a Palermo, nei primi anni Ottanta, negli uffici della Sellerio, tra scambi di opinioni e di pubblicazioni d’arte; e si intensificano durante l’organizzazione della mostra racalmutese di Pietro d’Asaro, per la quale lo scrittore mostrò un interesse non marginale anche nelle fasi di allestimento e di curatela delle relative pubblicazioni (il catalogo della mostra, curato da Maria Pia Demma; e gli Atti del Convegno di poco successivi). 

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Temi di Critica - numero 7

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