teCLa :: Rivista #8

in questo numero contributi di Giuliana Tomasella, Giulio Brevetti, Almerinda Di Benedetto, Edoardo Dotto, Valentina Di Fazio.

codice DOI:10.4413/DI BENEDETTO - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Le tele per il Cappellone di San Sossio nella Basilica pontificia di Frattamaggiore e qualche nota sulla sfortuna critica della produzione sacra di fine Ottocento di Almerinda Di Benedetto

 

Nel 2007 Bruno Foucart, nella prefazione al testo di Emmanuelle Amiot-Saulnier dal titolo La peinture religieuse en France 1873-1879, ribadisce, a distanza di vent’anni dal suo fondamentale lavoro sull’arte sacra, il valore di quest’ultima come «l’un des fondamentaux des tout regards réconcilié avec un XIXè siècle accepté et désiré dans la totalité de ses postulations, fussent-elles apparemment contradictoires»[1]. Sdoganato in Francia, in Italia questo importante e cospicuo segmento è ancora oggi in buona parte negletto, nonostante l’ormai quarantennale percorso di riabilitazione dell’arte del secolo XIX da parte della critica, e la meritoria attenzione a quella ‘Accademia’ a lungo ignorata o segnalata come ciarpame antiquario. Una considerazione che cresce in misura esponenziale se si passa in rassegna la produzione postunitaria di area meridionale[2]. Salva l’attenzione al nume Morelli, i contributi sono limitati a sporadici e pioneristici interventi, circoscritti a commesse ecclesiastiche di qualche peso, e manca dunque un’organica bibliografia critica di riferimento. Allo stato degli studi s’impone dunque una sollecitazione delle ricerche in questa direzione che prenda in considerazione soprattutto le misconosciute storie regionali, puntando a ricomporre un tassello importante per la lettura dell’articolato mosaico storico-artistico del secolo in questione. Si deve inoltre considerare che per molti degli artisti, conosciuti sul mercato nazionale e internazionale attraverso la produzione laica, quella sacra occupa comunque una buona fetta dell’impegno professionale, e si lega spesso a incarichi ottenuti attraverso un giro di committenza di conveniente prestigio per la carriera di ciascuno di essi, alimentando un filone ricchissimo se pur disomogeneo nelle proposte.


Prendendo in esame il vasto corpus di opere del quarantennio successivo all’unificazione, converrà comunque tenere presenti due assunti: il primo è che, nonostante le nuove indicazioni della cultura artistica, la produzione a carattere devozionale realizzata secondo la pratica tradizionale ha vita lunga, soprattutto nell’ex Regno delle Due Sicilie, dove la prevedibile interruzione del florido circuito arte-culto giunge in ritardo rispetto al contesto nazionale. Il secondo riguarda la forte influenza esercitata dagli indirizzi suggeriti dal magistero morelliano lungo un quarantennio di storia artistica, la cui ricezione appare però spesso incostante e talvolta anche superficiale. Bisognerà quindi operare una distinzione tra quegli artisti comunque legati a un morellismo di ‘emulazione’, e quelli che proveranno, al contrario, a svincolare la pittura sacra dall’eco lunga della formula purista e nazarena. Ma la chiave di lettura di molte opere può essere trovata, nel caso di quelle che rivelano una buona qualità formale, ancora nei rapporti degli artisti con i suggerimenti della cultura internazionale, e nei contatti e scambi intercorsi con la migliore produzione accademica europea tardo ottocentesca.

Sono esemplari, rispetto a tali premesse, gli interventi ordinati per la Basilica pontificia di San Sossio a Frattamaggiore – attivo centro dell’entroterra napoletano – e realizzati in un arco di tempo molto ampio, tra il 1873 e il 1895, per i quali vennero reclutati gli artisti più attivi sul fronte della produzione sacra. Così come oggi si presenta, lo spazio della Cappella dedicata a San Sossio, completato tra il 1892 e il 1895 nel corso dei restauri alla basilica partiti nel 1891, rispecchia a pieno la cultura eclettica fin de siècle, con un efficace campionario artistico della coeva produzione meridionale. Tutto l’ambiente è informato al gusto neobarocco, esaltato dalle tempere di Gaetano D’Agostino negli spicchi della cupola, dall’altare policromo e dalla profusione di marmi pregiati con capitelli in oro, e di stucchi preziosi che servono ad enfatizzare le grandi tele poste sull’altare e sulle pareti laterali, dove sono anche le teche che ospitano le reliquie dei santi Severino e Sossio, traslate in Basilica nel 1807[3]. I pittori che firmarono i dipinti, Federico Maldarelli da Napoli, Gaetano D’Agostino da Salerno e Saverio Altamura da Foggia, sono portavoci di un comune background culturale, vicini per formazione e legati tutti, per quanto in misura diversa, dall’ammirazione o dall’emulazione per Domenico Morelli. Tuttavia nel caso di Maldarelli, che firma l’opera più antica posta sull’altare, La sepoltura di San Sossio martire, datata al 1873 perché commissionata per il primo allestimento della cappella, è il ricorso ai moduli formali d’Oltralpe, come vedremo, a costituire il fertile repertorio per la costruzione della solenne rappresentazione. L’autore sceglie «il momento, quando son resi gli ultimi onori al corpo del santo, vestito dei suoi abiti sacerdotali, e disteso nella sua nicchia con una riga di sangue al collo che mostra come la testa sia staccata dal busto: i fedeli pregano, ed il fossore è lì pronto a chiudere la nicchia colla sua lapide di marmo»[4]. L’accurata descrizione, pubblicata a distanza di vent’anni dall’esecuzione del quadro dall’anonimo articolista nel 1892 in occasione della nuova sistemazione nella cappella ricostruita, è carica di valenze emotive e alimenta ancora nel lettore la forte suggestione popolare esercitata dalla storia del martire. È un dipinto di grande impatto visivo, questo del Maldarelli, che catapulta l’artista napoletano fuori dalla produzione sacra corrente, la quale solo qualche anno prima, nel 1870, aveva trovato nuovi stimoli nell’Esposizione di arte cristiana a Roma promossa dalla politica culturale di Pio IX, che intendeva rilanciare l’arte religiosa prima che gli eventi precipitassero con la Breccia di Porta Pia.

In questi anni Maldarelli, nato nel ’26 e figlio di Gennaro pittore di corte di scarse capacità artistiche ma tra i più favoriti dell’entourage borbonico, è all’apice della carriera. Nel 1870 è stato eletto vicepresidente al Primo Congresso Artistico italiano di Belle Arti a Parma; quindi diventa membro del Consiglio direttivo dell’Accademia di Belle Arti di Napoli durante la presidenza Morelli, che Federico affiancherà in qualità di ispettore onorario anche nei lavori per la Pinacoteca di Capodimonte, di cui Morelli è il Direttore responsabile. Oltre ai riscontri sul mercato italiano, le opere di Maldarelli raccolgono grande successo all’estero, come attestano le partecipazioni alle Esposizioni di Parigi e di Berlino, e la commissione di numerosi quadri da parte di collezionisti tedeschi e inglesi, documentati dal carteggio dell’artista conservato presso l’archivio dell’Accademia napoletana[5]. I suoi dipinti più richiesti sono quelli di gusto neopompeiano, secondo il fortunato filone inaugurato proprio da Domenico Morelli nel 1861 all’Esposizione nazionale di Firenze, e già prima di lui da Jean-Léon Gerôme e Thomas Couture. Ed è proprio la pittura dei pompiers quella nella quale si devono rintracciare le coordinate del nostro dipinto. Maldarelli ebbe modo, infatti, di confrontarsi in più occasioni con l’ambiente francese, come si evince dal carteggio già menzionato; durante un soggiorno a Parigi nel ’66, con la partecipazione all’Esposizione universale organizzata nella capitale francese nel ’67, poi al Salon del 1880, dove espose due dipinti, L’assomption e La Sortie du Bain. E già prima a Roma, durante gli anni del Pensionato vinto assieme a Morelli tra il ’49 e il ‘55, quando fu in contatto con quel giro culturale che legava gli artisti provenienti da tutta Italia ad alcuni dei futuri pompiers in soggiorno di studio nella capitale universale delle arti. Qui nel 1854 William-Adolphe Bouguereau aveva portato a termine Il corpo di Santa Cecilia condotto nelle catacombe, potente traduzione dell’episodio del trasporto della martire in San Callisto, distrutto nel 2003 nell’incendio del Museo di Lùneville. Il dipinto aveva colpito già Morelli, che ne aveva tratto un bozzetto d’ispirazione per la prova di pensionato del ’55, per la quale poi realizzò, com’è noto, la celebre tela con Gli iconoclasti, presentata all’Esposizione borbonica a fianco alla Santa Gliceria che converte e battezza il suo carceriere del Maldarelli, un soggetto legato anch’esso alla persecuzione cristiana, ma di impostazione ancora tutta neoclassica. Il tema della catacomba era stato già adoperato dal maestro nel Neofita cristiano, anche questo un saggio di pensionato, pregno di misticismo cattolico, al cui giro culturale appartiene anche il dipinto di Maldarelli La comunione di Santa Vittoria nelle catacombe, memore del già citato dipinto di Bouguereau. La pittura sacra di Morelli si sarebbe evoluta tuttavia verso una resa formale diversa, non finita, alimentata dalla fede profonda e nutrita in seguito di umori orientalisti. Dimensioni che non appartengono al Nostro. Ancora a distanza di vent’anni, Maldarelli, legato anch’egli intimamente al credo cristiano, resta ancorato al modello accademico tardo neoclassico, che da scolastico agli esordi della carriera (si veda la tela con Gesù in casa di Marta e Maria, parte di un ciclo per Ferdinando II destinato alla chiesa di Sant’Antonio da Padova a Caserta) diviene maturo e raffinato nelle prove più accurate, conservando comunque la stessa definizione maniacale delle figure e delle cose rappresentate; come nel caso della pala di Frattamaggiore, quando, pur con qualche umore caravaggesco, si mescola a memorie rinascimentali, secondo una linea che da Gerôme risale al grande maestro di Montauban, Jean-Auguste Dominique Ingres, autore nel 1820 della celebre e ‘rivoluzionaria’ Consegna delle chiavi del Paradiso a San Pietro per la chiesa della Ss. Trinità dei Monti a Roma, divenuta fonte di ispirazione per tanti artisti impegnati nella produzione sacra di quegli anni[6]. Un’opera che Maldarelli aveva mostrato di conoscere già al tempo della tela con la Comunione di Santa Vittoria, nella quale aveva citato la figura dell’apostolo a mani giunte. La sepoltura di San Sossio è recensita e apprezzata dalla critica nazionale e internazionale come «uno dei suoi quadri meglio riusciti che conferma la sua bella riputazione»[7] e ancora nel 1900 sarà presentata all’Esposizione di Berlino, riscuotendo nuovi consensi. L’opera aveva donato a Maldarelli una notevole fama, consentendogli di divenire richiestissimo dalla committenza ecclesiastica. Tuttavia quest’aspetto della sua produzione ebbe esiti discontinui, più felici quando l’artista perseguì ancora gli indirizzi pompier (le due grandi tele realizzate nel 1889 per la cappella della Casa ducale di Casalnuovo nella chiesa dei SS. Severino e Sossio a Napoli, La Visitazione e La Presentazione di Maria al tempio[8]), meno brillanti in opere nate da commesse pure di grande prestigio, come la pala neosettecentesca con la Vergine col bambino e santi, portata a termine nel 1888 per il Santuario di Pompei, dove Maldarelli dipinse anche la Santa Caterina da Siena che riceve le stimmate e ottenne il delicato incarico del restauro della preziosissima Madonna del Rosario posta sull’altare del tempio mariano.

Come abbiamo già accennato, circa vent’anni dopo la realizzazione del dipinto di Maldarelli, la Cappella è sottoposta a lavori di ampliamento, poiché si pensa di creare un ambiente più idoneo all’accoglienza delle preziose reliquie. Per la decorazione della cupola la scelta ricade su Gaetano D’Agostino, accorsatissimo pittore di origini salernitane. L’artista ha già lavorato con successo in numerose chiese della Campania, collaborando con Morelli e il genero di questi, il siciliano Paolo Vetri, strenuo sostenitore della rinascita della decorazione a fresco e attivissimo in numerose chiese dell’Italia meridionale. A Napoli si devono al pennello del salernitano gli interventi nella splendida chiesa barocca del Gesù vecchio, dove nel 1887, proprio sotto la direzione del maestro, affianca Paolo Vetri e il romano Vincenzo Paliotti negli interventi per il transetto e per la cappella di S. Ignazio di Loyola. In questa impresa, analoga a quella replicata anche l’anno successivo nella concattedrale di Castellammare di Stabia a fianco del Paliotti, D’Agostino appare assai vicino al maestro napoletano, nelle figure degli apostoli nei sottarchi, che rievocano il gusto neobizantino della Cappella Nunziante a Napoli, decorata da Morelli nel ’59, e nei peducci della cupola con gli evangelisti, mutuati secondo un modello ricorrente nella pittura di Morelli e in quella del Vetri. Un modello che torna anche nella chiesa di Gesù e Maria sempre a Napoli, dove D’Agostino decora la cappella dedicata ai santi Pietro, Paolo e Andrea. L’adesione alla pittura di Morelli resta tuttavia di superficie, come si evince anche dalla grande pala commissionata al D’Agostino dalla potente arciconfraternita dell’Opera di San Giuseppe vestire i nudi per la chiesa omonima a Napoli, nella quale l’artista aveva già realizzato la decorazione degli interni[9]. Nel Transito di San Giuseppe, firmato e datato al 1888, il tentato realismo della raffigurazione del santo nel trapasso alla morte cede al pietismo di convenzione nella figura del Cristo e cerca l’aggiornamento del modello settecentesco nei dettagli decorativi – le rose sparse sulla scalea – desunti dal moderno repertorio devozionale del Morelli (si pensi all’elegante e raffinata Madonna dalla scala d’oro realizzata dal Maestro nel 1875 per Pasquale Villari). Privi di grinta sono gli interventi del salernitano per il Cappellone di Frattamaggiore. Nella Gloria di San Sossio e nell’Esaltazione della Croce D’Agostino squaderna un repertorio d’occasione, con un impegno che appare assai meno convinto anche della pur discutibile traduzione iperrealista adottata qualche anno più tardi nel grande affresco documentario posto nella controfacciata del Duomo di Nola, tempio riedificato in forme neorinascimentali subito dopo l’incendio del 1891 che il pittore salernitano rievoca con la forza del racconto e della suggestione popolare.

Nel 1895 l’arredo del Cappellone frattese si completa con le due grandi tele con San Gennaro in atto di abbracciare San Sossio e San Severino sulle rive del Danubio mentre riceve le reliquie di San Giovanni Battista, entrambe dipinte da Saverio Altamura, artista di origini pugliesi ma napoletano d’adozione, la cui recente retrospettiva a lui dedicata dalla città natale ha provato a ricomporne la complessa vicenda artistica ed esistenziale[10]. Il pittore foggiano ha incarnato, negli anni delle battaglie risorgimentali, l’avanguardia della pittura meridionale, esule a Firenze dopo la condanna borbonica per aver preso parte alle barricate del ’48, artista liberato dai vincoli accademici e vicino a quella ‘verità’ della rappresentazione inseguita anche dall’amico e sodale Morelli. Tuttavia uno spazio ancora esiguo la critica ha riservato alla produzione di carattere sacro, che occupa un segmento significativo nella carriera del foggiano, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi anni della vita dell’artista, tra il 1886 e il 1897, quando il pittore è impegnato tra la Campania e la Puglia in opere murali a carattere devozionale e nella realizzazione di dipinti e pale d’altare[11]. Di qualità e impegno è un’opera, ritenuta dispersa, dal titolo Gesù, legato, ascolta la lettura del giudizio che lo condanna (Il silenzio di Gesù), che Altamura realizza probabilmente su commissione per la Basilica del Sacro Cuore nel quartiere di Montmartre a Parigi[12] e presenta all’Esposizione universale svoltasi nella capitale francese nel 1878[13]. Lontano dalla produzione cultuale a carattere seriale, il dipinto si colloca certamente tra le prove migliori del genere sacro corrente, nell’orbita del rinnovamento verista di tale produzione, nel quale confluiscono alcuni interessanti cicli pittorici coevi, come quello per la chiesa del Corpus Domini a Gragnano, in provincia di Napoli, portato a termine negli anni Settanta da un’équipe di pittori capeggiati da Morelli, tra cui lo stesso Altamura[14]. «Il fait de Jésus-Christ le Dieu d’un évangile arabe»[15] ebbe a dire l’autorevole Charles Blanc a proposito dell’opera del foggiano nella recensione alla pittura dell’Esposizione francese; e in effetti la tela, vicina alla ‘verità storica’ della poetica morelliana, ne riecheggia anche la vena orientalista. Firmato e datato al ’78, e destinato in un primo momento a Parigi, il dipinto fu però acquistato dal banchiere livornese Matteo Schilizzi, che in seguito ne fece prezioso dono al Santuario di Pompei nel 1887 – dove tuttora è conservato – come omaggio alla ‘memoria filiale di Fanny Bougleux’[16]. Al 1886 risale ancora un intervento di grande impegno, che conduce Altamura nella chiesa napoletana di San Nicola da Tolentino dove, in ossequio alla venerazione per la Madonna di Lourdes collocata in una grotta lungo la navata nel 1875, gli fu commissionato un ciclo di cinque grandi tele con soggetti legati alle apparizioni della Vergine a Bernadette e al culto dell’Immacolata. I dipinti, energici nel colore, rimandano, pure in misura disomogenea, alla cultura verista nella quale si era alimentata la migliore pittura dell’Altamura, che per uno dei dipinti si servì della collaborazione del figlio, Bernardo Hay. L’impegno per le commissioni ecclesiastiche e gli esiti discontinui di tale produzione riflettono la profonda inquietudine che attraversa l’animo dell’artista negli anni della maturità, diviso tra le necessità economiche e la ricerca della fede cui tendeva con sempre maggiore forza. Nella tela con San Sossio e San Gennaro, nella Basilica di Frattamaggiore, dando corso al racconto cristiano del martirio congiunto dei due santi, Altamura li ritrae entrambi all’interno della basilica paleocristiana di Miseno, conferendo al futuro martire Sossio, cui il vescovo Gennaro predice la persecuzione, l’onore della scena. Al pittore foggiano va riconosciuto il tentativo, in questa come in altre tele devozionali, di rinnovare la pittura sacra attraverso una traduzione popolare della rappresentazione, che, se pure occasionalmente raggiunge soluzioni di felice equilibrio, svincola il genere dall’eco lunga della formula purista e nazarena. A tratti emerge la cifra più calzante dell’artista, la ricerca della verità provata nella ricostruzione dell’ambiente ecclesiale e soprattutto nel piccolo gruppo di astanti raffigurato sulla destra, spettatori improvvisati del sacro evento, che rimandano a una dimensione terrena di partecipazione spirituale. «Credo in un soprannaturale potere, sovrano architetto e governatore del creato. Se la materia fu, è e sarà, credo lo stesso dello spirito. Fidem quaero, cerco la fede con tutta l’intensità dei miei desideri e delle mie aspirazioni»[17], avrebbe scritto nella sua autobiografia pochi mesi prima della morte, sopraggiunta nel ’97. Una fede cercata e tradotta non tanto nei grandi dipinti murali o nelle tele d’altare che spesso eseguiva per necessità esistenziali, quanto nei dipinti di più piccolo formato, nei soggetti nei quali si materializzava quella riflessione intima e raccolta dell’esperienza spirituale privata; nella toccante Madonna dei fiori, rallegrata da quell’esplosione di gerbere e rose selvatiche che sono un omaggio dell’artista al simbolo cristiano dell’amore materno ma anche una personale rielaborazione del topos morelliano dei fiori sparsi ai piedi della tela con naturale verità; e nello splendido San Giuseppe con il bambino del 1882 per la chiesa napoletana di Santa Maria dei Sette dolori, che, appena sollevato dalla fatica del lavoro all’interno della misera bottega di falegname, accoglie con tenero disincanto le dolcezze della tardiva paternità


[1] B. Foucart, Une peinture toujours ressuscitée, Préface in E. Amiot-Saulnier, La Peinture religieuse en France 1873-1879, Musée d’Orsay, Paris 2007, p. 6. Per Foucart si veda B. Foucart, Le renouveau de la peinture religieuse en France (1800-1860), Arthéna, Paris 1987.

[2] Nel 2008 Caterina Bon Valsassina ha provato a fare il punto sulla situazione degli studi in  questo ambito di ricerca, fermando però al 1870 il margine entro il quale ancora oggi  continua

ad orientarsi l’azione della critica, a partire dai saggi di Giovanna Capitelli pubblicati nella collana a cura di C. Sisi, L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Si vedano C. Bon Valsassina, La pittura sacra in Italia nell’Ottocento: una proposta di classificazione, in La pittura di storia in Italia 1785-1870. Ricerche, quesiti, proposte, a cura di G. Capitelli e C. Mazzarelli, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (MI) 2008, pp. 211-223; G. Capitelli, Quadri da altare: pittura sacra a destinazione pubblica, in C. Sisi (a cura di), L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Il Neoclassicismo (1789-1815), Electa, Milano 2005, pp. 41-52; La pittura religiosa, in C. Sisi, L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Il romanticismo (1815-1848), Electa, Milano 2006, pp. 43-55; La pittura sacra, in C. Sisi, L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Il realismo (1849-1870), Electa, Milano 2007, pp. 47-60.

[3] Si veda a questo riguardo P. Saviano, San Sossio, in Bicentenario della traslazione dei corpi dei santi Sossio e Severino da Napoli a Frattamaggiore, pubblicazione promossa dall’Istituto di Studi Atellani e dalla Basilica Pontificia di San Sossio, Tip. Cirillo, Frattamaggiore 2007, p. 14.

[4] Cfr. “L’Illustrazione popolare”, vol. XXIX, n. 15, 10 aprile 1892, pp. 242-243.

[5] Cfr. Archivio storico dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, serie Professori, sottoserie fascicoli personali, fascicolo 79, Maldarelli Federico. Per informazioni di carattere generale sulla vita del pittore si veda R. Dinoia, Maldarelli Federico, ad vocem in Dizionario biografico degli italiani, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Roma 2007, vol. 68; e I. Valente, Maldarelli Federico, ad vocem in Dizionario biografico degli artisti, in F. C. Greco, M. Picone Petrusa, I. Valente, La pittura napoletana dell’Ottocento, Tullio Pironti editore, Napoli 1993. La figura di Maldarelli attende tuttavia ancora una completa ricostruzione critica.

[6] La tela aveva suscitato più di uno sconcerto nella critica contemporanea per le figure «pétrifiés», così lontane dalla grazia preraffaellita dei nazareni. Ma, come ebbe a dire Foucart, «Ingres réinvente un Raphaël qui, par-delà Masaccio et Giotto, le vrais Préraphaélites selon Ingres, assumerait l’heritage paléo-chrétien». Cfr. B. Foucart, Le renoveau de la peinture religieuse en France (1800-1860), Arthéna, Paris 1987. La tela fu sostituita, com’è noto, da una copia nel 1841 e trasferita nella sede attuale, il Museo di Montauban, in Francia.

[7] Cfr. “L’Illustrazione popolare”, 1892, p. 242.

[8] Cfr. L. Giusti, Chiesa dei Santi Severino e Sossio, in Napoli sacra, 6° itinerario, Elio De Rosa editore, Napoli 1994, pp. 376-377.

[9] La mano del D’Agostino è documentata dalle carte conservate presso l’archivio dell’Arciconfraternita e dai mandati di pagamento, poiché oggi, a seguito di prolungate infiltrazioni d’acqua, le pitture sono quasi del tutto illeggibili.

[10] Cfr. La patria, l’arte, la donna. Francesco Saverio Altamura e la pittura dell’Ottocento in Italia, a cura di C. Farese Sperken, L. Martorelli, F. Picca, Claudio Grenzi editore, Foggia 2012.

[11] Va ricordato a questo proposito il pioneristico contributo di Christine Farese Sperken sul ciclo di tele realizzato da Altamura nella Chiesa parrocchiale di Castrignano de’ Greci in provincia di Lecce. Si veda C. Farese Sperken, Francesco Saverio Altamura a Castrignano de’ Greci: un aspetto della pittura religiosa del tardo Ottocento, in “Bollettino d’arte”, n. 15, luglio-settembre 1982, pp. 115-126.

[12] La notizia è in B. Longo, Guida del santuario e della nuova Pompei, Scuola tipografica editrice Bartolo Longo, Pompei 1896, p 72.

[13] Nella stessa esposizione Altamura presentò anche il dipinto Festa di carnevale al tempo di Girolamo Savonarola. Cfr. Exposition universelle internationale de 1878 à Paris. Catalogue officiel publié par le commissariat général, Tome 1, Imprimerie Nationale, Paris 1878, p. 223, nn. 3 e 4, Jésus, lié, écoute la lecture du jugement qui le condamne; Le Carnaval à Florence au temps de Gèrome Savonarole. Il dipinto con Gesù era stato già esposto alla Promotrice napoletana del 1877, mentre il Carnevale all’Esposizione nazionale di Napoli dello stesso anno. Tra il ’77 e il ’78 la carriera altalenante di Altamura attraversò un periodo ricco di rinnovata proposizione, come acutamente intuì la Lorenzetti, dando alla luce La monacazione di Maria Spinelli, «dipinto con vigore singolare», e l’«eccezionale» Où va se nicher l’amour, di atmosfere ‘tomiane’. Cfr. C. Lorenzetti, Francesco Saverio Altamura, in “Japigia”, a. VIII, fasc. II, 1837, p. 221.

[14] Tra questi Edoardo Dalbono, Camillo Miola, Edoardo Tofano, Gustavo Nacciarone, autori, con Morelli e Altamura delle otto tele collocate lungo la navata centrale.

[15] Cfr. Les Beaux-Arts à l’Exposition Universelle de 1878 par M. C. Blanc de l’Académie Française et de l’Académie des Beaux-Arts, professeur d’Estétique au Collège de France, Librarie Renouard, Paris 1878, p. 317.

[16] L’iscrizione posta sulla cornice recita: «Matteo Schilizzi donava alla chiesa di Valle di Pompei questo dipinto di Saverio Altamura in memoria filiale di Fanny Bougleux – Giugno 1887». Schilizzi, trasferitosi a Napoli da Livorno fu committente facoltoso e originale, noto soprattutto per il faraonico ed eclettico Mausoleo posto sulla collina di Posillipo e commissionato all’architetto Alfonso Guerra. Cfr. G. Alisio, Architettura dell’800 a Napoli: il mausoleo Schilizzi, in Scritti di Storia dell’Arte in onore di Raffaello Causa, Electa Napoli, Napoli 1988; .A. Di Benedetto, Artisti della decorazione, pittura e scultura dell’eclettismo nei palazzi napoletani fin de siècle, Electa Napoli, Napoli 2006, p. 31.

[17] Cfr. F. S. Altamura, Vita ed Arte, Napoli 1896, ripubblicata in S. Altamura, pittore-patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica, nei documenti, a cura di M. Simone, prefazione di B. Molajoli, Studio Editoriale Dauno, Foggia 1965.

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Temi di Critica - numero 8

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