teCLa :: Rivista

in questo numero contributi di Giuseppe Scuderi, Gabriele Lo Nostro, Eleonora Tardia, Gaetano Palazzolo, Irene Tedesco.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Sub specie aeternitatis. Architettura della memoria in forma di rotonda nel periodo tra le due guerre di Gaetano Palazzolo

«Il dorico Limongelli profila sulla nudità della parete una liscia membratura architettonica ed applica lo scudo di un’arma come se fosse un mascherone decorativo. In questo arcaismo l’artista nulla concede ai gusti del tempo, ma segue la sua natura che non vuol perdersi nelle finezze, ma concepisce sub specie aeternitatis»[1]. In un saggio pubblicato sulla rivista “Architettura e Arti Decorative”, del 1927, Carlo Cecchelli così giudica il carattere del progetto di Alessandro Limongelli nel concorso per il Monumento al Fante sul Monte San Michele. All’inizio del Novecento, infatti, l’arte viene guidata da un acceso interesse per lo spiritismo e l’indagine parapsicologica, accompagnata da una profonda insoddisfazione verso il corpus scientifico convenzionale e il materialismo da esso presupposto. Per questo, in ambito artistico, si comincia a privilegiare un repertorio lessicale rigenerato secondo i parametri «della necessità e della grandezza» dove ricercare un nuovo principio primordiale concepito in «forma di eternità». Lo spirito di questa tendenza arcaizzante si afferma più intensamente nell’ambito dell’architettura della memoria, che si innesta in un clima culturale caratterizzato da inclinazioni emotive che, in taluni casi, finiscono per trasformarsi in ossessione dell’inconscio e che spesso si manifestano, in ambito artistico, nella ricerca di nuove implicazioni estetico-formali. Lo studio dei fenomeni esoterici e la ricerca dell’anima mundi spostano l’attenzione di molti artisti verso una ricostruzione gnoseologica dell’essere come percorso compositivo di realtà parziali connesse da un intrinseco, ma oscuro, principio d’ordine. Assicurando la continuità tra mondo materiale e spirituale, l’etere ed i fenomeni ad esso associati si arricchiscono di nuove valenze spirituali. Su un piano puramente estetico, il potenziamento dell’architettura monumentale e funeraria conferma un processo di articolazione linguistico-formale, espressiva di un metodo progettuale che tende a prediligere masse e volumi puri ed elementari, plastici apparati simbolico-ermetici dalle valenze comunicative, che esprimono nuovi contenuti sia ideologici che tecnico-funzionali, direttamente ereditati dalle nuove tendenze teosofiche ed antroposofiche di inizio Novecento.
Sul piano della teoria dell’arte, contestualmente, si va affermando il concetto dell’ autonomia dell’ornamento rispetto al volume architettonico, all’interno del dibattito sul formalismo imperante e della teoria della Reine Sichtbarkeit, della “pura visibilità” della scuola di storia dell’arte viennese legata alla filosofia herbartina, mentre, nell’ambito della prassi costruttiva, alcuni architetti, con esiti differenziati in base al proprio “sentimento della forma”, fanno proprie le considerazioni sull’aspetto fisiologico e sulle implicazioni estetiche dell’opera d’arte come processo conoscitivo. In questo clima, dove non sono estranee le contemporanee esperienze del filone dottrinale che da Karl Bötticher arriva fino a Henrich Wolfflin[2] alla luce delle teorie dell’Einfhülung di Theodor Lipps, di Gustav Theodor Fechner e di Joannes Volkelt, vengono avanzate teorizzazioni sulla formulazione di un “nuovo sistema di architettura” da far ripartire dai percorsi dell’insegnamento universitario in seno ad una metodologia didattica innovativa, “organica”.
L’eredità classica si arricchisce di nuovi repertori iconologici e permette a molti architetti, soprattutto quelli della nuova stagione degli anni Venti provenienti dalle riformate università, di reinterpretare gli schemi geometrici tradizionali secondo parametri estetici ispirati alle nuove teorie dell’arte. Il repertorio tradizionale, quale “fondamento spirituale dell’architettura”[3], quindi, si trasforma in strumento d’innovazione e trova il suo campo d’applicazione più manifesto nell’architettura sacra, dove al consolidato schema geometrico della pianta a croce latina si sovrappone quello assai più simbolico della rotonda.
Già durante gli anni Venti in Italia, l’idea di rinnovare l’architettura e le arti all’insegna del monumento, quale rigenerato strumento di divulgazione di un nuovo «ideale patriottico», si aggiunge all’esigenza di dare dignità ai soldati seppelliti nei cimite­ri di guerra, sorti in modo provvisorio nelle vicinanze dei campi di battaglia. Il monumento ai caduti di guerra si trasforma in episodio simbolico da proporre come meta di “pellegrinaggio” dal “carattere eminentemente patriottico”, come forza propulsiva nel campo della propaganda nazionalistica. I territori cominciano a costellarsi, quasi in maniera smisurata, di punti di raccoglimento di sepolture nella grande geografia della riconquista italiana. Come giustamente sottolineato da Daniele Pisani, proprio a dare una motivazione valida al dilagare del fenomeno “monumentale”:

Questa proliferazione è il frutto di numerose esigenze. Si tratta, per i prossimi, di commemorare singoli caduti. Si tratta, per determinate categorie o comunità, di sottolineare il contributo offerto. Si tratta di rendere omaggio, da parte dell’intera comunità, a chi ha donato la propria vita per una causa comune. Ma si tratta pure, per le amministrazioni, di mettere d’accordo i diversi attori, spesso portatori di idee contrapposte della guerra. Tutte queste esigenze, talvolta concordi e talvolta invece in reciproco contrasto, si sovrappongono e s’intrecciano nelle singole vicende. A mostrarlo è, a ben vedere, la configurazione assunta dai monumenti ai caduti: i quali fanno ricorso a una serie di tipologie e di motivi non di rado piuttosto triti, in larga parte derivati dalla tradizione commemorativa risorgimentale (e piuttosto uniformi – salvo diverse accentuazioni – in tutti i paesi belligeranti), in una impressionante casistica di varianti, prodotto di una serie di contrattazioni – sul piano tanto del potere e degli interessi quanto su quello politico, simbolico e artistico – compiute di volta in volta a livello locale. I monumenti ai caduti configurano pertanto un paesaggio che appare sconfinato, in cui sembra di poter rintracciare alcune linee-guida ma che, ciò malgrado, rimane straordinariamente vasto e vario. In mancanza di un registro completo della ‘monumentomania’, ci si deve accontentare di registrare come in linea di massima (e quindi non senza eccezioni) il margine di autonomia concesso alla dimensione locale si venga ad assottigliare drasticamente dopo la marcia su Roma [4].

Tantoché, a partire dal 1925, persino il Touring Club Italiano, assumerà un ruolo chiave nella divulgazione di tali intenti propagandistici, attraverso la pubblicazione di itinerari di viaggio[5]. Il pellegrinaggio dei cimiteri di guerra diventerà un viaggio alla ricerca del “sacro”, del luogo da cui si irradia l’aura sia di luoghi velati di ‘mito’ come il corso del Piave, il massiccio di Monte Grappa o la campagna intorno a Vittorio Veneto, sia delle più immani 'concentrazioni di salme. Teatro dei grandi combattimenti, le Tre Venezie accolgono sul proprio suolo un ingente numero di salme, che necessita di una raccoglimento razionale in una fitta trama geografica. Nel 1927, infatti, l’elaborazione del piano del generale Giovanni Faracovi[6], commissario straordinario per le onoranze ai caduti in guerra, certifica la sistematica raccolta delle salme dei caduti di guerra, con l’obiettivo di riunirle in particolari e simbolici punti di aggregazione territoriale, garantendone una degna sepoltura. L’idea di ricorrere al sistema dei «Grandi Concentramenti di Salme» viene perseguita attraverso costruzioni che possano garantire «l’esecuzione, anche in tempo relativamente breve, di opere veramente monumentali»[7], legate ad un «maestoso e solenne concetto della perpetuità posto come base di quella nuova e definitiva sistemazione che dovrebbe essere la vera espressione del sentimento, del prestigio, della civiltà e della dignità della Nazione»[8].
Il monumento al Milite Ignoto si trasforma, allora, nella rappresentazione solenne di «tutto ciò che può richiamare il passato, perpetuare il ricordo»; un manufatto dal carattere simbolico-spirituale che si ricolleghi ora all’architettura ora alla statuaria e che permetta la diffusione di una vera e propria iconografia della morte oltremodo edulcorata da criteri estetici di esaltazione ideologica, religiosa e patriottica[9]. Sono proprio i Grandi Concentramenti di Salme sulle linee montane, o meglio ossari - così definiti a partire dal 1931 -, a favorire interventi architettonici a carattere celebrativo, utili a perseguire gli ideali di «individualità, perpetuità e monumentalità»; rappresentati come volumi maestosamente ideati fuori dal tempo, questi sono spesso progettati proprio sotto forma di rotonda, o meglio di tempio votivo dalla forma circolare, con un nucleo centrale dal perimetro colonnato, cadenzati da ritmi ascensionali che tengono conto degli effetti percettivi dello spettatore, o spesso con strutture centralizzate rappresentate secondo forme geometriche elementari, direttamente mutuate da modelli dell’antichità classica. Gli archetipi, cui queste soluzioni sembrano ricondursi, si volgono, tuttavia, solo evocativamente, verso parametri classicheggianti, mentre spesso sembrano essere più rivisitazioni critiche di antichi tumuli cupolati di epoca arcaica[10], utilizzati nella costruzione di elementi monumentali a carattere celebrativo, come nel caso del secondo progetto per il Concorso del Monumento al Fante Italiano di Enrico Agostino Griffini e Paolo Mezzanotte del 1921, direttamente ispirato - come già emerso nel progetto degli stessi Griffini e Mezzanotte per il primo Concorso - ai progetti degli allievi della Wagnerschule: un robusto monolite massiccio di pietre squadrate con un nucleo centrale cilindrico, sovrastato da una cupola e fiancheggiato da due austeri piedritti laterali sotto forma di geni alati, come riportato da Roberto Papini tra le righe della rivista “Emporium”:

Agli architetti Griffini e Mezzanotte avevo osservato come il loro primo progetto peccasse di contrasti troppo vivi fra particolari tolti da stili diversi e come fosse troppo timido e modesto per esser solenne. Riconosco subito che il secondo progetto è molto superiore al primo e che i difetti segnalati sono stati corretti. Il contrasto fra lo stile dei propilei e quello del tempio –così evidente nel primo progetto- non appare più nel secondo: il tempio non è più la cappella da cimitero monumentale comparsa nella prima concezione, ma un robusto massiccio di pietre squadrate che ha un nucleo centrale cilindrico racchiudente la cupola, fiancheggiato da due ante scolpite in figura di geni alati. Ciò segna indubbiamente un progresso grande sulla prima idea e conferisce a tutto il progetto un’organicità che prima mancava; si può anzi dire che vi sono vere trovate architettoniche nella distribuzione delle masse rudemente squadrate, sinteticamente viste. Ma c’è in tutto il monumento l’accentuazione di un carattere di fortilizio che stona col luogo e con lo scopo. C’è proprio bisogno di tutte quelle mura a sghembo, di quelle torri, di quei bastioni per difendere le sante ossa dei nostri morti? C’è proprio bisogno di perpetuare il ricordo delle fortificazioni là dove le fortezze non se ne videro neppure in guerra? È strano come i nostri architetti sentano spesso il bisogno di disegnare quelle moli massicce e quadrate che sono state messe di moda in Germania sull’esempio dei Babilonesi e degli Egizi. Queste moli non sono affatto nella nostra tradizione, dagli Etruschi a noi. Gli architetti cresciuti sotto il bel cielo d’Italia hanno sempre avuto un senso dell’architettura che differisce da quello babilonese-egizio-teutonico come la mole Adriana differisce dalla piramide di Cheope e San Pietro in Vaticano dal tempio di Luxor. Per ciò questa fortezza funebre degli architetti Griffini e Mezzanotte, pur avendo pregi evidenti di concezione e di dettaglio, non era –credo- da scegliersi per l’esecuzione definitiva[11].

Attraverso questo concorso[12] si consuma un episodio di riconsiderazione critica sul futuro corso dell’arte italiana, sospesa tra accademismo tradizionalista, storicismo e internazionalismo[13], suffragata dalla riproposizione di modelli e contenuti costruttivi della grande architettura ecclesiastica monumentale. L’architettura sepolcrale dei cinque progetti selezionati del concorso per il Monumento-ossario al Fante sul Monte San Michele, infatti, si serve, solo apparentemente, del repertorio formale della tradizione storicista, esprimendosi attraverso un gioco volumi semplici ed elementari, in cui spesso si sostanzia l’integrazione tra architettura e scultura in una sintesi che comincia a prediligere elementi fuori scala, che dominano il paesaggio nella proposizione di forme stellari disposte sul territorio per essere percepite a grandi distanze, ora sublimandosi attraverso un linguaggio che fonde piano rappresentativo e natura nel progetto Prometeo di Giuseppe Mancini, ora cristallizzandosi in forme architettoniche della tradizione paleocristiana, depurate da eccessi ornamentali, nel progetto di Alessandro Limongelli, il quale propone una rotonda traforata d’archi poggiata su un basamento ottagono, aperta totalmente verso l’alto[14]. Il progetto di Mancini, infatti, si fonda su una struttura centralizzata a base pentagonale con uno sviluppo volumetrico di tagli troncopiramidali dal ritmo ascensionale che si innalzano sulla lanterna della cupola terminale centrale, emanante una serie di fasci di luce, incastonata tra elementi metallici ornamentali del repertorio celebrativo classicista, in un’esplosione di piani colorati sovrapposti che ne accentua il carattere trionfalistico[15]; ampiamente legato al linguaggio raggista di Larionov e del primo Manifesto del Bauhaus di Weimar targato Walter Gropius e Feininger, legato anche in parte, ad alcune personali sperimentazioni stilistiche sull’architettura funeraria egizia – come rilevato da Carlo Cecchelli[16] - che esaltano il verticalismo dei cunei troncopiramidali, questo progetto, di fatto, rappresenta, un concetto limite, un punto percettivo in cui l’architettura si dissolve nella geometria attraverso le cavità spigolose delle ombre intervallate dai fasci luminosi, e sancisce, nell’interpretazione del tema del sistema centralizzato, un connubio essenziale tra la corrente dell’internazionalismo architettonico d’avanguardia d’area tedesca e quella componente tradizionalista che emerge molto più efficacemente, invece, nel progetto di Alessandro Limongelli e più spiccatamente in quello di Guido Cirilli:

Guido Cirilli da un gran dado innalza un basamento curvo-conico a sostegno di un’ara: pone ai quattro spigoli del dado quattro tripodi fumanti e fascia con una bronzea zona figurata tutta la base. Nell’interno quattro tempietti circolari sono collegati da ambulacri ad una gran cupola centrale attorno a cui cappelle e nicchie completano il sistema planimetrico; e sotto sono adattate ad ossario le caverne scavate per i bisogni della guerra, ridotte a cripte con gli altari, mantenute come sacre reliquie di quella gloria che si vuol celebrare, di quel tormento che si vuol ricordare[17].

Il concorso per il Monumento al Fante porta così allo scoperto una scelta di campo, nella commemorazione della Prima Guerra e dei suoi morti, che è assai sintomatica degli intenti estetici della Secessione romana (1913-16), intonati direttamente sul linguaggio essenziale dei progetti della Wagnerschule o, in una visione più formalista di tipo «purovisibilista», plasmati secondo gli sviluppi metodologici della scuola espressionista tedesca, nelle forme organiche di Hugo Häring e soprattutto di Hans Poelzig[18]. La genesi di questi esercizi di stile conferma, del resto, un eclettismo artistico che condensa i linguaggi differenziati dell’internazionalismo architettonico con le personali elaborazioni teorico-progettuali degli accademici italiani, come puntualizzato da Giuseppe Samonà in alcune sue considerazioni estetiche pubblicate sulla rivista “Rassegna di Architettura”[19]. E se da un lato questo nuovo linguaggio mutua direttamente dai resoconti teorici degli architetti d’oltralpe - in parte legate alle stesse metodologie utilizzate da Peter Behrens nella ricerca archetipica della composizione del mondo, nello sviluppo di apparati simbolici tratti da antiche memorie -, dall’altro trova, nelle componenti visionarie dell’avanguardia futurista – esplicativo in tal senso un progetto di mausoleo di Antonio Sant’Elia datato 1912 -, un canale privilegiato necessario agli intenti della propaganda di Regime. Strumento essenziale per la diffusione di questa nuova estetica dell’arte italiana è la diffusione della rivista di architettura, utile a combinare peculiarità di temi forniti da scritti settoriali tipici di una stampa a carattere scientifico-letterario con le nuove tendenze estetiche della critica d’arte d’oltralpe, trasformata in un campo d’indagine dove sperimentare codici figurali e schemi compositivi comuni, espressi attraverso una trasposizione stilistica del linguaggio classico dello storicismo di fine Ottocento e e armonizzati da una nuova idea di economia formale e costruttiva che trova forti implicazioni con l’architettura vernacolare. Per questo, persino la progettazione dei luoghi deputati a conservare le salme dei caduti, secondo le direttive del Piano Faracovi, denota una linea programmatica di collocazione topologica e soprattutto di caratterizzazione formale: questi manufatti sarebbero stati eretti su alture e sarebbero stati bloccati su geometrie chiare e articolate secondo un lessico fatto di «linee maestose e senza frastagliamenti e cincischiature». L’ornamento avrebbe avuto una funzione determinante rispetto alla massa architettonica del monumento, favorendo il superamento della contrapposizione tra il partito strutturale e l’opera scultorea, spesso elaborata subordinatamente rispetto al primo, e che continuava a perpetrarsi per la costruzione del primo ossario di guerra italiano: quello di Monte Pasubio, su progetto di Ferruccio Chemello, collocato sulla vetta di una montagna sacra e organizzato attorno ad un basamento, sormontato da una torre con all’interno vani affrescati. Nei primi anni Venti, infatti, si assiste alla riproposizione di collaudate tipologie, edulcorate da forme ornamentali oltremodo esuberanti, che si ripropongono sui modelli delle capanne primordiali e che, come per l’Ossario di Tonezza del Cimone, costituiscono un modello oramai inadeguato rispetto alle nuove esigenze del Regime. L’estremizzazione discreta, ma solenne, del «monumentale» attraverso processi di estetizzazione del sacrificio del caduto, che si manifesta in prossimità dei campi di battaglia della guerra, si afferma indissolubilmente attraverso l’idea di conferire all’architettura un nuovo senso di un’esaltazione e glorificazione della nazione vittoriosa. Del resto, in un articolo pubblicato su “Esercito e nazione” del 1927, dal titolo L’espressione del dolore nella pittura bellica, Leone Andrea Maggiorotti affermerà:

La concezione fascista della guerra [...] ci fa glorificare, non rimpiangere i nostri caduti, ce li fa raffigurare ritti, fieri, con la spada alta, con l’alloro nel pugno, e non cadaveri cadenti, come purtroppo veggonsi in molti monumenti ai nostri eroi [...]. Noi vogliamo che i simboli che li rappresentano li mostrino superbi, coi muscoli vibranti, con lo sguardo alto e consapevole.

Poco prima, invece, Ettore Janni sulle pagine di “Emporium” all’indomani della Prima Guerra aveva acceso la polemica contro la «monumentomania», contrapponendo una più utile rincorsa stilistica, da parte della egemone classe accademica di architetti, verso uno stile monumentale ed austero per l’edificazione di costruzioni a carattere commemorativo, che si potesse fregiare dell’utilizzo di un repertorio linguistico regolato da «una forma che non fosse l’assoluta imitazione del passato»[20]. Alle soglie degli anni Venti, questa presa di posizione sanciva la fine dello storicismo per aprirsi ad un nuovo orizzonte estetico-espressivo riplasmato su una nuova idea di classicità mediterranea. La cultura classica, nella prima metà degli anni Venti, cominciava, infatti, nel frattempo, a cambiare indirizzo stilistico, incuneandosi in un nuovo filone della tradizione aulica che avrebbe, di lì a poco, glorificato una sorta di «primitivismo nazionalista», diffuso oltre l’identità di quelle espressioni artistiche legate alla nouvelle architecture della scuola di Le Corbusier, Andrè Lurçat e Robert Mallet-Stevens, e soprattutto all’interno di quella nuova cultura Beaux-Arts imperniata sulla scelta di linee geometriche pure ed elementari. Il concorso di architettura, pertanto, si trasformava in un vasto laboratorio culturale di confronto dove poter distillare sperimentazioni compositive, spinte verso nuovi modelli ripetibili, rigenerati secondo quel nuovo ordine estetico inaugurato dalla diffusione della rivista “Esprit Nouveau”[21], e contestualmente sostenuto da una pletora di contrapposte formulazioni della consolidata tradizione nazionalista, collocata ormai all’interno di una terra di mezzo, un juste milieu di artisti, operanti ora attraverso un formulario di derivazione accademica, ora all’interno di più ardite scelte tecnologiche di semplificazione strutturale. Il nuovo corso della critica di architettura degli anni tra le due guerre è, quindi, costruito sull’idea propagandistica di confrontare modelli geometrici legati alla buona arte del costruire della tettonica tradizionale col suo naturale processo di trasformazione e riproducibilità tecnica:

Noi tutti vogliamo una architettura modernissima, concorde con le aspirazioni politiche, sociali, civili dell’Italia d’oggi, concorde con i sentimenti, i gusti, i sistemi di vita attuali, concorde con i mutati mezzi d’opera, con i nuovi materiali [...] La nostra Rivista non sarà una vetrina, dove sarà esposto seppure con una certa selezione, tutto quanto si fabbrica in Italia, ma si sforzerà di assumersi un compito di educatrice, accanto e dopo la Scuola [...] cercheremo di essere precisi nel far conoscere quanto si svolge in Italia e qualche volta anche fuori [...] convinti che non ci può essere arte profonda e duratura senza una sana e vasta cultura, ci fermeremo di quando in quando su argomenti che riguardano il passato, ma solamente quando questi abbiano qualche connessione, qualche richiamo con i problemi d’oggi: semplice questione di sensibilità. Faremo poche parole: molte illustrazioni, soprattutto tecniche, grafiche. Ci sforzeremo di far conoscere le buone costruzioni anche attraverso le loro misure reali, sicché risulti chiara l’origine del risultato espressivo dato dalla fotografia. Ci dilungheremo nei particolari costruttivi e tecnologici[22].

In questi anni è vivo l’interesse per la sperimentazione tipologica di nuovi standard edilizi per un congruo utilizzo dei materiali, e più che mai accresce il dualismo forma-funzione nel campo dell’architettura. L’architettura necessaria si trasforma in architettura funzionale, denudata del suo significato tradizionale per trasformarsi in essenza, in forma archetipica, primitiva:

Quei piani lisci e disadorni, quella specie di pali di cemento armato che si conficcano nel terreno come palafitte, quella elementarietà di forme e nudezze volumetriche, hanno goduto una buona accoglienza estetica appunto perché il gusto contemporaneo, nelle sue simpatie, era orientato agli aspetti primitivi. Per questa ragione la logica del calcolo – la squadra dell’ingegnere e l’addizione dell’uomo utilitario – bagnandosi alle arrossate luci di una romantica aurora “arcaica”, ha trovato un’assoluzione artistica: una esaltazione lirica e persino astratta[23].

La giusta fusione di contemporaneità e arcaismo trova terreno fertile nel campo dell’architettura funeraria a carattere encomiastico, saldandosi su considerazioni estetiche di una nuova idea della forma come limite fluido fra spirito e materia, tra continuità e compattezza, ricomponendosi attraverso approcci progettuali che tracciano, more mystico, principi astratto-geometrici primordiali, codificati tra le pagine di autorevoli riviste nazionali dell’età tra le due guerre, secondo preordinati modelli tipologici:

Nei nuovi sacrari, benedetti nel ventesimo annuale della Vittoria, si possono distinguere, grosso modo, tre idee principali. La prima legata a vecchie consuetudini che ripete il solito motivo dell’ossario, costituito da un edificio o da un complesso scultoreo monumentale fuori terra e di una vasta cripta sotterranea; la seconda che utilizza, ricostruendoli e adattandoli, preesistenti edifici sacri, così da legare l’opera nuova a una tradizione già formata e viva; la terza, infine, che ordina la grande massa dei loculi a formare partiti architettonici. Delle tre idee, riconosciuta nei casi particolari l’indiscutibile opportunità della seconda, l’ultima sembra migliore, e destinata ad avere applicazioni sempre più vaste e convincenti. Diremmo anzi che, al di là e al di fuori del compito celebrativo che essa assolve nei sacrari di guerra, potrebbe venire estesa ed applicata anche ai cimiteri civili ponendo fine a quella maledizione dei monumentini e delle edicolette che affliggono la così detta arte funeraria.[24]

Apparecchiature simboliche, che servano da introduzione iconologica all’impensabile esperienza del non-essere, le nuove tipologie del tempio-sacrario si fissano su volumetrie e forme pure, spesso astile, segnando, di fatto, un mutamento di rotta dell’atteggiamento artistico, come nel progetto per il Faro di coronamento per l’Ossario ipogeo del Grappa del 1927 di Alessandro Limongelli. Si tratta di un nuovo approccio con la memoria, che si serve del dominio della terra attraverso lo squarcio interno e lacerante della roccia, a creare ora invasi circolari, ora simboliche montagne sacre, con elementi verticali strombati e coperture cupolate, in bilico tra espressionismo e razionalismo, atti di ricongiunzione con l’emblema archetipico dell’universo; la forma centrale del tempio-mausoleo si muta in nucleo elementare di espressione, suscettibile di modifiche e combinazioni molteplici, di accrescimento organico in relazione alla propria funzione in contesti morfologici minimali, situandosi in quella categoria dei mausolei-memoriali intesi come modelli maieutici che permettono di sperimentare la capacità percettiva-esplorativa dell’osservatore. La forma planimetrica circolare o poligonale per manufatti a carattere religioso si genera, quindi, sub specie aeternitatis, e viene considerata come la «sostanza permanente e durabile», il cui valore si legittima soprattutto grazie alla convinzione che l’arte stessa sia governata da categorie dello spirito che riescono ad esprimersi, dietro parvenze mutevoli, attraverso qualità interiori dell’essere, guidato da assolute forze universali. Proprio l’idea di manufatto, organizzato secondo lessico e sintassi di matrice classicista in una sintesi tra rivisitazione moderna del tempio antico e la tradizione contemporanea di un modello astratto ad immediato riconoscimento, era diventato l’assioma geometrico utilizzato dall’architetto Giuseppe Torres nel 1919 per il progetto della Pieve di S. Stefano in Sigliano Veneto e successivamente nel 1925 per il progetto del Tempio Votivo al Lido di Venezia, raro esempio di citazione stilistico-compositiva derivante dal modello bramantesco di tempio circolare: un cilindro centrale delimitato da un perimetro colonnato, circondato a sua volta da un deambulatorio di ordine inferiore a dare risalto al cerchio come forma assoluta, fuori da ogni categorizzazione formale. Il cerchio per Torres è la metafora del sacro, che si compie attraverso una profonda ricerca in grado di tradurre, in spazio concreto, quelle istanze estetizzanti della cultura teosofica di inizio secolo, come confermato in alcuni suoi scritti[25]. La forma rotonda del progetto è racchiusa da due corpi rettangolari situati in maniera contrapposta, l’uno destinato all’ingresso e l’altro invece contiene il coro e la sagrestia. In questo progetto lo schema periptero si arricchisce di suggestioni simboliche rispetto alla disposizione planimetrica ed al posizionamento dei pilastri centrali: così al cilindro-sacello, fulcro dell’insieme progettuale, si aggiungono due fasce concentriche - il cortile nella posizione mediana ed il portico in quella esterna -, impreziosite da fasce decorative scaturenti «dalla struttura e dal pensiero». Torres, infatti, appartiene a quella generazione di architetti che si dedica a speculazioni elaborate all’interno di quel filone di pensiero che, agli inizi del Novecento, si sofferma «sullo spirito circolare dell’universo, sulla forza simbolica della forma rotonda», secondo cui il «diagramma alchemico» della forma – sistema dei pianeti legati alla «materia prima» – si riapproprierebbe di quelle istanze ermetico-simboliche legate all’idea che la vita umana sia rinchiusa all’interno di un cosmo delimitato, un hortus conclusus, luogo di unione tra microcosmo e macrocosmo, come nelle intenzioni del progetto di Otto Schöntal per la chiesa di Zentralfriedhof e di quello più «alchemico» di Rudolf Steiner per il primo Goetheanum. L’idea del tempio-cosmo, nella quale allegorie esoteriche convivono con tematiche massoniche, peraltro, si allaccia alla riscoperta della composizione architettonica classica, secondo sistemi organizzativi che tendono alla razionalizzazione estetica sulla base dei monumenti del passato, per la riaffermazione di un cristianesimo esoterico delle origini che tende a semplificare, secondo lo spirito cubista dell’architettura novecentesca, i volumi, passando dal purismo alle espressionistiche irradiazioni simboliche fatte agire nella materia. La connotazione sferica data all’architettura monumentale funeraria serve a focalizzare uno o più elementi dello spazio con funzione supplementare che si sostanziano attraverso l’esperienza percettiva. Muovendosi secondo le logiche di un’estetica more geometrico, alcuni progetti di Concorso per il monumento-ossario dei caduti romani al Verano focalizzano la propria attenzione sul tema della rotonda. I progetti di Mario De Renzi e Mario Marchi (motto: Hic mors et gloria sorores), di Armando Brasini (motto: Romane memento), Enrico Del Debbio (motto: Romana propago), Domenico Sandri (motto: Vittoria) e di Raffaele De Vico (motto: Semper alete flammam) sono espressione di una visione del volume architettonico come recinto cavo, come versione tellurica, pittoresca e primigenia della sostruzione che si trasforma in un’altra forma, pronta ad accogliere la figura tettonica[26], in cui, tuttavia, la grammatica della colonna rappresenta la tessitura fondamentale, mentre il nucleo centrale del manufatto mantiene la sua densità cromatica e materica.
Esemplato su precedenti prototipi iconografici e sulle nuove teorie sull’estetica dell’architettura, e su geometrie astile, in parte fondate sulla teoria del «percettivismo» elaborato da Matila Ghyka, negli anni della diffusione dei precetti ordinatori di Ernesto Basile e della sua scuola[27], in cui la geometria del luogo mette a disposizione dell’occhio lontano dell’osservatore un volume puro che si dissolve in una serie di superfici rarefatte dal gioco delle ombre proiettate dai raggi solari, il progetto per il Pantheon dei Caduti siracusani di Francesco Fichera del 1932, viene concepito secondo un registro planimetrico che si riallaccia alla grande tradizione degli edifici circolari di età romana, quali il tempio di Vesta e il Mausoleo di Augusto, e presenta un nucleo centrale traforato da enormi finestrature e circondato da imponenti pilastri esterni a formare un tempio periptero - quasi ad emulare classici modelli cinquecenteschi, quali i progetti per le prospettive del Teatro Olimpico di Vicenza di Vincenzo Scamozzi -, dove «l’interno corrisponde perfettamente all’esterno, nelle sue tipiche forme costruttive, nel volere che la decorazione nasca dalle strutture e dal pensiero, nel volere indurre, cioè, con lo slancio dei piloni, lo slancio verso l’alto dello spirito di chi osserva il tempio o vi penetra»[28].
La tipologia del cimitero-ossario aveva, però, trovato il suo apice espressivo nel Sacrario di Redipuglia, inaugurato il 24 maggio del 1923, secondo un impianto planimetrico a gironi concentrici sul Monte Sant’Elia diviso in sette settori, culminanti su una cima dominata dalla Cappella votiva sormontata dall’«Obelisco della Fede», ampliato dagli architetti Giovanni Greppi e Giannino Castiglioni a partire dal 1932, che prevedono un nuovo monumento «grandiosissimo, semplice, austero e duraturo», basato su un sistema ascensionale composto da gradoni concentrici circolari, con loculi accostati ad infinitum e fasce marcapiano con l’iscrizione «Presente»; sull’ultimo livello il sacrario vero e proprio riutilizza piccoli elementi murari concentrici, centripeti e avvolgenti, uniti dal ritmo modulare, elemento fondante del progetto, che gli stessi progettisti applicano anche per la progettazione dell’Ossario monumentale di Cima Grappa del 1934. La simbologia progettuale è legata al tema della resurrezione e sembra riecheggiare uno schema tipologico di origine medievale, come evidenziato da Anna Maria Fiore, secondo cui «la soluzione sembra richiamare un dettaglio del Giudizio Universale del Beato Angelico [...] in particolare la raffigurazione del percorso su cui si scorgono gli avelli scoperchiati»[29].
Attraverso una sapiente disposizione degli elementi compositivi, un forte controllo della loro sintassi e una sensibilità profonda dei significati iconologici, secondo una logica proporzionale all’insegna del rinnovamento, il rito della commemorazione, a partire dagli anni Trenta, si riattualizza dando spazio anche alla meditazione individuale[30]. Affievolitosi l’impeto dell’«invasione monumentale», assumono un ruolo nodale alcuni concorsi per ossari, che segnano una definitiva flessione verso quel linguaggio della «terza via» teorizzato da Marcello Piacentini, e diffuso tra le pagine di riviste come “Architettura e Arti Decorative”, soprattutto rispetto ai concorsi del Palazzo delle Nazioni Unite del 1927 e il concorso per il Faro Colombiano del 1929, dove le diverse correnti dell’architettura razionalista e di quella monumentalista si affrontano sul tema della costruzione di strutture fuori scala. La valenza scultorea dell’architettura dei primi ossari della Prima Guerra si fondeva con le linee dei declivi delle cime, ad «occupare uno spazio, non a creare spazi sacri destinati ad accogliere la massa liturgica che partecipa alla celebrazione del culto del caduto»[31]. L’architettura commemorativa in forma di rotonda, negli anni dell’acme del Regime si trova, invece, a dominare la linea orizzontale, ora declinata secondo modelli geometrici classici, seppur depurati della loro retorica ornamentale, come nel progetto dell’Ossario per i Caduti della Guerra Europea a Torino del 1933 – una fabbrica a pianta circolare con galleria anulare perimetrale, impostata su una croce di assi con quattro nicchioni alle estremità e una cappella centrale, anch’essa a pianta circolare con quattro passaggi a strombatura radiale e quattro intermedie nicchie circolari -, spesso, invece, mirata a unificare principi compositivo-progettuali che si fanno interpreti di quella componente compromissoria, capace di superare gli slanci innovativi delle avanguardie architettoniche, più adatti a tradurre le intenzioni della “mistica” del regime, a favore di un tradizionalismo che tenta una revisione formale della cultura “accademica” del progetto, come avviene per la costruzione del Sacrario di Oslavia - sotto forma di rotonda fortilizio -, dalle masse scabre delle pietre trattenute da un basamento fortificato, esemplato sui modelli delle fortezze rinascimentali -, progettato da Ghino Venturi nel 1932. L’assioma circolare, infatti, nelle sue logiche fondative, viene trasformato in nuovi prototipi spaziali da innestare su alcuni tessuti urbani delle nuove città del Regime. Pervaso da «senso di misticismo guerriero», sotto forma di ecclesia dei martiri della rivoluzione fascista, è circolare lo schema che regola la pianta del progetto del 1933 di Adalberto Libera e Antonio Valente per il Sacrario dei Martiri presso la mostra della Rivoluzione Fascista[32], che soprattutto reitera un tipo già consolidato e ben sperimentato nei progetti di concorso del 1932 per la Chiesa rotonda in località Paradiso a Messina. Qui i progettisti, Giuseppe Marletta insieme a Ernesto Bruno La Padula, Mario Ridolfi e Giuseppe Samonà, teorici e architetti vicini a quel monumentalismo cubista di impronta lecorbuseriana, tentano una sintesi della forma «senza tempo», metafisica, astratta e quasi sospesa, secondo processi di smaterializzazione che, specialmente nel caso di Ridolfi, si fanno traduttori di quel «graficismo astratto» emerso all’interno delle mostre romane sull’architettura razionale. Riconnettendosi alla tradizione prettamente romana, di rado presente in alcuni concetti formali simili a quelli del panorama architettonico d’oltralpe, in particolare alle Totenburgen tedesche, come manifesto rappresentativo di peculiari ideali, il rigoroso schema circolare del tempio votivo e della chiesa a pianta circolare obbedisce a logiche e criteri che cercano di essere più concretamente aderenti a quel «fondamento spirituale» dell’architettura, secondo cui «per creare nuove forme bisogna conoscere le forme tradizionali nella loro essenza umana e non solo nella loro appartenenza»[33].
L’architettura della rotonda, dunque, nella sua facies di monumento celebrativo e solenne, atto a custodire e a tramandare la memoria dei caduti, diventa, negli anni tra le due guerre, espressione di uno scenario geometrico-ambientale dalla indubbia chiarezza compositiva, legato in parte a considerazioni sulla forma come microcosmo simbolico, ottenuto spesso dalla sovrapposizione dell’ordine colossale su alto basamento, inquadrante alte finestrature, e di cupola emisferica che producono un effetto di spazialità indiscutibilmente «all’antica». Attraverso un tema icnografico classico e di un lessico architettonico nuovo, lo statuto dell’architettura funeraria si è, quindi, tramutato da arte del costruire in arte dello spazio di relazione, capace di coordinare manufatti e contesto in un nuovo schema, in grado di trasformare gli oggetti-sarcofagi in porte d’ingresso verso estensioni metafisiche al di fuori del tempo, in cui forma e scopo, tecnica ed estetica siano in grado di agire come Petra Genetrix, vortice anulare simbolico scagliato contro l’oscura«regione dell’ombra».

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1 C. Cecchelli, Profili di giovani architetti: A. Limongelli, in “Architettura e Arti Decorative” , a. VII, ff. III-IV, novembre-dicembre 1927, p. 122.

2 Numerosi studi ottocenteschi, da quello Karl Bötticher, allievo di Schinkel, che influenzerà la scuola berlinese, a quelli di Gottfried Semper fino a August Schmarsow, Alois Riegl ed Heinrich Wölfflin si incentreranno su una teoria dell’arte basata sul concetto di “tettonica”, come sistema chiuso e compatto, e sull’idea che la forma esterna (Kunstform) di ogni elemento architettonico, il suo involucro, altro non sia che una rappresentazione concettuale (begrifflich) della funzione statica svolta dal suo nucleo interno (Kernform), fino ad elaborare teorie che rivalutano l’evoluzione dei modelli artistici come innovazione legata al valore artistico (Kunstwollen). Sulla queste intuizioni si vedano: G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Utet, Torino 1995; G. Semper, Wissenshaft, Industrie und Kultur, 1852, trad. it. Architettura, Arte e Scienza, a cura di B. Gravagnuolo, Clean, Napoli 1987.

3 Così si legge tra le pagine della rivista “Arte sacra”, in merito al rapporto tra originalità di un’opera e la sua derivazione dalla tradizione: «Dovendo ogni opera architettonica avere una propria originalità, esprimere lo spirito di un tempo, di una gente, di un’artista, è chiaro che [...] sono riprovevoli così l’imitazione degli antichi come la servitù contemporanea ai materiali da costruzione, perché l’una e l’altra “negano il fondamento spirituale dell’architettura” per amore di una “forma esterna”». G. Bellonci, Un architetto olandese: Jan Stuyt e la sua educazione artistica italiana , in “Arte sacra”, a. III, f. II, n. 2, 1933, p. 170.

4 D. Pisani, La massa come fondamento. I sacrari fascisti della Grande Guerra, in “Engramma: la tradizione classica nella memoria occidentale”, n. 95, dic. 2011, pp.13-14.

5 Tra il 1925 e il 1932 il Touring Club Italiano pubblica collane dedicate alle zone teatro della Grande Guerra. Il primo volume, nel 1928, dal titolo Sui campi di battaglia del medio e basso Isonzo, è una sorta di manuale d’uso rivolto al «pellegrino» che si accinge a visitare i «sacri luoghi». Il pellegrino in questione veniva naturalmente invitato a raccogliersi in meditazione sulla figura del «Fante» e sul suo «Calvario». Sul fenomeno dei cimiteri di guerra diffusi attraverso bibliografia dell’epoca, cfr. Redaz., Concorso per il Monumento al Fante, in “Architettura e Arti Decorative” a. I, f. VII, settembre 1921, pp. 197-207; A. Lancellotti, Il concorso per il Monumento al Fante, in “Corriere d’Italia”, I giugno 1921; G. Damerini, Cimiteri di guerra in montagna, in “Le vie d’Italia”, XXVIII, 4, aprile 1922, pp. 377-382; G. Cobòl, In pellegrinaggio ai cimiteri di guerra, in “Le vie d’Italia”, XXXIII, 11, novembre 1922, pp. 1081-1087; R. Michelesi, Dove riposano gli eroi della Grande Guerra, in “Le vie d’Italia”, XLV, 11, novembre 1939.

6 Così nel 1927, grazie all’intervento programmatico del generale Giovanni Faracovi – nominato commissario per le onoranze ai cadu­ti in guerra – viene elaborato un piano ordinato e defini­tivo, che permette la si­stemazione delle salme dei militi in territorio ita­liano ed estero all’interno di grandi spazi territoriali necessari alla celebrazione dei caduti e più idonei a eternare il mito della Grande guerra. L’intento del piano è quello di creare un «pellegrinaggio» teso sia a “rendere riconoscente omaggio alla memoria” sia di trarre dal sacrificio del milite un monito al riconoscimento della Patria come sommo valore. Anche nelle zone urbane, il piano Faracovi per la riorganizzazione delle sepolture si completa grazie all’istituzione del cosiddetto tempio-ossario, meglio ridefinito, verso la fine degli anni Trenta, come tempio votivo ai caduti, un luogo dove poter realizzare nel migliore dei modi la fusione dei due supremi concetti di Dio e Patria. Sul piano Faracovi e i sacrari negli anni del regime vedi A. M. Fiore, La monumentalizzazione dei luoghi teatro della Grande Guerra: i sacrari di Giovanni Greppi e di Giannino Castiglioni (1933-1941), in “Annali di Architettura” rivista del Centro Internazionale di studi di Architettura Andrea Palladio, n. 15, 2003, pp. 233-248; E. Gentile, Il culto del Littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993; G. L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti[1990], Laterza, Roma-Bari 1990; Sull’architettura funeraria monumentale tra eclettismo, razionalismo e tradizionalismo architettonico: Un tema del moderno: i sacrari della “Grande Guerra”, numero monografico di “Parametro. Rivista internazionale di architettura e urbanistica”, a. XXVII, n. 213, marzo-aprile 1996.

7 G. Faracovi, Memoria sulla sistemazione definitiva delle salme dei militari italiani caduti in guerra , 11 marzo 1930

8 G.Faracovi , Memoria sulla sistemazione …, 1930.

9 In Veneto la diffusione dei monumenti ai caduti appare superiore alla media nazionale, tantoché si parla di oltre 1700 monumenti ai caduti eretti tra il 1921 e il 1925 su «La Domenica del Corriere», risultando la terza regione per costruzione di monumenti dopo Lombardia e Piemonte, apparendo come regione di frontiera, muraglia a difesa della Patria. Su questo argomento cfr. L. Bregantin, Il cimitero nella Grande Guerra: funzioni, utilità, rappresentazioni, in “Engramma: la tradizione classica nella memoria occidentale”, n. 95, dic. 2011, pp. 6-10.

10 Rispetto alla diffusione del linguaggio archeologico degli anni Venti, si legga questa analisi di Gino Rosi sulle architetture funerarie: «Queste si possono però riportare tutte a tre tipi fondamentali: il tumolo, o ruota, la tomba displuviata e la tomba-dado. Presso i Falisci, popolo etruschizzato ma pur sempre distinto alcuni esempi sporadici e n'incontrano anche nelle necropoli prettamente etrusche. Il tumulo, forma di sepolcro diffusissima in tutte le civiltà antiche di tutti i paesi, fu attuato specialmente su i pianori e nei fondo-valle. La località dove si trovano in maggior numero è Cerveteri. Nel Viterbese scarseggiano: un esempio grandioso lo abbiamo però a Grotta Porcina. Il secondo tipo di tomba, assai poco diffuso, riproduce la casa con tetto a schiena d’asino; raffigurata sia dal lato lungo (con una sola gronda in vista, come le case nostre) e sia dal lato corto, a facciata pentagonale (con in vista le testate dei travi, come le case fiamminghe). Ma il tipo più caratteristico per il nostro Studio, e che costituisce la quasi totalità dei monumenti del Viterbese, è la tomba-dado. Essa è formata da un grosso blocco di tufo squadrato in forma cubica, il cui margine superiore è scolpito torno sui tre lati (il quarto è quello verso l'altura e quindi non tagliato) con un ornato di modanature sovrapponentisi. La fronte principale ha scolpite una o più porte, di solito finte (quando l'adito a la cella sepolcrale è servito da un dromos). Questo tipo originate nella maggior parte dei casi si presenta non come dado completo, ma come un mezzo dado (poco sporgente da la rupe) o anche e spessissimo come finto-dado, ossia con la figurazione della sola fronte, quasi che il resto fosse incassato nella collina». G. Rosi, Le Città dei Morti, in “Architettura e Arti Decorative”, a. III, f. XI, luglio1924, pp. 482-87.

11 R. Papini, Il secondo concorso per il Monumento al Fante, in “Emporium”, vol. LV, n. 325,gennaio 1922, pp. 52-53. Sui progetti degli architetti Griffini e Mezzanotte e sulle logiche progettuali ad essi sottese, ampiamente documentate all’interno dell’Archivio Progetti dello Iuav di Venezia, fondo Enrico Agostino Griffini contenente 2 disegni e 16 fotografie b/n che riproducono le tavole del concorso di I e II grado, cfr: E. A. Griffini,Progetti e realizzazioni MCMXX-MCML, Milano, Hoepli, 1952; M. Savorra,Enrico Agostino Griffini. La casa, il monumento, la città, Napoli 2000. Inoltre sull’architettura della memoria e sulla bibliografia annessa nel Veneto tra le due guerre si veda il lavoro di cardatura delle fonti curato da Danile Pisani ne La Memoria di Pietra, patrocinato dalla Regione Veneto, e dallo IUAV e Università Ca’ Foscari di Venezia. A tal proposito si consulti il sito: http://circe.iuav.it/Venetotra2guerre/01/home.html, relativo al Progetto di ricerca, catalogazione, produzione di materiale utile all’approfondimento della storia dell’arte veneta dei primi decenni del Novecento.

12 Redatto dall’onorevole Luigi Gasparotto, presidente del comitato organizzativo costituitosi il primo di giugno del 1919, il 15 gennaio del 1920 viene bandito il Concorso, con scadenza 26 maggio, per un monumento-ossario da erigersi sul Monte San Michele, aperto a tutti gli artisti italiani che si sarebbero dovuti impegnare a creare «una grande opera d’arte che dal luogo tragico si elevi in linea purissima». Sulla volontà di erigere un grande monumento sul Monte San Michele al Carso cfr. C. Costantini, La via sacra del Carso e il Monumento al Fante, in “Arte Cristiana”, n. 9, settembre, VII, 1919, pp. 163-165.

13 Durante il periodo tra le due guerre, infatti, proliferano Scuole di Architettura e Accademie di Belle Arti, sia nell’ambito della didattica che della prassi architettonica si vengono a delineare due correnti di pensiero che, per diversità di ideologie estetiche e per differente sensibilità di approccio disciplinare verso l’architettura, finiscono per contrapporsi e per certi versi anche per contrastarsi. La prima delle due correnti si lega alla tradizione artistica e architettonica ormai consolidata, mentre l’altra corrente si avvicina più alla sperimentazione di nuovi linguaggi architettonici e si può identificare con il nascente razionalismo. Molti teorici e architetti, invero, decidono di frequentare la Scuola Superiore di Architettura di Roma, e conseguentemente di mirare alla figura dell’«architetto integrale» di matrice giovannoniana, mentre si va affermando tra moltissimi altri il fenomeno dell’autodidattismo e la scelta di abbinare alla Scuola di Applicazione per Ingegneri e Architetti gli studi presso l’Accademia di Belle Arti. Questo folto gruppo cerca una sintesi tra tradizionalismo e internazionalismo architettonico, fissa criteri progettuali basilari, fondati sulla cosiddetta linea piacentiniana della «terza via» dell’architettura, esposta e codificata in Architettura d’oggi e divulgata attraverso le riviste di architettura. «Dunque noi, di faccia al mondo, noi italiani, per antonomasia i maestri d’arte di tutti i secoli, siamo invece i vessilliferi della finzione elevata a sistema? Ma non è sempre l’arte una finzione? I mezzi che adoperiamo per esprimere le grandi idee, le grandi emozioni, sono sempre convenzioni, quindi finzioni. Perché, insomma, voler far consistere tutta l’essenza dell’architettura nella sola razionalità? Perché debbono a forza equivalersi i due termini: architettura e razionalità? Ma neppure nelle macchine che servono all’uomo avviene questa identificazione: oggi la carrozzeria dell’automobile tende alla forma spyder, certamente la più bella, quella che più si distacca dal tipo della vecchia carrozza a cavalli, ma pure così poco razionale, così capricciosa, così inventata! Insomma l’identificazione del bello con lo strutturale non esiste. Lasciamo queste speculazioni aride e metafisiche agli uomini del Nord; sotto il nostro sole non ha mai attecchito il puritanesimo, né il protestantesimo. Noi abbiamo bisogno del gesto e della forma; della parola commossa e del sorriso. Noi siamo essenzialmente musicali; l’arte per noi è sempre un canto. D’altronde, dov’è che ha inizio e dove ha limiti la pura strutturalità, il vero architettonico? Forse un’opera di pura ingegneria, un viadotto, un silos può essere concepito e costruito matematicamente, ma nella quasi totalità dei soggetti, anche dei più industriali, anche quando non l’architetto, ma l’ingegnere crede di progettare esclusivamente in base al calcolo, quando insomma crede di essere un puro razionalista, sempre un fatto spirituale interviene, una concessione inconscia, sia pure alla convenzione, alla abitudine, c’è». M. Piacentini, Prima internazionale architettonica, in “Architettura e Arti Decorative”, a. VII, f. XII, agosto 1928, pp. 546-549. E sulle tendenze dell’estetica architettonica in Europa, così si esprime Roberto Papini, ricollegandosi al concorso per il Palazzo della Società delle Nazioni Unite a Ginevra: «Il concorso è riuscito a dare un’idea quanto più possibile fedele e dimostrativa dello stato presente dell’architettura. Vi si delineano infatti tre tendenze principali. La prima è quella che non si dovrebbe neppure chiamare tendenza tanto è stracca e moribonda; è composta dai relitti dei principi accademici ottocenteschi secondo i quali l'architettura è un rivestimento qualsiasi della costruzione, un pomposo apparato composto di reminiscenze stilistiche d'ogni epoca e d'ogni paese, una pura esercitazione fantastica che non obbedisce ad alcuna logica rispondenza fra interno ed esterno, fra pratica ed estetica. La seconda, proclamata come razionalista, è in piena antitesi con la prima: tutto è subordinato alla logica delle strutture e delle destinazioni, qualunque richiamo agli stili del passato è bandito come infetto, qualunque concessione al decorativo ed all'ornamentale è considerata come una debolezza indegna dell'arte, ridotta perciò a pura ricerca di ritmica, a pretta esercitazione di geometria dei solidi. La terza è la tendenza intermedia: dei tempi moderni si accettano la purificazione dal superfluo, gli spunti ritmici nuovi dati dai metodi attuali di costruzione, l'obbedienza alle necessità della funzione, senza però rinunciare all'ispirazione che gli stili classici possono ancora dare, purché non sieno copiati ma rivissuti, non considerati cioè come forme immutabili e governate da canoni fissi, ma interpretati secondo il loro spirito suscettibile di nuovi ed inattesi sviluppi. È utile dire che la prima e la seconda tendenza hanno un vizio d'origine che le condanna a priori: la prima perché il principio ottocentesco dell'eclettismo a cui s informa tuttora non è un principio artistico ma soltanto culturale e accademico; la seconda perché, infatuata di razionalismo, s'irrigidisce in un'intransigenza che si risolve essa pure in una posizione programmatica da accademia e resta viva soltanto in quanto è ricerca di nuove proporzioni, affermazione di nuovi principî. La preponderanza che quelle tendenze hanno nel concorso ginevrino rispetto alla terza si spiega facilmente col fatto che esse richiedono il minimo sforzo, la prima perché prende a prestito e non rende, la seconda perché si ferma troppo presto e si contenta di poco. La terza invece richiede il massimo sforzo e il più acuto tormento poiché né si tratta di esercitazioni accademiche né di semplici calcoli ingegnereschi, ma di elaborazione, d'esercizio d'una fantasia disciplinata, di ricerca di nuove proporzioni insieme con nuovi ornamenti, in una parola di vera e propria architettura». R. Papini, L’Architettura Europea e il concorso di Ginevra, in “Architettura e Arti Decorative” , a. VII,ff. I-II, sett.-ott. 1927, pp. 32-36.

14 Ancora Roberto Papini descrive il progetto di Alessandro Limongelli: «Alessandro Limongelli eleva su un basamento ottagono una rotonda traforata da archi, aperta completamente verso l’alto; è la forma degli antichi tumuli trasformati in tombe monumentali lungo le vie consolari. L’interno ha tre ripiani: nell’inferiore scavato nella roccia è l’ossario, nel medio, a livello della terrazza esterna del basamento, è l’altare, nel superiore, grande aula circolare avente per cupola il cielo, sono il simulacro del fante, le colonne onorarie, le epigrafi e le vittorie». R. Papini, Il concorso per il Monumento al Fante, in “Emporium”, vol. LII, nn. 307-308, luglio-agosto 1920, p. 93.

15 Come si evince ancora dal commento di Roberto Papini: «Giuseppe Mancini lancia invece la sua mole dalla cima fino al cielo; per dar più forza allo slancio accumula alla base dell’edificio aspre congerie di rocce su cui puntano piani inclinati e poggiano dadi massicci. La generale struttura piramidale culmina in una lanterna di cupola da cui la luce dovrebbe sprigionarsi in fasci concentrici; e tutta la mole all’esterno è ricca d’ornamenti, di linee mosse e spezzate, di metalli e di colori. Nell’interno l’edificio a pianta pentagonale si svolge essenzialmente in due ripiani: nell’interiore è l’ossario scavato in roccia con piloni e nicchie, basse come grotte, misteriose come cripte; nel superiore una gran cupola è voltata su cinque arcate e su cinque piloni rivestiti di figurazioni scultorie». R. Papini, Il concorso per il Monumento…, luglio-agosto 1920, p. 92.

16 In questo saggio vengono attaccati i critici d’arte italiani aspramente per la loro tendenza eclettica a ricercare nello stile dagli architetti d’oltralpe un possibile indirizzo per l’arte italiana del nuovo corso. Così Cecchelli, nell’esaltare il lavoro dell’architetto Alessandro Limongelli, afferma: «Credo di poter affermare con tutta sincerità che, per ciò che si riferisce alla infiltrazione degli stili architettonici stranieri, una buona parte di colpa se la debbano accollare i critici d’arte, questa genìa di padreterni che si esalta a tutto ciò che è esotico e che spesso (fatte le debite eccezioni) si chiude in una maschera d’indifferenza davanti alle opere della nostra sana tradizione. Un giorno, non so quel critico si rivolse all’artista che presento e lo invitò a casa sua per fargli vedere certe novità di libri d’architettura straniera. Limongelli rispose: - Grazie, preferisco andare al Colosseo. La risposta è l’uomo. Giacchè Limongelli ha preferito sempre di vedere coi proprî occhi gli esempi della nostra grande architettura e non di studiarli attraverso alle pagine dei libri o delle riviste straniere, dove le applicazioni continue che se ne fanno costituiscono per noi, senza che ce ne accorgiamo, altrettanti cavalli di ritorno. Io mi ricordo di avere esaminato con molto interesse il taccuino di un architetto modernissimo (e tedesco per giunta). Ebbene: egli vi aveva disegnato con esasperante accademismo molte architetture dell’Italia antica, segnandovi le misure ed aggiungendovi alquante righe di considerazioni estetiche. Pensai allora che troppi nostri artisti facevano inconsciamente l’inverso, mentre per arrivare al nuovo bisogna che l’antico, esaminato con sottigliezza di analisi e con passione, ci scuopra le leggi dell’armonia e della convenienza». C. Cecchelli, Profili di…, novembre-dicembre 1927, pp. 113-18. Ed ancora, apprezzando la metodologia degli architetti tedeschi rispetto alla ricerca diretta dei propri modelli archetipici: «Se gli stranieri son giunti a risultati apprezzabili, e non di rado a manifestazioni squisite, lo debbono in primo luogo allo studio diretto della nostra vecchia architettura e poi allo studio, pur esso diretto della loro arte tradizionale (l’architettura di masse tedesca è schiettamente urgermanisch) e delle manifestazioni splendide dei popoli dell’Oriente antico. Invece noi raccogliamo le loro briciole e ci disputiamo le risciacquature. I maschietti si buttano a corpo morto su queste ricette facili per fare il nuovo e per essere autorizzati a proclamarsi infastiditi di tutto il vecchiume. Ma Limongelli reagisce e torna al Colosseo.... con occhi suoi, del XX secolo». C. Cecchelli, Profili di…, novembre-dicembre 1927, p. 120.

17 R. Papini, Il concorso per il Monumento …, luglio-agosto 1920, p. 93.

18 Hans Poelzig, architetto berlinese membro del Deutscher Werkbund tra la fine dell’Ottocento e sino agli anni Venti del Novecento, sviluppa tematiche formali che combinano forma e luogo, e si stagliano come testi nella roccia, cavee dell’architettura, natura che si trasforma in scena, in labirinto circolare che sembra mosso da un perpetuo movimento “ravvivato da una combustione interna” che ne accentua il carattere “barocco”. Il progetto per il Festpielhaus di Salisburgo del 1920 è sintetico di questo atteggiamento estetico che vede il predominio della forma sulla vita, il raggiungimento di un’architettura rarefatta, atonale, sorta di cupio dissolvi, desiderio di rompere con gli schemi della tonalità classica, tuttavia per ritornarvi attraverso una nuova visione del ritmo (diminuzione, aggravamento, ornamentazione, modulazione) declinato sulle stesse figurazioni del componimento musicale. Sulla diffusione dei progetti e delle teorie architettoniche di Hans Poelzig e su quella dell’espressionismo tedesco all’interno delle riviste italiane cfr. G. Pagano-Pogatschnig, L’arte di Hans Poelzig, in “Casabella”, a. XI, nn. 8-9, agosto-settembre 1933, pp. 6-14; ed ancora all’interno dello stesso numero: R. Rottschild, L’architetto Hans Poelzig, in “Casabella”, a. XI, nn. 8-9, agosto-settembre 1933, pp. 2-5; R. Giolli, Ricordo di Hans Poelzig, in “Casabella”, a. XV, n. 104, agosto 1936, pp. 2-3. Sull’architettura di Hans Poelzig, invece, cfr. M. Biraghi, Hans Poelzig. Architectura, Ars Magna 1869-1936, Arsenale editrice, Venezia 1992. Sull’Espressionismo in architettura cfr. F. Borsi, G. K. De König, Architettura dell’Espressionismo, Vitali e Ghianda, Genova 1967.

19 Giuseppe Samonà, in un saggio del 1929 intitolato Tradizionalismo e internazionalismo architettonico mettendo in luce i caratteri essenziali di due modi di vedere l’arte e l’architettura in “Rassegna di Architettura”, pone l’attenzione del moderno conflitto tra tendenze dell’arte nel diverso valore del concetto di razionalità, sostenuto sia dagli architetti aderenti alla tradizione che da quelli che sono i nuovi profeti del razionalismo internazionale. Per l’autore gli internazionalisti che «proclamano ad oltranza la razionalità come esclusiva misura della bellezza, arrivano a conclusioni assurde dal punto di vista psicologico ed estetico». La rivoluzione estetica dell’architettura, nel contesto italiano comincia a meditare una rivisitazione della produzione architettonica in chiave moderna. Quindi, gli architetti italiani ,alla luce delle esperienze tedesche e olandesi, valutano la possibilità di un riesame del lessico architettonico tradizionale di impronta locale, mentre i tradizionalisti, «convinti dei mutati bisogni dell’architettura [...] si sforzano di trovare un equilibrio tra i bisogni pratici e gli ideali dello spirito». G. Samonà, Tradizionalismo e internazionalismo architettonico, in “Rassegna di Architettura” , a. I, n. 12, 15 dicembre 1929, oggi in G. Samonà, L’unità architettura urbanistica. Scritti e progetti 1929-1973, a cura di P. Lovero, Milano, 1975, p. 54.

20 E. Janni, L’invasione monumentale, in “Emporium”, vol. XLVIII, n. 288, dicembre 1918, p. 284. A partire dalla seconda metà degli anni Venti, contro la diffusione del fenomeno dilagante dei monumenti ai caduti la propaganda fascista propone la realizzazione razionale di opere di pubblica utilità, piuttosto che «inutili» monumenti. Il 3 aprile 1919 Ugo Ojetti, sulle pagine del «Corriere della Sera», aveva già puntualizzato la differenza tra opportunità e necessità di costruire monumenti ai caduti (definiti “inevitabili, anzi rispondono a sentimenti lodevoli”), proponendo di bandire concorsi solo a livello nazionale e di vincolare la realizzazione dei progetti vincenti all’approvazione del Consiglio Superiore delle Belle Arti a sessioni riunite. La necessità di bandire concorsi avrebbe così garantito l’apporto di una qualità del progetto ed una conseguente nascita del monumento ai caduti come tipologia consolidata, oscillante ta accademismo e reali esigenze funzionali di accorpamento delle salme. Su questa vicenda cfr. L. Bregantin, Il cimitero…, pp. 6-10. Sulla polemica antimonumentale cfr. M. Piacentini, Commenti e polemiche. Considerazioni sul Concorso per il Monumento al Fante, in “Architettura e Arti Decorative” a. VII,ff. III-IV, novembre-dicembre 1927, pp. 215-16.

21 All’interno della rivista L’Esprit Nouveau si consumano i dibattiti più audaci sullo stile della nuova architettura della città. E’ del 1918 il testo fondamentale, Après le cubisme di Le Corbusier e Amédée Ozenfant che svolge una programmatica attività sullo stato dell'arte che va rifondata partendo da zero, con una revisione significativa del concetto di forma, che il Cubismo aveva fissato secondo la sua tipica tecnica scompositiva, nella ricerca di una sintesi delle valenze strutturali di oggetti semplificati ed essenziali da restituire graficamente in due e tre dimensioni attraverso una grafica dai colori neutri, fortemente dipendente dalla “meccanica” industriale. La divulgazione dell’estetica cubista e la proposizione di una nuova estetica purista che, tuttavia, ne superasse i limiti «nel dibattito architettonico, che avveniva prevalentemente attraverso la rivista di Le Corbusier e Amédée Ozenfant, L’Esprit Nouveau (1920-25), e attraverso la pubblicistica di Mallet-Stevens, offriva in questo senso un prezioso contributo al processo di superamento delle forme dell’eclettismo. L’affermazione di queste linee di tendenza, anche di quelle radicate nell’ambito della cultura Beaux-Arts, attraversò momenti conflittuali, talora assai aspri, con le forze più conservatrici che continuavano ad esercitare l’egemonia su innumerevoli e importanti istituzioni pubbliche». R. Gargiani, Parigi: architetture tra purismo e Beaux-Arts (1919-39), Clup, Milano 1989, p. 8.

22 M. Piacentini, Il nostro programma, in “Architettura”, a. XI, f. I, gennaio 1932, pp. 1-2.

23 V. Costantini, Tempo arcaico, in “Emporium”, vol. LXXX, n. 480, luglio 1934, p. 348.

24 Redaz., I Sacrari per le salme dei Caduti nella grande guerra, in “Rassegna di Architettura”, a. X, n. 10, ottobre 1938, p. 401.

25 Lo stesso Giuseppe Torres afferma: «La tradizione non è al di fuori di noi, ma in noi stessi e come tutte le cose dello spirito noi non possiamo rintracciarla che nel concentramento in noi stessi. Essa è una qualità interiore dello spirito, ed è legata alle forze dell’Universo». G. Torres, Recenti opere di architetti Lombardi e delle Venezie: Veneti, in “Architettura e Arti Decorative”, a. IV, f. VII, marzo 1925, p. 304.

26 Sul Concorso per il monumento-ossario dei caduti romani al Verano vedi Cinzio, Il concorso per il monumento-ossario dei caduti romani da erigersi al Verano, in “Architettura e Arti Decorative”, a. II, f. VII, marzo 1923, pp. 246-267.

27 Il rapporto fra percezione del visibile e architettura regolato tra l’altro in base agli studi di Matila Ghyka sui sistemi ordinatori del numero aureo, di J. Hambidge sulla «simmetria dinamica», soprattutto nell’ambiente artistico siciliano si traduce in una commistione tra positivismo logico, formalismo hilbertiano e pensiero idealista gentiliano, che conduce alla diffusione del cosiddetto «percettivismo soggettivista», dichiaratamente perseguito e tradotto in programma progettuale da Ernesto Basile e dagli allievi della sua scuola, in particolar modo da Salvatore Caronia Roberti. Secondo Salvatore Caronia Roberti, infatti: «Il problema centrale dell’estetica architettonica sarebbe quello di poter precisare gli elementi costitutivi della bellezza delle opere architettoniche. Ove ciò si potesse riportare nel campo scientifico con una esauriente spiegazione dei fenomeni estetici, se fosse possibile trovare sperimentalmente le leggi scientifiche che se ne possono trarre, noi con l’aiuto di queste leggi poremmo: 1) creare il bello in piena coscienza e insegnare l’architettura con metodo scientifico; 2) fare la critica di un’opera d’arte non più soggettivamente secondo il gusto personale, ma in maniera impersonale ossia scientificamente; 3) prevedere i fenomeni estetici, cioè conoscere in precedenza l’effetto che può produrre una forma o il complesso di un’opera architettonica e il perché di questo effetto». S. Caronia Roberti, Introduzione allo studio della composizione architettonica, Palermo 1949, p. 29. Sulla «teoria delle simmetrie dinamiche» e dei rettangoli dinamici vedi J. Hambidge, Dynamic Symmetry, Yale University Press, 1919. Ed ancora: M. Ghyka, Essay sur le rytme, Parigi, 1938. Sul «prospettivismo» cfr. S. Caronia Roberti, Del Prospettivismo, estratto dagli atti dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo, s. IV, vol.VII, Palermo, 1946-47, parte II.

28 F. Fichera, Tempio votivo dedicato ai caduti di Siracusa, a. IV, n. 9, 15 settembre 1932, pp. 385-87.

29 A.M. Fiore, La monumentalizzazione dei luoghi del teatro …, p. 240.

30 «Ma intendiamoci, non si può rinnovare l’architettura sacra in modo estrinseco, disegnando facciate con lo stile dei mobili nuovi, con la distribuzione degli spazi e con gli ornamenti dei cinematografi moderni come taluno ha tentato. Il problema è spirituale. Bisogna insomma che gli artisti contemporanei, chiamati a edificare una chiesa od un chiostro, invece di prendere il libro dei modelli antichi e moderni disegnino la casa dove si va a pregare Iddio come il poeta compone una lirica religiosa: pieghino gli elementi architettonici ad esprimere un sentimento che sia il proprio e che possa essere suscitato nella folla dei fedeli dalle loro nuove forme artistiche [...]. L’architettura sacra rinascerà quando lo spirito contemporaneo avrà riacquistata la propria potenza di creazione innalzandosi a Dio». G. Bellonci, Il problema dell’architettura religiosa, in “Arte Sacra”, a. II, n. 1, marzo 1932, pp. 54-55.

31 C. A. Loverre, L’architettura necessaria. Culto del caduto ed estetica della politica, in Un tema del moderno: i sacrari della Grande Guerra, numero monografico di “Parametro. Rivista internazionale di architettura e urbanistica”, a. XXVII, n. 213, marzo-aprile 1996.

32 Sul progetto di Mario De Renzi e Adalberto Libera alla Mostra della Rivoluzione Fascista cfr. M. G. Sarfatti, Architettura, arte e simbolo alla Mostra del Fascismo, in “Architettura”, n. 12, gennaio 1933, pp. 1-17.

33 G. Bellonci, Un architetto olandese…,1933, p. 170.

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Temi di Critica - numero 9
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