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Quando si è soli di fronte alla morte
(31 luglio 2000)
 

Il dibattito sull’eutanasia è gravemente compromesso e oscurato dalla molteplicità di ipotesi che assomigliano alle caratteristiche specifiche dell’atto eutanasico, ma che in realtà sono in qualche modo differenti da esso. Seguendo le indicazioni del Comitato nazionale di bioetica (cfr. Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, 1995), qualificheremo propriamente come "eutanasia" "l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta". Non è, pertanto, "eutanasia" la sospensione delle cure per diretta e consapevole scelta del paziente. È omicidio, e non eutanasia, la sospensione delle cure necessarie alla sopravvivenza contro la stessa volontà del paziente (tranne nel caso di morte cerebrale) e, ancor più chiaramente, è omicidio ogni atto positivo diretto alla soppressione del paziente terminale contro la sua volontà. Non è eutanasia, ma dovere del medico, la sospensione dell’accanimento terapeutico, che però è un caso sottoposto a particolari condizioni di liceità. Non è eutanasia la somministrazione di cure palliative di carattere lenitivo della sofferenza a condizione che queste non siano causa diretta della morte.

Se assumiamo, pertanto, la definizione propria di eutanasia, dobbiamo riconoscere che i casi relativi sono marginali e circoscritti. E ciò in ragione di due ordini di fattori. Da una parte, molti casi drammatici possono essere eticamente e giuridicamente affrontati con la sospensione dell’accanimento terapeutico o con le cure palliative. Dall’altra, raramente è possibile accertare in modo incontrovertibile l’effettiva volontà del paziente terminale. Conseguentemente, procedere ad una legalizzazione dell’eutanasia vuol dire spingere il diritto a regolare casi marginali con l’effetto di trasformare questi in casi generali e tipici, diffondendo una cultura di morte che finirebbe per indebolire ulteriormente la lotta della nostra specie per la sopravvivenza. Prendendo a prestito un esempio da Robert Veatch, si potrebbe dire che regolare i casi particolarissimi in cui può essere lecito attraversare con il semaforo rosso significherebbe aprire la strada a pericolosissimi abusi e rendere inefficace tutto il sistema della circolazione basato sui semafori. Tutto ciò dimostra solo che la legalizzazione dell’eutanasia è inopportuna, non consona alla funzione generale del diritto legislativo e socialmente dannosa, ma non ancora che l’eutanasia stessa sia sempre moralmente illecita. Tuttavia resta il fatto di un certo pudore del diritto nei confronti dell’aperta ammissione della liceità dell’eutanasia. Si preferisce sottolineare il rispetto della volontà del paziente piuttosto che l’atto di soppressione della vita in cui si sostanzia propriamente l’evento eutanasico. D’altronde anche per l’aborto s’è preferito l’espressione più gentile di "interruzione della gravidanza".

Nelle recenti proposte legislative presentate nel Parlamento italiano s’insiste prevalentemente sul diritto di decidere consapevolmente sul trattamento terapeutico a cui sottoporsi. Si tratta di un diritto costituzionale che è una conquista di civiltà giuridica e che combatte il paternalismo sanitario imperante. Tuttavia dal diritto di decidere come curarsi non discende affatto sul piano logico il diritto di essere aiutato a morire. La morte non è una cura o una guarigione dal male della sofferenza. Qualora si ammettesse apertamente in casi estremi l’omicidio del consenziente, bisognerebbe affidarlo ad istituzioni apposite da non confondere con i luoghi di cura e a persone che esiteremmo a chiamare "medici". Ma dubito che si arriverà a tanto, perché ciò significherebbe dire apertamente cos’è l’eutanasia e questo non è politicamente corretto. Ed allora non resta che far leva sul rispetto sacrale della volontà del paziente e sulla situazione drammatica di una sofferenza senza speranza. I medici capiranno.

In conclusione vorrei fare alcune osservazioni proprio su questi due ultimi aspetti: la sofferenza senza speranza e la volontà del paziente.

Un argomento spesso avanzato dai sostenitori della liceità morale dell’eutanasia si basa sulla perdita della dignità del malato terminale. Questa vita non ha più valore, ha perso di qualità e quindi di dignità proprio agli occhi di chi la possiede. L’etica della qualità della vita implica, infatti, che la vita umana non abbia alcun valore in se stessa, ma l’abbia solo in quanto ricca di potenzialità e di opportunità. È ovvio che queste qualità hanno un radicamento sociale, sono cioè misurate sulla base dell’opinione comune riguardante una vita ben riuscita. Sono i sani ad essere il modello che i malati aspirano a raggiungere. Quanto più una società esalta il potenziamento della salute fisica e psichica e ne fa una condizione di ammissibilità e di riconoscimento, tanto più i malati si sentono emarginati e privi di dignità. Sono i diversi, i disuguali e gli esclusi. Perciò preferiranno sparire nel nulla e lo desidereranno sinceramente. Si dirà che si tratta dell’atto caritatevole di alleviare le loro lancinanti sofferenze. Ma fino a che punto l’insopportabilità di queste sofferenze non sarà un transfert sociale?

Già questo dubbio mette in forse la consistenza reale della tanto esaltata "volontà del paziente". Certamente la completezza dell’informazione sullo stato della malattia e sulle terapie disponibili è una condizione preliminare per la costituzione di una volontà consapevole. Tuttavia bisogna riconoscere che il c. d. "consenso informato", che è in realtà un ideale-limite, si sta trasformando in una vera e propria ideologia, avente a modello antropologico l’uomo come assoluto padrone della propria vita e del proprio destino. In realtà siamo spesso sforniti delle conoscenze adeguate per valutare le proposte terapeutiche del medico, che a sua volta non sempre è in grado di fornirci previsioni certe e inoppugnabili. La malattia ci pone in uno stato di minorità, da cui difficilmente riusciamo a liberarci, anche perché non siamo aiutati a farlo. La sofferenza ci costringe a chiedere l’aiuto degli altri e ci immette in un circuito di affidamento. D’altronde, un clima di fiducia non è di per sé in contrasto con le scelte consapevoli sul futuro della nostra esistenza. Insomma, il consenso informato deve essere coniugato con un atteggiamento cooperativo, altrimenti il ruolo del medico non sarebbe distinguibile da quello del meccanico con la differenza che in questo caso non possiamo comprare l’auto nuova.

Ora, anche ammesso che vi siano tutte le condizioni favorevoli per la formazione di una volontà consapevole, in ragione del lungo decorso di una malattia gli orientamenti del malato potrebbero cambiare ed egli stesso potrebbe non essere più in grado di decidere personalmente sulla propria vita. Allora è opinione diffusa che bisognerebbe attenersi alle disposizioni della "volontà anticipata" se espressa in forme certe e inequivocabili. Tuttavia anche qui, per non sottostare acriticamente agli imperativi ideologici del nostro tempo, c’è da chiedersi quale valore debba avere per il futuro una volontà formulata in circostanze ben diverse. Certamente, se aderissimo alla concezione dell’io multiplo sostenuta da Parfit, sarebbe ben difficile far valere per il nostro io di oggi scelte prese da un altro io precedente. Ma, pur restando legati all’io unitario cartesiano, resta il fatto che esso non può conoscere a priori le future circostanze della sua malattia. Ciò significa che le sue disposizioni testamentarie dovranno essere "interpretate" e attualizzate. Per inciso osservo che l’analogia tra "testamento biologico" e testamento patrimoniale mi appare un po’ zoppicante. Il testamento patrimoniale ha valore solo quando il testatore è morto, mentre quello biologico quando è ancora in vita. Sarebbe assurdo per il diritto civile prevedere un interprete autentico delle ultime e incomplete volontà del testatore, mentre ciò è necessario per il testamento biologico.

Attraverso la finzione di un prolungamento della coscienza del testatore nella coscienza della "persona di fiducia" ancora una volta si riafferma il principio metafisico del primato della coscienza sulla vita biologica. Si configurerebbe così una sorta di coscienza transpersonale. Questa figura della "persona di fiducia" è veramente singolare. Tradizionalmente questo ruolo era svolto dai familiari, cioè da coloro che hanno avuto una consuetudine di vita con il paziente terminale e che per questo non solo sono i migliori interpreti del suo orientamento, ma soprattutto sono coloro che lo amano e che lo accettano nella sua indigenza e sofferenza. Ora questa "persona di fiducia" è chiaramente un individuo decontestualizzato, più un rappresentante della società dei sani che un prossimo del malato. Al giudice che, se del caso, deve nominarlo non si danno indicazioni al riguardo. Ciò conferma che l’eutanasia è una pratica della solitudine, è l’essere lasciati soli di fronte alla morte. A queste condizioni chi non la desidererebbe?

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