[home]

Progetto SUD. Le sfide per la metamorfosi dello sviluppo

di Maurizio Carta

La metamorfosi di un nuovo modello di sviluppo
Gli aspetti strutturali della attuale crisi del Sud devono essere affrontati come una metamorfosi dei protocolli di sviluppo, e le conseguenti soluzioni messe in campo devono essere sempre più interconnesse, richiedendo costanti sforzi di comprensione unitaria e chiamando ad una nuova alleanza tra politica ed economia, tra cultura ed ambiente, tra tecnica e società. La crisi ci obbliga a selezionare i capitali dello sviluppo, a riprogettare i percorsi, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno e di compartecipazione. La crisi diventa così occasione reale di discernimento e di nuova progettualità, poiché essa ha ormai travalicato i confini settoriali, ha tracimato dagli argini finanziari in cui abbiamo tentato di richiuderla al suo apparire per travolgere il nostro stesso stile di vita, richiedendo pertanto una risposta di ampio respiro che coinvolga i paradigmi di sviluppo e gli stili di vita, che ripensi l'economia e la politica e rinnovi il dominio dell'etica, sia pubblica che privata.
Le politiche di governo del territorio del Mezzogiorno, soprattutto quelle di sviluppo locale e di rigenerazione urbana, negli ultimi decenni hanno attuato interventi che sono stati vittime della "aporia della rana morta". L’illusione dello sviluppo è infatti paragonabile al noto esperimento settecentesco di Luigi Galvani sulle rane morte, le cui cosce attraversate da una corrente elettrica si muovevano, facendo pensare – o sperare – che avessero preso vita e che avessero sconfitto la morte. Anche i territori in situazioni di declino, le città sfigurate dal degrado e ferite dalla dismissione industriale, l'imprenditoria frenata dalla crisi economica hanno tentato di sconfiggere la morte attraverso l'immissione negli organi malati, quando non già in necrosi, di energia derivata dai fondi europei, dai grandi eventi, dai progetti integrati, dalle zone franche urbane, dai contratti di quartiere, dalle società di trasformazione urbana, etc. L'effetto è stato spesso tragicamente identico all'esperimento della rana: il dinamismo indotto dall'energia progettuale o finanziaria ha simulato una parvenza di vitalità, spesso scambiata – illusoriamente o consolatoriamente – con il ritorno alla vita dei quartieri, con una rigenerazione dei tessuti, con una riattivazione del sistema economico o con la rinascita della città. Nei fatti, all'interruzione della energia immessa nel progetto, così come le gambe delle rane tornano irrimediabilmente morte, anche i territori rigenerati tornano a essere desolanti luoghi del declino, spazi del degrado, simulacri di una vita urbana. Ed è soprattutto nel Mezzogiorno che occorre sfuggire all’illusione della resurrezione della rana sostituendo all’energia esogena prodotta dal capitale politico – fondato sull’accumulazione di clientelismo e assistenzialismo – con l’energia vitale del capitale territoriale fondato sulla produzione di qualità e progettualità. Una nuova politica capace di riattivare e accompagnare lo sviluppo del Mezzogiorno, oltre che a più efficaci strumenti di diagnosi e di progetto, dovrà trovare una nuova classe dirigente (tecnica e politica) che sappia essere generatrice di visioni, attuatrice di azioni e tessitrice di reti ampie.


Il crollo dei falsi idoli eretti dalla crescita economica esponenziale e senza controlli e dalla prevalenza di un’etica privata che sconfina nell’egoismo ci ha rivelato la necessità di una via allo sviluppo rifondata sull’etica della responsabilità, sulla capacita di visione e sulla condivisione. Crollata la grande illusione della crescita illimitata e sepolti i miti del consumismo sotto il terremoto del global change finanziario ed economico, dobbiamo riscoprire il valore di abitare una società alimentata dalla condivisione, guidata dalla responsabilità e fondata sul coraggio delle decisioni a lungo termine, ridefinendo nuovi obiettivi capaci di agire nel rapido mutamento di paradigmi a cui siamo sottoposti.
La crisi finanziaria, prima, produttiva, dopo, e politica, oggi, è stata certamente portatrice di disagi e drammi, ma ha anche abbattuto alcune false mitologie costruite attorno agli idoli di un capitalismo sfrenato, alimentato da un costante ricorso alla demagogia del “partito della spesa pubblica infinita”, dall'illusione che qualsiasi errore di programmazione potesse essere compensato dall'intervento pubblico (e persino nella liberista America si è ricorso a tale espediente all'emergere dei primi sintomi della crisi). Oggi chi ha responsabilità di governo a tutti i livelli, da quello mondiale a quello locale, da quello politico a quello economico, da quello morale a quello gestionale, deve avere il coraggio della diagnosi, senza nascondersi e nascondere ai cittadini le sfide del mutamento che attendono le responsabilità pubbliche. La crisi non è isolata, non è di settore, ma è pandemica, con tutte le conseguenze: attraversa i continenti, muta a contatto con i diversi contesti, ne assume alcune caratteristiche mimetiche, si inabissa per emergere con maggiore virulenza.
Davanti alla terza mutazione, la Crisi 3.0 che ha colpito prima di tutti i paesi più deboli dell’Europa, lo stato sociale come lo abbiamo conosciuto finora dovrà subire una poderosa dieta. Ma perché la contrazione non sia l’accelerazione del declino, dobbiamo decidere cosa deve ridursi e cos’altro deve aumentare, quali componenti dell’attuale modello di sviluppo devono essere eliminati e quali altri devono essere introdotti per migliorare il “metabolismo” in vista degli sforzi che ci richiederà il nuovo scenario di sviluppo. Quando avremo superato il terremoto dalla crisi globale e le sue scosse di assestamento, quando avremo rafforzato qualità e ruolo della politica e ricostruito il tessuto economico devastato dall’ebbrezza della finanza, quando avremo riconnesso la relazione valore-lavoro, allora un’eredità durevole della metamorfosi post-crisi sarà la sostituzione di un certo spirito da "corsari" con quello fecondo dei "costruttori", ritornando alle capacità generative dello sviluppo e alleggerendo quelle dissipative. Nello scenario di un nuovo capitalismo, di un nuovo ambiente e di una nuova società si inserisce la riemersione carsica della "questione meridionale", inabissata negli ultimi anni, sparita dall'agenda politica se non in termini solidaristici o rivendicativi, ma pronta a riemergere con virulenza. Un “nuovo meridionalismo” consapevole, responsabile e militante ci induce a rivedere l’agenda politica nazionale e locale, inserendovi opzioni che riguardano la conservazione delle risorse irriproducibili, la governance degli insediamenti, la sostenibilità ecologica delle decisioni, la gestione delle risorse energetiche, la ricostruzione del rapporto valore-lavoro e la valorizzazione dei talenti. La sfida del mutamento che abbiamo davanti - se sapremo riconoscerla e affrontarla - ci impone di avere coraggio, di rafforzare la forza della responsabilità delle scelte, individuando i fattori di sviluppo non solo più rilevanti, ma più capaci di dimostrare l’efficacia della scelta, di amplificare gli effetti delle decisioni, di distribuire su numerosi beneficiari il coraggio delle scelte.

Mezzogiorno: siamo davvero il "bordello" d'Europa?
Esistono molti modi di pensare al Sud, di parlarne e di agire per il suo sviluppo. Nel mondo contemporaneo il Sud è un campo d’indagine fondamentale, perché è lì che si verificano oggi i cambiamenti più significativi, soprattutto nella arena del progetto di territorio. Vogliamo essere un Mezzogiorno in costante fibrillazione tra consapevolezza di un ruolo cardine nello sviluppo dell'Italia e necessità di cambiarne la struttura culturale, economica e politica per potere cogliere le opportunità di tale ruolo. Ed è da questa oscillazione feconda che vogliamo ripartire per offrire strade all'azione dei soggetti decisori, attori e attuatori e alla formazione di una nuova urbanistica che sappia re-immaginare il Mezzogiorno.
Nel Mezzogiorno risiede un terzo della popolazione italiana ma vi si produce solo un quarto del PIL complessivo e un quinto del PIL del settore privato; vi ha origine meno di un decimo delle esportazioni italiane; vi si concentra circa il 45% dei disoccupati e oltre i due terzi dei cittadini poveri. Dopo un trentennio di graduale riduzione del divario di reddito tra Mezzogiorno e Centro-Nord, la spinta propulsiva si è indebolita negli ultimi sette anni e il Sud, per la prima volta dal dopoguerra, cresce meno del Centro-Nord, con differenze fino a un punto percentuale. Per non parlare della differenza con le altre regioni europee dell'Obiettivo Convergenza cresciute in media del 3% contro lo 0,6% del Sud Italia. Il Rapporto Svimez 2015 sull'economia del Mezzogiorno fotografa con chiarezza la desertificazione produttiva e sociale che sta investendo il Mezzogiorno, nonostante alcune oasi rigogliose che tuttavia non riescono a rinverdire il panorama economico. Il Rapporto mostra un’Italia divisa e diseguale, dove il Sud scivola sempre più nell’arretramento: nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%); il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 15 anni fa; negli anni di crisi 2008-2014 i consumi delle famiglie meridionali sono crollati quasi del 13% e gli investimenti nell’industria in senso stretto addirittura del 59%; nel 2014 quasi il 62% dei meridionali guadagna meno di 12mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord. Nel Mezzogiorno, alle difficoltà di competitività attribuibili ai problemi strutturali dell’area, in particolare in termini di dimensione e composizione settoriale, si è sommata la debolezza ciclica, che si riflessa in una minore resilienza dell’apparato produttivo, specie di quello industriale. I dati sono impietosi: il comparto dell’industria manifatturiera del Mezzogiorno, già poco presente nell’economia del Sud e reduce da un decennio di difficoltà dovute al maggiore impatto della globalizzazione sulle proprie produzioni, si è contratto cumulativamente nel periodo della crisi di oltre un terzo in termini di prodotto (-33,1%), quasi tre volte la caduta registrata nel resto del Paese (-14,4%). Ne risulta che è difficile a questo punto valutare se l’industria rimasta sia in condizioni di ricollegarsi alla ripresa nazionale e internazionale: il rischio è che il depauperamento di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire al Mezzogiorno di agganciare la possibile nuova crescita e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente.
Se non bastassero le recenti diagnosi interne, già nel maggio 2010 l'Economist disegnava la geo-economia dell'Europa, ridefinendo confini e alleanze e immaginando una "deriva dei continenti" prodotta dalla tettonica della crisi. Nell'affresco dell'Economist, mai tenero con l'Italia, il Meridione si sgancia dall'Italia per assurgere a Regno delle Due Sicilie, ma sdegnosamente chiamato "Bordello", per il quale viene stigmatizzato il ritardo e indicata la strada di una integrazione monetaria con la Grecia. Un verdetto senza appello, che ha fatto sollevare molte critiche, che ha scatenato le migliori intelligenze meridionali contro la volgarità dell’epiteto. Come uscire dalla indignazione per l'offesa subita e iniziare a riconoscere le biforcazioni che ci portino verso una strada alternativa al futuro?

Occorre un mutamento di punto di vista e di paradigma e, quindi, di strumenti di azione. Franco Cassano, sfuggendo sia alla rivendicazione che al rimpianto, suggerisce la via dell’autonomia, che considera il Mezzogiorno come punto di vista critico, come frutto di un “pensiero dinamico e creativo” capace di sfuggire alla situazione di scacco in cui lo hanno relegato altri paradigmi, eventualmente rovesciando la scacchiera e rimettendo in discussione l’assunto principale della questione meridionale (Tre modi di vedere il Sud, 2009). Viene infatti rifiutata la condizione patologica e con essa le categorie di “ritardo” e di “arretratezza” (tutto sommato consolatorie) per proporre una visione del Sud come “possessore di uno statuto diverso”. Il Mezzogiorno, lungi dall’essere un concentrato di anomalie da eliminare, propone storie, valori, forme e stili di vita diversi ed autonomi rispetto alla modernità imperante, estranei sì alle sue conquiste, ma anche alla sue patologie. Sfugge agli imperativi categorici della crescita come progresso e fornisce stimoli alla gestione della riduzione del consumo (di suolo, di risorse, di opportunità) e alle strategie del riciclo su cui oggi si interrogano numerosi studiosi e sperimentano altrettante numerose pratiche.
Nella ricostruzione che necessariamente deve seguire la sconfitta di alcuni assunti della “modernità imperfetta”, il Sud si propone come nuovo centro geopolitico e culturale a patto che si offra come occasione per l’avvio di un percorso autonomo e di una visione più ricca e complessa rispetto ai falsi idoli eretti dagli adoratori della capacità autoregolativa del mercato. Siamo convinti che il Mezzogiorno non abbia solo da imparare, ma anche qualcosa da insegnare attingendo alla sua millenaria sapienza, ma siamo anche altrettanto convinti come nuove classi dirigenti meridionali che abbiamo l’onere di dimostrarlo.
In un discorso sul Sud che voglia essere orientato all’azione politica e non solo consegnato alla storiografia, la specificità del Mezzogiorno non solo non va cancellata, abolita o separata, ma è la traccia decisiva per annodare i fili di una nuova soggettività, per scoprire, sulla scia di antiche rotte, la possibilità di convivenza futura, sapendo tessere reti culturali, produttive, educative e cooperative che rafforzino l’armatura identitaria del Mediterraneo come antidoto alla ripresa di un conflitto sterile, ancorché spesso sanguinoso, tra modelli, visioni e paradigmi. E’ il cosmopolitismo mediterraneo la linfa antica a cui dobbiamo riattingere, è la forza evolutiva della contaminazione che dobbiamo rimettere in gioco, piuttosto che la comodità protettiva della segregazione.
Dobbiamo rifiutare modelli evolutivi per interpretare il percorso della storia e rimuovere le colpe e le angosce che fanno del Sud una “terra del pianto”, la patria del rimorso verso la mancata capacità di quella società di leggere e condividere le ragioni della modernità guidata dallo sviluppo del capitalismo industriale.

Per un nuovo patto sociale del Mezzogiorno: dal "giro di tango" al "ballo di piazza" all'ecosistema di sviluppo
Il Mezzogiorno deve mutare prospettiva, da una visione periferica e nostalgica tutta eurocentrica deve assumere la sfida del neocentralismo meridiano alimentato dalla attuale predominanza del Mediterraneo per i traffici con i paesi emergenti e dell’estremo oriente e dalla necessità dei paesi rivieraschi di contrastare il dominio mitteleuropeo. Una nuova politica per il Mezzogiorno deve proporre al Paese il suo ruolo di motrice della crescita dell’economia nazionale, rialimentando la spinta propulsiva impressa dal Nord e oggi anch’essa in declino. Il Mezzogiorno deve avere un progetto consapevole per essere una tra le più importanti piattaforme scientifiche, logistiche e produttive dell’Europa, agendo anche come leva dell’integrazione euromediterranea e capace anche di intercettare i flussi e le economie della green economy, non solo promuovendone l’innovazione, ma anche riproponendone la tradizione. Il progetto per il Mezzogiorno deve recuperare il suo anelito strategico, la sua anima unitaria e la sua passione integrativa, contribuendo a compensare un federalismo frammentario con lo sviluppo di una nuova identità nazionale. Le politiche per il nuovo Mezzogiorno devono essere in grado di provocare un nuovo “contratto sociale” nel quale un principio di giustizia e di cooperazione sia in grado di reggere l’insieme societario, orientando al contempo la convivenza civile.
Scrivono gli analisti della World Bank che la coesione sociale è come un “ballo di piazza” in cui si ritrovano le componenti della comunità e questo ritrovarsi genera istituzioni efficaci e comportamenti idonei ad alimentare la crescita e il benessere. Quando il potere di indirizzo delle scelte economiche si concentra solo nelle mani delle burocrazie pubbliche, le relazioni sociali degradano in un “giro di tango” tra uomini d’affari ed esponenti politici, un rapporto vis a vis che allontana la comunità dalla strada della crescita ed alimenta un processo redistributivo delle risorse che non può che essere spartitorio (cfr. J. Ritzen, W, Easterly, M. Woolcock, On “Good” politicians and “Bad” policies: Social cohesion, Institutions and Growth, World Bank, 2000).
Fu la “nuova programmazione” di Ciampi e Barca negli anni Novanta, fondata su una riforma dell’amministrazione pubblica che fosse capace di scendere su un nuovo terreno di rispetto e cooperazione con gli attori privati della crescita, che ebbe l’ambizione di eccitare il senso della propria responsabilità, rispetto al proprio futuro, delle forze vitali del Mezzogiorno. Un grande ballo di piazza al ritmo di un'orchestra ben diretta, capace di allargare sempre di più il numero dei partecipanti. Ma il Paese frenò l’innovazione non essendo disponibile ad un arretramento dello Stato che avrebbe liberato energie vitali e spiriti imprenditoriali. Quando, invece, il triangolo tra Stato, imprenditori e sindacati occupa l’intera scena, e lo Stato si impegna a compensare i rischi esistenti con donazioni finanziarie a titolo gratuito, l’intero sistema economico perde slancio e vitalità. La nuova programmazione non riuscì, se non in maniera episodica e volontaristica, ad attuare la sua rivoluzione culturale per lo sviluppo del Mezzogiorno, lasciandoci ancora sul tappeto alcuni degli strumenti che aveva forgiato o modificato per perseguire i propri obiettivi.




Le arene del nostro impegno per un nuovo capitalismo territoriale
Ma quali sono oggi le arene nelle quali combattere la battaglia per il nuovo Mezzogiorno – a partire dalle sfide della Sicilia. Quali sono gli asset strategici che dovranno guidare diagnosi e progetti e quali sono gli investimenti che potranno alimentare un nuovo sviluppo più intelligente, sostenibile e equo? Ne elenchiamo le principali lasciando ad un’altra occasione il loro svolgimento e approfondimento:

• L’arena del Mediterraneo allargato e accogliente e della formazione di un nuovo soggetto sociale e culturale, prima che geopolitico. Il Mediterraneo come “avanguardia” seduce le nostre menti e mette a dura prova la nostra capacità diagnostica e operativa, stimola il coraggio di scelte e richiede una classe dirigente adeguata ad un "continente liquido" che oggi possiede una popolazione potenziale di 438 milioni di abitanti, paragonabile all’intera popolazione dell’Unione Europea e che nel 2050 avrà più di 570 milioni di abitanti (superando sia l’UE che gli USA). Un Mediterraneo che è oggi teatro di guerre civili e in cui le primavere arabe sono arrossate del sangue e a feroci dittatori sono subentrati sanguinari signori della morte. Un Mediterraneo tomba liquida di chi cerca speranza e trova trafficanti di esseri umani, un Mediterraneo di chi cerca nuova vita e trova mortali razzismi. Il Mediterraneo si propone quindi come un potente produttore di domande: di eguaglianza, di diritti, di democrazia, di ambizioni e progetti a cui dare risposte.

• L’arena delle connessioni materiali e immateriali e del ridisegno dell'armatura dei trasporti, della mobilità e dell'accessibilità promuovendo la della realizzazione di un “corridoio meridiano” per bilanciare le reti di mobilità centroeuropea. L’attivazione del “Corridoio Meridiano” (da me proposta nel 2005 nell'ambito di uno studio di fattibilità del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti) funge da vero e proprio dispositivo territoriale – non solo trasportistico o commerciale – in grado di alimentare la creazione di una armatura euro-mediterranea di riqualificazione delle risorse, di sviluppo delle accessibilità e delle economie e di promozione delle eccellenze. Ancora oggi il Corridoio Meridiano è una grande sfida infrastrutturale, economica e politica, soprattutto nella rinnovata centralità del Mediterraneo generata anche grazie al progetto euroasiatico della "Nuova Via della Seta" (One Belt One Road) promossa nel 2013 dal governo cinese come infrastruttura strategica mista (terrestre e marittima), la cui parte navale costeggia tutta l'Asia Orientale e Meridionale, arrivando fino al Mar Mediterraneo attraverso il canale di Suez. L’Italia (non la Sicilia nelle prime elaborazioni) sarebbe direttamente coinvolta nel progetto, offrendo l’ultimo porto del Mediterraneo (Venezia, Trieste o Genova) prima del transito delle merci verso il Nord Europa. Il Corridoio Meridiano, quindi, potrebbe essere ridefinito come un progetto di armatura euromediterranea (coinvolgendo però i porti dell’Italia meridionale e della Sicilia) connesso all’armatura euroasiatica e che connette nodi portuali, corridoi ferroviari e piattaforme produttive per riconfigurare le geografie economiche dell’area Mediterranea. La sinergia tra Corridoio Meridiano e Nuova Via della Seta concorrerebbe a ridefinire le relazioni economiche – ma anche quelle culturali, scientifiche e umanitarie – attraverso l’individuazione di percorsi alternativi all’allineamento dominante dei traffici in direzione nord-sud. Una visione a lungo termine dello sviluppo territoriale del nuovo “corridoio liquido” per l’Italia agirebbe in accordo con il nuovo approccio alla mobilità delle persone e delle merci composto da percorsi multipli e dall’intermodalità dei nuovi clusters portuali e aeroportuali definiti dalla strategia nazionale dei trasporti e dalle città metropolitane, viste come global gateways dei territori di riferimento.



• L’arena di un moderno sistema produttivo e di una conseguente cultura industriale, manifatturiera e logistica in grado di costituire la leva per la crescita dell’economia e del benessere sociale della Sicilia. La strada è oggi passare dalla presenza di singole unità produttive, fragili e in competizione tra loro, ad una rete di distretti produttivi (non solo manifatturieri, ma culturali, digitali, agroalimentari, etc.) inseriti in un ambiente dinamico sostenuto da una ricerca pubblica e privata d’eccellenza, da un’alta formazione per tecnici e manager e da un’organizzazione finanziaria in grado di sostenere l’imprenditore innovatore. L'attrattività dei capitali e imprese è, infatti, un altro sensore della necessità di ridisegnare la cultura d'impresa: pur nell’ambito di una ripresa degli investimenti esteri arrivati in Italia nel 2016 (+ 62%) una infima parte è allocata nel Mezzogiorno, poche imprese estere sono insediate al Sud e ancora meno sono quelle che vi hanno collocato la sede amministrativa, cioè la "testa dell'acqua" a cui fare riferimento per le necessarie strategie industriali. e di una conseguente cultura manifatturiera in grado di costituire la leva per la crescita dell’economia e del benessere sociale del Sud. Il progetto è oggi passare dalla presenza di singole unità produttive ad una rete di “distretti” produttivi (non solo manifatturieri ma anche creativi e digitali o agricoli) inseriti in un ambiente dinamico sostenuto da una ricerca pubblica e privata d’eccellenza, da un’alta formazione per tecnici e manager e da un’organizzazione finanziaria in grado di sostenere l’imprenditore-innovatore.



• L’arena delle energie rinnovabili in grado di mettere a sistema l’insieme delle risorse naturali e paesaggistiche della Sicilia con la produzione di energia, alimentando la ricerca e l’attivazione di filiere produttive, creando condizioni di vita migliori, proponendo l’immagine di un Sud moderno ed innovatore e non solo terra di rapina energetica. Per le imprese meridionali il cambiamento climatico e la sostenibilità ambientale devono essere prima di tutto sfide imprenditoriali che determineranno la strategia futura dello sviluppo di ogni iniziativa, e di ogni conseguente politica economica. Oggi il sistema imprenditoriale non subisce più la sostenibilità ambientale come un costo passivo, ma ne guarda gli aspetti prospettici ed attivi, in termini di ricerca e sviluppo. Il New Green Deal rilanciato da Obama nel 2009, adottato da quasi tutti i paesi industrializzati e culminato con l’Accordo di Parigi nel 2016 è anche un “new green target” per il sistema produttivo: significa ripensare non solo il paradigma dal consumo alla valorizzazione delle risorse, ma anche innovare processi gestionali, organizzativi, produttivi e distributivi nell’ambito dell’economia circolare. Lo scenario entro cui dobbiamo agire è la European Energy Roadmap 2050 che indica l’obiettivo di ridurre entro il 2050 le emissioni di gas serra dell’80-95% rispetto ai livelli del 1990 e di ottenere almeno il 97% di consumo di energia da fonti rinnovabili. È indubbio che nell’arena delle energie rinnovabili si combatte brandendo anche le armi della gestione integrata, efficace e responsabile delle acque e dei rifiuti, indissolubili componenti del metabolismo urbano e umano. Ed è soprattutto la gestione dei rifiuti che in Sicilia deve essere ripensata, rimettendola dentro la sua naturale dimensione industriale.

• L’arena della scuola, dell’università e dell’education come azione integrata che non avrebbe solo un effetto culturale ma genererebbe nel Mezzogiorno un "rendimento sociale", misurato in termini di produttività aggregata, tra i più elevati in Europa, dell'ordine del 7,8%, superiore quindi a quello derivante dalle infrastrutture, ritenuto tradizionalmente l'investimento con effetto moltiplicatore più alto. Al sistema universitario del Mezzogiorno tocca oggi non solo ridurre gli sprechi e rafforzare le innovazioni di sistema tra le sue componenti, non solo eliminare il sospetto di privilegi in un mondo in crisi, tocca anche – e soprattutto – dimostrare di saper essere un tassello indispensabile al rafforzamento della competitività del Paese e alla crescita del capitale umano come risorsa centrale nel capitalismo di territorio che l’Italia deve utilizzare per vincere la sfida con gli altri paesi. Conoscenza e talenti, formazione e ricerca sono oggi potenti energie per alimentare efficacemente e costantemente quel motore della conoscenza necessario ad imprimere al Mezzogiorno e al Paese l’accelerazione che gli serve per entrare a pieno titolo nella economia della conoscenza e dell'innovazione. E sono soprattutto la ricerca e i rapporti con il territorio che richiedono di ripensare il rapporto strategico con la Regione – cogliendo le opportunità della sua autonomia speciale – individuando obiettivi di conoscenza e sviluppo che alleino le discipline, agevolando la collaborazione tra scienze umane e scienze di base, rafforzando una visione politecnica e potenziando i laboratori. Ma soprattutto dovrà essere facilitato il ruolo delle università come agenzie di sviluppo per gli enti locali, assistenze tecniche istituzionali per i numerosi progetti di sviluppo che gli uffici comunali non riescono più a sostenere decimati nei numeri e nelle competenze.

• L’arena delle città, dei beni culturali e del paesaggio nella loro funzione di motori dello sviluppo sostenibile, perché il recupero dell’identità urbana, l’incremento della seduzione dei nostri borghi rurali e lo sviluppo della creatività dei giovani sono le chiavi per il rilancio. La Sicilia non è solo le tre città metropolitane ma è un arcipelago di insediamenti umani e di paesaggi agricoli, di trame identitarie e di cammini, di patrimoni e comunità. A fronte della dotazione eccezionale – un unicum nel mondo per una sola regione – di ben tre città metropolitane, la debolezza dell’armatura urbana siciliana ne impedisce di svolgere la loro funzione motrice e le sottrae dalla sfida della competizione interurbana che oggi caratterizza lo sviluppo delle nazioni. Oggi il recupero del valore semantico e identitario dei luoghi, l’incremento della seduzione urbana e lo sviluppo della loro creatività, la riconnessone dell’arcipelago dei territori interni sono le chiavi per il rilancio della Sicilia in rapporto all’Europa e al Mediterraneo. Per la Sicilia, terra rur-urbana per eccellenza, significa individuare con precisione quali risorse identitarie dovranno alimentare la specializzazione dei sistemi urbani e quali modelli insediativi dovranno proporre, insieme alla identificazione delle reti materiali e immateriali che dovranno trasferire le economie urbane al contesto territoriale di riferimento, perché le città non diventino dei buchi neri che assorbono l'energia dai loro stessi contesti, fagocitandone risorse, talenti e potenzialità piuttosto che crearne di nuove attingendo ai flussi globali. Il modello insediativo meridionale, infatti, non è un sistema discreto di città metropolitane ma è un arcipelago di insediamenti umani, di paesaggi, di trame identitarie e di statuti dei luoghi. Serve in Sicilia una nuova legge urbanistica e paesaggistica – la vigente è del 1978 con impianto giuridico e culturale del 1942! – che incentivi l’alleanza tra patrimonio e creatività, tra bellezza e futuro, in grado di favorire la conservazione, la coerenza d’insieme e la valorizzazione, e di invertire la tendenza all’abbandono, al degrado e alla distruzione dei territori interni.



• L’arena dell’identità e delle autonomie locali che riattiva il capitale territoriale. Il patrimonio culturale, sociale e politico delle città e dei territori locali siciliani è un palinsesto di profonda, vasta e ricca diversità, segno tangibile delle identità locali che si sono stratificate nella storia millenaria, testimonianza di sapienze e capacità amministrative, e contemporaneamente si offre come vettore di sviluppo se siamo in grado di coglierne le opportunità. La valorizzazione dell'identità culturale, la conservazione del paesaggio e la qualità dell’ambiente non possono più limitarsi a chiedere misure di protezione passive, ancorché indispensabili, ma richiedono un forte impegno politico, culturale e tecnico alla dimensione del locale per affrontarli come beni collettivi, come generatori di nuova identità e non solo testimoni della storia, come generatori di valore e non solo attrattori di fruitori. La direzione da sperimentare è quella di una gestione responsabile e creativa dei sistemi produttivi culturali e naturali, in grado di favorire la loro coerenza d’insieme e di invertire la tendenza all’abbandono, al degrado e alla distruzione, primo passo verso forme improprie di valorizzazione esclusivamente monetaria. Servirebbe una nuova “legge obiettivo” per lo sviluppo del capitale identitario del Mezzogiorno in termini di armatura culturale del territorio, un grande progetto culturale per l’Italia, non fatto di episodi e di seppur meritevoli capitali italiane della cultura, potrebbe essere una sfida da lanciare ad una classe dirigente che voglia rimettere il Sud nell’agenda politica del paese con visione strategica e in termini strutturali e non solo compensativi.



• L’arena del mutamento delle istituzioni economiche, eliminando la prevalenza di modelli di relazioni tra operatori economici basati su pratiche restrittive della concorrenza in tutti i settori, dal sistema bancario, all’energia, dagli ordini professionali, alle aziende municipalizzate e alla miriade di società miste locali, dal sistema dei trasporti a quello degli appalti. Occorre disinnescare anche l’intermediazione politica, sostituendola con meccanismi di apprendimento istituzionale, di institutional design, di catalizzazione del cambiamento istituzionale, che portino a rendere le istituzioni economiche più congrue con le dinamiche della crescita. Dobbiamo costruire una politica che non guardi solo agli effetti di agglomerazione, che fanno massa critica per lo sviluppo, ma anche al “lievito” necessario perché quella massa si espanda senza perdere la consistenza del tessuto sociale e l’efficienza degli scambi tra gli attori economici. L'indice di buon governo elaborato dal Formez, che valuta politiche di semplificazione, politiche per il lavoro, capacità di rafforzare la competitività del territorio e capacità di utilizzo delle risorse finanziarie comunitarie, colloca le regioni del Sud in fondo con valutazioni inferiori a 5 su 10.

Le arene in cui si dovrà combattere per affermare un rinnovato “Progetto Sud” a partire dalla Sicilia sono tutte attraversate da una costante: la necessità di possedere tra gli strumenti per vincere le sfide da esse poste il rafforzamento del “capitale sociale”, cioè quel capitale ibrido formato dai capitali umano, intellettuale, cognitivo, relazionale, creativo e politico. La carenza di capitale sociale in termini di una cultura condivisa che limita i comportamenti opportunistici favorendo la cooperazione è una delle criticità da superare con coraggio per affrontare le sfide che attendono il Mezzogiorno. La ricostruzione del capitale sociale richiede di agire non solo attraverso un processo diffuso di responsabilizzazione e consapevolezza del ruolo che sappia agire in maniera verticale su tutte le stratificazioni della società, ma anche potenziando il tessuto comunitario, e restituendo sogni alle nuove generazioni e ambizioni a quelle più mature attraverso la concretezza del progetto di territorio.
Al rafforzamento del capitale sociale dovrà naturalmente corrispondere un nuovo patto sociale tra i cittadini meridionali, ma anche tra Nord e Sud. Ripensare il Sud sotto il profilo del progetto, infatti, non vuol dire rinchiudersi nel locale, proteggersi entro nicchie identitarie perdendo il gusto dei grandi scenari e di contribuire alle traiettorie del futuro. Una vera autonomia che deriva dal federalismo delle responsabilità è basata su una crescita della cittadinanza da parte del Sud. L’autonomia non è un vessillo sotto le cui insegne ripararsi, ma deve essere un progetto politico che ambisca ad una ricostituzione del patto sociale tra Nord e Sud.
“Ci vogliono: uomini, tempo, organizzazione, tecnicità, mezzi adeguati, perseveranza. Gli uomini non mancano; purtroppo non pochi fra noi mancano di preparazione, sono improvvisatori, diffidenti, presuntuosi, discontinui. (…) Forse mancano iniziative valide in Sicilia e nel Mezzogiorno? no; siamo denigratori di noi stessi; svalutiamo il bene che invidiamo; ignoriamo quello che sanno fare gli altri, perché riesce rimprovero alla nostra incapacità di volere" così Luigi Sturzo nel suo Appello ai Siciliani del 1959 ci strigliava e ci incitava a prendere in mano il nostro futuro.
Dal Sud occorre che tutti lavoriamo perché che non debbano passare quasi sessanta anni per rispondere all’appello.

[riedizione del testo pubblicato in Russo, M. (a cura di), Urbanistica per una diversa crescita. Progettare il territorio contemporaneo, Roma, Donzelli, 2014, pp. 121-131, ISBN 978-88-6843-091-7]