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Maurizio Carta
Dalla Carta di Machu Picchu all'agenda per le città del XXI secolo
in A. I. Lima (a cura di), Per un’architettura come ecologia umana. Studiosi a confronto, Milano, Jaca Book, 2010.

L’evoluzione delle città si manifesta attraverso un percorso nella direzione di un sistema insediativo sempre più complesso e comprensivo, verso un sistema interagente di funzioni di varia natura e rango, verso un prodotto di intelligenze collettive e verso un incrocio di flussi globali e locali: la stessa natura collettiva della città si ribella con vigore alla monofunzionalità, al consumo di suolo come paradigma e alla solidità come configurazione identitaria. Nella società liquida, alla città rigidamente divisa per parti e per funzioni, alla città per recinti, si sostituisce la “città molteplice”, non solo multifunzionale al suo interno, ma anche nodo complesso di un’armatura planetaria di città in cui si intrecciano numerose reti locali e globali. Ma il rischio è che l’esito, piuttosto che una identità molteplice e ricca, sia quello di una perdita di identità alla rincorsa perenne di modelli eteroprodotti. All’emergere della molteplicità deve corrispondere un incremento della responsabilità, traducibile in un triplice impegno: verso l’ambiente, verso l’identità culturale e verso la cooperazione.
Numerose questioni e nodi problematici sono rintracciabili nella storia dell’urbanistica moderna, e in particolare in quella Carta di Machu Picchu che, con visionaria anticipazione, nel 1977 ci propone una risposta integrata all'anomia delle città iniziata nella seconda metà del XX secolo, alla loro progressiva perdita di identità complessiva a favore di identità specifiche e spesso contrapposte. Sfida la nostra capacità di reazione e sottopone al nostro impegno l'applicazione del principio della multifunzionalità, della proteicità di alcuni luoghi capaci di rispondere con varietà e vitalità all’evoluzione delle domande all’interno del tessuto urbano.

La visione profetica di Machu Picchu
Alla fine degli anni Settanta le questioni della sostenibilità di un mondo sempre più urbano e sempre più globalizzato diventano uno degli impegni più diffusi della politica e della cultura. Il Club di Roma e il Mit di Boston codificano le preoccupazioni sui “limiti dello sviluppo”, mentre in campo urbanistico si affianca un vasto movimento internazionale che, partendo dalla constatazione che la città per settori promossa dalla Carta di Atene mostrava ormai tutte le difficoltà di agire sulla trasformazione urbana, si impegna nell’arduo compito di rivedere i principi dell’urbanistica moderna cristallizzati nella Carta di Atene producendo un nuovo manifesto per l’urbanistica. Nasce quindi la Carta di Machu Picchu, luogo simbolico dove si riunirono 40 architetti e urbanisti sotto la guida morale e la forza immaginifica di Bruno Zevi (a cui si aggiunsero altri 20 firmatari) con il compito di “aggiornare ma non ripudiare” la Carta di Atene. La Carta di Machu Picchu con straordinaria capacità di visione codifica la living city, una città che punta sull’“integrazione” e sulla “complessità” come categorie genetiche per una nuova “offerta di città”: una città vivente, in evoluzione, flessibile, capace di mobilitare la popolazione attorno al progetto di futuro: in una parola una città creatrice di nuove identità.
Parlare oggi di Machu Picchu non costituisce un’operazione nostalgica, ma rappresenta la dimostrazione di quanto sostenuto da Italo Calvino nel suo pamphlet postumo dedicato ai classici. Scrive Calvino che «si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli  per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli». La Carta di Machu Picchu esercita ancora oggi un'influenza particolare non solo perché s'impone alla nostra attenzione come indimenticabile, ma anche perché in questi trenta anni si è annidata nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo della cultura urbanistica più innovativa e responsabile.
Gli undici principi della nuova pianificazione urbanistica integrata scritti all’ombra delle Ande costituiscono ancora oggi un manifesto che non ha solo un valore culturale, ma ci impegnano all’azione accompagnati da una potente visione etica che sottolinea la missione dell’urbanistica di essere la “guida” dell’azione politica.
Il primo principio riguarda la necessità di progettare le relazioni tra città e regione, suggerendo di passare da una relazione di interdipendenza tra città e contesto regionale alla fusione in un unico concetto di “città-regione”. Alla pianificazione, quale strumento sintetico per analizzare i bisogni, per diagnosticare i problemi, per tracciare le possibilità e per governare lo sviluppo e i mutamenti urbani nei limiti delle risorse disponibili, viene assegnato un ruolo fondamentale per i governi locali impegnati nel tema degli insediamenti umani: «i piani devono esprimere l'unità dinamica delle città e delle circostanti regioni, non meno che le relazioni funzionali essenziali tra quartieri, comprensori ed altre aree urbane. Le tecniche e la metodologia della pianificazione devono essere applicate a tutte le scale degli insediamenti umani – quartieri, città, aree metropolitane, regioni, nazioni – per orientare le localizzazioni, i tempi e le caratteristiche dello sviluppo». La pianificazione integrata richiede «un continuo, sistematico processo di interazione tra progettisti, utenti, amministratori e politici».
La città-regione proposta dalla Carta costituisce oggi una straordinaria anticipazione delle strategie di sviluppo urbano del XXI secolo. Nella nuova geografia delle reti – sempre più caratterizzante il secolo urbano in cui viviamo – la politica per la città-regione assume nuove sfide e agende, legate tra loro da un’ottica interscalare, capace di identificare per ciascuna scala una precisa funzione delle città creative e innovative. A scala globale occorre sostenere l'accessibilità a mercati lontani, a sistemi specializzati di informazione, ai luoghi di eccellenza della produzione culturale, per interscambi nelle due direzioni. Gli attori locali devono essere facilitati nella possibilità di partecipare alle reti lunghe di cooperazione economica, scientifica e culturale. La figura predominante è quella della città-piattaforma che si configura come un potente snodo di grandi flussi e come una porta di interfaccia del locale che dialoga e interagisce con il globale senza passare dalla dimensione intermedia. Si tratta delle gateway cities che fungono da portali multifunzionali e che illuminano il territorio circostante della loro magnitudo.
A scala regionale è necessario estendere le funzioni organizzative e di promozione della città nei confronti del territorio di riferimento, perché le possibilità di successo dipendono dall'attivazione dell'area nel suo insieme, secondo le sue vocazioni (la realizzazione di infrastrutture per lo sviluppo, la localizzazione di università, centri intermodali, aeroporti, ospedali sono questioni che riguardano spesso più comuni dell'area regionale). A tale scala agiscono le città-nodo che svolgono la funzione di attrattori di livello metropolitano, assumendo ruoli di specializzazione soprattutto nelle funzioni dei servizi, della cultura e della creatività.
Infine, a scala locale la città agisce nei confronti dei suoi users con funzioni dirette e capaci di intercettare il mutamento delle domande. La continua ri-generazione della città e la capacità di individuare obiettivi condivisi da attori pubblici e privati per investimenti di lungo periodo sono gli obiettivi strategici fondamentali. In questo caso la città agisce da commutatore tra risorse, bisogni e aspirazioni, tra flussi materiali e immateriali, tra energie provenienti da diverse fonti. A tale scala la funzione urbana è prevalentemente di servizio al contesto territoriale, e la sua creatività si può esplicare nell’innovazione della qualità dei servizi e nella loro pervasività. E’ una creatività di tessuto, che agisce nei confronti dei micro-mondi, delle diverse culture, etnie e classi, aggregando e consolidando il sistema urbano come fattore di democrazia ed equilibrio.
Le tre figure urbane sono costantemente sottoposte a forze di dispersione e di agglomerazione che ne intensificano la funzione di nodo di reti – le prime – o che ne rafforzano il ruolo di centri di sistemi locali – le seconde. Le forze di agglomerazione, infatti, tendono a rafforzare le città come centro e le forze di dispersione tendono ad alimentare la città come nodo. La lezione ancora oggi potente che deriva da Machu Picchu è che entrambe le forze devono agire simultaneamente contribuendo al loro potenziamento e dinamismo, alla loro capacità aggregatrice e alla loro forza irradiatrice, agendo sui profili demografici, sugli stili di vita, sulla dimensione culturale e sulle attività economiche e, soprattutto, indirizzando le politiche urbane.
Il secondo principio traccia la strada verso le funzioni integrate, in opposizione alla precedente distinzione delle funzioni urbane (abitare, lavorare, ricrearsi e circolare). La rigida zonizzazione monofunzionale – scrivono gli estensori – ha prodotto città in cui «le relazioni interpersonali nella vita delle città sono state ostacolate al punto che ogni opera architettonica è divenuta un oggetto isolato e le interrelazioni spaziali sono determinate principalmente dalla mobilità umana»: lo sviluppo urbano deve invece mirare ad un'integrazione polifunzionale e contestuale. Oggi la sfida è di superare il concetto di integrazione per sperimentare l’interferenza tra funzioni e la generazione di nuove funzioni urbane a partire dalla relazione creativa tra luoghi e ruoli. La città polifunzionale richiede un rigoroso esercizio del progetto capace di generare nuove configurazioni urbane.
Terzo tema è quello delle nuove relazioni tra abitazione e comunicazione. La Carta invita a passare dall’abitazione come chiave della vita urbana alla consapevolezza che la sopravvivenza degli insediamenti sparsi nel territorio dipende dalle rete delle comunicazioni che li saprà trasformare in nodi regionali. Alla comunicazione umana viene assegnato un ruolo fondamentale come «fattore predominante nell'esistenza stessa della città»: la progettazione delle abitazioni deve avere la flessibilità necessaria per adattarsi alla dinamica sociale, «facilitando la partecipazione creativa degli utenti».
I principi di Machu Picchu non si limitano a guidare lo sviluppo sostenibile, ma agiscono anche sulla dimensione fisica e sulla configurazione spaziale della nuova città, intervenendo esplicitamente sulla progettazione urbana e architettura: dal “gioco sapiente dei volumi puri sotto la luce” alla progettazione di “spazi sociali del vivere”. «È giunto il momento – recita la Carta – di rivolgere un appello agli architetti affinché divengano pienamente coscienti dello sviluppo storico del movimento moderno, e cessino di moltiplicare panorami urbani obsoleti, composti da prismi monumentali, verticali od orizzontali, opachi, riflettenti o trasparenti. La nuova urbanistica esige una continuità edilizia, e questa implica che ogni elemento del continuum richieda un dialogo con gli altri elementi per completare la propria immagine». Le riflessioni sull’opera aperta (avviate da Umberto Eco nel 1968), sulla interazione autore-testo-lettore hanno profondamente influenzato gli estensori del manifesto di Machu Picchu, i quali sottolineano il valore di un processo creativo – in questo caso di configurazione della città – in cui il fruitore non sia più in stato di passiva contemplazione, ma divenga «un fattore attivo del suo messaggio polivalente». Nel campo edilizio, specifica la Carta, la partecipazione dei fruitori è anche più importante e concreta: significa che la popolazione deve partecipare attivamente e creativamente ad ogni fase del procedimento progettuale al fine di integrare il lavoro dell'architetto. Questo approccio “non‑finito” non diminuisce il prestigio dell'urbanista o dell'architetto, così come la teoria della relatività di Einstein o il principio di indeterminazione di Heisenberg non hanno ridotto il prestigio degli scienziati. Così se la popolazione «è coinvolta nel processo architettonico, il rilievo sociale dell'architetto ne risulterà elevato e l'alimento per l'inventività architettonica sarà più grande e ricco. Infatti, se gli architetti si liberano dal precetto accademico della pulitezza, la loro immaginazione potrà essere stimolata dall'immenso patrimonio dell'architettura popolare».
Un tema attuale anticipato dalla Carta è quello relativo alla crescita urbana, determinato già alla fine degli anni Settanta dall’esplosione demografica mondiale e dagli intensi fenomeni di urbanizzazione conseguenti, i quali non possono più essere risolti o controllati con i tradizionali strumenti e con le normali tecniche della pianificazione urbana, poiché esse «tentano di incorporare le aree marginali nell'organismo della città e, in molti casi, le misure adottate per regolamentare la marginalità (introduzione di servizi pubblici, strade, case popolari, ecc.) paradossalmente contribuiscono ad aggravare il problema, incentivando i movimenti immigratori. Le variazioni quantitative producono così fondamentali alterazioni qualitative». La soluzione è ancora una volta individuata in uno sforzo creativo di interpretazione delle identità e delle risorse e di integrazione delle azioni. Dai timori sull’esplosione demografica paventati a Machu Picchu sono passati trenta anni e oggi assistiamo ad un’ulteriore accelerazione del processo, aggravata dalle caratteristiche di tale incremento. La popolazione mondiale, infatti, non è solo aumentata, ma ha anche modificato le sue scelte insediative, diventando sempre più urbana. Dal 2007 siamo entrati nell’era urbana: per la prima volta nella storia dell’umanità, più della metà della popolazione mondiale vive nelle città, superando la distinzione tra un mondo urbano inserito entro un mondo prevalentemente rurale e inaugurando un’era in cui la città – nelle sue diverse declinazioni – è la modalità più diffusa dell’abitare umano. Esiste un mondo delle città, di centri pulsanti del nostro sistema territoriale, di nodi di un’armatura di comunità che si riconosce sempre più nella città, nel vivere e nel fare urbano. In Europa oggi la popolazione urbana supera il 75%, e nei paesi in via di sviluppo raggiungerà velocemente il 50%. Il mondo si svilupperà sia attorno a grandi megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche attorno a città metropolitane, a conurbazioni diffuse e ad armature di micropoli: all’armatura urbana delle città globali si annoderà, soprattutto in Europa, l’armatura delle città di secondo livello, produttrici di visioni alternative rispetto all’esplosione delle megalopoli.
La questione della crescita urbana impone una conseguente riflessione sui trasporti, in particolare orientando la programmazione e la gestione di un sistema di trasporto pubblico di massa verso il ruolo di componente strutturale della pianificazione. La città viene interpretata come una struttura in sviluppo la cui forma non può essere pre-definita perché occorre prevederne la flessibilità e l'estensione: «i trasporti e le comunicazioni producono una serie di griglie interconnesse che servono come un sistema articolato fra spazi interni ed esterni, e vanno progettate in maniera tale da ammettere una sperimentazione infinita nei mutamenti di forma ed estensione».
Anche la disponibilità del suolo urbano è un tema che già la Carta di Atene aveva affrontato, affermando la necessità di una legislazione che consentisse di utilizzare il suolo per fini sociali, subordinando gli interessi privati a quelli collettivi. Ma le difficoltà incontrate nell'esproprio delle aree edificabili hanno continuato a costituire un ostacolo rilevante alla pianificazione urbana. Viene quindi auspicata l'adozione di misure legislative efficienti rispetto al regime dei suoli, ripensando lo stesso rapporto tra proprietà ed uso, sostituendo progressivamente il tema del “pubblico” con quello del “collettivo”. Oggi una delle soluzioni risiede nella convinzione che le forze – e gli interessi – che regolano il mercato andrebbero controllate al fine di mantenere il necessario livello di investimento pubblico all’interno della città e di garantire la cooperazione del settore privato alla definizione dello sviluppo urbano, nonché di coprire i costi funzionali.
Alla politica di piano viene assegnato il compito di agire sulle risorse naturali e sull’inquinamento ambientale, anticipando con lucidità la necessità che la progettazione del territorio si faccia carico di individuare risposte al global change di cui in quegli anni iniziavano a manifestarsi – spesso inascoltati – i sintomi. Al progetto della città viene assegnato il compito di individuare misure non solo per evitare che si accentui il degrado ambientale ma soprattutto per incentivare il recupero di un ambiente più sano e di qualità, agendo su tutti i fattori del “metabolismo urbano”. Non solo i piani dovrebbero basarsi sui principi dello sviluppo sostenibile e dell’ecologia degli insediamenti, ma le valutazioni ambientali dovrebbero essere predisposte quali parte integrante dei piani ed essere collegate al processo di partecipazione pubblica.
Il genius loci delle Ande non poteva non suggerire agli estensori di occuparsi della tutela e preservazione dei valori culturali e del patrimonio storico monumentale. Alla visione eccessivamente “monumentale” della carta di Atene viene sostituita una visione più contestuale e strutturale: viene riconosciuto infatti che «l’identità ed il carattere di una città sono formati non solo dalla struttura fisica ma anche dalle connotazioni sociologiche. Per questo è necessario salvaguardare e conservare le pietre miliari della nostra eredità storica e i suoi valori culturali, onde riaffermate le peculiarità comunitarie e nazionali e/o quelle che assumono un autentico significato per la cultura in generale». L’intervento di conservazione e valorizzazione dei centri storici, tuttavia, deve «essere integrato nel processo vitale dello sviluppo urbano, anche perché questo costituisce l'unico modo di finanziare e gestire tale opera».
Anche la tecnologia occupa un posto di rilievo tra le sfide per la città del futuro immaginata dalla Carta di Machu Picchu. Lo sviluppo scientifico e tecnologico e l’incremento della comunicazione tra popoli e culture diverse – quello che ancora si chiamava il “villaggio globale”, prima che divenisse il “saccheggio globale” – possono consentire il miglioramento delle condizioni locali ed offrono maggiori possibilità di risolvere i problemi urbani e edilizi, sia dal punto di vista dei materiali e delle tecniche più adatti, sia dal punto di vista della climatizzazione e dell’illuminazione, sia dal punto di vista del funzionamento dei servizi urbani. La pianificazione dovrebbe incoraggiare l’uso ottimale delle Information and Communication Technologies, potenziando il loro utilizzo per ridefinire un principio di accessibilità democratica alle risorse e alle informazioni che consenta ai cittadini di ottenere il massimo beneficio dalla condivisione della conoscenza
Infine, il tema dell’attuazione dei piani – nodo problematico di tutti gli anni Settanta – raggiunge pure le alte vette di Machu Picchu, dove viene affermato che le autorità pubbliche ed i pianificatori devono riconoscere «che gli obiettivi del processo di pianificazione non si esauriscono redigendo i piani urbani e regionali». Il processo di pianificazione si completa nella responsabilità dei governi e della professione di promuovere, facilitare e gestire l'attuazione dei piani e delle politiche su cui sono basati. Inoltre, «nel costante processo di mutamento che incide sulla città e sulle aree urbane, le pubbliche autorità hanno anche I’obbligo di aggiornare e revisionare i piani di tempo in tempo, secondo le circostanze». La struttura della pianificazione dovrebbe essere rivista in forme comunicative e partecipative, così da renderla più accessibile ai cittadini. La sussidiarietà dovrebbe essere applicata rigorosamente nella distribuzione delle risorse, così come nella pubblica amministrazione.

L'agenda per le città del XXI secolo
La vision di Machu Picchu può ancora oggi indirizzare l'agenda urbana per il XXI secolo: residenza, lavoro, produzione, cultura e tempo libero si interconnettono, si collegano nel tempo e nello spazio urbano non solo per ridurre gli spostamenti, per risparmiare energia, per ridurre l’inquinamento, per risparmiare tempo alla socialità, ma più in generale per riconnettere le parti della città in un “sistema interagente di comunità” multiculturali, capaci di esprimere diverse modalità di vita urbana, posseditrici di diversificate “domande di città”, capaci di alimentare la "creatività" urbana.
Ripensare Machu Picchu significa oggi riscoprirne la sua forza mobilitatrice, rialimentarsi della sua visione di una città integrata e interattiva, complessa e proteiforme: una città più creativa (e non solo nella qualità), più sostenibile (e non solo efficiente) e più responsabile (e non solo democratica).
Una migliore governance delle trasformazioni urbane – che potremmo tradurre con buon governo – deve essere contemporaneamente responsabile, sostenibile e creativa, proponendosi come un integratore di differenti sostenibilità. Una sostenibilità dell’ecologia urbana che recuperi la visione del “metabolismo urbano” in termini di impatti ambientali ed energetici degli insediamenti. Un’economia urbana sostenibile capace di distribuire lavoro e ricchezza ed una società sostenibile capace di assicurare coesione sociale e solidarietà. Una città in cui abitazioni sostenibili anche dal punto di vista energetico diano un alloggio sicuro per ogni cittadino creando un ambiente urbano che protegga e alimenti gli eco-sistemi urbani. Una città caratterizzata da una accessibilità sostenibile che generi una mobilità capace di conservare risorse e non sprecare energie. Ed infine una democrazia urbana sostenibile che alimenti la responsabilizzazione della cittadinanza. Le regole per il buon governo urbano possono essere sintetizzate in:
• Incrementare la sussidiarietà e solidarietà. La sussidiarietà richiede che le decisioni debbano essere prese al più basso livello possibile che sia efficiente rispetto alla decisione, e che i servizi devono essere erogati al più basso livello che tecnicamente è capace di erogare servizi a bassi costi senza creare eccessive ricadute. All’incremento delle autonomie locali deve tuttavia corrispondere un rafforzamento della solidarietà, poiché senza di essa l’autonomia locale può produrre una intollerabile diseguaglianza, specialmente dove le politiche di welfare dipendono esclusivamente dalle risorse locali. Al federalismo fiscale deve fare da contraltare una efficace redistribuzione del reddito attraverso forme di compensazione sostantive.
• Lavorare con i mercati. Una visione laica del capitalismo, e non deformata dalle convinzioni ideologiche, ci mostra la necessità di lavorare creativamente con le forze di mercato, non ostinandosi in una spesso sterile battaglia contro di esse. Una visione non deformata della realtà ci può rivelare che quelli che abbiamo creduto feroci draghi non sono altro che utili, indispensabili e produttivi mulini a vento. Associare il mercato ai processi di valorizzazione della città può quindi produrre risultati performanti anche in termini di costi, di tempi, di competenze e di qualità. Tutto questo ovviamente dovrà avvenire in un ambiente negoziale reale, sincero e legittimato dagli attori coinvolti.
• Individuare nuove forme di partecipazione. La buona governance richiede espressamente che le autorità locali limitino il loro potere di intervento diretto agli impegni più urgenti e maggiormente produttivi e che tutte le energie esterne delle risorse locali vengano mobilitate per il completamento delle strategie. Questo significa costruire una stretta cooperazione con la società civile in tutte le sue forme: con le associazioni, con le organizzazioni non governative, con le comunità religiose, con le attività di volontariato, con l’imprenditoria e con tutti coloro che individualmente o in forma associata sono disponibili a incrementare la fornitura di beni collettivi o a costruire reti tra la domanda di beni servizi e la produzione degli stessi.
• Facilitare l’azione integrata dei diversi livelli di governo. Applicando il principi di sussidiarietà verticale e orizzontale la buona governance dovrà promuovere l’integrazione tra i diversi livelli di governo finalizzata a precise azioni o progetti. Non si tratta di un generico appello alla cooperazione istituzionale ma dovrà attuarsi una co-pianificazione su obiettivi sostantivi che non si accontenti quindi del risultato procedurale di aver messo attorno ad un tavolo diversi soggetti.
• Individuare le priorità. Questo principio è fondamentale per un approccio strategico allo sviluppo e quindi di un governo più razionale – performance-based – del territorio: non ci sarebbero infatti mai abbastanza risorse economiche, competenze e tempi per le procedure burocratiche per attuare contemporaneamente tutte le azioni necessarie di un piano di sviluppo. L’individuazione di un quadro di riferimento strategico che selezioni azioni e priorità non solo stabilisce un cronogramma efficace ma permette di attivare azioni di secondo livello quando quelle individuate come prioritarie non possono essere attuate nei tempi previsti.
• Decentrare i servizi. La devoluzione dei poteri e delle competenze non deve essere considerata come una generosa concessione del governo centrale che si spoglia dei vari poteri: essa è una ottimizzazione dell’esercizio del potere e della responsabilità che si diffonde nei confronti della società. Questa ottimizzazione richiede una attenzione alla tecnologia, alla comunicazione, alle dimensioni minime per l’erogazione di beni e servizi, alla dimensione dell’integrazione tra città, alla dimensione della capacità fiscale delle singole città o delle unioni. Il progresso tecnologico nell’ultimo decennio ha spesso lavorato per favorire una erogazione di servizi di taglia più piccola e maggiormente decentralizzata, producendo una utile delocalizzazione della produzione che, resa libera dal vincolo di prossimità spaziale, ha liberato parti della città e del territorio ad usi più socialmente efficaci.
• Separare la politica dei servizi dalla loro erogazione. I principi generali di autonomia fiscale, di controllo interno di bilancio, di efficienza e di sussidiarietà orizzontale richiedono sempre meno una “produzione pubblica” dei servizi collettivi, gli enti locali, invece, devono optare per la più efficiente soluzione che spesso vuol dire privarsi di una produzione pubblica di attività per trasferirle o trasformarle in produzioni competitive sul mercato (privatizzazione delle municipalizzate, o concessione della gestione dei servizi pubblici). Questo naturalmente richiede un efficace controllo per regolamentare le attività perché gli obiettivi dei produttori privati non erodano politiche di welfare.

Appare evidente che la maggior parte delle questioni e delle esigenze per uno sviluppo urbano sostenibile non possono essere strutturate all'interno dei tradizionali confini disciplinari e settoriali. Solo un approccio transdisciplinare potrà sostenere meglio lo sviluppo, la pianificazione e la governance della città-regione del XXI secolo. Inoltre, la sfida del cambiamento climatico, la crisi della globalizzazione e l'aumento della domanda di risorse, chiede un ulteriore sforzo interdisciplinare nel modo di affrontare i rapporti tra ecologia, economia, pianificazione, società e tecnologia. In questo contesto, anche i tradizionali ruoli e le responsabilità dei decisori, degli studiosi e dei professionisti deve essere ridefinito. A partire dalle ricerche sull’ecologia urbana, oggi torna all’attenzione l’approccio al "metabolismo urbano" come processo per agevolare la transizione verso una più efficace sostenibilità. Il metabolismo urbano (urban metabolism), infatti, può essere definito come l’interazione complessa delle risorse tecniche e socio-economiche e dei processi che si verificano nelle città, generandone la crescita, la diversificazione, la produzione di energia e l'eliminazione dei rifiuti. Diversi sono i fattori che influenzano il metabolismo della città: la forma urbana, la rete di mobilità e l'evoluzione delle tecnologie dei trasporti possono influenzare sia il consumo o la produzione di energia che la scelta delle modalità e dei materiali costruttivi. E su tale interazione dovrà agire il progetto urbano.

Progetti per la città responsabile, sostenibile e creativa
Numerosi esempi di città in tutto il mondo ci dimostrano che l’urban metabolism approach è in aumento, producendo sia interessanti sperimentazioni progettuali che importanti linee di indirizzo. La città responsabile, sostenibile e creativa richiede espressamente la produzione di un nuovo metabolismo urbano così articolato:

a) le soluzioni devono essere concepite combinando un “pensiero olistico” capace di comprendere e guidare la complessità urbana ed un “approccio categoriale” in grado di selezionare gli strumenti più efficaci per conseguire i risultati concreti: prevalente è l’utilizzo di “piani strategici” integrati con “progetti urbani”;
b) devono essere analizzate e messe a frutto le relazioni tra ruolo urbano e contesto territoriale in una nuova sinergia tra città e territorio: la città creativa, sia nella sua accezione di “commutatore territoriale” che come “nodo” o “piattaforma”, è in grado di intercettare le energie di flussi, di persone, di know-how e di capitali finanziari che attraversano il pianeta e di trasformarle in risorse locali; il rafforzamento delle città-territorio può avvenire attraverso la stipula di “patti” per lo sviluppo e l’utilizzo di processi solidi di “co-pianificazione”;
c) deve essere sperimentato concretamente l’equilibrio tra la conservazione dell’eredità culturale e sociale e la promozione dell’innovazione, tra tutele e sviluppo, attraverso l’uso di “piani d’interpretazione” e di “piani strutturali” per indirizzare i necessari processi negoziali richiesti dalla competizione internazionale;
d) devono essere incentivate le politiche di genere o generazionali (politiche per la città dei bambini, politiche per le donne lavoratrici, spazi protetti per gli anziani, etc.) capaci di ridurre la conflittualità sociale e generare il necessario senso di cooperazione, potenziando, ad esempio, l’utilizzo di “piani regolatori dei tempi e degli orari” e di pratiche di “community planning” che sfuggano alla pura retorica della partecipazione per attivare processi progettuali innovativi;
e) devono essere prodotte soluzioni progettuali capaci di alimentare la diversità urbana, culturale, sociale, etnica e funzionale in un mix fecondo di linguaggi, usi e stili di vita, che sfugga alla ripetizione manierista dei progetti delle “archi-star” e che invece produca soluzioni creative alimentate dal “talento dei luoghi” piuttosto che dal talento dei progettisti. Un ruolo fondamentale può essere giocato dagli “urban center” e dai “laboratori di quartiere” e dalla connessione del progetto urbano con il sistema formativo e della ricerca, il quale deve sempre più assumere il ruolo di “agente creativo” della città;
f) devono essere promossi e facilitati processi decisionali multiattore e multilivello (multilevel governance), capaci di essere sia razionali che istintivi, cioè in grado di organizzare le risorse materiali ma anche di mobilitare le risorse umane e relazionali, di integrare competitività e coesione sociale, attraverso un uso equilibrato del “piano del sindaco” con la diffusione delle “agende 21 locali”, dei piani strategici e dei forum;
g) infine, è necessario che le trasformazioni avvengano senza distruggere le comunità sociali distribuite nella città, ma integrandole nei processi di valorizzazione in un vero e proprio processo strategico e cooperativo, ricordando che la cooperazione e la tolleranza sono due fattori competitivi delle città creative, in grado di rendere più efficace l’utilizzo dei “forum cittadini” e delle politiche di welfare urbano.

L’impegno progettuale verso la città sostenibile e responsabile che ci anima richiede di non limitarsi alla identificazione teorica dei caratteri del milieu creativo, ma ci sfida a ricercarne contorni e declinazioni locali utili ad estrarne buone pratiche da utilizzare come metodologie o da trasformare in componenti per forgiare nuovi strumenti di rigenerazione e sviluppo urbano.
La città responsabile del XXI secolo non si limita a chiedere nuovi principi e rinnovati strumenti di diagnosi ed azione, ma impone una nuova cultura del piano e del progetto. Naturalmente la evidente natura locale e contestuale delle città non chiede di definire con certezza i confini del progetto per la città responsabile, ma pretende invece una forte ed efficace azione interpretativa e un’accurata analisi degli scenari territoriali, funzionali e socio-economici entro cui le città agiscono. Tuttavia possiamo individuare sette progetti intesi come impegni che devono agire contemporaneamente per un’urbanistica che sappia influire sul metabolismo urbano, che ne voglia ricomporre il codice genetico spesso frammentato o tradito. Ne conseguono “sette città” che possono agire come altrettanti pilastri su cui rifondare lo spazio urbano del XXI secolo, rifiutando sia la retorica del declino urbano sia la seduzione perversa delle megalopoli. Non sono città separate o alternative, ma coesistono nello spazio urbano con diverse magnitudo in funzione degli specifici contesti territoriali, sociali ed economici.
La città liquida e permeabile, nella quale la flessibilità delle funzioni e la permeabilità degli spazi non si pongono più come problemi da porre in termini puramente concettuali e spaziali, ma devono essere messe in relazione a tutto il portato sociale, economico e tecnologico che oggi entra a far parte della costruzione della città, diventando temi del progetto della città del futuro.
La città dell’informazione e della comunicazione capace di tornare ad essere “enciclopedia” della comunità, occasione di conoscenza e formazione, riappropriandosi di quell’arte della memoria che ne ha sempre costituito la sua capacità comunicativa. La città nell’era dell’informazione e della conoscenza impegna gli urbanisti ad elaborare nuove forme e relazioni che contengano e connettano i flussi di informazione e comunicazione che la città genera con sempre maggiore frequenza, portata e velocità.
La città della conoscenza diffusa in grado di agire sulla democratizzazione della comunicazione urbana, pianificando occasioni e progettando luoghi in cui la conoscenza del sistema urbano esca dalle torri degli specialisti e diventi conoscenza diffusa, competenza intersoggettiva, diventando materiale concreto per il patto di convivenza delle popolazioni urbane, realizzazione dell’utopia geddesiana di una città di tutti, compresa da tutti.
La città democratica in cui la comunicazione alimenti il miglioramento dei caratteri di democrazia ed efficienza dei piani stessi, promuovendo ambienti diffusi di cognizione/azione più adeguati ai bisogni sociali e ambientali contemporanei. La “svolta argomentativa” della pianificazione – intrapresa all’inizio degli anni Novanta – da strumento per rendere più efficace l’attuazione delle politiche e dei piani, deve diventare veicolo di relazioni interpersonali, attivatore di mobilitazione delle intelligenze collettive attorno all'idea della pianificazione come processo di comunicazione e negoziato.
La città digitale basata sulla griglia tecnologica di base – l’urban grid come è definita – chiede un'elevata sinergia tra centralità di servizi, struttura edilizia ed offerta tecnologica. I nuovi tessuti urbani dovranno essere sempre più caratterizzati da elementi che si compongono e ricompongono in insiemi diversi, in configurazioni sempre in equilibrio con le crescenti domande dell'uomo, con la sua percezione e con le sue esigenze di funzionalità e di comfort, con le sue richieste di conoscenza ed esperienza, con la domanda di democrazia e responsabilità.
La città a rete, protesa verso l’impegno di reinserire nel tessuto urbano, man mano che esso diventa più complesso e proteiforme, nuovi elementi di aggregazione sociale, nuovo luoghi dell’architettura, nuove occasioni di socialità rendendo possibile l'affermazione di nuovi valori condivisi che permettano di conferire alla città del terzo millennio specifici valori semantici capaci di caratterizzarne la nuova identità.
La città delle opportunità innovative, dei nuovi mestieri che affiancano quelli tradizionali, rivitalizzandoli, modificandoli, adeguandoli a mutate domande. La città delle opportunità richiederà sempre più spesso l’esercizio della creatività, della visione strategica, del progetto, della capacità di gestire in maniera innovativa fenomeni e progetti complessi e richiederà l’esercizio della valutazione delle coerenze, degli effetti delle scelte e il controllo delle “prestazioni” dei piani e dei progetti.
Non sono solo visioni, ma sono sette città a dimensione degli uomini che le abiteranno, che le modificheranno e che le cureranno alimentandone costantemente l’evoluzione. Sono città in grado di rispondere non solo alla sfida del global change climatico, ma anche a quella imposta dalla crisi finanziaria. Il progetto della città del XXI secolo non dovrà essere orientato da un atteggiamento reattivo, ma dovrà alimentarsi di una volontà visionaria e di una responsabilità in azione che sappia tradurre in configurazioni spaziali, in morfologie di tessuto e in relazioni insediative i principi della carta andina. Riattualizzare Machu Picchu vuol dire che non abbiamo ancora completato il percorso della sua attuazione e che ancora oggi possiamo essere guidati da una visione della città sostenibile capace di reinventare le forme del nostro insediamento, di ridisegnare il modo con cui ci muoviamo, di ritessere rapporti creativi con l’ambiente e il paesaggio e di alimentare la produzione culturale.

Scrive Richard Sennett che «per fare fronte a questa crisi ci corre l'obbligo di modificare sia gli oggetti che produciamo sia l'uso che ne facciamo. Dovremo imparare modi diversi di costruire gli edifici e di organizzare i trasporti, dovremo inventare rituali che ci abituino al risparmio. Dovremo diventare bravi artigiani dell'ambiente». Lo scenario di un nuovo capitalismo – un vero e proprio capitalismo 3.0 – ci induce a rivedere l’agenda politica per le città, in cui le opzioni che ne derivano consistono innanzitutto in una conservazione a lungo termine ed in una gestione permanente dei processi insediativi attraverso una forte integrazione con la sostenibilità ecologica, con la pianificazione territoriale, con la gestione dell’uso dei suoli, con l’impatto energetico e con la produzione di valore. L’etica della responsabilità a cui siamo chiamati ci impone che, una volta assicurata la sostenibilità ecologica degli insediamenti, dovranno essere attivate azioni concrete per il recupero creativo delle risorse aggredite o degradate dalle varie attività umane, attraverso un loro pieno coinvolgimento nel “progetto di futuro” che le comunità locali intendono perseguire in un rinnovato patto con le città.

© 2010 Maurizio Carta | maurizio.carta@unipa.it