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Maurizio Carta
Il coraggio di governare. Sfide del mutamento ed etica della responsabilità
Le Nuove Frontiere della Scuola, n. 24, ottobre 2010

I “falsi idoli” eretti dalla crescita economica esponenziale e senza controlli e dalla prevalenza di un’etica privata che sconfina nell’egoismo sono crollati sotto la spinta tellurica della crisi economica globale, rivelandoci la necessità di una via allo sviluppo rifondata sull’etica, sulla responsabilità e sulla cooperazione. Crollata la Grande Illusione e sepolti i miti del consumismo sotto il terremoto del global change finanziario ed economico, possiamo riscoprire il valore di abitare una società alimentata dalla conoscenza, guidata dalla responsabilità e fondata sul coraggio delle decisioni, ridefinendo nuovi obiettivi capaci di agire nel rapido mutamento di paradigmi a cui siamo sottoposti. La crisi finanziaria, prima, economica e politica, dopo, è stata certamente portatrice di disagi e drammi, ma ha anche abbattuto alcune false mitologie costruite attorno agli idoli del capitalismo più sfrenato, un capitalismo alimentato da un costante ricorso alla demagogia del “partito della spesa pubblica infinita”. Oggi chi ha responsabilità di governo a tutti i livelli, da quello mondiale a quello locale, da quello politico a quello economico, deve avere il coraggio della diagnosi, senza nascondersi e nascondere ai cittadini le sfide del mutamento che attendono le responsabilità pubbliche. Davanti alla crisi dei Pigs Countries, scrive Howard Schneider sul Washington Post che lo stato sociale europeo, il modello di welfare più generoso del pianeta, ha i giorni contati e dovrà subire una poderosa dieta. Ma come sfuggire alla tentazione di una dieta per digiuno? Una dieta indifferenziata che, guidata dalla necessità dei provvedimenti emergenziali, non abbia il coraggio di individuare cosa, dove e quando mettere a dieta. Dobbiamo invece perseguire una dieta "a zona", in cui decidiamo cosa deve ridursi e cos’altro deve aumentare, quali componenti dell’attuale modello di sviluppo devono essere eliminati e quali altri devono essere introdotti per migliorare il “metabolismo” in vista degli sforzi che ci richiederà il nuovo scenario di sviluppo. La domanda che ci dobbiamo porre è quale modello di sviluppo nel nuovo stato sociale? Quali processi e strumenti per il governo del territorio e la gestione della qualità della vita? Dopo la crisi delle banche (2008), delle imprese (2009) e degli Stati (2010), come passare dal modello "spesista", consumatore e dissipatore di risorse, al modello "creativo" e generatore di risorse, cioè capace di attivare il necessario moltiplicatore di sviluppo. La crisi ha mostrato la fragilità del modello di capitalismo finanziario di matrice anglo-americana – ma presto globalizzato – generato come esito di un processo iniziato negli anni Sessanta con il boom economico e la corsa ai consumi. Ha scritto Peggy Noonan sul Wall Street Journal, che dal 1968 i baby boomer hanno generato e goduto la Grande Abbondanza. Ma quell’era di cui sono stati artefici ed usufruttuari si è chiusa, e qualcosa di nuovo sta emergendo dalle macerie del terremoto finanziario globale. Dagli anni Settanta abbiamo vissuto un periodo aureo in cui il meccanismo degli aumenti di reddito e l’incremento costante, talvolta patologico, dei consumi hanno alimentato un ciclo di espansione senza precedenti, in un contesto di crescenti liberalizzazioni di commercio e finanza che si è nutrito dell’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. L’inevitabile punto di frattura del meccanismo era reso invisibile dal bagliore dei profitti: un eccesso d’indebitamento delle famiglie per finanziare la turbina dei consumi, un eccesso di squilibrio delle bilance correnti degli Stati per reggere il divario tra risparmio e investimenti, una divaricazione parossistica tra valore e lavoro, tra la finanza e l’economia reale – tra Wall Street e Main Street come si dice con un’efficace metafora. Le conseguenze, come sappiamo, sono non solo una drammatica caduta dei consumi con conseguenze sulla produzione e sull’occupazione, ma anche un profondo ripensamento del modello di welfare. All’interno di questa contrazione emergono segnali importanti di modificazione della composizione stessa del modello di sviluppo, con l’inserimento di meccanismi di selezione e valutazione che richiedono un poderoso esercizio dell’etica della responsabilità. Sotto le macerie della crisi, il capitalismo contemporaneo ha mostrato il suo volto egoista (cfr. Oliver James, Il capitalista egoista) caratterizzato dalla sopravvalutazione della quotazione in Borsa, invece che dalla forza intrinseca o dal contributo che un’impresa può offrire alla società e all’economia. Un secondo tratto egoistico è la forte spinta a privatizzare i beni e i servizi della collettività piuttosto che agire per la loro reticolarizzazione. Il terzo tratto egoistico è una regolamentazione minima dei servizi finanziari e del mercato del lavoro, tesa a favorire i datori di lavoro rendendo più semplici i licenziamenti. L’attuale crisi – ci spiega Jacques Attali – mostra che se il mercato è il migliore meccanismo di ripartizione delle risorse rare, è però incapace di creare lo Stato di diritto di cui ha bisogno e la domanda necessaria al totale impiego dei mezzi di produzione. Affinché una società di mercato funzioni efficacemente, occorre allo stesso tempo uno Stato che garantisca il diritto alla proprietà, imponga il mantenimento della concorrenza, crei una domanda attraverso salari accettabili e commesse pubbliche. Ciò presuppone una classe dirigente che eserciti il coraggio di un intervento politico – democratico – nella ripartizione dei redditi e dei patrimoni. Non è la crisi del capitalismo quella a cui assistiamo, ma la crisi del ruolo vicario del mercato rispetto alla politica, il crollo del mito della capacità generativa degli “spiriti animali” del mercato. E’ la politica – come responsabilità del benessere collettivo – che deve riappropriarsi della sua capacità generativa del valore, poiché agisce su un numero maggiore di componenti dello sviluppo che non possono essere sussidiate dalla finanza, come ormai ampiamente dimostrato. Quando saremo usciti dalla crisi globale, quando avremo rafforzato il ruolo della politica e ricostruito il tessuto economico devastato dall’ebbrezza della finanza, quando avremo riconnesso la relazione valore-lavoro, allora un’eredità durevole della ricostruzione post-crisi sarà la scomparsa di un certo spirito, la caduta di un modo di vedere la vita che è irrimediabilmente superato. Lo scenario di un nuovo capitalismo, di un nuovo ambiente e di una nuova società ci induce a rivedere l’agenda politica, inserendovi opzioni che riguardano la conservazioni delle risorse irriproducibili, la governance degli insediamenti, la sostenibilità ecologica delle decisioni, la gestione delle risorse energetiche e la ricostruzione del rapporto valore-lavoro. La sfida del mutamento che abbiamo davanti, se sapremo riconoscerla e affrontarla, ci impone di avere coraggio, di rafforzare la forza della responsabilità delle scelte, individuando i fattori di sviluppo non solo più rilevanti, ma più capaci di dimostrare l’efficacia della scelta, di amplificare gli effetti delle decisioni, di distribuire su numerosi beneficiari il coraggio delle scelte. Abbiamo qui individuato tre arene in cui mostrare il coraggio: l’arena della conoscenza, l’arena dell’identità e l’arena del mezzogiorno. Sfide cardinali che necessitano un ripensamento dei paradigmi e richiedono l’esercizio della capacità di governarne le nuove domande. In conclusione di questa riflessione viene proposta l’esperienza personale di amministratore locale convinto della necessità di agire con il coraggio della diagnosi, della selettività e dell’azione per lo sviluppo della città di Palermo nella rete globale delle città intermedie, le cosiddette “Gamma World Cities”.

L’arena della conoscenza: formazione e ricerca come investimento

Da molti anni dibattiamo sul ruolo della “Società della Conoscenza” e sul valore dell’investimento in informazione e formazione, senza renderci conto che la vera domanda deve essere – per l’Italia, per il Mezzogiorno e per la Sicilia – se siamo entrati nell’era della conoscenza e se facciamo parte di quelle società che investono in formazione e ricerca come fattori dello sviluppo o se invece le guardiamo dall’esterno come una nostalgica utopia. Dobbiamo avere la capacità di ammettere che negli ultimi trenta anni nel Paese è assolutamente mancato un vero progetto per l’università – come invece hanno elaborato altri paesi europei, Francia in testa. E’ mancata la definizione del ruolo della formazione e della ricerca nella società italiana. L’Università italiana è stata di massa o meritocratica, selettiva o inclusiva, separata o integrata, responsabile o autoreferenziale, interpretando di volta in volta le pulsioni della società invece di avere la forza di orientarne i comportamenti. Oggi dobbiamo avere la volontà e la capacità di lavorare ad un progetto culturale che miri a ridefinire il contributo della formazione e della ricerca universitaria alla “promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica” come ci impone l’articolo 9 della Costituzione Italiana. Al sistema universitario del Mezzogiorno tocca oggi non solo ridurre gli sprechi e rafforzare le innovazioni di sistema tra le sue componenti, non solo eliminare il sospetto di privilegi in un mondo in crisi, tocca anche – e soprattutto – dimostrare di saper essere un tassello indispensabile al rafforzamento della competitività del Paese e alla crescita del capitale umano come risorsa centrale nel “capitalismo di territorio” che l’Italia deve utilizzare per vincere la sfida con gli altri paesi. Siamo circondati da nazioni che investono ingenti risorse sull’università e sul sistema della ricerca pubblica e privata (Francia, Spagna e persino la Slovenia) e siamo immersi in una competizione globale che si gioca anche sulla qualità del sistema dell’alta formazione (Cina e India in testa) con quote crescenti di PIL dedicate alla formazione. Mentre noi investiamo solo il 2,4 del PIL in conoscenza, la Francia ne investe il 4,4 e gli Usa il 6,6. La sfida dell’università, quindi, non è solo quella di migliorare la formazione degli studenti perché siano i protagonisti delle sfide del cambiamento nei diversi campi in cui utilizzeranno le loro competenze, professionalità e sensibilità, si tratta soprattutto di migliorare il rapporto tra la ricerca – tutta e senza anacronistiche distinzioni tra umanistica e scientifica – e il territorio, la comunità civile, il tessuto imprenditoriale e il sistema istituzionale. Noi studiosi dobbiamo avere il coraggio e la capacità di re-immaginare il ruolo della nostra ricerca non solo come avanzamento disciplinare – indispensabile per la proiezione internazionale – ma come fattore qualificativo e moltiplicativo dello sviluppo della società, dell’ambiente e dell’uomo. Non da oggi abbiamo questo compito, già l’Agenda di Lisbona e la Dichiarazione di Bologna per la competitività dell’Europa ci impegnavano, insieme a tutte le istituzioni, a lavorare per accelerare il passaggio ad una nuova economia più competitiva e dinamica, basata sulla conoscenza e fondata su tre cardini: promuovere l’istruzione e l'informazione per vivere e lavorare nella nuova “società dei saperi”; potenziare lo sviluppo della ricerca e dell’innovazione; ed infine creare un ambiente favorevole alla nascita e allo sviluppo dell’innovazione. Dobbiamo avere la capacità di trasferire le nostre ricerche verso il più ampio spettro di utilizzatori, dobbiamo farle diventare indispensabili all’evoluzione del paese. Non mi riferisco solo al trasferimento tecnologico nei confronti delle imprese, ma parlo di sviluppare l’economia della cultura, di migliorare i processi decisionali, di animare il dibattito civile e quant’altro possiamo immaginare come nostro ruolo attivo. Naturalmente tale trasferimento è oneroso, non semplice ed immediato, ma è imprescindibile. Va sottolineato come l’Università di Palermo negli ultimi anni abbia riconosciuto questo impegno a ripensare la sua multidisciplinarità e il suo ruolo di “motore dello sviluppo”, agevolando le sinergie tra competenze, ricerche, approcci e talenti dei suoi ricercatori, ripensando lo stesso modello di decentramento in un’ottica cooperativa e sussidiaria. Da un visione “introversa”, spesso rinchiusa entro mura accademiche, l’Università diventa sempre di più un attore importante dello sviluppo del territorio: rafforza le relazioni con le istituzioni, intesse reti con la comunità, potenzia i rapporti operativi con il mondo delle imprese, amplia il quadro della propria offerta nella direzione dell’innovazione e della qualità, ed infine solidifica la propria ricerca scientifica in concreti progetti di sviluppo. Conoscenza e talenti, formazione e ricerca sono oggi potenti energie per alimentare efficacemente e costantemente quel motore della conoscenza necessario ad imprimere al Mezzogiorno e al Paese l’accelerazione che gli serve per entrare a pieno titolo nell’Era della Conoscenza.

L’arena dell’identità: il patrimonio culturale come matrice e motrice dello sviluppo
Il patrimonio culturale delle città e dei territori europei è un palinsesto di vasta e ricca diversità, segno tangibile delle identità locali e contemporaneamente vettore di sviluppo. L’identità culturale, il paesaggio e la qualità dell’ambiente non possono più limitarsi a chiedere misure di protezione, ma richiedono un forte impegno politico, scientifico e tecnico per affrontarli come beni collettivi, come generatori di nuova identità e non solo testimoni della storia. L’Unione Europea, nei suoi documenti più recenti, ci indica l’impegno verso uno sviluppo sostenibile ispirato ad un atteggiamento più creativo, non solo in grado di lasciare in eredità alle generazioni future un patrimonio territoriale intatto, ma addirittura arricchito di nuovi valori per la comunità. La direzione da sperimentare è quella di una “gestione creativa” dei paesaggi culturali e naturali, in grado di favorire la loro coerenza d’insieme e di invertire la tendenza all’abbandono, al degrado e alla distruzione, primo passo verso forme improprie di valorizzazione esclusivamente monetaria. Lo scenario di un nuovo capitalismo, un vero e proprio “Capitalismo 3.0” come lo chiama Peter Barnes, ci induce a rivedere l’agenda politica, in cui le opzioni che ne derivano consistono innanzitutto in una conservazione a lungo termine ed in una gestione permanente dei paesaggi d’interesse culturale e storico attraverso una forte integrazione con la sostenibilità ecologica, con la pianificazione territoriale, con la gestione dell’uso dei suoli e con la produzione di valore. Un approccio alla qualità del territorio come bene collettivo ci richiede una governance che sia contemporaneamente responsabile, sostenibile e creativa, proponendosi come un integratore di differenti sostenibilità. Una sostenibilità dell’ecologia urbana che recuperi la visione del “metabolismo” in termini di impatti ambientali ed energetici degli insediamenti. Un’economia urbana sostenibile capace di distribuire lavoro e ricchezza ed una società sostenibile capace di assicurare coesione sociale e solidarietà. Una città in cui abitazioni sostenibili anche dal punto di vista energetico diano un alloggio sicuro per ogni cittadino creando un ambiente urbano che protegga e alimenti gli eco-sistemi urbani. Un territorio caratterizzato da un’accessibilità sostenibile che generi una mobilità capace di conservare risorse e non sprecare energie. Ed infine una democrazia urbana sostenibile che alimenti la responsabilizzazione della cittadinanza. Le regole per il buon governo possono essere sintetizzate in incrementare la sussidiarietà e solidarietà, lavorare con i mercati, individuare nuove forme di partecipazione, facilitare l’azione integrata dei diversi livelli di governo, individuare le priorità, decentrare i servizi e separare la politica dei servizi dalla loro erogazione. Appare evidente che la maggior parte delle questioni e delle esigenze per uno sviluppo sostenibile fondato sui beni collettivi non possono essere strutturate all'interno dei tradizionali confini disciplinari e settoriali. Inoltre, la sfida del cambiamento climatico, la crisi della globalizzazione e l'aumento della domanda di risorse, chiede un ulteriore sforzo interdisciplinare nel modo di affrontare i rapporti tra ecologia, economia, pianificazione, società e tecnologia. In questo contesto, anche i tradizionali ruoli e le responsabilità dei decisori, degli studiosi e dei professionisti devono essere ridefiniti. Oggi torna all’attenzione l’approccio al "metabolismo urbano" come processo per agevolare la transizione verso una più efficace sostenibilità. Il nuovo approccio al metabolismo urbano non si limita a ripensare lo sviluppo delle città, ma incrocia anche le questioni dello “sviluppo rurale”. Il nuovo modello insediativo, infatti, può essere definito come l’interazione complessa delle risorse tecniche e socio-economiche e dei processi produttivi che si verificano nelle città e nei territori rurali, generandone la crescita e la diversificazione, la produzione di risorse alimentari e la qualità del paesaggio, la produzione di energia e l'eliminazione dei rifiuti. Diversi sono i fattori che influenzano il metabolismo delle città e delle campagne: la forma insediativa, la rete di mobilità, i processi produttivi agricoli e manifatturieri e l'evoluzione delle tecnologie dei trasporti possono influenzare sia il consumo o la produzione di energia che la scelta delle modalità e dei materiali costruttivi. E su tale interazione dovrà agire il buon governo alimentato dall’interazione tra coesione e sviluppo in una nuova alleanza tra città e campagna.

L’arena del Mezzogiorno: il sud come nuovo paradigma
Esistono molti modi di pensare al Sud, di parlarne e di agire per il suo sviluppo Nel mondo contemporaneo il Sud è un campo d’indagine fondamentale, perché è lì che si verificano oggi i cambiamenti più significativi. Dallo scongelamento dei “tre mondi” successivo alla Guerra Fredda sono emersi i continenti dei Nord e Sud globali, poli di cambiamenti demografici, sociali, economici e culturali, producendo l’indebolimento di stati nazionali e l’affermarsi di istanze locali, di autonomie o di frammenti di pianeta. Tra le definizioni e immagini che provengono dalla vasta letteratura su Sud, una ci sembra in questa occasione la più adeguata, la più feconda di ulteriori sviluppi: il Sud come spazio di frontiera, come luogo di incontro, osmosi e di contaminazione tra culture, modelli, visioni e strumenti. Ma non è del Sud mondiale che voglio parlare, ma del sud della nostra arena del coraggio: il Mezzogiorno d’Italia. Luogo geografico, ma anche culturale, sociale e, quindi, politico. In un recente libro Franco Cassano offre tre paradigmi per il Sud. Il primo è quello della dipendenza, che considera il Sud come luogo dello sfruttamento, espropriazione e spoliazione delle risorse a favore delle aree forti, il quale ha generato storicamente un atteggiamento paternalista insieme ad uno di rammarico e di disperazione. Il secondo paradigma è quello della modernizzazione, che vede il Sud in condizione di ritardo rispetto a processi di sviluppo considerati ineluttabili (o perlomeno mostrati come tali dalla propaganda del Nord). Il Sud, in questa visione, è un gioco a somma variabile come esito di una concezione dello sviluppo lineare e diffusiva. L’opzione operativa di tale paradigma è che il Sud debba essere sollecitato dall’esterno e dall’alto, attraverso politiche capaci promuovere le forze più innovative e allargare lo sviluppo e il benessere. A tale opzione che potremmo definire “riformistico-progressista” viene spesso opposta la sua versione “liberista”, la quale sostituisce all’intervento dall’alto quello delle forse endogene, liberate dalle barriere regolative e stimolate dalla competizione: insomma il ricorso agli “spiriti animali del capitalismo” di keynesiana memoria. Infine, il terzo paradigma, quello dell’autonomia, vede il Sud – e per noi il Mezzogiorno – come punto di vista critico, come frutto di un “pensiero laterale” capace di sfuggire alla coercizione del punto di vista monolocale per proporre una nuova prospettiva. Capace quindi di sfuggire alla situazione di scacco in cui lo hanno relegato gli altri due paradigmi rovesciando la scacchiera e rimettendo in discussione l’assunto principale della questione meridionale. Viene infatti rifiutata la condizione patologica e con essa le categorie di “ritardo” e di “arretratezza” (tutto sommato consolatorie) per proporre una visione del Sud come possessore di uno statuto diverso. I Sud, lungi dall’essere un concentrato di anomalie da eliminare, propongono forme e stili di vita diversi ed autonomi rispetto alla “modernità” imperante, estranei sì alle sue conquiste, ma anche alla sue patologie. Il processo di rinascita identitaria dei Sud assomiglia a molti altri processi in cui alcune “eresie” rispetto ai modelli dominanti sono diventate prototipi di innovazione, scintille di evoluzione, sfuggendo alla storica e sterile diatriba tra classico e anti-classico. Il Sud come “avanguardia” seduce le nostre menti e mette a dura prova la nostra capacità diagnostica e operativa, stimola il coraggio di scelte e richiede una classe dirigente adeguata. Nella ricostruzione che necessariamente deve seguire la sconfitta di alcuni assunti della “modernità imperfetta”, il Sud si propone come nuovo centro geopolitico, offrendosi come occasione per l’avvio di un percorso autonomo e di una visione più ricca e complessa rispetto ai falsi idoli eretti dai cantori delle “magnifiche sorti e progressive” (di cui già nell’Ottocento Giacomo Leopardi dubitava con malinconico sarcasmo). Il Sud di una nuova prospettiva culturale, etica e geopolitica intende agire propulsivamente all’interno di una modernità non vista solo come macchina funzionale produttivistica e repressiva, ma come apertura, come tensione verso il nuovo (la modernità nasce con la scoperta dell’America) e come produttrice libertà democratiche, di fraternità e di eguaglianza. Siamo convinti che il Mezzogiorno non abbia solo da imparare, ma anche qualcosa da insegnare attingendo alla sua millenaria sapienza, ma siamo anche altrettanto convinti che abbiamo l’onere di dimostrarlo. Spetta alle classi dirigenti meridionali scoprire rotte che spesso sono antiche ed inedite, figlie di una stratificazione culturale conservata nel genius loci. Spetta alle classi dirigenti – esistenti, se capaci, o nuove, se necessarie – immettere tessere di qualità in un mosaico che non è ancora completo, ma rischia di essere definito da altri. In un discorso sul Sud che voglia essere orientato all’azione politica e non solo consegnato alla storiografia, la specificità del Mezzogiorno non solo non va cancellata o abolita, ma è la traccia decisiva per annodare i fili di una nuova soggettività, per scoprire, sulla scia di antiche rotte, la possibilità di convivenza futura, sapendo tessere reti culturali, produttive, educative e cooperative che rafforzino l’armatura identitaria del Sud – in particolare del Mediterraneo – come antidoto alla ripresa di un conflitto sterile, ancorché sanguinoso, tra modelli, visioni e paradigmi. E’ il cosmopolitismo mediterraneo la linfa antica a cui dobbiamo riattingere: è la forza evolutiva della contaminazione che dobbiamo rimettere in gioco, piuttosto che la comodità protettiva della segregazione. Ripensare il Sud sotto il profilo dell’autonomia, tuttavia, non vuol dire rinchiudersi nel locale, proteggersi entro nicchie identitarie perdendo il gusto dei grandi scenari e di contribuire alle traiettorie del futuro. L’autonomia è basata su una crescita della cittadinanza e della responsabilità da parte del Sud. L’autonomia non è un vessillo sotto le cui insegne ripararsi, ma deve essere un progetto, politico.

Governare Palermo: la sfida del 3 a 1
Affrontando il tema del coraggio delle scelte e dell’impegno alla responsabilità non posso sottrarmi dal parlare della mia attuale esperienza di amministratore pubblico come assessore al Comune di Palermo con deleghe di programmazione e pianificazione come quelle al piano strategico, al centro storico e alla riqualificazione del waterfront: competenze e responsabilità che richiedono quotidianamente capacità di diagnosi e selettività dell’intervento. Nei nove mesi già trascorsi mi sono risuonate spesso nelle orecchie le parole di Spinoza, il quale sosteneva che “davanti ai problemi non bisogna ridere, né piangere, né indignarsi, ma capire”, e aggiungo io “agire”. Non c’è dubbio infatti che emerga un quadro di criticità economiche nei confronti del quale abbiamo l’obbligo di una efficace diagnosi e di una altrettanto efficace azione per modificare il trend. Tutti gli analisti ci mostrano che alla crisi strutturale globale corrispondono nei contesti locali delle “crisi di sfilacciatura”, derivate da un ripiegamento su se stessi degli attori istituzionali ed economici, preoccupati più a consolidare la propria efficacia d’azione, di contenere i costi e di mantenere i propri profili di redditività piuttosto che rischiare su obiettivi di sviluppo e di competitività. Ritornando alla metafora della “dieta” da cui abbiamo iniziato, è come se gli attori dello sviluppo – istituzionali, economici, professionali, sociali – avessero attivato una sorta di “letargo economico”, di riduzione del consumo di risorse, una ibernazione dell’azione in attesa della fine della carestia in cui si potrà tornare a cacciare e a consumare secondo i vecchi schemi. In casi del genere, invece, altre esperienze di città con caratteristiche simili a Palermo – le cosiddette Gamma World Cities – dimostrano che bisogna agire per imprimere un impulso forte al modello di sviluppo, non solo con interventi cosiddetti “anticiclici”, ma con un vero e proprio piano di sviluppo che consenta di riannodare il tessuto degli attori istituzionali ed economici e di utilizzare come “leve” le disponibilità e le capacità dei diversi attori, a patto che siano concentrate sui medesimi obiettivi e mirino nella stessa direzione. E’ quella che gli anglosassoni chiamano co-opetition cioè una cooperazione finalizzata ad essere più competitivi. E’ per questo che l’Amministrazione Comunale ha avviato dal 2007 il Piano Strategico per Palermo Capitale con l’obiettivo di definire una vision di futuro che sia capace di agire contemporaneamente sulla competitività, sulla coesione e sulla proiezione internazionale della città. Il piano è un importante strumento per dare un impulso concreto a quello stimolo del sistema socio-economico non solo perché individua alcuni grandi progetti di sviluppo, ma anche perché costruisce attorno ad essi un forte partenariato che agevola la costituzione del moltiplicatore degli investimenti, oggi assolutamente necessario per ridare ossigeno all’economia della città. I pilastri del piano sono la nuova mobilità sostenibile, le nuove grandi centralità, i poli sanitari, universitari e sportivi, la qualità del centro storico e della costa, la riqualificazione ambientale e la rigenerazione delle periferie e l’innovazione, sui quali si concentreranno non solo le economie dei fondi comunali e regionali, ma anche ulteriori finanziamenti nazionali e comunitari e le indispensabili partnership con i privati. Il Piano Strategico non si limita a disegnare una visione di futuro, ma ambisce a produrre effetti concreti nel breve termine. Innanzitutto esso porta a sistema molti interventi già realizzati o in corso di realizzazione, soprattutto nel settore delle infrastrutture di mobilità, ma da esso scaturiranno gli interventi che saranno oggetto di specifici progetti e finanziamenti, in particolare: • il potenziamento dei servizi urbani del sistema metropolitano favorendo l’attrazione di investimenti da parte degli operatori privati e l’ulteriore sviluppo dei servizi in settori più avanzati. Il sostegno e l’attrattività delle iniziative verrà attuato da condizioni di contesto particolarmente ricettive e qualificate, attraverso la realizzazione di interventi strutturali che accrescano ed agevolino la disponibilità di logistica e tecnologie, di connessioni e circuiti relazionali di qualità; • la creazione di nuove centralità e la valorizzazione delle trasformazioni in atto in un’ottica policentrica, realizzando nuovi poli di sviluppo e servizio di rilevanza sovra-locale. Questo obiettivo è particolarmente rivolto all’area vasta, in un quadro di coordinamento di livello provinciale che ne prevede l’attuazione attraverso strumenti di progettazione integrata rinnovata. Se il piano strategico è l’arena in cui combattere per il mutamento del paradigma di sviluppo, non c’è esercizio del coraggio decisionale se non davanti ad una sfida concreta, definibile e misurabile. Ed oggi Palermo deve vincere la sfida posta da quello che definisco il “Teorema del 3 a 1”. E’ la sfida che ci impone di attuare politiche, processi ed azioni che ci permettano di passare dal rapporto di 1,5 a 1 (nel migliore dei casi 1,8 a 1) tra valore prodotto e spesa pubblica almeno ad un necessario rapporto di 3 a 1 tra valore (lavoro, spesa privata, indotto, etc.) generato dalle nostre azioni e spesa pubblica utilizzata, attivando un moltiplicatore che trasforma la spesa in investimento capace di generare lavoro (in assenza di politiche fiscali o incentivi). L’atto – spesso consolatorio – della distribuzione delle risorse diventa all’azione coraggiosa della loro selezione e focalizzazione. Per vincere la sfida del 3 a 1 occorre agire su tre versanti: • innanzitutto l’ampliamento del capitale utilizzabile, poiché la massa iniziale di risorse finanziarie pubbliche è proporzionale in maniera esponenziale rispetto agli effetti prodotti. In parole povere maggiore è la spesa pubblica che si utilizza come avvio e maggiori esponenzialmente saranno i suoi effetti. Questo produce la necessità di non utilizzare le risorse man mano che si producono, ma attendere che ve ne sia una quantità adeguata da immettere con azione propulsiva, aumentando l’effetto “volano”; • il secondo versante richiede che tale utilizzo del capitale iniziale non sia distribuito e polverizzato, ma concentrato lì dove sia in grado di generare maggiore valore aggiunto, maggiore riverbero degli effetti, dove riesca ad attivare un moltiplicatore superiore che riesca a mantenere la media prefissata, compensando quegli interventi che per loro natura non hanno un moltiplicatore elevato (come quelli sul sociale). Se è vero che in situazioni di disagio diffuso finanziamenti a pioggia vanno ad alimentare sempre un seme, è altrettanto vero che una irrigazione mirata serve a far germogliare prima la pianta più rigogliosa capace di alleviare con la sua ombra l’arsura delle altre piante; • il terzo impegno richiede di ampliare la filiera delle attività correlate in modo da estendere la produzione dell’indotto al più ampio spettro di settori complementari tra loro, sia materiali che immateriali, locali o esterni, generando politiche di distrettualizzazione che permettano di incrementare gli effetti della spesa pubblica. I tre versanti di azione richiedono il coraggio della fermezza del loro utilizzo, poiché ci impongono di contrastare la tentazione – comprensibile per una classe dirigente – di rispondere alle emergenze quotidianamente e ovunque esse si presentino con un approccio emergenziale e muscolare. Non si tratta di una dichiarazione di principio, ma di una pratica di governo in corso di prima applicazione al rilancio della riqualificazione del centro storico di Palermo. La prima azione, infatti, si concretizza nell’accumulo di risorse per 30 milioni di euro che saranno “rilasciate” a breve quasi simultaneamente come adeguata spinta propulsiva al restauro degli edifici monumentali, alla recupero del tessuto edilizio, sia pubblico che privato, alla riqualificazione degli spazi pubblici, all’innalzamento del benessere degli abitanti. La seconda azione consiste nella individuazione di aree pilota e progetti cardine sui cui concentrare un’adeguata dotazione di spesa pubblica, capace di incentivare l’intervento del privato o di incrementare gli effetti attraverso la complementarietà degli interventi. Si tratta soprattutto di progetti per la qualità dello spazio pubblico e per la vivibilità del centro storico o per la dotazione di servizi concentrati in aree dove si è già avviata la riqualificazione edilizia (progetti complementari) o in aree dove servano da stimolo (progetti attivatori). Infine, la terza azione si concretizza nell’ampliamento della miscela di interventi infrastrutturali, culturali, sociali e produttivi, mirati al turismo, alla formazione e alla ricerca, alla comunicazione e al marketing, capaci di ramificare l’azione e di ampliare il numero di settori coinvolti nell’intervento, andando a stimolare il più ampio spettro di mercati, fruitori e competenze che il solo intervento di restauro edilizio non intercetterebbe. Nessuno pensa che la moltiplicazione degli investimenti pubblici da sola risolva tutte le criticità, né che basti avere una visione di lungo periodo, ma entrambe le componenti servono a guidare l’azione politica e la gestione concreta degli interventi, mettendo alla prova non solo convinzioni, ma anche l’efficacia delle azioni, l’efficienza delle risorse e la prestazione delle soluzioni. Il coraggio di governare nella turbolenza della crisi impone un approccio ottimistico ai problemi, nel senso mirabilmente sintetizzato da Winston Churchill: “un pessimista vede la difficoltà in ogni opportunità; un ottimista vede l'opportunità in ogni difficoltà”, ed ha il coraggio di coglierla.

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