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in questo numero contributi di Mario Alberto Pavone, Priscilla Manfren, Giada Centazzo, Michele Sbacchi, Laura Pellicelli.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Archeologia e simboli della “romanitas” nella pubblicistica e nella grafica fascista: il caso de “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” (1923-1943) di Priscilla Manfren

Ancora una Rivista? Sì ancora una Rivista bella, ricca, varia, armonica che rappresenti un tentativo di convogliare lo spirito nostro inquieto verso le forme pure e serene della bellezza. Dalla fucina ardente del “Popolo d’Italia” tutti i tentativi editoriali sono stati coronati dal successo più lusinghiero. Quel peccato magnifico che è l’orgoglio ci fa presentire che anche in questo campo saremo all’altezza del nuovo compito[1].

Così Arnaldo Mussolini[2] presenta, in una lettera manoscritta riprodotta nella prima pagina del primo numero della rivista, l’ultima creazione editoriale della giovane, ma già forte, stampa fascista. La “Rivista Illustrata” nasce come allegato de “Il Popolo d’Italia”, importante quotidiano politico italiano fondato nel 1914 da Benito Mussolini; a tale giornale collabora, sin dai primordi, Manlio Morgagni[3], a cui viene affidata la direzione amministrativa; nel 1919 l’incarico passa ad Arnaldo Mussolini, mentre Morgagni si dedica alla raccolta pubblicitaria. Dal 1922, quando Benito Mussolini diviene Presidente del Consiglio, il fratello Arnaldo eredita la direzione del quotidiano che, da quel momento, diviene il principale organo comunicativo del Partito Nazionale Fascista. Fra il 1923 e il 1927 Arnaldo Mussolini si dedica, pur continuando a dirigere “Il Popolo d’Italia”, all’attività di giornalista e a varie iniziative editoriali, tra le quali spicca, per l’appunto, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”[4], che egli fonda in collaborazione con lo stesso Manlio Morgagni.
La testata viene da subito presentata come una «rivista di vita»[5], eclettica e pensata per dare al popolo italiano «coscienza di quello che esso vale e di quello che esso è, in casa, fuori di casa, davanti alla sua passata civiltà e davanti alla civiltà delle altre genti»[6]; essa dovrà presentare «valori reali e sostanziali, studiati e colti nei campi, nelle officine, sul mare, nelle arene dello sport, nei laboratori della scienza, nelle più alte sfere dello spirito libero e creatore»[7]; tale compito, sottolinea Manlio Morgagni, sarà affidato a studiosi competenti nelle varie materie che, attraverso le singole rubriche, permetteranno alla rivista di essere «il quadro fedele e la voce vittoriosa»[8] dell’epoca fascista, definita «storico e magnifico tempo del rinnovamento nazionale»[9].
Fonti e strumenti indispensabili, al fine di mettere in evidenza e restituire ai lettori un’immagine della vita nazionale e dell’epoca contemporanea, sono le numerose fotografie che, viene detto, saranno assai presenti nella testata, rivelandosi così «documenti di inconfutabile realtà»[10]. L’illustrazione svolge parimenti un ruolo importante nella rivista, che già dalla copertina, spesso realizzata da nomi conosciuti del panorama artistico italiano, lascia intravedere il rilievo e l’ufficialità della testata[11]. L’importanza data alla veste grafica collima con la volontà della direzione di creare una rivista «sontuosa nella forma»[12] in quanto, sottolinea Morgagni, lo spirito nuovo del fascismo è «spirito altamente artistico, produttivo»[13]. Le illustrazioni, come si evince dal nome della rivista che rimarca il fatto che essa sia, per l’appunto, illustrata, svolgono dunque un ruolo di assoluta centralità, presentandosi come accattivante e fascinoso strumento di propaganda, capace di una comunicazione forte e immediata nei riguardi dei lettori italiani visto che, come dice lo stesso direttore Morgagni, «la bellezza è una delle leggi morali più capace di essere intesa dal popolo nostro»[14].
Il periodico si presenta dunque come un poliedrico specchio della vita contemporanea, inoltre, sin dal primo numero, la sua impostazione eclettica è ben evidente; le prime pagine sono spesso dedicate alla politica contemporanea e ai suoi protagonisti: qui vengono analizzate, con toni spesso retorici, le problematiche nazionali e internazionali. Vari corrispondenti dall’estero contribuiscono alla rivista con articoli relativi ai loro viaggi, firmando pezzi di stampo talvolta artistico, talvolta paesaggistico, talaltra etnico-culturale. La testata dedica poi alcune pagine al teatro, al cinema e ai loro artisti, riportando le ultime novità sia italiane che internazionali; un certo rilievo, sin dal primo numero, viene poi concesso alla moda, da subito utilizzata in chiave nazionalistica e poi autarchica[15]. Il periodico si occupa anche di sport, con pezzi spesso caratterizzati da quell’enfasi tipica del periodo inneggiante alla prestanza fisica e ad una regolare attività ginnica. Numerose sono poi le pagine culturali: un’apposita rubrica presenta le novità letterarie del mese, fornendo un breve riassunto corredato dall’immagine della copertina delle opere; spesso sono presenti pagine dedicate a letterati e personaggi di rilievo del panorama culturale nazionale e non solo. La rivista dà poi voce alla letteratura e alla novellistica contemporanea ospitando in ogni numero, salvo rarissime eccezioni, un racconto breve[16]: quest’ultimo è illustrato, il più delle volte, da Mario Sironi[17] che, sin dai primordi della testata, si presta al ruolo di disegnatore, divenendo una delle firme più presenti all’interno della rivista, non solo come grafico, ma anche come autore di alcuni interessanti articoli di argomento artistico[18].
Nel campo specificamente artistico è da sottolineare che gli scritti presenti nella rivista abbracciano un arco cronologico ampio, spaziando dall’antico al contemporaneo. Ai recenti sviluppi dell’arte, intesa in tutte le sue manifestazioni, viene dato ampio rilievo: si ritrovano articoli su mostre italiane ed estere[19], sul gruppo Novecento ed i suoi componenti[20], mentre pezzi su Biennali[21], Triennali[22] e Quadriennali[23] danno una visione d’insieme del panorama artistico presente in Italia durante il Ventennio; a questi si aggiungono poi alcuni scritti monografici dedicati a importanti artisti della scena nazionale quali, ad esempio, Felice Casorati[24], Carlo Carrà[25], Fortunato Depero[26], non tralasciando poi di ricordare alcuni tra i più importanti esponenti della recente arte italiana, prematuramente scomparsi, quali i futuristi Antonio Sant’Elia[27] e Umberto Boccioni[28]. La rivista, che con l’aumentare delle avvisaglie dell’imminente guerra dà maggior risalto alle tematiche utili alla propaganda in vista del conflitto, concede spazio anche agli eventi e alle opere degli artisti più mediocri, ma funzionali alla retorica di regime e stilisticamente in linea con essa quali, ad esempio, le manifestazioni del Premio Cremona[29] o le sculture di Ferruccio Vecchi[30].
Se da un lato la testata pare essere rivolta all’apprezzamento degli autori contemporanei, rappresentativi di quel nuovo stile italiano in bilico tra dinamica modernità e ricordi solenni del passato, dall’altro essa pubblica articoli, di lunghezza assai variabile, riguardanti artisti di stampo tradizionalistico e, in sostanza, rappresentanti di un’arte di matrice tardo ottocentesca; a titolo esemplificativo si vedano i testi relativi ai pittori Mosè Bianchi[31], Angelo Dall’Oca Bianca[32], Lino Selvatico[33], Emilio Gola[34], Antonio Mancini[35], Silvestro Lega e i macchiaioli[36], Giuseppe Casciaro[37] ed Emilio Longoni[38]. Particolare rilievo assumono poi gli scritti dedicati all’opera dei grandi italiani del passato, apprezzati perché fonti di gloria e d’ispirazione per il presente: a tale proposito sono rappresentativi i testi su Antelami[39], Nicola e Giovanni Pisano[40], Masaccio[41], Beato Angelico[42], Melozzo da Forlì[43], Perugino[44], Mantegna[45], Correggio[46], Parmigianino[47]. Venezia, come di consueto, offre molteplici occasioni per volgere lo sguardo al passato, come ad esempio nel caso della mostra del Settecento italiano[48], l’inaugurazione del nuovo museo del Settecento veneziano a Palazzo Rezzonico[49], i tesori artistici di Palazzo Ducale[50], la mostra del Tintoretto[51].
Altro tema, che scaturisce in parte da ragioni politiche e in parte da ragioni artistiche, è poi quello del Vicino Oriente. L’attenzione posta, in particolar modo, nei riguardi della penisola anatolica è documentata da una serie di testi, molti dei quali firmati dalla sigla S. B., che intrecciano indagini su reminiscenze bizantine col recente passato del sultanato ottomano, giungendo alla modernità della nuova Repubblica Turca osservata, per certi versi con interesse, dal regime fascista.
Per quanto concerne invece i testi dedicati all’arte antica, si nota come la loro presenza sia direttamente connessa alla politica di propaganda del regime che, incentrata su una rinnovata visione romanocentrica, va di pari passo con l’incremento degli studi e degli scavi archeologici, mirando a promuovere un’immagine di nuova Italia fascista quale rediviva incarnazione dell’antico impero romano[52]; ciò avviene in parallelo alla crescente attenzione riservata dal regime ai possedimenti coloniali e, a maggior ragione, in seguito alla proclamazione dell’Impero nel 1936. Molteplici sono gli elementi culturali che determinano e favoriscono nella sua ascesa la visione politica fascista, ma certamente il più rilevante tra essi è quello della ripresa dell’antico, considerato soprattutto nella sua accezione latina. Gli ideali di forza e potenza imperiale della Roma caput mundi vengono utilizzati dal regime in molti campi della vita italiana. Sul fronte politico tale strumentalizzazione della romanità ha, inizialmente, un duplice scopo: a livello nazionale essa mira ad un accrescimento dell’unità spirituale e dell’orgoglio popolare, inneggiando alla comune nobiltà di stirpe degli abitanti di tutte le regioni italiane; in campo internazionale, invece, essa ha il fine di ottenere un miglioramento dell’immagine e del prestigio della nazione, la quale si presenta come rinata custode della missione pacificatrice che un tempo era stata di Roma. In un secondo momento, una volta consolidata la situazione politico-economica interna, scossa in parte dalla crisi del ‘29, il culto della romanità, nella sua più spiccata tradizione imperiale, viene accentuato, e gli antichi ideali della Roma augustea vengono riproposti come motivo e giustificazione per intraprendere una politica espansionistica militare. Il regime, in netto antagonismo con Francia e Inghilterra nella corsa ai domini d’oltremare, mistifica l’aggressività del proprio operato nell’ambito delle vicende belliche su suolo etiope, adducendo il pretesto di una politica di civilizzazione delle popolazioni africane; in tal senso il colonialismo italiano sosteneva di differenziarsi da quello delle altre nazioni europee, le quali, a detta del regime, avevano perseguito una politica per lo più orientata allo sfruttamento delle risorse e dei territori conquistati. Mussolini, che nella sua imitatio Augusti si riallaccia idealmente alla politica della Roma imperiale, cerca di presentare l’Italia come futura guida dell’Europa e realizzatrice di una rinnovata pax romana nel Mare nostrum[53].
Ciò premesso, è facile comprendere quale importante ruolo assumano, nell’ambito della propaganda di regime, gli studi a carattere archeologico dedicati all’arte antica; essi hanno come scopo principale, attraverso la rivalorizzazione o la vera e propria scoperta di resti archeologici romani, di testimoniare l’onnipresenza della matrice latina sia nel passato artistico delle varie regioni italiane che, più in generale, in alcune aree del continente europeo e del bacino mediterraneo[54]. Per il settore di studi dedicato alle terre d’oltremare e alle colonie la questione viene gestita seguendo due fili conduttori che corrono paralleli: da un lato si punta sull’esaltazione del periodo romano dell’area considerata, dall’altro si opera una svalutazione e una risemantizzazione negativa di quanto compiuto dalle dominazioni successive. Gli scavi archeologici e gli studi ad essi correlati, essendo fondamentale per la propaganda supportare il mito della Roma imperiale con prove oggettive e rinvenimenti, continuano sia nel periodo immediatamente precedente alla guerra che durante il conflitto; anche nel caso in cui le scoperte siano frammentarie, ad esse viene comunque data rilevanza in quanto fenomeni tangibili dell’antica unità europea facente capo all’Urbs[55].
“La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” propone la tematica della romanità, e quella dell’archeologia ad essa correlata, a livello macroscopico, operando sinergicamente su due diversi piani: se per quanto riguarda i testi essa presenta, come si è detto, numerosi scritti di argomento storico-archeologico[56], anche dal punto di vista illustrativo la testata propone, in più occasioni, copertine e tavole ispirate a simbologie e icone tratte dall’antichità imperiale.
Dall’osservazione del corpus di articoli, e da una loro suddivisione secondo un criterio geografico, si possono evidenziare le seguenti aree di interesse: per il nord della penisola, a parte alcune notizie relative all’area lombarda[57], risulta evidente un certo interesse per importanti centri antichi dell’area e del litorale veneto, friulano e istriano[58], con estensione a città adriatiche della costa e dell’entroterra di Dalmazia[59], Albania[60] e Grecia[61]; particolare risalto viene poi dato alle scoperte avvenute nella zona emiliano-romagnola, patria natale del duce, dalla quale talvolta ci si spinge sino ad arrivare in aree toscane e marchigiane, non dimenticando tra l’altro di fare accenni all’arte etrusca, considerata come parte del bagaglio artistico della latinità[62]; un argomento a sé è poi da considerarsi la città di Roma con i suoi dintorni[63]; infine, a rappresentare il sud Italia vengono deputati alcuni importanti siti campani e siciliani[64].
La «grande poesia della monumentalità»[65] delle vestigia romane presenti nel Mare nostrum e in certe zone del Vicino Oriente diventa, nelle mani del regime, uno strumento politico a doppio uso: tali evidenze archeologiche, in primo luogo, sono esibite come prove indiscutibili dell’antica presenza romana in un’area, al fine di motivarne e consolidarne lo status di colonia all’interno del Regno d’Italia e, successivamente, dell’Impero; in secondo luogo, esse vengono utilizzate come indizi per giustificare eventuali mire e interessi espansionistici in fieri o ancora da attuarsi. Così per esempio, a proposito di Gerasch, in Giordania, si ricorda il suo ruolo di «scoglio di antica ed illustre romanità nella desolata marea dell’Islam»[66]; Baalbeck o Heliopolis nell’odierno Libano, divenuta colonia di Roma nel I secolo, viene esaltata per l’imponente eppure elegante insieme di architetture dell’acropoli romana, definita «grandiosa, solenne, sconcertante»[67]. Ciarlantini, sempre parlando dell’area dell’antica Siria romana, scrive:

Ancora una volta, di fronte a questi documenti del nostro passato imperiale, si deve constatare che dovunque Roma si piazzava con le sue legioni e le sue leggi, solidificava nell’architettura i suoi caratteri, che sono quelli del comando, caratterizzati da una espressione di forza e di decisione. Ben di rado Roma è venuta a patti con l’atmosfera locale, o con la storia, o con i gusti preesistenti nel paese dove portava le insegne […], dovunque si scorgano rovine di Roma, splende la grande poesia della monumentalità. Quel senso cioè della grandezza, che rende l’edificio superbo, tramite quasi tra la terra e il cielo. L’amore della materia si nobilita nella grandiosità delle linee, si esalta nella solidità e imponenza della costruzione. Si penserebbe, a Baalbeck e a Palmyra e nelle altre località dell’Asia Minore, che Roma si fosse posto il compito di affermare la sua potenza nei confronti di altri grandi paesi dell’Oriente e dell’Africa, e specie dell’Egitto. Ecco perché alcune sue costruzioni sono forse più maestose di quelle che si trovano in Italia[68].

Numerosi articoli vengono dedicati, come si è anticipato, all’archeologia nelle colonie italiane della sponda mediterranea dell’Africa. Cirene ed i suoi scavi sono oggetto di due brevi scritti[69], nei quali toni retoricamente altisonanti, volti a esaltare l’operato della Roma antica e del fascismo, si alternano a frasi in cui traspare un certo sdegno razzista nei confronti delle popolazioni indigene; tra queste ultime bisogna probabilmente ricercare gli «speculatori orientali» che «alienarono ignominiosamente opere rare, permettendo ad incettatori dei resti della bellezza antica, di frugare le viscere provvide di questa terra romana»[70]; l’autore inoltre, per sottolineare la pochezza di tali popolazioni in confronto alla grandezza dell’Impero e delle sue vestigia, sottolinea come esse «col loro brulicare cencioso»[71] non rovinino comunque la bellezza del luogo, pur essendo tali indigeni dei «parassiti del passato», che «abitano le tombe scoperchiate, le grotte arcaiche, le minuscole catacombe della città naufragata»[72].
Particolare rilevanza assume poi un gruppo di articoli dedicati alle sistemazioni e agli scavi nell’area della Tripolitania italiana e riguardanti, in particolare, i siti archeologici di Leptis Magna, Ghirza, Sabratha e Gadàmes; anche in essi la storia e la celebrazione della Roma antica, nonché del moderno operato italiano, si alternano a note denigratorie sulla precedente dominazione turca e sulla popolazione locale. Particolarmente esemplificativo in proposito è il lungo articolo redazionale del febbraio del 1924: infatti, se da un lato Tripoli risorta[73] vuole essere un elogio dell’allora Governatore Conte Giuseppe Volpi di Misurata che, avvalsosi in parte della collaborazione dell’architetto Armando Brasini, aveva attuato un complesso programma di opere pubbliche volto a risanare la capitale della Tripolitania, dall’altro tale scritto si rivela pregno, in vari punti, di una forte componente razzista, caratterizzata peraltro da luoghi comuni tardo ottocenteschi di vena orientalista. L’affascinante esotismo della città pare nascere da un misto di pigrizia e superficiale bellezza, sotto le quali si nascondono in verità sporcizia fisica e morale. Si legge infatti:

Nulla all’infuori delle rovine ricorda la grandezza di questa terra che vide poi la sua più bassa decadenza sotto il dominio ottomano […]. Quando l’Italia, il 5 ottobre 1911, mise piede su queste sponde, non trovò che una borgata africana con tutte le impronte di un oriente sudicio e medievale, con tutte le malsane incrostazioni edilizie dell’epoca barbaresca che i turchi non seppero o non vollero distruggere. Non esisteva che l’effimero, illusorio biancore esterno delle case e sopra di esso il verde delle eleganti cupole stambuline. Dentro c’era il marcio d’una città chiusa gelosamente ad ogni soffio di benessere civile, c’era l’oscuro mistero d’un popolo mussulmano che vegetava nella sua accidia secolare, rintanato nelle casupole senza sole, e in giro per le viuzze buie, cintate e protette da un formidabile muraglione[74].

Il testo prosegue, secondo uno stereotipo ampiamente utilizzato nella letteratura di stampo narrativo-etnografico relativa alle città orientali[75], descrivendo Tripoli come una sorta di meretrice, una bellissima ma immorale odalisca pronta ad irretire i suoi visitatori:

Suggestiva e ingannatrice, Tripoli invitava con la lucentezza candida del suo volto incastonato nella corona smeraldina delle sue oasi e disilludeva con la laidezza del suo ventre[76].

Mentre un breve articolo redazionale del marzo del 1924 informa i lettori in merito alla particolare conformazione dei resti di alcuni mausolei con iscrizioni romane presenti a Ghirza[77], località sita a sud-ovest di Leptis Magna, Corrado Zoli, uomo di spicco della politica coloniale italiana[78], scrive un testo per l’appunto dedicato ai reperti archeologici ritrovati in quest’ultima città[79], fiorita in particolar modo sul finire del II secolo, quando l’imperatore Settimio Severo, leptitano d’origine, l’aveva arricchita di numerosi edifici. Lo stesso Zoli dà notizia degli scavi italiani a Sabratha[80], sito che, insieme a Leptis Magna e Oea, formava la Tripolis che aveva poi dato il nome alla regione: l’autore sottolinea l’importanza di questa località in quanto unica a possedere un anfiteatro ancora visibile in quella regione. Mentre un articolo redazionale a carattere etnografico, non privo tuttavia di accenni archeologici, è dedicato nell’agosto del 1924 alla cittadina tripolitana di Gadàmes[81], nel corso del 1925 vengono nuovamente date notizie in merito agli scavi a Leptis Magna e Sabrata[82] ; se della seconda vengono messi in risalto il tempio lì ritrovato e, nuovamente, l’anfiteatro, della prima colpisce soprattutto il folto gruppo di statue rinvenute nell’area delle Terme, sculture a cui infatti vengono successivamente dedicate due pagine di illustrazioni, corredate da un brevissimo redazionale[83] in cui si sottolinea l’importanza della campagna di scavi svolta a Leptis dal professor Bartoccini, avente «valore di affermazione nazionale»[84], nonché la romanità delle statue, tutte risalenti all’epoca imperiale. È da ricondursi probabilmente allo stesso Renato Bartoccini, Sopraintendente agli scavi in Tripolitania, l’articolo siglato “r.b.” che, nel 1928, fa nuovamente il punto a proposito delle scoperte avvenute a Leptis Magna[85]: in esso lo studioso sottolinea, tra le tante notizie, che i resti di quello che precedentemente era stato ritenuto il Palazzo Imperiale fatto realizzare da Settimio Severo, secondo quanto detto dallo storico bizantino Procopio, sono invece da attribuirsi all’area del foro, realizzato probabilmente da un imperatore della dinastia degli Antonini; particolare risalto viene dato inoltre ai resti della basilica severiana, di cui si ricordano i pilastri scolpiti ad alto rilievo collocati ai lati dei tribunalia. Interessante riscontrare che all’Esposizione Internazionale Coloniale di Parigi del 1931 l’Italia è presente con tre padiglioni, uno dei quali realizzato dal già citato architetto Armando Brasini. A proposito di quest’ultima struttura, che appare come una riproduzione della stessa basilica romana di Leptis Magna, viene scritto:

Di tutti i padiglioni sorti all’Esposizione, eccettuato il tempio di Angkor Vat della Francia, quello dell’Italia è il più originale, perché tutte le altre nazioni hanno adattato uno stile coloniale alle loro costruzioni anziché riprodurre fedelmente un insieme architettonico già esistente nelle loro colonie[86].

Una trilogia di articoli, firmata “E. M.” e apparsa nel 1938, mira invece a sottolineare con evidenti scopi propagandistici l’antica presenza romana in Tunisia, stato rientrante tra le mire espansionistiche italiane ma all’epoca soggetto al protettorato francese. Il primo di tali articoli è dedicato all’anfiteatro di El-Djem[87], l’antica Thysdrus prima cartaginese, poi romana; lo stato di rovina e di degrado del monumento, causato da varie vicissitudini, offre all’autore l’occasione per scrivere alcune righe di stampo razzista: tacciando di parassitismo le costruzioni arabe successive, l’articolista riesce ad esaltare per contrasto il rudere romano che, sopravvissuto alle varie epoche, risulta così un esempio ancor più valido dell’eterna e onnipresente forza dell’antico impero; si legge infatti:

Un bey di Tunisi, nel secolo XVII volle radere al suolo il Colosseo; ma tanta è la saldezza di quella costruzione che tutti i suoi sforzi si ridussero ad aprirvi non altro che una larga breccia. Così esso rimase: e tuttora si leva con la sua imponente mole sul villaggio che lo circonda, costruito quasi interamente con materiale tratto dalle sue mura. Quelle misere casupole son come piccoli funghi parassiti sorti alla base d’una quercia annosa e forte che sfida i tempi e le tempeste, meravigliosa opera, degna veramente di portare il sigillo di Roma[88].

Il secondo articolo è invece riservato alle rovine dell’antica Sufetula[89], cittadina romana ora non più esistente, poco distante dalla località araba di Sbeitla; di tale sito archeologico vengono ricordati l’Arco di trionfo in onore dei tetrarchi Diocleziano, Massimiano, Costanzo e Galerio, di cui si sottolinea la «sobrietà dotata d’una particolare fierezza che è propria delle costruzioni romane migliori»[90], quello di precedente fattura innalzato per l’imperatore Antonino, e tre templi, rispettivamente dedicati a Minerva, Giove e Giunone; il testo presenta una retorica conclusione inneggiante alla romanità del luogo. Il terzo ed ultimo scritto ha invece come oggetto i resti di Thaenae[91], antica città vicina all’importante località tunisina di Sfax; della presenza romana sono testimoni, in particolar modo, la necropoli e i mosaici rinvenuti nell’area delle terme, ricordati dallo scrittore come alcuni dei più belli allora conosciuti.
Anche in Marocco, soggetto all’epoca all’influenza francese, si palesano, attraverso le vestigia dell’antica Volubilis, le tracce di Roma: un breve articolo del 1935[92], ricordando i resti della basilica e dell’Arco di Caracalla, sottolinea l’ideale valore del sito, posto non nella fascia costiera ma nel «cuore del selvaggio paese che nessuno prima di Roma aveva mai domato»[93].

Passando ora alla presenza della romanitas e del dato archeologico nella grafica del periodico si nota che, tra i soggetti delle moltissime illustrazioni ispirate al recupero dell’immaginario collettivo sulla Roma antica, primeggiano quelli del fascio littorio e della personificazione dell’Italia. A proposito di quest’ultima, è bene ricordare come essa sia particolarmente presente nelle tavole realizzate da Mario Sironi[94], come ad esempio in quella dedicata a La Marcia su Roma[95], pubblicata nell’ottobre del 1924 a commemorazione dell’impresa mussoliniana svoltasi due anni prima: qui una gigantesca figura alata, con aspetto di statua dai tratti vagamente muliebri, plana al di sopra di un’anonima miriade di uomini, piccolissimi in confronto a lei e recanti un’asta con un grande tricolore; l’essere monumentale, puntando l’indice della mano destra, pare guidare la folla verso la meta, Roma, la cui presenza, appena accennata nel basso orizzonte, viene simbolicamente espressa da una piccola forma semiellittica verticale, rappresentante con ogni probabilità la cupola di San Pietro. Questa è la prima di una lunga serie di illustrazioni aventi come soggetto la personificazione dell’Italia[96], figura allegorica che, già impostasi nelle vignette satiriche realizzate dallo stesso artista per “Il Popolo d’Italia”[97], diverrà un vero e proprio leit-motiv sironiano[98] e non solo, materializzandosi sul foglio come una figura femminile alla quale, di volta in volta, vengono assegnati vari attributi, ciascuno dei quali legato a una simbologia e a una volontà comunicativa precisa. Gli elementi essenziali che la caratterizzano sono, come nel caso appena ricordato, la corona muralis, ossia una corona avente la forma di una cinta muraria, talvolta munita di torri[99], e la stella Veneris, una stella a cinque punte[100] posta anch’essa sul capo della figura[101]. La tradizione iconografica di tali elementi è antica e risale in parte all’epoca romana, tuttavia il primo caso in cui i due simboli vengono insieme accostati alla figura allegorica dell’Italia, creandone così la versione moderna e tramandata sino al Novecento, è rintracciabile nell’edizione del 1603 dell’Iconologia di Cesare Ripa[102]. È poi da aggiungere che, talvolta, l’iconografia dell’Italia turrita e stellata viene contaminata da quella di altre personificazioni come quelle di Roma, armata di spada[103], e della Vittoria, creazione allegorica anch’essa di derivazione classica, raffigurata con sembianze di giovane donna recante vari oggetti caratteristici, quali ad esempio una corona d’alloro o di ulivo, e dotata di ali[104]; proprio l’illustrazione sopra descritta rappresenta un caso di contaminazione tra Italia e Vittoria, attraverso la quale l’autore pare voler sottolineare l’esito trionfante dell’impresa[105].

L’altro indiscusso protagonista della grafica della testata è, come si accennava, il fascio littorio[106], ripreso anch’esso dalla tradizione romana e presente nelle illustrazioni sia come attributo dell’allegoria dell’Italia che come soggetto dotato di una certa autonomia[107], seppur sempre inserito in costruzioni iconologiche più complesse. La volontà di far coincidere l’Italia con il fascismo viene visivamente veicolata, di tanto in tanto, attraverso un simbolico accostamento, ossia quello del tricolore nazionale e del fascio littorio: tale accoppiata si ritrova, ad esempio, nella copertina futurista di Depero[108] del luglio 1924, in cui i colpi delle asce dei fasci generano scie di tricolore[109]; la medesima accoppiata, reinterpretata secondo una visione ben più sintetica e astratta, viene riproposta da Sironi in una copertina del 1930[110]. Damiano Damiani[111] è invece autore di tre tavole in cui il fascio littorio diviene protagonista, nonché vera e propria metafora dell’Italia fascista: nella tavola L’Italia di Mussolini[112] un imponente fascio fa le veci di una polena sulla prua di un’imbarcazione dai tratti antichi, la quale si impone monumentale su barchette di carta che, come si evince dalle scritte su di esse apposte, simboleggiano l’inconsistenza e l’irrilevanza delle «egemonie straniere», della «coalizione antitaliana» e delle «gelosie straniere»; La Marina d’Italia nel mondo[113] è invece rappresentata da una gigantesca ancora, in cui il fascio littorio diviene la parte del fuso, che con la sua catena avvolge un mappamondo. In La porta, il chiavistello e…l’invidia[114], tavola satirica che celebra la firma dei Patti Lateranensi, il fascio è raffigurato con funzione di poderoso chiavistello; esso permetterà alla piccola Italia, presente questa volta sotto forma di personificazione, di chiudere un portone, sbattendo letteralmente fuori un altro personaggio. Osservando con attenzione la scena si nota che sulla grande porta è impresso uno dei simboli dello stemma pontificio, ossia le due chiavi incrociate, mentre la figura che sta per essere cacciata ha nella destra un viluppo di serpenti, dato che la caratterizza come personificazione dell’Invidia; inoltre, volendo azzardare un’ulteriore ipotesi di lettura, è da notare che l’Invidia parrebbe indossare un berretto frigio, tipico accessorio connesso alla simbologia della Rivoluzione francese e solitamente attribuito alla Marianne, la personificazione della Francia rivoluzionaria spesso presente anche nella grafica d’impronta satirica. Dunque, si potrebbe vedere in questa figura non la semplice rappresentazione di un Vizio, ma quella di una piccola Francia che, divenuta laica in nome dei principi rivoluzionari e rimasta così distante dalla Chiesa, cede all’invidia per il successo diplomatico mussoliniano e per il ritrovato accordo italiano con la Santa Sede.
Fasci littori accuratamente delineati sono poi ritracciabili in due copertine dei primi anni Trenta realizzate da Enzo Bifoli[115]; nella sua grafica per il numero di novembre del 1931[116] un gigantesco fascio, in cui sono ben distinguibili ascia, verghe e nastri, sorge sulla sagoma dell’Italia proprio sopra al punto in cui si trova Roma, facendo scaturire una sorta di fascio luminoso sul quale campeggia la sigla romana S.P.Q.R.: l’immagine vorrebbe dunque simboleggiare l’ideale continuità tra la Roma antica e quella fascista, entrambe investite di una missione civilizzatrice e illuminante nei riguardi delle altre popolazioni, soprattutto africane per quel che riguarda la Roma mussoliniana, verso le quali il fascio sembra appunto diretto. Una rappresentazione di fasci marmorei è invece presente nella copertina che Bifoli realizza per il numero di aprile del 1932[117], ove il simbolo romano si sostituisce agli elementi colonnari di una facciata architettonica la quale, con la sua slanciata struttura marmorea, fa da sfondo ad una svettante Italia personificata che, riconoscibile dalla corona muralis, alza le braccia al cielo esibendo nella sinistra una scure. Sempre di Bifoli è un’opera pittorica riprodotta in bianco e nero nel numero di giugno del 1936: Dopo la vittoria il lavoro[118] è evidentemente dedicata al recente successo italiano in Etiopia e alla conseguente nascita dell’Impero, bisognoso in quei luoghi di uomini per la realizzazione di infrastrutture e opere di ammodernamento; nell’immagine una statuaria personificazione dell’Italia, impugnante un gladio nella sinistra, pare incitare con gesto perentorio un gruppo di uomini in camicia nera che, muniti di badili, si avviano al lavoro protetti dalla luce emanata da un grande stellone d’Italia e dalla presenza di un enorme fascio stilizzato.

La resa grafica della romanitas e dei suoi simboli appare dunque stilizzata e moderna in alcuni casi, mentre in altri si fa necessariamente più descrittiva e aderente al reale, ispirata in maniera assai più concreta e puntuale al dato mitico-archeologico, sia esso un oggetto, un frammento o l’intera sagoma di un monumento. Molti disegnatori inoltre, seguendo in ciò l’idea mussoliniana di Roma fascista quale erede della Roma imperiale, cercano di abbinare e conciliare nelle loro tavole elementi ripresi dall’antico, siano essi statue, strutture architettoniche o personaggi, con soggetti della moderna era fascista. Simboli dell’impero, o di un più vago passato antico, sono poi utilizzati all’interno delle illustrazioni che glorificano le moderne conquiste del fascismo, ideali o militari che siano. Insegne romane si ritrovano, ad esempio, in grafiche celebranti le contemporanee vittorie belliche; così, su una porzione di mappamondo richiamante il Corno d’Africa, Damiano Damiani, a conclusione della campagna in terra etiope, allegorizza il successo fascista raffigurando un’insegna con un’aquila imperiale e un serto di lauro. Essa, dotata fra l’altro di un vessillo sul quale si legge il noto motto hic manebimus optime, appare piantata su una pelle di leone e viene accompagnata da un gladio, posto a terra quasi nell’atto di mozzare il capo dell’animale: la Roma mussoliniana ha dunque conquistato l’Etiopia negussita, il Leone di Giuda, emblema ed emanazione ferina di Hailé Selassié, è stato vinto dal gladio, arma simbolo della potenza latina[119].
Già in alcune copertine del primo anno di stampa della testata, firmate da Guido Marussig[120] e improntate ancora al gusto secessionista, si innesta un certo classicismo di immagini e simbologie latine. Nella copertina del numero di novembre-dicembre del 1923[121] l’artista, con una fine ed essenziale scelta cromatica, crea un disegno privo di mezzi toni e basato su una linea che, per quanto sintetica, ne riflette l’accattivante stile decorativo[122]. Su fondo bianco campeggiano, oltre al titolo della rivista realizzato in marrone purpureo, alcuni simboli della Roma imperiale, realizzati con uno squillante giallo dorato: due sottili e alte colonne corinzie inquadrano un fascio littorio che, a sua volta, funge da colonna atta ad innalzare una Vittoria alata che, con entrambe le braccia, solleva al cielo serti di alloro. La stessa rappresentazione della Vittoria, poggiante questa volta su un globo, è presente in una copertina realizzata da Marussig nel 1924[123]: la statuetta benaugurante è qui però sorretta dalla mano destra di una monumentale dea Roma; tale figura, dotata di lancia, scudo ed elmo attico sormontato da una sfinge centrale fiancheggiata da due grifi, sembra ispirarsi in parte a quella presente nell’edicola centrale dell’Altare della Patria, posta a vegliare la tomba del Milite Ignoto, in parte alla famosa statua crisoelefantina di Fidia, di cui si hanno notizie solamente tramite la descrizione di Pausania nella Periegesi e attraverso alcune modeste copie.

Anche la Lupa, altro emblema della romanità particolarmente ripreso durante il Ventennio, ricorre più volte nella rivista, sia in riproduzioni fotografiche che in illustrazioni; per esempio in un’altra copertina, realizzata da Marussig nel 1924[124], campeggia una nave da guerra romana, riconoscibile dal rostro bronzeo e, soprattutto, dalla vela recante l’immagine della Lupa capitolina. Nella tavola intitolata Nel segno di Roma l’Italia costruisce[125] e firmata da Reggio[126], l’antico bronzo è posto su uno sfondo di capannoni industriali sui quali svettano altissime ciminiere, ognuna delle quali funge da asta per il tricolore italiano: il disegnatore riesce così a comunicare l’idea di un’armonica congiunzione dei concetti di antica nobiltà latina e moderno progresso italiano. In Roma ponte di civiltà tra i popoli[127], del 1934, Damiani innalza la Lupa sul mare e, appoggiandola su due blocchi tra loro distanziati recanti ciascuno una raffigurazione di parte dell’Eurasia, la trasforma proprio in un “ponte” che unisce i due continenti. Invece, in una copertina[128] del medesimo anno, la Lupa è posta a segnalare Roma sulla sagoma della penisola, facendo da sfondo alla lunga fila di camicie nere che marciano verso la Sicilia e, più genericamente, verso sud, quasi a suggerire ancora una volta la forte vocazione espansionistica del regime nei riguardi dei territori africani. Nella tavola Il destino d’Europa[129] di Damiani, realizzata poco dopo la proclamazione dell’impero per il numero di giugno del 1936, la Lupa appare come decorazione di un portone blindato, la cui massiccia struttura è emblema della neopotenza coloniale italiana a cui tutta l’Europa sanzionista dovrà piegarsi, al pari della sua misera personificazione che mestamente bussa al poderoso uscio. La figura ha gli occhi coperti da una benda, stante forse ad indicare la ‘cecità’ europea dinnanzi alla forza italiana[130] o, più semplicemente, utilizzata come elemento volto ad accentuarne il malconcio aspetto causato dai postumi della battaglia; il personaggio reca inoltre con sé una spada usurata e sbeccata, a simboleggiare la sua sconfitta, e un’asta su cui è montata la sagoma di una colomba, che allude alla resa e alla volontà di intraprendere un’azione pacificatrice, lasciandosi alle spalle la questione delle sanzioni, il cui atto di proclamazione appare gettato al vento in mille pezzi. Sempre Damiani utilizza infine la sagoma della Lupa come simbolo della stirpe latina in una tavola a forte contenuto razzista: Difesa della razza[131] è pubblicata nel numero di settembre del 1938, esattamente un mese dopo l’uscita del primo numero dell’omonima rivista di Interlandi; nell’immagine si vede un braccio nerboruto che sostiene uno scudo per difendere la Lupa e i gemelli, simbolo della razza italiana e dei suoi nascituri, dall’attacco di un pipistrello, animale che all’epoca veniva continuamente associato, specie nelle tavole e nella satira a sfondo razzista, alla popolazione ebrea.

Il frammento archeologico, evocativo di una vaga classicità romana, è parimenti un soggetto presente in alcune copertine e tavole della rivista, specie negli anni Trenta. Particolarmente interessante è un’illustrazione realizzata da Buzzi[132] per il numero di giugno del 1934: in Sintesi[133] il disegnatore immagina che in mezzo a resti di colonne e capitelli antichi si innalzi, solida e possente, una sorta di moderna colonna istoriata che, al pari di quanto avviene sulle colonne imperiali di Traiano e di Marco Aurelio, commemori i trionfali successi di Roma e di Mussolini. Partendo dalla base del pilastro sono riconoscibili alcuni simboli riecheggianti l’antica capitale, quali i Fori, le insegne militari dell’Urbs, la statua di Augusto nelle vesti di pontifex maximus, il Colosseo, l’Arco di Costantino, la Lupa Capitolina, la statua vaticana di Cesare Augusto e la statua equestre di Marco Aurelio; nella zona superiore della colonna sono invece raffigurati emblemi e imprese della Roma fascista, quali, per esempio, la fondazione della città di Sabaudia, il varo del transatlantico Rex, l’obelisco dedicato a Mussolini-dux nell’allora Foro Mussolini, oggi Foro Italico, gli aerei dell’aviazione italiana, il profilo a tre quarti del duce, il fascio littorio, una Vittoria alata e la facciata principale della Mostra della Rivoluzione Fascista, progettata nel 1932 dagli architetti De Renzi e Libera e caratterizzata, come ricorda Margherita Sarfatti, dalle «linee verticali – linee di ascensione, linee di dominio, di audacia, d’impero e d’azione – dei giganteschi fasci in metallo fra cui si apre la lucida volta metallica dell’ingresso»[134]. Il messaggio che l’autore vuole far trasparire è, ancora una volta, quello della continuità tra passato e presente: le vittorie del regime poggiano sui miti e sulle conquiste dell’antico impero, e Mussolini è il nuovo capo che, avendo guidato la nazione verso tali successi, merita di vedere narrate le proprie imprese al pari di un princeps della Roma imperiale. Un frammento di trabeazione, istoriato con motivi georgici e bucolici, riaffiora invece dal terreno del tranquillo paesaggio campestre di Ruggero Michahelles[135], posto a copertina del numero di novembre del 1936[136]; stilizzate colonne dal fusto scanalato appaiono, come vestigia in attesa di essere riscoperte, sulla spiaggia di una costa che sta per essere raggiunta da navi militari, probabilmente italiane, nella copertina di Buffoni[137] del marzo del 1937[138]; Broggini[139], per la copertina dell’agosto del 1937, immagina resti di abbozzate colonne ioniche in attesa di essere scoperte e apprezzate, al pari della nuda figura femminile adagiata vicino ad esse, da un paracadutista che sta per poggiare i piedi su un’azzurra pianura, forse un mare[140]; un arco di trionfo, sopra al cui unico fornice si libra una figura femminile con un serto di alloro in mano, interpretabile quindi come una Vittoria, riceve un corteo di antiche insegne romane: questa copertina, realizzata per l’edizione di giugno del 1939[141], è forse un omaggio alla recente vittoria italiana in Albania, il cui territorio era stato annesso all’impero fascista appena due mesi prima.

Antichi romani, legionari e soldati fascisti si alternano, in un continuo gioco di scambi e rimandi tra passato e presente, in varie immagini: per il primissimo numero della rivista, quello dell’agosto del 1923, Marcello Dudovich[142] crea una copertina [143] che, in primo piano, mostra la possente e protettiva figura di un centurione che sostiene una donna, forse l’Italia, mentre sullo sfondo si intravvedono, in piccolo, moderne ciminiere fumanti; il profilo di un legionario si affaccia invece da una cortina di spade nel disegno sironiano dedicato alla frase mussoliniana LA PACE È ALL’OMBRA DELLE SPADE[144]. Anche Buffoni nelle sue tavole dedicate alla gioventù fascista inserisce, grazie all’uso del collage, generiche figure della romanità, affinché siano di monito alle nuove leve del regime e ispirino loro i valori etici del mos maiorum: così nella tavola intitolata ai balilla introduce, oltre ad un’insegna militare romana, una piccola scena di sapore classico, quasi una miniatura tratta da un antico cammeo, in cui giovani nudi si esercitano nella lotta[145]; per la grafica dedicata alle giovani fasciste l’artista riprende, invece, la sagoma della statua di una matrona latina, mentre in quella dedicata agli avanguardisti inserisce un centurione armato di scudo e protetto dall’insegna dell’aquila imperiale[146]. Un centurione romano, i cui piedi poggiano sulle coste africane, è anche il soggetto della copertina realizzata da Franco Rognoni[147] per il numero di gennaio del 1943[148].

I monumenti principali dell’Urbs, come il Colosseo, l’Arco di Costantino e le colonne imperiali, sono parimenti soggetti fondamentali per i disegnatori della rivista. Ruggero Michahelles, nel 1933, raffigura un soldato fascista nello scenario di una surreale Roma antica[149]: la camicia nera, resa di spalle, è intenta ad onorare col saluto fascista non il dux contemporaneo, ma l’effige scultorea di un imperatore romano il cui disegno, probabilmente, si ispira alla statua bronzea di Traiano posta in Via dei Fori Imperiali; fa da sfondo alla scena una sintetica ma ben identificabile versione dell’Arco di Costantino, dal cui fornice centrale si intravede parte del Colosseo. Risulta evidente il tono allusivo della composizione: Mussolini non viene direttamente raffigurato ma, essendo egli l’ideale continuatore moderno della lunga serie di imperatori-duces, la sua presenza è comunque evocata dalla statua raffigurante un suo predecessore; ancora una volta viene così sottolineata la continuità tra la Roma latina e la Roma fascista. Bruno Munari[150] rende invece omaggio all’Anfiteatro Flavio nella copertina dell’aprile del 1936[151]: essa, come parte della rivista, pare essere dedicata al cosiddetto Natale di Roma, festività laica ricollegabile al mito della fondazione dell’Urbs che la tradizione vuole sia avvenuta il 21 aprile del 753 a.C.[152]; durante il Ventennio, nel medesimo giorno, viene celebrata anche la Festa dei lavoratori. La copertina di Munari sintetizza le due ricorrenze con una semplice ma efficace simbologia: su un cielo azzurro, puntellato da nuvolette, si delinea la grigia sagoma del Colosseo, evocativo della Roma antica, mentre in primo piano si staglia un’alta ciminiera in mattoni rossi sulla quale, oltre ad essere presente un piccolo fascio stilizzato, sventola il tricolore italiano. Sembra quasi che la costruzione in laterizi venga qui utilizzata non solo come simbolo della moderna Italia lavoratrice, ma anche come emblema della rinnovata forza della nazione, imponendosi essa nella composizione quasi come una stele dell’era contemporanea, alludendo così alla prassi imperiale romana dell’uso degli obelischi a simbolo di potenza e di grandezza. Risulta poi particolarmente esemplare dell’intreccio tra romanità, colonialismo ed archeologia la copertina che Alberto Salietti[153] realizza per il numero di maggio-giugno del 1937[154]; anch’essa ha un evidente scopo celebrativo, volto a festeggiare il primo anniversario della proclamazione dell’impero: mentre un’indistinta miriade di persone sbandieranti dei tricolori si ammassa sul lato destro dell’immagine ai piedi dell’Anfiteatro Flavio, presente ancora una volta sullo sfondo, quasi in primo piano si affaccia, nuovamente, l’Arco di Costantino, il cui fornice centrale incornicia piccolissime sagome umane. Queste ultime, divise in squadroni, marciano in una parata militare: tra i gruppi è ben distinguibile quello degli ascari, i soldati eritrei con fez rosso e uniforme bianca che nella guerra di Etiopia avevano affiancato le truppe coloniali italiane[155]. Ciò che invece si impone in primissimo piano è la slanciata raffigurazione di un obelisco: l’immagine di questa stele, però, potrebbe non riferirsi a una delle tante già presenti a Roma, bensì alludere all’ultima conquista dell’esercito mussoliniano; osservando con attenzione, è possibile scorgere nel disegno una raffigurazione semplificata, e arbitraria per quanto riguarda la sommità, dell’obelisco di Axum che, ritrovato dai soldati italiani in terra etiope sul finire del 1935, fu sezionato, trasportato e poi rimontato nella capitale d’Italia nell’ottobre del 1937 per commemorare il XV anniversario della Marcia su Roma[156]. L’illustrazione pare dunque alludere alla potenza dell’impero fascista che, al pari di quello romano, testimonia la propria vittoria esibendo pubblicamente un bottino di guerra che è, al tempo stesso, un reperto archeologico.
Il mito di Roma e della sua fondazione permangono sino all’ultimo nella rivista che, nel numero di maggio del 1943, festeggia la già citata ricorrenza del 21 aprile iniziando la sua terzultima edizione con un breve e anonimo articolo dedicato a due simboli del potere imperiale, la Colonna Traiana e la Colonna Antonina, o di Marco Aurelio[157]. A proposito dei bassorilievi delle due opere vengono messi in evidenza due specifici soggetti, ossia l’imperatore e il suo esercito. La scelta di riferire in merito alle scene belliche è evidentemente dettata dalla situazione contemporanea: così, parlando dell’imperatore Marco Aurelio, che ha sempre «un atteggiamento di nobiltà sovraumana», e del suo esercito, che è «valoroso e magnanimo»[158], l’anonimo articolista sembra volersi riferire, velatamente, a Mussolini e all’esercito italiano. Tale parallelismo tra presente e passato pare essere ancor più avvalorato da un gruppo di tavole sironiane[159] che, anteposte all’articolo, sembrano ispirarsi al suo contenuto; esse sono dedicate alla duplice ricorrenza avvenuta nel mese precedente l’edizione, ma in questo caso il mito della fondazione di Roma e la Festa del Lavoro si mescolano alla tematica della guerra: sotto la scritta 21 aprile stilizzate sagome di lavoratori, riconoscibili dai martelli che recano con sé, appaiono schierati in riga nella parte superiore della pagina illustrata, mentre sotto di loro è raffigurato uno scuro cannone; nella tavola seguente, ove ricorre il simbolo del martello su cui è inoltre apposta una sottile fascia con i colori della bandiera nazionale, si impone un interessante ritratto del duce che, in divisa nera, scruta con sguardo corrucciato il lettore. È da notare che l’immagine di Mussolini, pur apparendo severa e autoritaria nella parte del volto, richiamando dunque la «nobiltà sovraumana» degli imperatori, sembra mostrare i segni di debolezza e progressiva perdita di potenza nella resa del corpo, piccolo ed esile rispetto al capo, e della postura della figura, ove il gesto di chiusura delle braccia comunica un senso di attesa e quasi di difesa. L’ultima tavola, relativa a una scena equestre, rappresenterebbe il trait d’union tra il gruppo di illustrazioni sironiane e l’anonimo testo relativo alle colonne imperiali, riprendendo essa il medesimo soggetto, ossia dei cavalieri romani, di una delle fotografie a corredo dello scritto, raffigurante un particolare della Colonna Antonina con equites in battaglia.

Da quanto si è potuto osservare risulta evidente, ancora una volta, il fondamentale valore comunicativo dell’immagine e la sua attenta strumentalizzazione da parte del fascismo. Come osserva Laura Malvano «la ripetitività, e la frequenza dell’immagine-simbolo faceva sì che, al di fuori di una lettura culturale, fasci, aquile, colonne, archi trionfali, agissero sul pubblico con un rapporto percettivo immediato e primario, analogo a quello dello slogan pubblicitario»[160]. Il regime dunque, sfruttando il mezzo della carta stampata, diffonde i simboli e i valori della romanitas, trasformando talvolta i periodici illustrati in veri e propri bacini iconografici per una cultura popolare dell’antico, rivisitato e riproposto attraverso modalità rappresentative più accessibili e pedagogiche, ma non per questo prive di fascino e suggestione.

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1 A. Mussolini, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. I, n. 1, agosto 1923, p. 1.

2 Diplomatosi alla scuola agraria di Cesena, Arnaldo Mussolini (Dovia di Predappio, 1885-Milano, 1931) diviene insegnante e segretario comunale di Predappio. Al termine del primo conflitto mondiale, al quale partecipa, si trasferisce a Milano dove, succedendo a Manlio Morgagni, diviene direttore amministrativo de “Il Popolo d’Italia”, quotidiano fondato dal fratello. Nel 1922, con l’ascesa di Benito alla carica di Presidente del Consiglio, eredita la direzione del quotidiano rimanendo fedele alle linee politiche del fratello, che asseconda totalmente pur mitigandone alcuni eccessi. Fra il 1923 e il 1927 si dedica all’attività di giornalista e a varie iniziative editoriali, dando vita ad un giornale per i Balilla, a “La Domenica dell’Agricoltore”, a “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che fonda con Manlio Morgagni, alla “Illustrazione Fascista”, a “Il Bosco” e “Historia”, pur mantenendo il proprio ruolo di direttore de “Il Popolo d’Italia”. Nel 1930 fonda a Milano la scuola di mistica fascista, con l’obiettivo di far rivivere l’anima del Fascismo dei primi anni del movimento per consegnarlo idealmente alle generazioni successive. Muore improvvisamente a Milano, per un attacco cardiaco, a soli 46 anni. Cfr. G. Albanese, ad vocem Mussolini Arnaldo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. LXXVII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 549-554. Per un approfondimento sulla vita di Arnaldo Mussolini, trattata in relazione alla figura del fratello Benito, si veda M. Staglieno, Arnaldo e Benito. Due fratelli, Mondadori, Milano 2003.

3 Manlio Morgagni (Forlì, 1879-Roma, 1943). Manifesta le proprie inclinazioni politiche dapprima verso il socialismo sindacale, schierandosi poi nel 1914 a favore dell’ala interventista, convinta della necessità della partecipazione italiana all’evento bellico. Intraprende la carriera giornalistica iniziando nel quotidiano “Il Popolo d’Italia”, fondato da Benito Mussolini, con il quale intrattiene forti legami di amicizia e stima. Successivamente diviene direttore amministrativo del quotidiano. Nel 1919, essendo a lui subentrato Arnaldo Mussolini in qualità di direttore, Morgagni si dedica alla raccolta pubblicitaria. A Milano ricopre le cariche di consigliere comunale (1923-1926) e vicepodestà (1927-1928), nonché quella di presidente della Commissione per l’abbellimento della città. È cofondatore, con Arnaldo Mussolini, e direttore, della “Rivista illustrata del Popolo d’Italia”; fonda inoltre la rivista agraria “Natura” (1928). È soprattutto noto come presidente e direttore generale dell’Agenzia Stefani, da lui rinvigorita e potenziata durante il Ventennio. Si toglie la vita, nel 1943, alla notizia dell’arresto del Duce. Cfr. M. Forno, ad vocem Morgagni Manlio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. LXXVI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 748-750. Per quanto riguarda la figura di Manlio Morgagni, i suoi rapporti con Mussolini e il suo ruolo all’interno del regime si veda R. Canosa, La voce del duce. L’agenzia Stefani: l’arma segreta di Mussolini, Mondadori, Milano 2002. Si veda inoltre Manlio Morgagni fotografo: l’uomo e il gerarca, a cura di B. Micheletti e G. Ragusini, Grafo, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia 2004.

4 Il primo numero della rivista esce nell’agosto del 1923, seguito successivamente da altri due numeri che ricoprono, rispettivamente, il bimestre settembre-ottobre e il bimestre novembre dicembre. Dal 1924 la rivista diviene mensile. La pubblicazione de “Il Popolo d’Italia” viene sospesa il 26 luglio1943 e, di conseguenza, anche la rivista ad esso collegata cessa di esistere in tale data.

5 M. Morgagni, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. I, n. 1, agosto 1923, p. 2.

6 Ibidem.

7 Ibidem.

8 Ibidem.

9 Ibidem.

10 Ibidem.

11 Tra i disegnatori di copertine si possono ricordare, a titolo d’esempio, i nomi di Mario Bazzi, Enzo Bifoli, Luigi Broggini, Gigi Brondi, Bramante Buffoni, Erberto Carboni, Dario Cella, Damiano Damiani, Fortunato Depero, Marcello Dudovich, Bepi Fabiano, Paolo Garretto, Guido Marussig, Giaci (Giacinto) Mondaini, Bruno Munari, Negrin, Marcello Nizzoli, Mario Pompei, Pino Ponti, Enrico Prampolini, RAM (Ruggero Alfredo Michahelles), Franco Rognoni, Alberto Salietti, Santambrogio, Aligi Sassu, Primo Sinòpico (Raoul Chareun), Mario Sironi, Atanasio Soldati, Sto (Sergio Tofano), Nino Strada, Tato (Guglielmo Sansoni).

12 M. Morgagni, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, p. 2.

13 Ibidem.

14 Ibidem.

15 Dal luglio del 1927 sino al luglio del 1941 viene dedicata alla moda una vera e propria rubrica, dal titolo La pagina delle signore, firmata da Mantica Barzini. Anche queste pagine seguono, il più delle volte, la condicio sine qua non della rivista, ossia il fatto di essere illustrate; se agli inizi le firme e gli stili degli illustratori sono assortiti, si trovano infatti prima la firma di Elisa Dudovich, ritracciabile sino all’aprile del 1924, e poi quella di Nina Orlandini, presente sino all’agosto del 1926, già nell’ultimo numero del 1924 appare la grafica di Bepi Fabiano, che con i suoi rapidi disegni accompagnerà stabilmente la rubrica sino all’ottobre del 1937, lasciando poi il posto ad altri quali, ad esempio, Nino Strada, Franco Rognoni, Spartaco Greggio, Emma Barzini.

16 Molti sono gli autori di tali novelle, tuttavia, anche se a causa della loro fama sarebbe ovvio citare solamente nomi come quelli di Margherita Sarfatti, Massimo Bontempelli, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Comisso, Ada Negri, Fortunato Depero e Lorenzo Viani, si desidera menzionare, in questa sede, anche i nomi di autori che, pur non essendo altrettanto noti, risultano in verità essere i più presenti e prolifici nell’ambito delle pagine riservate dalla rivista alla novellistica; a titolo d’esempio, rimarcando il fatto che le firme sono ancor più numerose di quelle qui elencate, si ricordano i nomi di Rodolfo Gazzaniga, Valentino Piccoli, Attilio Rovinelli, Dante Dini, Ezio Camuncoli, Bino Sanminiatelli, Arrigo De Angelis, Daisy di Carpenetto, Fulvia, Pia Rimini.

17 Sironi sembra avere una quasi totale esclusiva, tranne in sporadici casi in cui si possono trovare i nomi di altri illustratori, alcuni dei quali di evidente rilievo, quali ad esempio Fortunato Depero, che scrive e illustra alcune novelle, come nel caso di Realtà ed irrealtà del sogno nel numero di gennaio del 1932; nell’ultimo periodo della rivista si fa poi sempre più presente l’opera di Franco Rognoni, il quale va ad affiancare Sironi soprattutto per quanto concerne la grafica satirica e di argomento politico, anche se la sua firma si ritrova talvolta nell’illustrazione dei racconti, come nel caso della novella di L. Piccoli, L’annuncio, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XIX, n. 3, marzo 1941, pp. 30-32. Altri illustratori di novelle sono, ad esempio, Mario Vellani Marchi, Nino Strada, Luigi Bompard.

18 Per quanto riguarda gli scritti d’arte è da precisare che Sironi li firma in tre modalità diverse, utilizzando talvolta la sigla “S.”, talaltra la sigla “M. S.”, anche se nella maggior parte dei casi la firma viene posta per esteso, evitando così la confusione generata dalle sigle abbreviate. Per i testi sironiani si veda il fondamentale volume Mario Sironi. Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca, Feltrinelli, Milano 1980. Si riportano qui di seguito, in ordine cronologico, gli articoli di Sironi presenti nella rivista: M. Sironi, Il padiglione italiano alla “Pressa” di Colonia, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. VI, n. 8, agosto 1928, pp. 12-16; Idem, Arte ignota, ivi, a. XII, n. 3, marzo 1934, pp. 27-34; Idem, Mal sottile, ivi, a. XII, n. 6, giugno 1934, pp. 25-32; Idem, Pittura in mostra, ivi, a. II, n. 7, luglio 1934, pp. 27-32; Idem, Uno scultore. Arturo Martini, ivi, a. XII, n. 8, agosto 1934, pp. 33-40; Idem, Cattedrali italiche, ivi, a. XII, n. 9, settembre 1934, pp. 49-56; Idem, Monumentalità fascista, ivi,a. XIII, n. 11, novembre 1934, pp. 84-93; Idem, II Quadriennale d’arte nazionale, ivi,a. XIII, n. 2, febbraio 1935, pp. 31-39; Idem, Racemi d’oro, ivi, a. XIII, n. 3, marzo 1935, pp. 33-41; Idem, Tiziano, ivi, a. XIII, n. 5, maggio 1935, pp. 41-48; Idem, Correggio, ivi, a. XIII, n. 6, giugno 1935, pp. 31-39; Idem, Terra di Pisa, ivi, a. XIII, n. 8, agosto 1935, pp. 27-35; Idem, Templi, ivi, a. XIV, n. 12, dicembre 1935, pp. 31-39; Idem, Antelami, ivi, a. XIV, n. 2, febbraio 1936, pp. 39-47; Idem, Secolo undecimo, ivi, a. XIV, n. 9, settembre 1936, pp. 31-39; Idem, Melozzo, ivi, a. XV, n. 3, marzo 1937, inserto tra p. 44 e p. 45; Idem, Arte e tecnica alla mostra “Schaffendesvolk” a Düsseldorf, ivi, a. XVI, n. 11, novembre 1937, pp. 79-85; Idem, Affreschi del Battistero di Castiglione Olona, ivi, a. XVI, n. 12, dicembre 1937, pp. 33-41; Idem, Il volto, ivi, a. XVI, n. 3, aprile 1938, pp. 33-42; Idem, La terza Quadriennale d’arte di Roma, ivi, a. XVII, n. 3, marzo 1939, pp. 42-49.

19 Nel primo biennio è presente, seppur in maniera discontinua, una sorta di rubrica dal titolo Movimento artistico all’estero; essa è per lo più dedicata all’arte italiana all’estero ed è firmata da Armando Giacconi; nel numero di giugno del 1924 il titolo diviene Arte all’estero, mentre nel febbraio del 1925, ultimo numero in cui compare la firma di Giacconi, varia in L’arte italiana all’estero. Si vedano poi altri esempi dedicati al panorama estero, sia presente che passato, quali: F. Ciarlantini, Visita al Mauritshuis, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. IX, n. 5, maggio 1931, pp. 39-43; Idem, Fratellanza d’arte italo fiamminga, ivi, a. IX, n. 8, agosto 1931, pp. 37-41; Idem, Città olandesi: Amsterdam, ivi, a. X, n. 2, febbraio 1932, pp. 51-57; Idem, Impressione di Delft, ivi, a. X, n. 4, aprile 1932, pp. 50-53; Idem, Il “Contrabbandiere” di Franz Hals, ivi, a. XI, n. 6, giugno 1933, pp. 44-45; Idem, Vita d’arte nel nord America, ivi, a. XI, n. 4, aprile 1933, pp. 51-56; A. Cottafavi, Il Giappone artistico, ivi, a. VI, n. 7, luglio 1928, pp. 31-38; Idem, L’esposizione delle pitture giapponesi a Roma, ivi, a. VII, n. 7, luglio 1930, pp. 49-53; S. B., La moderna pittura turca, ivi, a. XV, n. 1, gennaio 1937, pp. 38-41.

20 M. G. Sarfatti, Artisti nuovi: Ubaldo Oppi, ivi, a. II, n. 11-12, novembre-dicembre 1924, pp. 36-40; Eadem, Pittori d’oggi. Achille Funi, ivi, a. III, n. 12, dicembre 1925, pp. 36-40; Eadem, Mario Sironi, ivi, a. IX, n. 3, marzo 1931, pp. 35-40.

21 M. G. Sarfatti, Dove va l’arte d’Italia, ivi, a. II, n. 4, aprile 1924, pp. 46-51; Eadem, Gli stranieri alla XIV Biennale di Venezia, ivi, a. II, n. 6, giugno 1924, pp. 30-34; Eadem, Alla XV Biennale di Venezia, ivi, a. IV, n. 6, giugno 1926, pp. 44-49; Eadem, La XVI Biennale di Venezia, ivi, a. VI, n. 6, giugno 1928, pp. 38-48; Eadem, Gli stranieri alla XVI Biennale. Scuola di Parigi e pittori francesi a Venezia, ivi, a. VI, 8 agosto 1928, pp. 36-40; Eadem, La diciottesima Biennale a Venezia, ivi, a. X, n. 6, giugno 1932, pp. 37-45; M. Sironi, Pittura in mostra…, pp. 27-32 (relativo alla XIX Biennale); A. Maraini, Il ritorno dell’arte alla vita nella XX Biennale di Venezia, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XIV, n. 6, giugno 1936, pp. 31-36; F. Pertile, La Biennale di guerra,ivi, a. XX, n. 8, agosto 1942, pp. 41-45.

22 Si danno qui gli estremi degli articoli dedicati sia alla Biennale di Monza che alla Triennale di Milano, essendo la prima il punto d’inizio per la seconda: M. G. Sarfatti, La sincerità, lo stile e l’arte, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. I, n. 1, agosto 1923, pp. 33-35; Eadem, Le Arti Decorative a Monza, ivi, a. III, n. 7, luglio 1925; Eadem, Le Mostre di Monza e Como. 1927-Anno quinto, ivi, a. V, n. 9 settembre 1927, pp. 32-39; Eadem, Triennale e pittura murale a Milano, ivi, a. XI, n. 6, giugno 1933, pp. 31-39; D. Dini, La Mostra storica del giornalismo alla Triennale, ivi, a. XI, n. 10, ottobre 1933, pp. 35-41; F. Francavilla, L’arte della nuova Italia alla sesta Triennale, ivi, a. XIV, n. 6, giugno 1936, pp. 37-45; E. Prampolini, Scenotecnica nazionale e internazionale alla Triennale, ivi, a. XIV, n. 7, luglio 1936, pp. 37-40; La VII Triennale di Milano, ivi, a. XVIII, n. 5, maggio 1940, pp. 81-85.

23 Si danno, anche in questo caso, gli estremi degli articoli dedicati sia alle Biennale di Roma che alla successiva Quadriennale, essendo la prima l’incipit della seconda: M. G. Sarfatti, Gli stranieri alla Biennale di Roma, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 3, marzo 1924, pp. 39-41; Eadem, Pittori e scultori alla terza Biennale in Roma, ivi, a. III, n. 4, aprile 1925, pp. 39-43; Eadem, La pittura alla Quadriennale di Roma, ivi, a. IX, n. 1, gennaio 1931, pp. 38-50; M. Sironi, II Quadriennale d’arte nazionale…, pp. 31-39; G. Ruberti, Lo sport nell’arte dei giorni nostri alla II Quadriennale romana, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XIII, n. 4, aprile 1935, pp. 36-41; M. Sironi, La terza Quadriennale d’arte di Roma…, pp. 42-49.

24 M. G. Sarfatti, Pittori d’oggi. Felice Casorati, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. III, n. 3, 15 marzo 1925, pp. 30-34.

25 Eadem, Carlo Dalmazzo Carrà, ivi, a. III, n. 5, 15 maggio 1925, pp. 39-43.

26 F. T. Marinetti, Depero, ivi, a. IV, n. 5, maggio 1926, pp. 52-57.

27 Un precursore: Antonio Sant’Elia, ivi, a. IX, n. 11, novembre 1930, pp. 49-52.

28 F. Depero, Umberto Boccioni, ivi, a. XI, n. 7, luglio 1933, pp. 35-42.

29 M. Tortora, Il premio Cremona, ivi, a. XVII, n. 7, luglio 1939, pp. 39-44; Idem, Il secondo Premio Cremona, ivi, a. XVIII, n. 6, giugno 1940, pp. 39-45; Artisti del Premio Cremona alla mostra di Hannover, ivi, a. XVIII, n. 10, ottobre 1940, pp. 50-51.

30 G. Guida, Lo spirito e la carne, ivi, a. XVIII, n. 3, marzo 1940, pp. 35-41.

31 R. Giolli, Mosè Bianchi, ivi, a. II, n. 5, maggio 1924, pp. 37-39.

32 E. Dalla Porta, Dall’Oca rinnovato, ivi, a. II, n. 3, marzo 1924, pp. 43-45; Idem, Dall’Oca… macchiaiuolo, ivi, a. II, n. 11-12, novembre-dicembre 1924, pp. 50-51.

33 R. Giolli, Lino Selvatico, ivi, a. II, n. 7, luglio 1924, p. 37. In questo caso si tratta di un breve ma incisivo articolo in onore dell’artista appena scomparso.

34 M. G. Sarfatti, La figura e l’arte di Emilio Gola, ivi, a. VIII, n. 1, gennaio 1930, pp. 30-34.

35 A. Lancellotti, Antonio Mancini, ivi, a. IX, n. 4, aprile 1931, pp. 33-36.

36 M. G. Sarfatti, La Mostra d’Arte di Modigliana. Silvestro Lega e i macchiaioli, ivi, a. IV, n. 9, settembre 1926, pp. 32-37.

37 G. Guida, Giuseppe Casciaro, ivi, a. XX, n. 12, dicembre 1941, pp. 37-41.

38 G. Mussio, Il pittore Emilio Longoni, ivi, a. XIII, n. 7, luglio 1935, pp. 44-45.

39 M. Sironi, Antelami…, pp. 39-47.

40 Idem, Terra di Pisa…, pp. 27-35.

41 C. Giacchetti, Nel V centenario della morte di Masaccio, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. VII, n. 1, gennaio 1929, pp. 43-47.

42 G. Basevi, Il Beato Angelico decoratore, ivi, a. IX, n. 9, settembre 1931, pp. 35-38.

43 M. Sironi, Melozzo, inserto tra p. 44 e p. 45.

44 M. Tortora, Pietro Vannucci detto il Perugino, ivi, a. XVIII, n. 5, maggio 1940, pp. 41-49.

45 G. Pazzi, Isabella d’Este e Mantegna, ivi, a. IX, n. 10, ottobre 1931, pp. 35-37.

46 P. Cottafavi, Correggio ed il suo “Antonio laetus”, ivi, a. XII, n. 12, dicembre 1933, pp. 40-41; M. Sironi, Correggio…, pp. 31-39.

47 M. Tortora, Il Parmigianino, ivi, a. XVIII, n. 2, febbraio 1940, pp. 38-45.

48 G. Rocca, La mostra del Settecento italiano a Venezia. Pace e Guerra, ivi, a. VII, n. 8, agosto 1929, pp. 33-35.

49 A. Cipollato, Il palazzo Rezzonico e il nuovo museo del ‘700 veneziano, ivi, a. XIII, n. 9, settembre 1935, pp. 39-45; G. Silvestri, Venezia del Settecento nel Palazzo Rezzonico, ivi, a. XIV, n. 5, maggio 1936, pp. 36-42.

50 A. Cipollato, Sale nuove nel Palazzo Ducale, ivi, a. XIV, n. 10, ottobre 1936, pp. 37-44.

51 Idem, La mostra del Tintoretto, ivi, a. XV, n. 4, aprile 1937, pp. 35-45.

52 In merito alla politicizzazione fascista del mito di Roma si segnala, per esempio, il breve ma denso articolo di J. Nelis, Imperialismo e mito della romanità nella Terza Roma Mussoliniana, in “Forum Romanum Belgicum”, e-reveu de l’Institut historique belge de Rome, 2012 (http://kadoc.kuleuven.be/bhir-ihbr/doc/3_forum_nelis.pdf).

53 Un’analisi relativa alle matrici culturali del fascismo e del suo colonialismo è rintracciabile, ad esempio, in M. Cagnetta, Antichisti e impero fascista, Dedalo, Bari 1979. Si segnala invece, per il suo intreccio di studi dedicati al tema della strumentalizzazione della classicità da parte fascista nell’ambito della questione razziale, M. Giugman, C. Parodo, Nigra Subucula Induti: immagine, classicità e questione della razza nella propaganda dell’Italia fascista, CLEUP, Padova 2011.

54 Si veda in proposito, per quanto riguarda ad esempio il caso libico, il testo di M. Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, «L'Erma» di Bretschneider, Roma 2001. L’autore accenna, tra le altre cose, al tema delle riviste archeologiche, divise tra rigore scientifico e propaganda politica, e alla questione della colonizzazione antica e moderna nella pubblicistica di regime. Sempre per la Libia, si veda S. Altekamp, L’azione archeologica fra indirizzo scientifico e intervento politico: il caso dell’archeologia libica 1911-1943, in “Quaderni di Storia”, n. 41, gennaio-giugno 1995, 101-113; Idem, Italian Colonial Archaeology in Lybia 1912-1942, in Archaeology under dictatorship, edited by M. L. Galaty, C. Watkinson, New York 2004, pp. 55-72. Per la specifica zona tripolitana di Sabratha si veda il recente contributo di M. Munzi, Quarant’anni di archeologia coloniale a Sabratha, 1911-1951, in Il museo di Sabratha nei disegni di Diego Vincifori. Architettura e archeologia nella Libia degli anni Trenta, a cura di L. Musso, L. Buccino, All’insegna del giglio, Borgo S. Lorenzo 2013, pp. 203-213. Più in generale, per gli intrecci tra archeologia mediterranea e politica italiana del primo Novecento, si veda inoltre M. Petricioli, Archeologia e Mare nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia, 1898-1943, V. Levi, Roma 1990.

55 Per una visione generale del mito fascista dell’impero, nonché della tematica archeologica ad esso correlato, si veda per esempio A. Argenio, Il mito della romanità nel ventennio fascista, in Il mondo classico nell’immaginario contemporaneo, a cura di B. Coccia, Apes, Roma 2008, pp. 81-178.

56 A proposito di tali articoli, tuttavia, è necessario tenere in considerazione sia il fatto che gli stessi vengono scritti per la pubblicazione in una rivista di regime, sia il fatto che tale rivista era pensata per una tipologia di pubblico molto ampia e variegata. Detto ciò, non stupirà di incontrare nei testi ampollosità retoriche sulla storia romana, mitologia e resoconti romanzati sulle fondazioni e sulla presenza romana in questa o quella regione. Articoli di carattere storico-narrativo talvolta persino inclini a descrizioni più liriche che oggettive, certamente adatti anche a lettori non esperti in campo archeologico, si alternano a più seri testi informativi, anch’essi talvolta farciti di accenni storico-mitologici, redatti non da semplici articolisti o scrittori letterari, ma dagli stessi archeologi che avevano diretto ricerche e scavi.

57 G. Giulini, Le colonne e la basilica di San Lorenzo in Milano, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. VIII, n. 11, novembre 1929, pp. 58-61; F. Pertile, A Brescia si scava la città romana, ivi, a. XIX, n. 5, maggio 1941, pp. 71-78.

58 A. Cipollato, Nel XIII centenario della cattedrale di Torcello, ivi, a. XVII, n. 9, settembre 1939, pp. 33-41; Idem, Colonizzazioni romane: Aquileja, ivi, a. XVIII, n. 8, agosto 1940, pp. 47-54; A. Nicotera, Storia e chiese di Grado, ivi, a. XIX, n. 4, aprile 1941, pp. 34-41; Idem, La Basilica di Trieste: San Giusto, ivi, a. IV, n. 6, giugno 1926, pp. 50-55; Idem, Il colle di San Giusto, ivi, a. XIII, n. 10, ottobre 1935, pp. 32-37; Idem, Il Teatro Romano di Trieste, ivi, a. XVII, n. 10, novembre 1938, pp. 76-83; B. M., Il restauro della Basilica Eufrasiana di Parenzo, ivi, a. XV, n. 10, ottobre 1937, pp. 39-44; F. Pertile, Romanità di Pola, ivi, a. XIX, n. 12, dicembre 1940, pp. 35-40.

59 A. Pica, Italianità della Dalmazia, ivi, a. XIX, n. 5, maggio 1941, pp. 64-70. L’articolo qui menzionato è di Agnoldomenico Pica (Padova 1907-Milano 1990) architetto, critico e storico dell’architettura, nonché figura di spicco della pubblicistica italiana; egli è noto per i suoi numerosi saggi sulla storia e sugli sviluppi più recenti dell’architettura, come nel caso di Architettura moderna in Italia del 1941 e di Architettura italiana ultima del 1959, ma anche per testi dedicati ad artisti contemporanei come Mario Sironi, con il quale intrattiene tra l’altro un rapporto di amicizia, nonché per la sua collaborazione a riviste quali “Domus”, “Le Arti” e “Casabella”, solo per citarne alcune. Per un approfondimento sulla sua figura si vedano Agnoldomenico Pica (1907-1990): premesse per uno studio critico, a cura di L. Roncai, Guerini Studio, Milano 1993; M. V. Capitanucci, Agnoldomenico Pica, 1907-1990: la critica dell’architettura come mestiere, Hevelius, Benevento 2002. Lungo e denso di notizie è l’articolo in questione, in cui Pica fa una veloce disamina di alcuni importanti monumenti siti in diverse città della Dalmazia. Il testo è redatto nel maggio del 1941 e il suo titolo, Italianità della Dalmazia, ne rende evidenti gli scopi: giustificare la recentissima annessione dell’area all’Italia, motivandola come una naturale riappropriazione di territori che, sin dall’epoca romana, erano stati fortemente influenzati dalla cultura e dalla tradizione artistica italiana. È da notare come in questo caso Pica miri veramente a sottolineare ‘l’italianità’ della Dalmazia, intendendo con italianità non un sinonimo di romanità, come solitamente avveniva, ma un complesso insieme di esperienze dell’Italia peninsulare che, seppur aventi nell’arte romana il loro sostrato costitutivo, si presentano con proprie caratteristiche. Di tali peculiarità peninsulari l’autore ricorda quelle di Venezia, dell’Esarcato di Ravenna, della marca anconitana con «la sua nitidissima eco d’arte pisana», la Puglia con il suo romanico «ricco e fantasioso ove si mescolano in novità germi lombardi, siculi e musulmani», ma anche le «note lombarde» e le «suggestioni cosmatesche del Lazio». Tra le opere citate per i loro influssi variamente ‘latini’, siano essi derivati dall’arte romana, dall’architettura esarcale dell’occidente bizantino o dal romanico medievale, emergono per esempio il Palazzo di Diocleziano a Spalato, le chiese di Sant’Anastasia e di Sant’Antonio (poi San Grisogono) a Zara, il chiostro di S. Eufemia in Arbe, il portale di Radovano per la cattedrale di Traù, il chiostro dei francescani a Ragusa realizzato da Michele ‘petraro’ di Antivari, i bassorilievi del Duomo di Spalato. Come esempi dell’influenza veneziana trecentesca e quattrocentesca l’autore menziona, invece, il cortile del palazzo del Comune di Traù, il palazzo dei Palladini e il duomo di Lesina, il palazzetto comunale di Spalato. Scrive Pica a p. 65: «La romanità di Spalato e di tutto il litorale dalmatico spiega con parole romane, dedotte con provinciale franchezza dall’eloquio dell’Urbe, talune delle più fervide linfe che vivificheranno le splendenti frasi bizantine, dall’altra parte si riallaccerà – attraverso quel mirabile gioiello ch’è il S. Donato di Zara – alla fioritura esarcale dell’alto Adriatico, ricollegandosi così, anche nella filiazione indiretta, a una gloria interamente latina e inequivocabilmente italica. All’arte esarcale che irradia prestigiosi fulgori da Ravenna, da Venezia, da Grado, da Parenzo, dovettero appartenere la primitiva S. Anastasia e il S. Antonio (poi S. Grisogono) di Zara, così come vi appartengono il mirabile organismo centrale triabsidato del S. Donato, e pure quel chiostro di S. Eufemia in Arbe dove il ritmo pesante, solenne e rattenuto delle basse arcate, le tese superfici delle mura di pietra, l’inconsuetudine della loggia quasi a feritoia orizzontale, richiamano con insistenza uno scenario che direi “prepolentano” ripensando alla Romània sull’altra sponda adriatica, se già dalle esaltate mura della solare Parenzo non rispondessero anche più prossimi echi mediterranei. L’architettura romanica della Dalmazia, contrariamente a quanto accade nell’alto Adriatico con la fioritura veneto-bizantina che nasce dall’arte esarcale, postula modelli, non dirò più italiani (che dire non lo potrei) ma più peninsulari: l’architettura lombarda e quella pisana. E per la prima, che in effetti dominò l’Europa intera, il fenomeno è ovvio, mentre per la seconda che si espande dalla Sardegna – per Pisa, Lucca e Ancona – sino appunto alle Dinariche, il fatto riesce più singolare e più circonstanziatamente italiano».

60 L. M. Ugolini, Gli scavi di Butrinto, ivi, a. VII, n. 8, agosto 1930, pp. 44-49. È da intravedere un certo interesse geopolitico, ancor prima che scientifico, nella missione archeologica che il governo mussoliniano invia in Albania alla metà degli anni Venti. La spedizione, guidata dall’archeologo Luigi Maria Ugolini, viene motivata, in parte, con i festeggiamenti per il secondo millenario di Virgilio: nell’Eneide, infatti, l’antico scrittore mantovano narra, nel terzo libro, l’episodio della sosta di Enea nella città di Butrinto, sita appunto in Albania, dove Eleno, figlio di Priamo scampato alla caduta di Troia, era divenuto re.

61 A. Cipollato, I venti secoli di dominio italiano su Corfù, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XIX, n. 6, giugno 1941, pp. 35-41. Un’implicita giustificazione dell’annessione dell’isola di Corfù all’Italia è quanto sembra animare lo scritto che, nel giugno del 1941, viene realizzato da Angelo Cipollato per la testata; l’articolo è dunque paragonabile a quello di Pica relativo all’area dalmata, dal quale tuttavia si distingue per alcune differenze: mentre quello del critico padovano punta sulle influenze e le affinità artistiche tra Italia e Dalmazia, il testo di Cipollato sottolinea principalmente le vicissitudini storiche che avevano intrecciato i destini dell’isola greca a quelli della penisola italiana. Secondariamente, si noti che in questo caso non è la storia romana a predominare, bensì quella veneziana: qui, infatti, la città della laguna veneta è totalmente insignita del titolo di erede di Roma, visto che lo scrittore, citando una frase altrui, scrive che Venezia «aveva compreso di essere l’erede della potenza navale romana e mirò sempre ad essere la Metropoli Cattolica e la Roma Cristiana del mare».

62 S. Aurigemma, Scoperte nella patria di Plauto, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. VI, n. 9, settembre 1928, pp. 37-44; Idem, Gli ultimi scavi di Sarsina, ivi, a. VIII, n. 2, febbraio 1930, pp. 36-42; A. Colasanti, La necropoli di Spina, ivi, a. VI, n. 11, novembre 1928, pp. 34-44; S. Aurigemma, Nuovi mosaici emiliani, ivi, a. X, n. 11, novembre 1931, pp. 41-48; Idem, Rimini e il suo museo, ivi, a. XII, n. 3, marzo 1934, pp. 35-39; Idem, L’Arco di Augusto a Rimini, ivi, a. XIV, n. 10, ottobre 1934, pp. 49-53; P. Domenichelli, L’Arco di Augusto a Fano e il suo ripristino voluto dal Duce, ivi, a. XIV, n. 5, maggio 1936, p. 47; S. Aurigemma, Romanità di Velleia, ivi, a. XV, n. 2, febbraio 1937, pp. 33-41; Idem, Città romane dell’Emilia: Claterna e Forum Cornelii, ivi, a. XVII, n. 9, settembre 1939, pp. 47-51; L. Ugolini, Heba la misteriosa, ivi, a. XV, n. 7, luglio 1937, pp. 45-57; G. G. Mannucci, Chiusi etrusca e romana, ivi, a. XVIII, n. 10, ottobre 1940, pp. 39-44; G. M., Misa etrusca risorge dal silenzio dei secoli, ivi, a. XX, n. 9, settembre 1942, pp. 40-43.

63 R. Papini, Il Tempio della Fortuna Virile, ivi, a. III, n. 12, dicembre 1925, pp. 42- 47; M. Corsi, Un teatro di duemila anni fa, ivi, a. V, n. 8, agosto 1927, pp. 40-44; C., L’ “Emporio” trajaneo, ivi, a. VI, n. 10, ottobre 1928, pp. 49-52; I restauri ai mercati del Foro Traiano, ivi, a. VIII, n. 12, dicembre 1929, pp. 44-47; M. Corsi, Il Circo Massimo torna alla luce, ivi, a. VII, n. 2, febbraio 1929, pp. 45-48; O. Dinale, Via dell’Impero, ivi, a. XI, n. 9, settembre 1933, pp. 38-39; Idem, La Mole Adriana, ivi, a. XII, n. 6, giugno 1934, pp. 33-36; G. Calza, Il cimitero del porto di Roma Imperiale, ivi, a. IX, n. 6, giugno 1931, pp. 46-51; Idem, I nuovi scavi di Ostia, ivi, a. XVIII, n. 5, maggio 1940, pp. 7-14.

64 M. Novelli, Un trittico: Caserta vecchia - La reggia - L’anfiteatro romano, ivi, a. IV, n. 12, dicembre 1926, pp. 40-48; F. Stocchetti, Le catacombe di Cimitile e quelle di Napoli, ivi, a. VIII, n. 9, settembre 1930, pp. 38-42; L. Rusticucci, Gli ultimi scavi di Paestum, ivi, a. IX, n. 4, aprile 1931, pp. 42-45; A. Maiuri, La Villa dei Misteri, ivi, a. X, n. 12, dicembre 1931, pp. 37-50; E. Gabrici, Un decennio di scavi e di scoperte a Selinunte, ivi, a. III, n. 4, 15 aprile 1925, pp. 25-31; F. L. Belgiorno, Ispica: la città sotterranea, ivi, a. VIII, n. 1, gennaio 1930, pp. 35-40; Idem, Sciacca, la città delle terme, ivi, a. X, n. 2, febbraio 1932, pp. 45-50; S. Aurigemma, Scoperte nella patria di Plauto, ivi, a. VI, n. 9, settembre 1928, pp. 37-44.

65 F. Ciarlantini, Resti romani in Siria, ivi, a. XI, n. 5, maggio 1933, pp. 39-43.

66 O. Pedrazzi, La frontiera di Roma in Oriente: Gerasch, ivi, a. VI, n. 1, gennaio 1928, pp. 43-49.

67 G. G., Siria romana: le rovine di Eliopolis, ivi, a. XII, n. 1, gennaio 1934, pp. 41-43.

68 F. Ciarlantini, Resti romani in Siria…, p. 43.

69 U. Ajelli, Cirene, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. IV, n. 2, febbraio 1926, pp. 52-53; Idem, Scavi a Cirene, ivi, a. XI, n. 12, dicembre 1932, pp. 46-47.

70 U. Ajelli, Cirene…, p. 52.

71 U. Ajelli, Scavi a Cirene…, p. 46.

72Ivi, p. 46-47.

73 Tripoli risorta, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 2, febbraio 1924, pp. 23-29.

74 Ivi, p. 23.

75 Si veda, per esempio, quanto scrive De Amicis nella sua Costantinopoli del 1878: «l’edera e le macerie coprono le fondamenta delle regge, sul suolo degli anfiteatri cresce l’erba dei cimiteri, e poche iscrizioni calcinate dagli incendi o mutilate dalle scimitarre degl’invasori rammentano che su quei colli vi fu la metropoli meravigliosa dell’Impero d’Oriente. Su questa immane rovina siede Stambul, come un’odalisca sopra un sepolcro, aspettando la sua ora» (citazione tratta da M. Bernabò, Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia, Liguori, Napoli 2003, p. 49).

76 Tripoli risorta…, p. 23.

77 Vestigia romane fra le sabbie del deserto, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 3, marzo 1924, pp. 24-25.

78 Egli fu infatti governatore negli anni Venti sia dell’Oltregiuba somalo che, successivamente, dell’Eritrea.

79 C. Zoli, Città romane che risorgono dalle spiagge tripolitane, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 5, maggio 1924, pp. 20-23.

80 Idem, La terza città della ‘Tripolis’. Gli scavi archeologici di ‘Sabrata’, ivi, a. II, n. 6, giugno 1924, pp. 21-23.

81 La Tripolitania sconosciuta. Gadàmes bianca città del silenzio e del mistero, ivi, a. II, n. 8, agosto 1924, pp. 19-22.

82 Z. V., Gli ultimi scavi di Leptis Magna e Sabrata, ivi, a. II, n. 3, 15 marzo 1925, pp. 40-43.

83 Le statue delle Terme di Leptis Magna, ivi, a. III, n. 5, 15 maggio 1925, pp. 44-45.

84Ivi, p. 44.

85 r.b., La città che risorge dalla sabbia: Leptis Magna, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. VI, n. 8, agosto 1928, pp. 23-27.

86 S. Guida, L’Italia all’Esposizione Internazionale Coloniale di Parigi, ivi, a. IX, n. 8, agosto 1931, pp. 21-26.

87 E.M., Antichità romane nella Tunisia, ivi, a. XVI, n. 3, aprile1938, pp. 43-47.

88Ivi, p. 44.

89 E. M., Antichità romane della Tunisia, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XVI, n. 7, agosto 1938, pp. 47-51.

90Ivi, p. 48.

91 E. M., Antichità romane in Tunisia, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XVII, n. 11, dicembre 1938, pp. 51-55.

92 A. Salvo, Monumenti di Roma sulle frontiere del mondo, ivi, a. XIII, n. 1, gennaio 1935, pp. 39-41.

93Ivi, p. 39.

94 Mario Sironi (Sassari, 1885-Milano, 1961). Artista eclettico, studia a Roma presso la Scuola Libera del Nudo dell’Accademia di Belle Arti dopo aver abbandonato la facoltà di ingegneria nel 1902; dapprima aderisce al futurismo, poi, entrato in contatto con Margherita Sarfatti, è nei primi anni Venti tra i fondatori del gruppo dei Sette pittori del Novecento. Prolifico pittore e illustratore di quotidiani e riviste, di cui si ricorda la sua collaborazione con “Il Popolo d’Italia” iniziata nel 1922, negli anni Trenta si dedica all’arte murale, realizzando grandi cicli celebrativi pittorici, musivi e scultorei, quali per esempio l’Aula Magna dell’Università di Roma, il Palazzo di Giustizia a Milano, l’Aula Magna dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Palazzo dei Giornali di Milano. Nel dopoguerra, con la forzata rinuncia all’attività connessa alla committenza pubblica, Sironi continua a lavorare in posizione appartata riprendendo i temi delle periferie urbane e realizzando tele improntate ad una certa monumentalità. Negli anni Cinquanta, caratterizzati dalle nuove soluzioni della serie Moltiplicazioni, ottiene vari riconoscimenti, come la medaglia d’oro per i «benemeriti della cultura» dal Ministero della Pubblica Istruzione. Cfr. F. Dogana, ad vocem Sironi Mario, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. II, Electa, Milano 1992, pp. 1072-1073; E. Pontiggia, Biografia breve di Mario Sironi, reperibile nel sito della Associazione per il Patrocinio e la Promozione della Figura e dell’Opera dell’artista (http://www.mariosironi.org/biografia.html). Molto ampia è la bibliografia specifica relativa all’artista; per quanto riguarda la sua attività di illustratore, spesso connessa all’ambito della politica, si vedano per esempio Mario Sironi. L’Italia illustrata, catalogo della mostra (Rapallo, Antico Castello sul Mare), a cura di M. Margozzi e P. Rum, Milano 2007; Mario Sironi. L’arte della satira, catalogo della mostra (Milano, Fondazione Piero Portaluppi), a cura di A. Negri, M. Sironi, Milano 2004; Mario Sironi. Illustrazioni per “Il Popolo d’Italia” edite e inedite, catalogo delle mostre (Sassari, Museo Campoleno; Cagliari, Castello di San Michele), a cura di C. Gian Ferrari, Charta, Milano 2002; F. Benzi, A. Sironi, Sironi illustratore. Catalogo ragionato, De Luca edizioni d’arte, Roma 1988; E. Braun, Illustrations of Propaganda: The PoliticalDrawings of Mario Sironi, in “The Journal of Decorative and Propaganda Arts”, V, 3, Winter 1987, pp. 84-107; Mario Sironi, disegni politici 1916-1940, catalogo della mostra (Torino 31 ottobre-13 novembre 1964), a cura di M. De Micheli, Galleria d'arte moderna Viotti, Torino 1964.

95 M. Sironi, “La Marcia su Roma”, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 10, ottobre 1924, tavola tra p. 8 e p. 9.

96 Per un approfondimento sulla storia e sull’evoluzione iconografica di tale soggetto si veda, per esempio, N. Bazzano, Donna Italia. Storia di un’allegoria dall’antichità ai nostri giorni, Colla, Costabissara 2011. L’autrice tuttavia, riferendosi alla simbologia e ai temi più apprezzati in ambito artistico durante il regime, sostiene che ci sia stato un «sostanziale inutilizzo dell’allegoria di Italia durante il Ventennio fascista».

97 A tale proposito si veda l’interessante repertorio di immagini, corredato da un breve testo introduttivo, presente in Mario Sironi. L’arte della satira, pp. 124-135.

98 Per altri esempi di tavole e copertine sironiane presenti nella rivista e connesse a tale personificazione si vedano: M. Sironi, L’incubo di ieri, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. III, n. 3, 15 marzo 1925, p. 7; Idem, Italia Imperiale, ivi, a. IV, n. 4, aprile 1926, tavola tra p. 16 e p. 17; Idem, Il cuore della Patria è salvo, ivi, a. IV, n. 9, settembre 1926, p. 13; Idem, Sul Brennero c’è in piedi, con i suoi vivi e con i suoi morti, tutta l’Italia, ivi, a. VI, n. 3, marzo 1928, p. 10; Idem, L’augurio che non passi nel 1931, ivi, a. IX, n. 12, dicembre 1930, tavola tra p. 12 e p. 13; Idem, La grandezza di una Nazione è misurata dalla vastità degli interessi da difendere e anche dall’importanza e dalla nobiltà dei doveri da compiere, ivi, a. IX, n. 3, marzo 1931, tavola allegata tra p. 8 e p. 9; Idem, L’Italia fa da sé, ivi, a. X, n. 4, aprile 1932, tavola tra p. 12 e p. 13; Idem, L’Italia è in linea, ivi, a. XIII, n. 9, settembre 1935, p. 6; Idem, Copertina, ivi, a. IV, n. 11, novembre 1926; Idem, Copertina, ivi, a. VIII, n. 11, novembre 1929; Idem, Copertina, ivi, a. XIX, n. 5, maggio 1941.

99 Caratteristica da cui deriva la dicitura “Italia turrita”.

100 Per un approfondimento relativo al macrotema della stella, analizzato in correlazione alla sua importanza all’interno della simbologia nazionale italiana, si veda G. Lista, La Stella d’Italia, Mudima, Milano 2011.

101 La quale viene detta, in questo caso, “Italia stellata”.

102 In cui però, si noti, la rappresentazione mostra una stella a sei punte.

103 Nelle varie illustrazioni presenti nella rivista tale arma talvolta varia, presentandosi sia come una lunga spada, sia come un gladio, spada di più piccole dimensioni, o infine come un parazonio, corta spada a lama triangolare che prende il nome dal cinturone a cui l’appendevano i tribuni militari e gli ufficiali superiori dell’esercito romano. Del parazonio come attributo tipico della personificazione di Roma discorre ancora nel 1603 Cesare Ripa il quale, descrivendo l’iconografia del Lazio in cui compare non solo un barbuto Saturno seduto in una grotta ma anche una figura femminile armata, dice: «Vedrassi per il Latio l’antico Saturno, cioè un huomo con barbalonga, folta et canuta, in una grotta, tenendo in mano la falce esopra la detta grotta si rappresenta una donna a sedere sopra d’un mucchio di diverse arme et armature. Terrà in capo un celatone guarnito in cima di belle penne et nella destra mano una corona, overo un ramo di lauro, et nella sinistra il parazonio, il quale è spada corta, larga et spuntata […]. Per la donna sedente sopra della grotta si dimostra Roma, la quale, essendo posta sul Latio, non solo come cosa famosissima singularmente dichiara questo paese, ma li fa commune tutto il suo splendore et la sua gloria, oltre che per altro vi sta bene la detta figura, percioché Roma anticamente hebbe nome Saturnia […]. Nella guisa che si è detto si rapresenta Roma, come hoggi di lei si vede una nobilissima statua di marmo antica negl’horti degli illustrissimi Sig. Cesi nel Vaticano. Il ramo di lauro, overo la corona del medesimo, oltre il suo significato, che è di vittoria et trionfi, che per segno di ciò si rapresenta sopra l’armi già dette, denota anco la copia di lauri di che abonda questa Provincia […]». Si segnala qui l’utile progetto di biblioteca virtuale on-line, a cui si è fatto riferimento per il testo di Ripa, nato dalla collaborazione tra l’Istituto di Studi sul Rinascimento e Signum-Centro di ricerche informatiche per le discipline umanistiche della Scuola Normale di Pisa, e avvalsosi della collaborazione del Department of History della Harvard University (http://bivio.filosofia.sns.it).

104 Si veda, anche in questo caso, l’Iconologia di Ripa e le varie descrizioni che egli dà dell’allegoria in questione, alcune delle quali derivate dalla medaglistica antica.

105 Per quanto riguarda la personificazione dell’Italia non vanno tuttavia scordati la funzione e l’apporto dato alla sua iconografia dalla tradizione romantico-risorgimentale, di cui tuttavia gli illustratori della rivista, Sironi in primis, sembrano evitare gli aspetti più femminei, sentimentali e malinconici; l’allegoria viene spesso disumanizzata e, talvolta, mascolinizzata, acquisendo di fatto i caratteri di una massiccia statua vivente dall’aspetto androgino.

106 Per una veloce panoramica sull’iconografia del fascio littorio, le sue origini antiche, il suo riutilizzo e le modalità della sua diffusione durante il Ventennio, si vedano gli interessanti saggi di P. S. Salvatori, Romanità e fascismo: il fascio littorio, in “Forma Urbis”, a. XVIII, n. 6, giugno 2013, pp. 6-13; Eadem, Liturgie immaginate: Giacomo Boni e la romanità fascista, in “Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci”, a. LIII, n. 2, aprile-giugno 2012, pp. 421-438; Eadem, L’adozione del fascio littorio nella monetazione dell’Italia fascista, in “Rivista italiana di numismatica e scienze affini”, a. CIX (2008), pp. 333-352. Sul rapporto tra fascismo e antichità romana, si veda inoltre della stessa autrice il recente articolo Fascismo e romanità, in “Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci”, a. LV, n. 1, gennaio-marzo 2014, pp. 227-239. Si segnala che i testi qui menzionati sono reperibili anche on-line in “Academia.edu-share research” nella pagina dell’autrice (https://scuola.academia.edu/PaolaSSalvatori).

107 Una caratteristica che incide nel determinare il protagonismo ed il carattere più o meno autonomo del fascio nei riguardi dell’allegoria dell’Italia, nel caso in cui siano entrambi presenti in un’immagine, è certamente quella delle maggiori o minori dimensioni del primo nei riguardi della seconda.

108 Fortunato Depero (Fondo/TN, 1892-Rovereto/TN, 1960). Dopo un’iniziale suggestione per il simbolismo Jugend si trasferisce a Roma sul finire del 1913, entrando così in contatto con i futuristi Balla e Boccioni. Nella seconda metà degli anni Venti, in seguito alla commissione per la scenografia de Le chant du Rossignol dei Balletti Russi di Diaghilev, progetto poi non realizzato, si assiste ad un progressivo distacco dell’artista dalle problematiche del dinamismo plastico-futurista e la frequentazione dell’ambiente dei pittori cubo-costruttivisti russi conduce la sua pittura verso una singolare sintesi del clima delle avanguardie figurative. Attirato dalla sperimentazione teatrale, di cui si ricordano I Balli plastici, è attento anche alla sperimentazione nell’ambito delle arti decorative e applicate, il cui centro di propulsione è la sua Casa d’Arte di Rovereto, aperta nel 1919. Un viaggio a New York, sul finire degli anni Venti, lo porta a contatto con suggestioni di tipo metropolitano, oltre che offrirgli la possibilità di approfondire le sue ricerche nel campo della grafica pubblicitaria; lavora nel frattempo per le maggiori riviste dell’epoca, quali “Vogue” e “Vanity Fair”. Varie le sue partecipazioni a Mostre Sindacali d’Arte nella seconda metà degli anni Trenta. Sul finire degli anni Quaranta trascorre nuovamente un periodo a New York, mentre negli ultimi anni Cinquanta apre la Galleria Museo Depero, dedicata al futurismo italiano. Cfr. G. Barbera, ad vocem Depero Fortunato, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. II, Electa, Milano 1992, p. 861. In particolare, sulla collaborazione di Depero con la rivista in esame, si veda M. Sironi, Fortunato Depero e “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, in Forme e modelli del rotocalco italiano tra fascismo e guerra, atti del convegno (Milano, Università degli Studi di Milano-Facoltà di Lettere e Filosofia, 2-3 ottobre 2008), a cura di R. De Berti e I. Piazzoni, Cisalpino, Cesano Boscone 2009, pp. 625-644.

109 F. Depero, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 7, luglio 1924. A proposito di tale copertina, Marta Sironi scrive: «non si tratta più di una semplice illustrazione, quanto di un complesso disegno dell’intera pagina che si presenta alla fine come un ‘oggetto’ autonomo di sorprendente impatto visivo. Emerge un senso di appartenenza nazionale (il fascio littorio viene reiterato dando il senso di un giocoso e festante sventolare), senza però che l’immagine sia forzatamente sfacciata […]». Cfr. M. Sironi, Fortunato Depero e “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, p. 627. Nello stesso saggio, inoltre, l’autrice presenta un bozzetto ideato dallo stesso artista per la copertina di dicembre 1924 della rivista in esame; tale bozzetto, conservato al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, presenta, come nota Marta Sironi, un fascio littorio in qualità di nuovo Gesù Bambino; il simbolo fascista è posto al centro del disegno, attorniato da collinette su cui sventolano bandiere e tricolori nazionali, il tutto sormontato da tre stelle comete. Il bozzetto, non accettato per la copertina natalizia probabilmente in relazione alla sua estrema vena dissacrante, viene però riutilizzato nella sua impostazione generale per la copertina del gennaio 1925, in cui tuttavia il fascio viene sostituito dalla scritta in verticale delle cifre del nuovo anno. Cfr. M. Sironi, Fortunato Depero e “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”…, p. 629.

110 M. Sironi, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. VIII, n. 6, giugno 1930.

111 A proposito di tale artista, la cui figura non va confusa con quella più celebre del regista Damiano Damiani nato negli anni Venti quando il nostro è già attivo, non è stato purtroppo possibile reperire alcuna nota biografica. Paola Pallottino, nella sua Storia dell’illustrazione italiana, ricorda un Damiano Damiani “pubblicista italiano”, informazione che a sua volta trae da La paraletteratura. Il melodramma, il romanzo popolare, il fotoromanzo, il romanzo poliziesco, il fumetto, a cura di N. Arnaud, F. Lacassin, J Tortel e M. Rak per l’ed. ital., Liguori, Napoli 1977, p. 102 (cfr. P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana. Cinque secoli di immagini riprodotte, Usher Arte, Firenze 2011, p. 210). Nello stesso volume, nell’indice degli illustratori, vi sono altri due riferimenti connessi al nome di Damiano Damiani, l’uno in relazione alla rivista in esame (cfr. P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana..., p. 342), l’altro connesso al fumetto “L’Asso di Picche”, nato nella seconda metà degli anni Quaranta (cfr. P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana..., p. 448); quest’ultima notizia va però ricollegata al Damiani regista, e non all’autore delle tavole della Rivista Illustrata. Nel testo Eia, Eia, Eia, Alalà! La stampa italiana sotto il fascismo 1919/1943, a cura di O. Del Buono, Feltrinelli, Milano 1971, viene riprodotto in copertina un disegno a colori realizzato a sua volta dal nostro per la copertina del febbraio del 1926 della rivista in esame; l’artista, in tale volume, viene citato nell’indice degli illustratori, che rimanda ad alcune sue immagini utilizzate nel testo; esse sono tratte rispettivamente da “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, da “Il Popolo d’Italia”, da “Il Bargello” e dal “Vademecum dello stile fascista”. Considerando dunque la continuità del lavoro di tale autore per la testata in esame, nonché la presenza della sua firma nelle altre riviste e opere sopra citate, si può supporre che all’epoca egli fosse conosciuto e certamente attivo all’interno del settore dell’illustrazione. Probabilmente, prima di arrivare a firmare le pagine della rivista illustrata egli faceva già parte, come Sironi, dell’entourage artistico utilizzato da Mussolini per il quotidiano.

112 D. Damiani, L’Italia di Mussolini, ivi, a. IV, n. 11, novembre 1926, p. 18.

113 Idem, La Marina d’Italia nel mondo, ivi, a. V, n. 10, ottobre 1927, p. 8.

114 Idem, La porta, il chiavistello e… l’invidia, ivi, a. VII, n. 3, marzo 1929, p. 12.

115 Enzo Bifoli (Firenze 1882-Genova 1965). Architetto, pittore e disegnatore tendente al monumentale e incline a un certo gusto tardo secessionista. Giovanni Costanzi, nella sua Prefazione al volume che l’artista stesso dedica ai propri Progetti e schizzi architettonici e decorativi, scrive che Bifoli è «asiatico nella dovizia, nell’imponenza delle imagini» e che «la moderna corteccia del suo cervello rinchiude una midolla lussuriosamente orientale», e continua asserendo che «tutto è grandioso, tutto è enorme, tutto è fantastico in lui». Antonietta Maria Besssone-Aurelj, nel suo Dizionario dei pittori italiani, lo dice di nascita genovese e lo segnala come disegnatore particolare di S.A.R. il Duca d’Aosta; la stessa Bessone-Aurelj scrive: «[…] sue opere furono acquistate per la gall. D’Arte Moderna di Genova. Decorato di medaglia d’oro del municipio di Genova alla Mostra Umoristica Nazionale. Illustratore del Secolo di Milano. Vice Direttore Architettonico e pittore dell’Esposizione Internazionale di marina di Genova (1914). Decorò col De Alberti l’Odeon; decorò il palazzo Celesia e fece molte opere di architettura». Cfr. ad vocem Bifoli Enzo, in K. G. Sauer, Allgemeines Künstlerlexikon, München-Leipzig 1999, vol. II, p. 5; ad vocem Bifoli Enzo, in A. M. Bessone-Aurelj, Dizionario dei pittori italiani, II edizione ampliata, Albrighi, Segati e C., Città del Castello 1928, p. 160; G. Costanzi, Prefazione, in E. Bifoli, Progetti e schizzi architettonici e decorativi, C. Crudo, Torino 1915.

116 E. Bifoli, Copertina, ivi, a. X, n. 11, novembre 1931.

117 Idem, Copertina, ivi, a. X, n. 4, aprile 1932.

118 Idem, Dopo la vittoria il lavoro, ivi, a. XIV, n. 6, giugno 1936, p. 7.

119 D. Damiani, Hic manebimus optime, ivi, a. XIV, n. 5, maggio 1936, p. 11.

120 Guido Marussig (Trieste 1885-Gorizia 1972). Dal 1897 studia pittura alla scuola industriale triestina e, nel 1900, alla Accademia di Belle Arti di Venezia, dove frequenta il corso di decorazione di A. Sezanne e quello di figura di E. Tito; tali studi gli forniscono le basi per le sue principali attività future, ossia la scenografia e la grafica da un lato, e la pittura dall’altro. Nel periodo veneziano ha la possibilità di fruire di numerose opportunità di scambio culturale negli ambienti della Biennale, della giovane Ca’ Pesaro e dell’Opera Bevilacqua La Masa, venendo così a contatto con artisti inclini allo stile secessionista viennese. Sul finire del 1916 si trasferisce a Milano, dove avvia diverse collaborazioni come illustratore editoriale (per riviste come “La Sorgente”, “Emporium”, “La Lettura”, “Lidel”, “La Trincea”, “L’Italia sul mare”, “Il primato artistico italiano”, “L’Ardita”) e scenografo, come nel caso della messa in scena di La Nave, opera tratta dalla tragedia di D’Annunzio, personaggio con cui, a partire da questo periodo, avvia una stretta collaborazione, che lo porterà, nei primissimi anni Venti, ad essere fra i decoratori delle stanze del Vittoriale dannunziano di Gardone. Oltre alle numerose partecipazioni alla Biennale veneziana e alla Triennale milanese, Marussig ricoprì vari incarichi di docenza: insegnò all’Accademia di Belle Arti e all’Istituto d’Arte di Parma (di cui fu direttore per una quindicina d’anni), per poi passare a Brera. Fu accademico dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze e della parmense Accademia di Belle Arti. Cfr. P. Pistellato, ad vocem Marussig Guido, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. II, Electa, Milano 1992, p. 961; ad vocem Marussig Guido, in A. M. Comanducci, Dizionario illustrato di Pittori, Disegnatori e Incisori italiani Moderni e Contemporanei, vol. I, L. Pattuzzi, Milano 1970, pp. 438-439.

121 G. Marussig, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. I, n. 3, novembre-dicembre 1923.

122 È da notare che le prime copertine della rivista risentono ancora della grafica decorativa e tardo secessionista dei primi anni del secolo; inoltre, per quanto riguarda Guido Marussig, si riscontra che certi suoi stilemi ben si adattano al clima decadentista dannunziano, con cui l’artista era stato a contatto in varie occasioni, quale, per esempio, la decorazione di alcuni ambienti per il Vittoriale iniziata nel 1921.

123 G. Marussig, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. II, n. 5, maggio 1924.

124 Idem, Copertina, ivi, a. II, n. 10, ottobre 1924.

125 Reggio, Nel segno di Roma l’Italia costruisce, ivi, a. XI, n. 5, maggio 1933, p. 14.

126 Non si è purtroppo riusciti a reperire notizie su tale autore, peraltro presente in maniera assai sporadica nella rivista.

127 D. Damiani, Roma ponte di civiltà tra i popoli, ivi, a. XI, n. 1, gennaio 1934, p. 7.

128 Copertina, ivi, a. XII, n. 4, aprile 1934. In questo caso la copertina, della cui firma non si è riusciti a decifrare la grafia, è il frutto di disegno e collage: l’immagine del simbolo romano è infatti una fedele riproduzione fotografica.

129 D. Damiani, Il destino d’Europa, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XIV, n. 6, giugno 1936, p. 15.

130 In questo senso si potrebbe vedere nella figura femminile bendata un richiamo all’allegoria della Sorte, cattiva in tal caso, soprattutto per la ripresa del tema della cecità; la donna sarebbe dunque la personificazione dell’Europa a cui è stato aggiunto l’attributo tipico di tale allegoria. Tuttavia, questa condizione di oscurità è per l’Europa temporanea e facilmente reversibile (la benda infatti si può togliere, accettando ovviamente il nuovo stato di cose imposto dall’Italia), diversamente dalla cecità che caratterizza la Sorte, che Ripa descrive, ancora nell’Iconologia del 1603, come una «giovanetta cieca». Il titolo stesso della tavola potrebbe indirizzare verso tale lettura, se non fosse che lì si utilizza il termine «destino» e non «sorte».

131 D. Damiani, Difesa della razza, ivi, n. 8, settembre 1938, p. 7.

132 Nei vari numeri del 1934 compaiono più immagini attribuite a un artista col cognome Buzzi, tuttavia parrebbe che esse si riferiscano a due disegnatori diversi, in quanto mentre tre presentano la medesima grafia nella firma, e sotto ad uno di questi tre disegni la rivista specifica che l’illustratore è R. Buzzi, sotto una quarta immagine, priva però di firma, la testata specifica che il disegno è di B. Buzzi. Non è dunque dato comprendere se si tratti di un errore di stampa della rivista per l’attribuzione dell’ultima immagine o se, effettivamente, si parli di due artisti distinti. L’illustrazione qui presa in considerazione fa parte del gruppo di disegni firmati dalla stessa mano, ove la grafia lascia appunto incertezze sulla lettera del nome anteposta al cognome; da qui dunque l’equivoco tra “R” e “B”. Si veda però in proposito quanto riportato in Bruno Munari, futurismo e oltre…. Avvenimenti e scritti 1926-1940, testo presente nel ricco sito dedicato a Bruno Munari (http://www.munart.org/doc/bruno-munari-futurismo-versione-12.pdf), in cui si accenna ad un elenco di alcuni disegnatori attivi per il numero di novembre 1935 della rivista tra cui è citato un certo Rinaldo Buzzi, con il quale si potrebbe dunque identificare l’autore del disegno qui trattato.

133 R. Buzzi, Sintesi, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XII, n. 6, giugno 1934, p. 37.

134 M. G. Sarfatti, La Mostra della Rivoluzione, ivi, a. XI, n. 11, novembre 1932, pp. 38-53; si veda inoltre O. Dinale, La Mostra della Rivoluzione. Visioni d’arte, ivi, a. XI, n. 6, giugno 1933, pp. 40-43.

135 Ruggero Alfredo Michahelles, in arte RAM (Firenze, 1898-1976). Nato da famiglia benestante e cosmopolita, discendente dallo scultore neoclassico statunitense Hiram Powers, manifesta sin dall’adolescenza un forte interesse per la pittura e già nel 1914 espone, ancora giovanissimo, a Firenze e in altre città italiane una nutrita varietà di opere, spaziando dal ritratto al paesaggio, dalle acqueforti alle sculture, interessandosi anche di scenografia. È ricordato insieme al fratello Ernesto, eclettico pittore e scultore futurista noto in arte come Thayaht, per l’invenzione e la promozione della ‘tuta’, l’abito universale futurista. Si laurea in chimica nel 1923 e, sempre nei primi anni Venti, aderisce al Gruppo Toscano Futurista e a tutte le manifestazioni del movimento coniando lo pseudonimo di RAM. Dalla seconda metà degli anni Venti collabora con varie riviste, quali “Illustrazione Toscana”, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, “Natura”, per le quali realizza copertine e illustrazioni. Nel 1927 si trasferisce a Parigi, ma non vi dimora mai stabilmente; qui si intrattiene con numerosi colleghi stranieri e italiani e matura la tendenza ad uno stile d’ispirazione metafisica, realizzato nei termini di una moderna e singolare classicità. Espone in personali e collettive in Italia, Svizzera, Inghilterra e Francia, dove nel 1937 vince il Prix Paul Guillaume. Cfr. G. Ginex, ad vocem Ram (Ruggero Alfredo Michahelles), in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. II, Electa, Milano 1992, p. 1036; ad vocem Micaelles Ruggero, in A. M. Comanducci, Dizionario illustrato di Pittori, Disegnatori e Incisori italiani Moderni e Contemporanei, vol. III, L. Pattuzzi, Milano 1970, p. 2005.

136 R. Michahelles, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XV, n. 11, novembre 1936.

137 Bramante Decio Buffoni (Milano, 1890-Castelvecchio, 1965). Cartellonista attivo in ambito milanese a cavallo del secondo conflitto mondiale con uno stile sintetico-razionalista che guarda agli esiti di Bruno Munari e Luigi Veronesi. Di lui si ricordano alcuni lavori per pagine pubblicitarie. Nel dopoguerra crea alcuni cartelli con linee meno impegnate, come per esempio Borse per acqua calda Pirelli del 1952. Cfr. ad vocem Bramante Decio Buffoni, in G. Dadati, Biografie degli artisti, in L’arte della pubblicità. Il manifesto italiano e le avanguardie 1920-1940, catalogo della mostra, (Forlì, Musei di San Domenico, 21 settembre-30 novembre 2008), a cura di A. Villari, Silvana, Cinisello Balsamo 2008; Dadati in questo caso cita come fonte delle notizie relative all’artista il Catalogo Bolaffi del manifesto italiano. Dizionario degli illustratori, G. Bolaffi, Torino 1995. Si guardi tuttavia anche ad vocem Buffoni Bramante, in K. G. Sauer, Allgemeines Künstlerlexikon, vol. II, Saur, München-Leipzig 1999, p. 323, dove si segnala tale figura come pittore, grafico e illustratore nato nel 1912 a Giulianova (Teramo); si guardi anche ad vocem Buffoni Decio, in Panorama biografico degli italiani d’oggi, a cura di G. Vaccaro, vol. I, A. Curcio, Roma 1956, p. 241, in cui tale personaggio è segnalato in qualità di giornalista, nato a Milano nel 1890 e ancora vivente nell’anno in cui è stato stampato il volume.

138 B. Buffoni, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XV, n. 3, marzo 1937.

139 Luigi Broggini (Cittiglio/VA, 1908-Milano, 1983). Avviato agli studi classici dal padre, nel 1925 lascia il liceo classico di Varese per iscriversi al liceo artistico di Milano. Nel 1928 frequenta l’Accademia di Brera, seguendo inizialmente il corso di pittura di Aldo Carpi, per passare l’anno successivo a quello di scultura tenuto da Adolfo Wildt. Il suo stile, tuttavia, si differenzia notevolmente da quello del maestro: Broggini mostra un orientamento chiaramente antinovecentista, caratterizzato da uno modo inquieto e vibrante; l’autore intrattiene rapporti sia con i chiaristi che con il gruppo di artisti che poi si riunirà in Corrente. Per quanto riguarda l’arte straniera, egli guarda all’operato di autori quali Degas e Despiau, mentre per quanto concerne gli italiani egli predilige l’arte di autori come Medardo Rosso. Cfr. F. Dogana, ad vocem Broggini Luigi, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. II, Electa, Milano 1992, pp. 777-778. Per un approfondimento sull’artista, si vedano per esempio L. Cavallo, Luigi Broggini. Opere 1929-1945, Galleria Il Mappamondo, Milano 1990; Broggini e il suo tempo. Uno scultore nell’Italia degli anni ‘30 tra chiarismo e Corrente, catalogo della mostra (Civitanova Marche Alta, Chiesa di S. Agostino, 5 luglio-27 settembre 1998), a cura di E. Pontiggia, Skira, Milano 1998.

140 L. Broggini, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XV, n. 8, agosto 1937.

141 Copertina, ivi, a. XVII, n. 6, giugno 1939. L’illustrazione non sembra essere firmata, ma come stile si richiama ad altre copertine, sempre non firmate, presenti in vari numeri del periodo bellico. Per certi aspetti il disegno, molto fluido e sbrigativo, si richiama a quello di alcune grafiche realizzate da Broggini e Rognoni.

142 Marcello Dudovich (Trieste, 1878-Milano, 1962). Pittore, illustratore, cartellonista italiano. A Milano studia presso Metlicovitz, notevole cartellonista. Ben presto si distingue per l’abilità nel sintetizzare l’idea pubblicitaria in un’immagine di forte richiamo e immediata leggibilità. Collabora inoltre con varie riviste, tra cui il “Simplizissimus” di Monaco di Baviera, il “Travaso”, il “Pasquino”, il “Secolo X”, il “Guerrin Meschino”. Lavora anche come illustratore di libri. Coltiva inoltre la pittura, dedicandosi specialmente ai ritratti di gusto descrittivo e gentilmente ironico. Cfr. G. Ginex, ad vocem Dudovich Marcello, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. II, Electa, Milano 1992, p. 875; ad vocem Dudovich Marcello, in Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani, vol. IV, Bolaffi, Torino 1972, p. 225; G. Vergani, ad vocem Dudovich Marcello, in G. Vergani, Dizionario della Moda, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010, p. 360-62.

143 M. Dudovich, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. I, n. 1, agosto 1923.

144 M. Sironi, “La pace è all’ombra delle spade”, ivi, a. VI, n. 6, giugno 1928, p. 6.

145 B. Buffoni, Balilla, tavola a colori, ivi, a. XVII, n. 10, novembre 1938, p. 39.

146 Idem, Giovani Fasciste, tavola a colori, ivi, p. 49; Idem, Avanguardisti Giov. Fasc., tavola a colori, ivi, p. 51.

147 Franco Rognoni (Milano, 1913-1999). Studia ai corsi serali della Scuola Superiore d’Arte del Castello Sforzesco e si presenta, per la prima volta, con una mostra personale a Milano nel 1938. Oltre all’opera pittorica, svolge quella incisoria (acquaforte, puntasecca, xilografia); si cimenta inoltre nella realizzazione di scenografie e costumi per opere teatrali; esegue illustrazioni per libri e periodici, presentandosi in questo campo con disegni di satira e di costume. La sua arte, le cui immagini paiono affiorare da un subconscio infantile, guarda sia ad artisti italiani quali Modigliani, Sironi e Licini, che ad autori stranieri come Picasso, Chagall, Rouault, Grosz, Klee e Kokoschka. Cfr. ad vocem Rognoni Franco, in Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani, vol. IX, Torino 1972, p. 440; ad vocem Rognoni Franco, in A. M. Comanducci, Dizionario illustrato di Pittori, Disegnatori e Incisori italiani Moderni e Contemporanei, vol. IV, Milano 1970, p. 2755.

148 F. Rognoni, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XXI, n. 1, gennaio 1943. A tale proposito è interessante ricordare un’altra copertina realizzata da Rognoni per il numero di marzo del 1942; anche in quell’occasione l’immagine celebrava la prodezza di un antico guerriero ma non romano, bensì giapponese: con lo stringersi dei rapporti creatisi con l’Asse Roma-Tokyo-Berlino celebrare gli alleati, la loro storia e la loro forza diventa un altro compito della stampa periodica. Ecco dunque che sulla copertina del 1942 si impone, in sella ad un cavallo dai tratti spettrali, la nera figura di un minaccioso samurai, sorta di versione nipponica dei mortiferi cavalieri apocalittici, che sembra librarsi in aria sullo sfondo di un grigio orizzonte marino segnato dalla presenza di navi da guerra del Sol Levante. Cfr. F. Rognoni, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XX, n. 3, marzo 1942.

149 R. Michahelles, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XII, n. 11, novembre 1933.

150 Bruno Munari (Milano, 1907-1998). A vent’anni aderisce al Movimento Futurista milanese della seconda generazione. Dal 1927 partecipa alle più importanti mostre futuriste e alle principali manifestazioni artistiche italiane. Nel dopoguerra è particolarmente attivo nel campo del design, concependo “l’arte come mestiere” destinata a migliorare l’ambiente privato e pubblico in cui viviamo. Cfr. M. Montanari, ad vocem Munari Bruno, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. II, Electa, Milano 1992, p. 992.

151 B. Munari, Copertina, ivi, a. XIV, n. 4, aprile 1936.

152 In questo numero è presente un inserto di riproduzioni fotografiche di statue e particolari di bassorilievi tratti da varie opere della Roma imperiale: appare così il particolare dei gemelli della Lupa Capitolina, un particolare di una statua marmorea di Giulio Cesare, una statua di Augusto seduto e col capo cinto da una corona d’alloro, la statua bronzea di Traiano, particolari dell’Ara Pacis e alcune scene della fondazione della capitale tratte dall’Ara Casali.

153 Alberto Salietti (Ravenna, 1892-Chiavari/GE, 1961). Nel 1904 si trasferisce a Milano, dove si dedica alla pittura frequentando i corsi dell’Accademia di Brera dopo un biennio di studi ginnasiali. Dopo aver combattuto durante la prima guerra mondiale inizia ad essere presente a esposizioni e manifestazioni d’arte, nazionali e internazionali; si lega al gruppo del Novecento italiano e diviene segretario del Comitato direttivo del movimento, partecipando alle varie rassegne organizzate dal gruppo. È inoltre membro del Consiglio superiore per le Antichità e le Belle Arti dal 1933 al 1936. Cfr. L. Selleri, ad vocem Salietti Alberto, in Dizionario biografico degli artisti, in La pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, t. II, Electa, Milano 1992, pp. 1054-1055. Per un approfondimento sull’artista si veda ad esempio Alberto Salietti un artista di Novecento, a cura di G. Giubbini e F. Ragazzi, Skira, Milano 1997.

154 A. Salietti, Copertina, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XV, n. 5-6, maggio-giugno 1937.

155 A tali soldati la rivista dedica la copertina del marzo del 1935, ove uno di essi è ritratto di profilo con il caratteristico copricapo rosso. Cfr. B. Buffoni, Copertina, in “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, a. XIII, n. 3, marzo 1935.

156 L’ipotesi dell’identificazione dell’obelisco raffigurato nella copertina della rivista con la stele di Axum è avanzata nel saggio di L. Acquarelli, Sua altezza imperiale. L’obelisco di Axum tra dimenticanza e camouflage storico, in “Zapruder”, n. 23, settembre-dicembre 2010, pp. 59-73. Si segnala che il testo è reperibile anche nel sito di “Storie in Movimento” (http://www.storieinmovimento.org/articoli/zapruder_n23_p058-073.pdf).

157 Colonne di Roma, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XXI, n. 5, maggio 1943, pp. 2-5.

158 Ivi, p. 5.

159 M. Sironi, Senza titolo, tavole a colori anteposte alle pagine numerate, in “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, a. XXI, n. 5, maggio 1943.

160 L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine (1988, Torino), Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 153.

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Temi di Critica - numero 10
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