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in questo numero contributi di Mario Alberto Pavone, Domenico Guarino, Michele Bertolini, Luca Vargiu.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Sulle tracce della pittura napoletana in Croazia tra Sei e Settecento
di Mario Alberto Pavone

Due eventi significativi siglano, agli inizi del Seicento, i rapporti tra la produzione figurativa napoletana e la committenza dalmata. Il primo è il pagamento finale a Girolamo Imparato (8 agosto 1606) per una Circoncisione da parte di Nicolò Radulovich, il quale già nel 1603 aveva versato un acconto di cinquanta ducati attraverso il Banco del Monte di Pietà[1]. Il secondo è il pagamento di duecento ducati a favore di Michelangelo Merisi da Caravaggio (6 ottobre 1606) per una «Madonna con Bambino in braccio e cinta di un coro d’Angeli et di sotto San Domenico e San Francesco nel mezzo abbracciati insieme, dalla man dritta San Nicolò e dalla man manca San Vito»[2], la cui consegna era prevista per la fine di dicembre. Un dipinto non ritrovato, ma alla cui iconografia è possibile risalire in parte grazie alla tela di Tommaso Fasano, allievo del Giordano, che alla fine del secolo ripropose il tema dell’abbraccio tra i santi nella Madonna del Rosario per la chiesa di Santa Maria Donnaregina a Napoli[3]: una soluzione che ha avuto seguito nella tela di un seguace del de Matteis, Domenico Guarino, per la chiesa madre di Laurenzana in Basilicata.

Nicolò Radulovich risulta pertanto figura cardine all’interno della rete di rapporti che legano i due pittori citati, pur di diverso orientamento artistico, alle richieste della committenza dalmata, soprattutto di area domenicana. Infatti, da una testimonianza riferita dal Prijatelj[4] è stato possibile risalire anche ad un’altra tela, contraddistinta dal riferimento all’IHS, già sull’altare maggiore della chiesa dei padri domenicani di Ragusa, che risultava firmata dall’Imparato e datata 1606[5]: un’opera commissionata nel 1605 dal nobile Michele Balabanni Sorgo di Ragusa, che era costata mille zecchini. La tela non ci è pervenuta in quanto, ridotta in brandelli dalle milizie di Napoleone e rimasta abbandonata nel soffitto del convento, non è stata più ritrovata. Quest’ultima commissione dovette avere certamente quale tramite il Radulovich, divenuto il principale riferimento, data la sua frequentazione dei maggiori protagonisti della pittura nell’area napoletana.

Nicolò, figlio di Francesco Radulovich ricco mercante e amatore di Lopud[6], si trasferì agli inizi degli anni ottanta del Cinquecento a Napoli, dove rimase fino alla morte nel 1608. Da una lettera del rappresentante a Napoli della corte di Mantova al segretario di Vincenzo Gonzaga è emersa la conferma delle sue notevoli possibilità finanziarie, legate al possesso di tre navi e al commercio del sale e dell’olio[7].

Nel 1604 il Radulovich acquistò il feudo di Polignano, acquisendo il titolo di marchese. A tale data risale l’inserimento dello stemma di famiglia all’interno del chiostro grande del complesso conventuale dei Minori Osservanti (divulgatori dell’IHS propagandato già dal Quattrocento da San Bernardino da Siena)[8]. La particolare circostanza che vede un dipinto dell’Imparato raffigurante il Nome di Gesù, già sull’altare della chiesa domenicana di Ragusa, e la commissione a Caravaggio di una tela che allude alla conciliazione tra l’ordine domenicano e quello francescano (dopo la lunga contrapposizione in merito al tema della Vergine Immacolata) sembra consentire l’ipotesi di un’azione promozionale svolta dal Radulovich a favore degli Osservanti, proprio nel giro di anni intorno al 1606. Rimane il problema della scelta stilistica, che se nel caso dell’Imparato poggia su una lunga consuetudine di rapporti con i pittori dell’area tardomanieristica durante il ventennio di presenza a Napoli (come è confermato anche dalla Madonna di Costantinopoli dell’Hovic )[9], nel caso della tela del Caravaggio rivela una preferenza alternativa di indubbia modernità, tanto più che il suo esempio verrà seguito, a breve distanza di tempo, dai responsabili del Pio Monte della Misericordia[10].

Pur senza aver la possibilità di recuperare elementi validi ad una lettura dell’opera dell’Imparato, celebrativa dell’IHS, la sua collocazione cronologica consente sia di porla in relazione alla citata Circoncisione , che con molta probabilità potrà essere identificata con la tela attualmente presso la Galleria di Palazzo Zevallos a Napoli[11], sia con i dipinti realizzati nel medesimo giro di anni. Infatti l’opera viene a collocarsi da un lato con l’Assunzione della Vergine per il soffitto di Santa Maria la Nova (1603), l’Allegoria dei Sacramenti di Sant’Elia a Pianisi, la Natività dell’Annunziata di Piedimonte Matese, l’Immacolata di San Raffaele a Vibo Valentia e dall’altro con la Trinità terrestre (San Giuseppe dei Ruffi), e con il Martirio di San Pietro da Verona (Napoli, chiesa di San Pietro Martire, 1607)[12].

Considerando gli esiti della Circoncisione, dove il pittore adotta un’insolita centralità che accomuna la struttura architettonica sullo sfondo e l’altare in primo piano con il Cristo bambino, memore di esiti del primo Cinquecento risalenti a Giovan Filippo Criscuolo, abbiamo un chiaro riscontro della produzione finale dell’artista, che consolida in una formula organica e compatta le precedenti inclinazioni volte a conciliare le tendenze fiamminghe di Teodoro d’Errico con la «maniera tenera» del Barocci, pur mantenendo viva l’attenzione al risalto cromatico dei particolari decorativi.

Con il balzo conseguente alla successiva commissione al Caravaggio, appena giunto a Napoli[13] e prontamente sostenuto dall’ambizione collezionistica del Radulovich, la scelta in direzione del “naturalismo” viene a porsi in linea con la svolta operata da parte di quel gruppo di pittori attivi a Napoli, che rimarranno segnati dal caravaggismo.

Se le figure maggiormente accreditate del panorama napoletano tenderanno a fronteggiare il fenomeno attraverso abili manipolazioni del linguaggio, rivolte ad un incupimento delle forme (come il Forli, il Santafede, il Curia e il Borghese)[14], un interesse crescente o meglio una linea operativa si registra attraverso le nuove generazioni, a partire da Carlo Sellitto[15], Battistello e Vitale, che avranno influenza sulla formazione di Massimo Stanzione, Andrea Vaccaro e del Ribera.

La lezione caravaggesca ebbe modo di incidere profondamente in ambito napoletano attraverso le esperienze che ne avevano decretato il successo a partire dal 1607: in un primo tempo con la tela raffigurante le Sette Opere di Misericordia per il Pio Monte della Misericordia, la Salomè con la testa del Battista (Madrid, Palazzo Reale) la Crocifissione di Sant’Andrea per il Viceré, conte di Benavente (Cleveland, Museum of Art), la Flagellazione per Tommaso De Franchis (poi trasferita in San Domenico Maggiore) e quella del Museo di Rouen, la Madonna del Rosario (Vienna, Kunsthistoriches Museum), oltre che con le tre tele per la cappella Fenaroli (già in Sant’Anna dei Lombardi), la Resurrezione, il San Giovanni Battista, e il San Francesco che riceve le stimmate; e in un secondo momento, tra il 1609/10, con dipinti ancor più segnati da una cruda incisività, quali il Davide e Golia (Roma, Galleria Borghese) e il Martirio di Sant’Orsola (Napoli, Palazzo Zevallos).

Riguardo poi alla continuità dei rapporti dei pittori napoletani va considerata anche la funzione avuta dal console raguseo a Napoli, Vincenzo Bune (anch’egli nativo di Lopud e appartenente al ceto mercantile come i Radulovich), la cui presenza nella capitale del Viceregno è documentata dal 1607 al 1612[16].

La memoria caravaggesca, ritenuta agli inizi del secolo fonte imprescindibile di riferimento, al punto da sollecitare integrazioni persino in ambito tardomanieristico, venne considerata dalle generazioni successive quale formula da adeguare a più moderne istanze, sulla scorta delle nuove suggestioni prodotte a seguito della nuova ondata di pittori fiamminghi giunti in Italia (Rubens, Van Dyck).

Un caso emblematico è rappresentato da Antonio De Bellis, che il De Dominici colloca tra i discepoli dello Stanzione, segnalando la forte suggestione esercitata su di lui da un dipinto del Guercino, noto a Napoli (Resurrezione di Lazzaro, Parigi, Louvre)[17]: «unendo il dolce colorito di Massimo, al forte del Guercino, ed imitando il gran chiaroscuro di quello, ne compose la sua maniera, la quale è robusta, e bene intesa di lumi, e d’ombre»[18].

Il pittore, la cui attività si colloca tra la metà degli anni trenta e la seconda metà degli anni cinquanta, con un percorso che si svolge in stretto parallelo con quello di Bernardo Cavallino, è riemerso di recente all’attenzione degli studi, consentendo di approfondire il rapporto sviluppato con il Ribera, il Maestro degli Annunci ai pastori e soprattutto con Francesco Guarini da Solofra. Tali riferimenti andranno integrati anche in relazione alle opere di Giovanni Ricca[19] e di Andrea Vaccaro, come risulta dal confronto con la tela di quest’ultimo realizzata per l’altare maggiore della chiesa di Santa Maria del Pianto (1660)[20], che consente uno stringente confronto con la Madonna del Rosario di Santa Maria di Portosalvo del De Bellis[21], per la parte relativa al gruppo di anime del Purgatorio.

Nel suo percorso artistico il De Bellis, dopo aver messo a frutto la formazione naturalistica, nutrita anche di riferimenti a Battistello Caracciolo, specie per i sondaggi condotti in penombra e allusivi alla profondità spaziale, ebbe modo di testimoniare l’adesione alle scelte del Cavallino, non disgiunte dai riferimenti al Grechetto, come risulta evidente dal Ritrovamento di Mosè (Londra, National Gallery), dalla coppia di dipinti di collezione d’Avalos (Napoli, Museo di Capodimonte)[22] e dalla serie di tele, ora in collezione privata, con tematiche relative al Vecchio Testamento (Mosè fa scaturire l’acqua[23], Ebbrezza di Noè[24], Lot e le figlie[25], Trionfo di Davide[26], Sansone e Dalila[27]), ad episodi della vita di Cristo (Riposo durante la fuga in Egitto[28], Cristo e la Samaritana[29], il Buon Samaritano[30]) e dei Santi (San Giovanni Evangelista[31], Santa Caterina d’Alessandria[32], Santa Dorotea[33]), oltre che a soggetti mitologici (Apollo e Marsia[34]).

La presenza nel territorio di Ragusa di due opere siglate dal pittore (ADB) ha consentito di estendere il raggio della sua attività, anche se va supposto che il pittore abbia inviato da Napoli ambedue le tele, probabilmente in tempi diversi. La Trinità terrestre per la chiesa della Madonna di Sunj nell’isola di Lopud, rivela una disciplina formale che rimanda allo Stanzione, anche se con approfondimenti sul Ribera, dato che gli effetti cromatici appaiano potenziati, anche a seguito di contatti con Onofrio Palumbo, manifesti anche nel taglio trasversale delle nubi. Nella parte superiore le virtuosistiche pose degli angeli, estratte dalla tradizione tardomanieristica al pari dei cangiantismi delle vesti, circondano l’apparizione del Padre Eterno, fortemente siglato da una impronta naturalistica. Il dipinto si pone pertanto in linea di continuità con le esperienze maturate in occasione del ciclo di San Carlo alle Mortelle (restituito agli anni della sua prima attività)[35] e con le tele realizzate, tra gli anni trenta e quaranta, per committenti privati: Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia (Budapest Museo)[36], Giudizio di Salomone presso l’Arciconfraternita dell’Immacolata (Caulonia)[37], Sansone e Dalila[38], Martirio di San Lorenzo[39], San Sebastiano curato da Sant’Irene[40] e Cristo deriso[41].

La Trinità terrestre, dove il Cristo bambino presenta le medesime caratteristiche della figura sulla sinistra nell’Ebbrezza di Noè di collezione privata[42],consente di verificare dichiarate aperture verso il Guarini, dalla struttura del panneggio all’elaborazione delle tipologie sottoposte ad un radicale rinnovamento, dove serpeggia una tensione che ricorda le espressioni dei personaggi di Giovan Battista Spinelli, proprio per la caratteristica connotazione dello sguardo, piuttosto torvo. La posa della Vergine, pur invertita, va considerata in relazione al Riposo nella fuga in Egitto di collezione privata[43], dove risulta caratterizzante anche la disposizione della mano sinistra in funzione indicativa. Nei due dipinti risulta invece diversa la sensibilità materica, che nel Riposo appare spinta a sollecitazioni di stampo rubensiano e nell’esemplare di Lopud è equilibrata verso un discorso unitario, al cui interno viene recuperata anche la tintura d’ombra che investe il San Giuseppe, sondato profondamente fin nei solchi oculari.

Nella Madonna in gloria con i Santi Biagio e Francesco d’Assisi del Museo di San Domenico a Dubrovnik il De Bellis recupera, nella zona superiore, la figura dell’Assunta dello Stanzione (Raleigh, North Carolina, Museum of Art) e si richiama ancora una volta al Guarini per la definizione del volto e per la disposizione semicircolare degli angeli tra le nubi. Dal punto di vista tipologico la Vergine ricalca inoltre il modello utilizzato dall’artista nella Sant’Agata visitata in carcere da San Pietro di collezione privata[44], ma anche nella Vergine in gloria di San Carlo alle Mortelle[45]. L’accentuato impreziosimento della dalmatica di San Biagio, unitamente al tenero impasto che definisce il volto, consente di cogliere affinità con il Sant’Ignazio di Antiochia della tela del Nome di Gesù di Cesare Fracanzano (1646) per la cappella eponima nella chiesa del Gesù a Gravina in Puglia[46]. Così la circolazione luminosa che coinvolge il capo testimonia un crescente orientamento pittoricistico dell’artista, consentendo di collegare l’opera al Sacrificio di Noè (Houston, The Museum of Fine Arts)[47], anche per i riferimenti tipologici al patriarca biblico, oltre che al protagonista del Buon Samaritano (collezione privata)[48]. L’intensa lumeggiatura che attraversa il volto del San Francesco consente un idoneo confronto con la figura in piedi con barba della citata Ebbrezza di Noè[49].

La questione della datazione dell’opera al periodo tra la fine del 1657 e gli inizi 1658, che contraddirebbe quanto asserito dal De Dominici circa la sua scomparsa a causa della peste del 1656[50], può essere a mio giudizio risolta considerando la possibilità di un inserimento della veduta della città sullo sfondo in una fase successiva alla realizzazione del dipinto. Pertanto le pur valide osservazioni in merito ai particolari topografici relativi ai bastioni di San Salvatore (1647-1658) e di Santo Stefano (1658-1660)[51] rafforzano l’ipotesi dell’intervento di un «vedutista», che attraverso l’inserimento dello spazio relativo alla città ebbe modo di collegare la veduta di Ragusa alla protezione dei due santi raffigurati.

Unica certezza rimane quella dell’incarico al pittore in una fase in cui era ritenuto ormai affermato, dal momento che sempre la committenza dalmata aveva rivolto attenzione a figure di pittori già consolidate e non ad esordienti.

Al pittore pugliese Cesare Fracanzano (Bisceglie 1605 – Barletta 1652 ca.)[52] spetta una tela raffigurante la Madonna del Rosario , già nella chiesa del Rosario a Dubrovnik e ora nel Museo Domenicano. Molto probabilmente l’opera venne realizzata a Napoli, in una delle fasi in cui è segnalata la presenza del pittore in città, che dalle indicazioni delle fonti e dei documenti può essere fissata tra 1622 e il 1633 e poi dal 1639 al 1646. In questa seconda tappa maturano scelte che rientrano nei criteri adottati dall’artista attraverso la rielaborazione di componenti di intenerimento materico e di adesione al pittoricismo fiammingo. Inoltre il risalto delle forme sullo sfondo dorato, in basso allusivo al paesaggio, trova un parallelo sia nella tela del Museo Diocesano di Bisceglie (Padre Eterno con i Santi Fortunato e Francesco), che nell’affresco della lamia del coro della chiesa napoletana di Santa Maria della Sapienza (Gloria della Vergine) e nella tela con l’Assunta dell’Eremo dei Camaldoli[53].

Un’estrema semplificazione formale, unita ad una originale simmetria, sigla l’esito della tela con la Madonna del Rosario, in cui il pittore recupera la struttura di base dalla tradizione tardomanieristica napoletana, vivacizzandola con le torsioni dei biondi putti in sospensione nella parte alta secondo principi inventivi tipici del Curia e dell’Imparato. Proprio la loro tipologia, così frequentemente utilizzata dall’artista, consente di confermare l’ipotesi attibutiva[54], confermata anche dall’adozione dei morbidi panneggi desunti dallo Stanzione, attraverso il quale aveva inteso riequilibrare l’originaria formazione, avvenuta presso il Ribera, insieme al fratello Francesco[55]. La recente acquisizione al catalogo dell’artista della Santa Lucia[56], di collezione privata,ha permesso inoltre di individuare tangenze sia con l’operato del Guarini e di Antonio De Bellis, oltre che di Bernardo Cavallino, al quale rimanda per l’estrema sensibilizzazione materica, per il trasporto estatico affidato ad una sottile diluizione cromatica che attraversa il capo e per la particolare stesura delle dita allungate.

Se il volo degli angeli rimanda alla Natività del Duomo di Pozzuoli (la cui fortuna iconografica è possibile registrare attraverso l’esemplare della Galleria Strossmayer di Zagabria, cm 220,6 x 164,5)[57], ulteriori elementi di convalida si individuano nella tersa cromia dei santi domenicani in primo piano e nella calda atmosfera che accoglie la Vergine sulle nubi, tipologicamente affine alle figure femminili utilizzate dall’artista, il quale «tolse per moglie una Giovane di onorato parentado…dalla quale, che bellissima era formata, egli solea prendere le idee de’ suoi naturali, e massimamente de’ volti, e del dolce girar d’occhi, avendo in mente… d’imitare in ciò l’idee bellissime di Guido Reni…»[58].

A Gregorio Preti (Taverna 1603-Roma 1672), fratello del più noto Mattia, andrà restituito il dipinto del Museo del Convento domenicano di Dubrovnik[59], che nella parte superiore raffigura le Sante Orsola e Agata, siglate da modalità compositive di stampo tardomanierista, al punto da lasciare spazio all’ipotesi che si possa trattare di un dipinto eseguito a due mani.

Nella zona inferiore sono presenti in successione i Santi Tommaso, Antonio Abate e Antonino Pierozzi da Firenze[60], che ha tra le mani la città di Cortona. Il riferimento alla protezione offerta dal santo alla città, nella quale era stato novizio prima di ricevere il sacerdozio e poi priore dal 1418 al 1421, consente di avanzare l’ipotesi che l’opera fosse presente a Cortona e in particolare nella chiesa di Sant’Antonio Abate, data la centralità di tale santo all’interno di tale composizione[61]. Alla luminosità della scena superiore si contrappone una cupa atmosfera in basso, che caratterizza le espressioni dei volti e le tinte dei panneggi secondo un metro compositivo che il Preti aveva appreso a Roma fin dagli anni della frequentazione dei primi seguaci di Caravaggio. Gli sguardi dei santi Antonio e Antonino sono rivolti verso l’alto, dove è stata inserita un’icona bizantina, che da un’iscrizione risulta del pittore italo-cretese Donato Bizamano (seconda metà XVI secolo).

Il Preti, documentato a Roma dal 1624[62], ha un percorso articolato, che lo porta ad assecondare le principali tendenze sviluppatesi in ambito romano con un’iniziale propensione verso il caravaggismo, dal quale ricava il gusto per i forti contrasti chiaroscurali con riferimenti anche alle esperienze romane dello Stanzione. Il declino della matrice caravaggesca, successivo alla scomparsa del Manfredi e al trasferimento del Saraceni e di Orazio Gentileschi, apre la strada all’apprezzamento degli esiti del Guercino e del classicismo bolognese. Proprio attraverso l’integrazione di tali linee di tendenza, con gli apporti del Vouet e del Valentin il linguaggio del Preti assumerà una sua connotazione, alla quale poi il modello sviluppato dal fratello Mattia fornirà la chiave per un approdo ad una più moderna codificazione[63]. Per le raffigurazioni dei due domenicani risultano essenziali i confronti con il San Giacinto del Museo Civico di Taverna, ma soprattutto con le due tele di collezione privata a Catanzaro (già presso la famiglia Poerio): San Tommaso e Santa Caterina da Siena[64].

La serrata disciplina formale che caratterizza le figure dei santi laterali induce a considerare il netto mutamento di rotta rispetto alle esperienze iniziali e il richiamo ad un classicismo austero, che lo pose in netta contrapposizione al fratello, che lasciò la comune bottega nel 1652[65]. Anche tipologicamente i volti dei santi rimandano a tratti fisiognomici di alcuni dei santi del Preti, verificabili attraverso la serie a mezzo busto della chiesa dell’Assunta di Nepi. La presenza di Sant’Antonio Abate su un fondo scuro richiama quella del Cristo nella Cena in Emmaus di collezione privata[66], per la quale è stata proposta una datazione 1635-1640. Se l’ampio sviluppo del manto sovrapposto al saio rimanda all’articolazione delle vesti del Sant’Antonio della tela di San Rocco a Ripetta a Roma (1663 ca.), la testa del santo, connotata da una folta barba, richiama gli esemplari del Preti adottati in composizioni quali il San Nicola della Madonna della Purità (Taverna, chiesa di San Domenico) o il San Martino della pala della chiesa eponima di Taverna, come il sacerdote dello Sposalizio della Vergine (Grosio, chiesa di San Giuseppe)[67].

Nella tela del Preti l’adeguamento ad un processo formale di rigorosa impronta accademica, se comprova l’assidua partecipazione del pittore all’Accademia di San Luca e dei Virtuosi del Pantheon, testimonia anche come, a seguito della presenza di Mattia a Napoli, Gregorio avesse avuto modo di conoscere modelli alternativi all’ambiente romano e piuttosto prossimi alla linea Vaccaro-De Maria.

Di ambedue i pittori sono presenti in terra dalmata alcuni dipinti che comprovano l’affermazione di tali artisti al di fuori dell’area meridionale e con riferimento ai principali ordini religiosi che avevano trovato diffusione nel territorio dalmata.

 Due importanti tele di Andrea Vaccaro (1604-1670) sono attualmente a Dubrovnik, entrambe legate al tema della incoronazione della Vergine, ma svolte in relazione alla Visione di San Giovanni Evangelista, per la chiesa del Carmine e al Paradiso per la chiesa di Ognissanti[68]. Ambedue trovano collocazione nell’ultimo periodo di attività dell’artista, quando l’artista sottopose le proprie scelte a maggiore rigore, avendo ormai da tempo lasciato alle spalle le esperienze giovanili, inizialmente spinte all’imitazione degli esempi napoletani del Caravaggio: «…ben tosto si scostò da quella maniera tutta oscura, e perduta fra l’ombre, e si avanzò nell’equilibrio giusto dell’altra rilevata nel chiaro, e ricercata con la luce del bello, con la perfezion delle parti, e colla intelligenza del tutto»[69].

La prima delle due tele trova un riferimento nel testamento della nobildonna Maria Resti del 1669, anche se dovette giungere a Dubrovnik prima del terremoto del 1667. Dai risultati del restauro[70] è emerso un luminoso cromatismo che valorizza il metro disegnativo adottato dall’artista, oltre che il solenne andamento dei panni che rivestono i protagonisti. La linea operativa del Vaccaro testimonia un ancor vivo interesse per le soluzioni adottate dagli artisti verso i quali venne orientandosi tra gli anni quaranta e cinquanta (Cavallino, De Bellis), consentendo una collocazione cronologica agli inizi degli anni sessanta, in parallelo con le tele di Santa Maria del Pianto (1660) e di Santa Maria dei Miracoli (1661), della quale è stato reso noto il bozzetto preparatorio [71]. Il profilo del Cristo rimanda alla tela raffigurante le Stimmate di Santa Caterina da Siena di Santa Maria della Sanità (1659), mentre la figura del Padre Eterno presenta notevoli punti di affinità con quella della citata tela di Santa Maria dei Miracoli.

Nel suo insieme il gruppo della Trinità, che accoglie la Vergine portata in volo dagli angeli, se ha un precedente in quello della tela di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli[72], fortemente legato a schemi tardomanieristici che inducono pertanto ad anticiparne la datazione, trova un possibile riferimento in una tela di collezione privata, resa nota di recente[73].

Con la fondazione a Napoli della Corporazione dei pittori napoletani, intitolata ai santi Anna e Luca su indicazione dei padri gesuiti che avevano promosso tale iniziativa, Vaccaro in qualità di primo prefetto (1664-66) ebbe modo di estendere alle nuove generazioni i principi compositivi di stampo accademico, orientati verso il definitivo superamento del linguaggio naturalistico e a contenere la diluizione materica divulgata dai pittori barocchi. Nel medesimo tempo in cui realizzava il quadro celebrativo dei santi protettori della Congregazione (Napoli, Museo Diocesano, 1666)[74] approdava ad una formula chiaroscurale volta ad introdurre un addensamento di ombre, fortemente invasivo, in relazione agli sfondi. Tale connotazione caratterizza il bozzetto con il Paradiso (cm 76,2 x 62,5)[75], che è stato giustamente messo in relazione alla tela di Ognissanti[76]. Dal confronto tra i due risultati emerge una complessiva rispondenza tra le parti, salvo l’orientamento del volto della Vergine in alto e del San Michele in basso a sinistra. La sintesi prodotta in occasione di tale commissione testimonia in primo luogo l’influsso dei modelli delle cupole decorate a Napoli tra il primo e il secondo Seicento, oltre ad una volontà di ridurre a sistema tale processo compositivo secondo un ordine e una regolarità non perseguiti fino ad allora dai pittori barocchi.

Su posizioni non lontane dagli orientamenti classicisti del maturo Andrea Vaccaro si colloca il napoletano Francesco de Maria (1623/26-1690): un artista dalla formazione controversa, avvenuta secondo Pietro Andrea Andreini in ambito familiare[77], mentre per il De Dominici nella bottega napoletana del Domenichino (1581-1641) negli anni in cui affrescava la cappella del Tesoro di San Gennaro (1630-1641)[78]. Dopo un soggiorno a Roma (1650 circa) l’artista fece ritorno a Napoli, dove esordì nel 1656 con uno stile legato in parte al rigore disegnativo del maestro emiliano e in parte alla macchia chiaroscurale del Preti, la cui influenza caratterizzerà interamente la produzione degli anni Cinquanta[79]. Tra i suoi primi lavori vengono ricordati dalle fonti due grandi teloni con il Martirio di San Lorenzo e l’Elemosina di San Lorenzo per San Lorenzo Maggiore, documentati rispettivamente al 1656 e al 1658[80], ai quali seguirono le due tele con Cristo e la Vergine per la cappella di Sant’Antonio da Padova della stessa chiesa[81]. La sintesi prodotta dal de Maria tra classicismo emiliano e barocco pretiano, manifesta negli esiti delle tele di San Giuseppe a Pontecorvo (Crocifissione, Visione di Santa Teresa d’Avila), realizzate nel 1660[82], trova continuità nella Visitazione e nel Riposo nella fuga in Egitto per Santa Maria la Nova (1661-1662), nei Santi Pietro e Paolo di Santa Maria di Monteverginella (1667 ca.), testimoniando una formula stilistica adottata in contrapposizione alla produzione del Beinaschi, che aveva proposto a Napoli una soluzione volta a saldare insieme gli esempi del Guercino e di Giacinto Brandi. Il consenso conseguito dall’artista è registrato negli inventari dei collezionisti, tra i quali John Cecil, conte di Exeter, il duca di Calabritto, il duca di Frisa (agente del granduca di Toscana), i principi di Frasso e di Belvedere, oltre che Cesare Michelangelo d’Avalos, marchese di Pescara e di Vasto[83].

Annoverato dalle fonti come virtuoso disegnatore e ritrattista[84], de Maria insieme al Vaccaro e a Giacomo Farelli (1624-1713) costituì nella Napoli del secondo Seicento una concreta alternativa alle libertà barocche di Luca Giordano (1634-1705), divenendo il depositario del metro classicista, grazie alla costante presenza nella Corporazione dei pittori napoletani dove, a detta di De Dominici, era solito impartire lezioni di anatomia agli artisti più giovani[85] .

Alla fine degli anni settanta trova idonea collocazione la pala della chiesa di San Domenico a Dubrovnik[86], raffigurante la Madonna col Bambino e i Santi Pietro, Simone, Francesca Romana, Caterina da Siena e Pio V, siglata con il riferimento al titolo di accademico romano, che consente di considerarla successiva al suo ingresso nell’Accademia di San Luca e nella Congregazione dei Virtuosi del Pantheon (1676). L’impronta devozionale del quadro è sottolineata dalla ripresa della Vergine col Bambino e Santi di Domenichino (1626-27, Roma, chiesa di San Lorenzo in Miranda), da cui deriva l’impianto piramidale di matrice classicista, al cui interno è stato ipotizzato un successivo inserimento della figura di San Tommaso d’Aquino[87] . La disciplina formale che regola la struttura e l’inserimento dei santi segna anche la divisione dell’opera su due piani, consentendo, per il gruppo della Vergine con il Bambino, riscontri tipologici che rimandano alla Trinità terrestre del convento dei Cappuccini di Nola, oltre che alla Sacra famiglia di San Giuseppe a Chiaia.

Nella stessa chiesa domenicana di Dubrovnik si conserva anche un altro dipinto, riferibile al de Maria[88], sebbene in passato sia stata avanzata l’ipotesi di una attribuzione a Giuseppe Castellano (1660 ca. – 1725)[89]. La tela, raffigurante la Vergine tra i Santi Andrea, Anna, Margherita di Savoia, Caterina da Siena, Antonino, Raimondo di Penafort e Giacinto (fig. 21), richiama quella di Carlo Maratta (1625-1713) della cappella Altieri della basilica domenicana di Santa Maria sopra Minerva a Roma, raffigurante San Pietro che presenta alla Madonna i cinque beati canonizzati da papa Clemente X (1672).

La figura della Madonna, con lo sguardo rivolto verso l’alto e le braccia incrociate sul petto, trova un parallelo in quella della Deposizione di sant’Agostino degli Scalzi a Napoli, la cui convincente attribuzione al de Maria[90] consente di verificare la continuità di un metro operativo rivolto ad offuscare attraverso il chiaroscuro le valenze cromatiche. Anche le figure delle domenicane con il capo rivolto verso il basso trovano punti di affinità con figure del de Maria, dalla Sant’Anna dei Girolamini alla Santa Teresa d’Avila della chiesa di San Giuseppe a Pontecorvo. Rispetto all’altra tela, che appare maggiormente vicina alle scelte del Farelli, la seconda tela appare rivolta al recupero delle modalità del Vaccaro, percepibili nella tipologia della Madonna, sebbene fortemente sottoposta a restauro, e nell’ampio manto che la avvolge. Un medesimo impasto cromatico rende possibile l’estensione al de Maria delle due tele con tematiche domenicane, di Santa Maria della Libera a Napoli, la Visione e la Morte di San Tommaso[91], i cui caratteri compositivi offrono ulteriori conferme sia per l’attribuzione della seconda tela realizzata per i domenicani di Dubrovnik, sia per la ricostruzione del percorso artistico del pittore, finora vincolato a principi rigorosamente disegnativi.

Sempre alla seconda metà del Seicento, va riferito il San Francesco di Paola di Dubrovnik, dove la ripresa dei caratteri ribereschi nel volto si placa nella stesura delle morbide e ampie pieghe del saio, che coprono l’intera composizione e consentono proprio per tale abbinamento un valido confronto sia con opere di Francesco Fracanzano, quali con il San Benedetto di San Gregorio Armeno e il San Paolo eremita della chiesa di Sant’Onofrio dei Vecchi a Napoli, sia con la produzione matura di Angelo Solimena e con quella giovanile del figlio Francesco, soprattutto in merito alla ripresa dei modi del Lanfranco.

Le due serie di Evangelisti delle chiese del Carmine e di San Biagio di Dubrovnik[92], riferibili all’ambito di Mattia Preti (1613-1699), testimoniano la fortuna iconografica delle singole rappresentazioni degli Evangelisti, disgiunte dal modello unitario che il Preti aveva formulato nell’esemplare dei Quattro Evangelisti del Museo di Palazzo Abatellis a Palermo, ricordato dal De Dominici nella collezione napoletana di Antonio Caputo «degnissimo Presidente della Summaria»[93], che pertanto viene a collocarsi negli anni della sosta del pittore a Napoli, tra il 1653 e il 1659. La circolazione di singole figure di Evangelisti rappresentate su tela viene segnalata negli inventari a partire dalla prima metà del Seicento, anche in territorio veneto, in riferimento ai principali artisti dell’area napoletana. Un significativo precedente della serie degli Evangelisti, raffigurati secondo moduli individuali, va individuato nel San Luca della Pinacoteca del Castello Ursino di Catania, già a Messina nella collezione del Principe Don Antonio Ruffo[94], che lo aveva acquistato nel 1669. La nuova serie ideata dal Preti vede l’introduzione di una cornice architettonica culminante in un arco a tutto sesto, che interviene a chiudere lo spazio e a ridurre l’espansione della figura sui lati. Tale codificazione allude al processo accademico che intervenne a segnare il definitivo distacco del Preti non solo dalle trascorse esperienze caravaggesche, ma soprattutto dai rimandi alle ombrose atmosfere del Guercino. A tale fase appartiene il San Marco della Pinacoteca di Palazzo Arnone a Cosenza, che rappresenta l’anello di congiunzione non solo con le serie di Evangelisti attualmente presenti in Dalmazia, ma anche con la serie di copie che costituirono il bottino del cavaliere Andrea Marciano, come risulta dal suo inventario del 1696[95]. Partendo dal confronto del San Marco di Cosenza con gli esemplari del Carmine e di San Biagio (opportunamente restaurati di recente insieme agli altri Evangelisti delle rispettive serie), oltre che con gli esemplari di collezione privata a Malta[96], risulta che l’intensità del bagliore luministico e la gamma argentea vengono ridotte in formule, lasciando ipotizzare una sequenza di repliche svolte da allievi del pittore attivi a Malta, come è confermato anche dalla presenza in collezione privata a Padova del San Giovanni Evangelista e del San Luca (già a Monaco)[97].

Va poi considerato che ai fini della datazione il San Marco risulta in linea con la produzione del Preti degli anni ottanta, come risulta dal confronto con le tele della Cattedrale di Mdina, dal Martirio di San Pietro, alla Guarigione del padre di San Publio, dove sullo sfondo compare il medesimo arco utilizzato dall’artista nella citata serie degli Evangelisti.

Passando a considerare il panorama pittorico del Settecento napoletano in Croazia, va assegnata alla fase tarda dell’attività di Francesco Solimena (1657-1747) l’Allegoria del Tempo del Museo di Dubrovnik, che costituisce il bozzetto per una composizione non identificata, che doveva decorare la volta di un palazzo nobiliare napoletano. Ad un primo sguardo l’opera potrebbe sembrare un ulteriore bozzetto del dipinto raffigurante le Quattro parti del Mondo (Bloomington, Indiana Museum)[98], che venne realizzato per la volta del Gabinetto annesso alla Camera da letto del Palazzo Reale di Napoli, in occasione delle nozze di Carlo di Borbone con Maria Amalia di Sassonia, figlia del re di Polonia (1738). Di tale dipinto era stato reso noto un bozzetto preparatorio (Parigi, collezione Ergmann), i cui caratteri di forte impianto chiaroscurale, sull’esempio del Preti, trovano un efficace parallelo nel dipinto ora a Dubrovnik. In effetti, anche se in quest’ultima tela sono presenti molte delle figure dell’Allegoria delle quatto parti mondo, secondo una prassi ripetitiva che sigla non solo l’operato dell’ultimo Solimena, ma soprattutto quello dei suoi ultimi allievi (come lo stesso nipote Orazio), il soggetto del dipinto è molto diverso.Nella parte alta il Padre Tempo domina la composizione, assiso tra le nubi e la sfera terrestre, mentre una figura femminile, attraversando l’uroboro (cerchio simbolico con il serpente che si morde la coda) gli porge la corona. Sul lato sinistro alla figura di Apollo, col cui carro simboleggia il sole nascente, corrisponde in basso quella della Notte, contraddistinta dalla civetta. Le due figure femminili sulla destra, che costituiscono una netta riproposta di immagini prodotte per la composizione allegorica di Palazzo Reale (in riferimento all’Europa nella parte alta e all’Asia nella parte bassa), alludono alla Magnanimità (affiancata dai simboli della corona regale e della tiara pontificia) e probabilmente alla Storia, data la presenza del libro aperto.

Proprio la stretta correlazione con le citate tele con l’Allegoria delle parti del mondo induce a collocare l’opera nell’ultimo decennio di attività dell’artista, che fu caratterizzato da una ripresa di tonalità tenebristiche e di accentuato risalto cromatico delle vesti.

Due nuove tele, raffiguranti il Sacrificio di Isacco e Agar e l’angelo, intervengono ad ampliare il catalogo della produzione del pittore Michele Pagano (1697 – 1750 ca.), il quale, inizialmente avviato al disegno nella scuola di Raimondo de Dominici, divenne paesaggista seguendo gli insegnamenti di Bernardo De Dominici, che gli consentì di entrare in contatto con il circolo letterario di Aurora Sanseverino, duchessa di Laurenzano: «istruendolo ne’ precetti prospetici, e del punto orizontale dell’occhio: come ancora dell’ore del giorno, nelle quali devon dipingersi i paesi e gli accidenti che portan seco. A persuasione poi di Gaetano Martoriello lasciò Michele di seguitare il Dominici, e si pose ad imitare i belli Sassi, e ’l vago colore del Martoriello; ma perché aveva fatto molto studio ne' lontani del Beich»[99].

I suoi moduli compositivi, legati al razionalismo dell’Arcadia, rivelano come, all’inizio degli anni ‘20, il pittore superasse i riferimenti alle composizioni di Salvator Rosa per approdare ad una visione della natura di forte effetto scenografico, facendo leva su elementi nodali, quali gli alberi secolari intrecciati e architetture in rovina.

La data 1728 che segna i due ovali con Diana e Atteone e Leda e il cigno , di collezione privata[100], risulta indicativa anche per le due tele con soggetto biblico, che testimoniano la sua intensa collaborazione con pittori di figura, ai quali veniva riservata la parte centrale del dipinto. L’intervento di un medesimo artista nei due dipinti risulta evidente dal completamento dell’opera attraverso l’inserimento di un gruppo di figure che rivelano un linguaggio del tutto autonomo rispetto a quello del Pagano.

La sensibilità manifestata attraverso la riproposta degli elementi naturali del paesaggio gli consentì di fissare i termini di una visione chiara e armoniosa, rivolta ad eliminare ogni asperità[101], che costituì il punto di forza della sua affermazione: «Per la qual cosa ebbe molte richieste de’ suoi paesi, così da nobili persone, che da’ Civili, ornando con essi Stanze, Gabbinetti, Gallerie, e Casini con sommo diletto di coloro, che possedeano i suoi dipinti, veggendo in quelli amena, verde macchia, bel frondeggio, bei siti, arie lucide, e nuvole ben dipinte, e toccate con maestria. I siti ottimamente imitati dal vero, e degradanti con belle tinte, e supplendo col suo naturale focoso nell’inventare i gran massi principali a’ suoi quadri, si rese compiuto in tutto il restante che rende perfetto il Paesare…la bellezza de’ suoi paesi ha sommamente invaghito il nostro celebre Francesco Solimena, e tanto che quattro ne comperò, venuti da Germania»[102]. Un apprezzamento che si registra, nel primo Novecento, nel giudizio di Sergio Ortolani: «…miniato di fronde, sensibile di passaggi verso lo sfondo, tenero e fresco di tinte, agile nelle minute figurine, elegante nei tagli: il primo vero settecentista trascrittore di rocce rosiane, di frappe gargiulesche, di sfondi dughetiani in paesistici madrigali rococò»[103].

A Santolo Cirillo (1689-1755)[104] vanno restituiti i due bozzetti del Museo di Dubrovnik, Mosè e il serpente di bronzo e Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia, che riscattano la figura di questo artista a lungo rimasto nell’ombra, in quanto giudicato un copista del Solimena. Il Dalbono[105], riguardo agli affreschi della cappella di San Vincenzo Ferreri in Santa Caterina a Formiello (1733), vi individuava anche riferimenti al De Matteis. L’artista, ritenuto «professore della pittura» nel documento del 23 ottobre 1748 relativo alla commissione di tre quadri per la chiesa di San Benedetto a Casoria, per i quali era prevista anche la consegna di «tre macchie»[106], risulta autore di un disegno firmato su ambedue i lati (Napoli, Museo di San Martino, Medaglioni con putti)[107].

I due bozzetti presentano un uguale sviluppo in verticale, che conferma la destinazione finale prevista per la volta di un ambiente ecclesiastico. Mosè e il serpente di bronzo trova perfetta corrispondenza con l’affresco dell’anticamera della sagrestia di Donnaregina Nuova a Napoli (firmato e documentato al 1735)[108]. In tale occasione Cirillo, attraverso ampie schiarite cromatiche, rielabora numerosi prelievi da opere del Solimena e soprattutto dal bozzetto con il Martirio dei Giustiniani a Scio (Museo di Capodimonte), dal quale riprende il soldato a cavallo che indica la scena, ma soprattutto la scansione dei piani culminante nell’ampio groviglio di angeli.

Una medesima struttura caratterizza l’altro bozzetto con Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia , alla cui sommità è posto un Padre Eterno tratto da modelli giovanili del Solimena. La seconda delle due scene non trova corrispondenza in Donnaregina, dove in precedenza il pittore aveva eseguito sulla volta del Comunichino il Miracolo della manna (1729): tema sviluppato anche per la Collegiata di Castel di Sangro (1741), insieme al Mosè e il serpente di bronzo, in formato orizzontale.

Il percorso noto dell’artista è segnalato a partire dal 1723 per una commissione di cinque quadri per la Duchessa di Laurenzano, Aurora Sanseverino, ai quali seguirono il Sogno di San Giuseppe, per la cattedrale di Capua (1724) e le diciassette tele del soffitto della chiesa della Maddalena a Napoli (1727). Negli anni ’30, oltre alla serie di santi per la Basilica di Santa Restituta e agli affreschi della Curia arcivescovile e della Sagrestia Cattedrale di Napoli (1734, San Gennaro che protegge Napoli), il pittore realizza l’Assunzione della Vergine per la chiesa dei padri della Missione ai Vergini (1733), la Dedicazione del Tempio per San Paolo Maggiore (1737), insieme alle diciotto tele per gli archi della navata centrale, raffiguranti Scene della vita e dei miracoli di Cristo e di San Gaetano[109]. Al percorso finale dell’artista spetta la riproposta del Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia per la Basilica di San Tammaro a Grumo Nevano (1746), oltre al gruppo di tele eseguite in due tempi per il vescovo Gennaro Fortunato di Cassano Ionio, Santa Teresa d’Avila e San Pietro d’Alcantara, San Francesco Saverio e San Vincenzo Ferreri nel 1745; San Rocco, San Lorenzo e San Sebastiano nel 1748: anno in cui si impegnò a realizzare per la chiesa di San Benedetto a Casoria la Gloria del Santo, la Madonna del Carmine e la Madonna del Rosario[110].

La tela con Abramo e gli angeli, di recente acquisita dal Museo di Dubrovnik, costituisce il bozzetto preparatorio del quadro realizzato da Giovan Battista De Mari (1722-1790) per il Refettorio del Palazzo Abbaziale di Loreto a Mercogliano (Avellino), siglato e datato 1753[111]. Del bozzetto è nota anche un’altra versione del medesimo pittore, in collezione privata[112], contraddistinta da una maggiore incisività, che consente di registrare l’adesione del pittore alla svolta accademica del De Mura.

Da una dichiarazione sullo stato patrimoniale del 1758 è emerso che «il medesimo Giovanni De Mari di detto medesimo Casale di Piazza di Pandola Stato di San Severino è dipintore di figure e per tale impiego a dimorato per molti anni nella città di Napoli sotto la disciplina del celebre dipintore Signore Francesco De Mura di detta medesima città e si trova attualmente applicato a detto impiego di dipintore di figura»[113] . Il pittore che risulta in rapporto anche con l’incisore Antonio Baldi, allievo del Solimena, divenne il divulgatore di una formula accademica, risolta con chiarità di tinte in opposizione al metro chiaroscurale del più anziano maestro. La sua prima opera nota è la Madonna Incoronata per la chiesa eponima di Montoro Superiore, in cui i riferimenti si estendono anche ad Angelo Solimena, confermando che la formazione dell’artista venne spesso condizionata dai modelli presenti tra le province di Salerno e Avellino, dove è segnalata la sua presenza. Infatti il pittore risulta attivo a Mercato San Severino (chiesa di Sant’Antonio) tra il 1754 e il 1761, a Gesualdo (chiesa del Rosario) tra il 1758 e il 1759 con una Crocifissione che riprende quella di Francesco Solimena, per il convento di Santa Teresa a Solofra, con la Gloria della Vergine e i Santi Sisto IV e Giovanni da Erfurth, che si lega esperienze del De Mura degli anni ’30, maturate in relazione alle commissioni per i padri benedettini di Montecassino. Nel 1760 al San Pasquale Baylon per la chiesa di San Giovanni Battista a Piano di Montoro Inferiore, seguì il ciclo di affreschi con Scene della vita di Maria per la Congrega del Rosario di Piazza di Pandola, dove attinse a modelli del Solimena, in riferimento alla cappella del Monte dei Poveri a Napoli e del De Mura della Certosa di San Martino. Sempre all’interno degli anni ’60 si collocano le tele della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, della chiesa di Santa Lucia di Serino, dove è evidente la ripresa degli esempi del Solimena in Santa Maria Egiziaca a Forcella, di San Nicola a Fisciano, e della chiesa di Sant’Agata a Solofra (1768). Degli inizi degli anni ’70 sono i dipinti per il soffitto della chiesa del Carmine di Preturo, di Montoro Inferiore, per la Collegiata di Solofra, dove adotta il medesimo schema utilizzato dal Solimena per l’Assunzione della Vergine nella Cattedrale di Capua. Dopo le due tele per la chiesa di San Vito di Piazza di Pandola (1774), con il San Biagio del 1776, recupera il cromatismo del giovane De Mura delle tele della Cattedrale di Teano.

La lezione di Francesco De Mura (1696-1782) relativa alla fase in cui il pittore aveva distaccato la propria produzione dagli esempi del Solimena, trova affermazione con la Madonna con Bambino e santi benedettini, presente a Dubrovnik, nella chiesa dei Gesuiti.

Sulla scorta del successo del modello demuriano trovarono inserimento opere dei suoi allievi, tra i quali l’autore del San Biagio del Museo di Dubrovnik (raffigurato quale protettore della città, la cui struttura fortificata appare in basso a destra) e Jacopo Cestaro (1718-1779)[114].

Il pittore ricordato dallo scrittore settecentesco Napoli Signorelli[115] , è noto a partire dalle tele per il convento di San Francesco di Marsiconovo in Basilicata (1741)[116], ancora legate all’impronta chiaroscurale del Solimena, quale caratterizza anche le tele per la chiesa dell’Immacolata a Fuscaldo, in Calabria. La piena adesione agli esempi del De Mura è testimoniata dalle tele della chiesa dei santi Filippo e Giacomo (Martirio di San Giacomo, San Filippo che infrange l’idolo), realizzate tra il 1757 e il 1758, alle quali seguì l’affresco della volta con l’Assunta (1759).

La Madonna del Carmine con San Giuseppe, San Giovanni Battista e San Biagio (che sostiene la città di Dubrovnik), viene a porsi nella fase del passaggio all’influenza demuriana, pur conservando caratteri tipici della lezione del Solimena. Così la solenne figura di San Pietro trova la sua rigorosa collocazione sulla sinistra della tela ricordando la solimenesca Madonna con i santi Pietro e Paolo di San Nicola alla Carità (1682), oltre che le tele di Santa Maria Egiziaca a Forcella (1690-1696).

All’interno della produzione del pittore è possibile recuperare un efficace confronto con il San Filippo della citata tela napoletana che trova un parallelo nella Visione dei Santi Filippo e Giacomo (1759) di Alessio D’Elia per la stessa chiesa di Napoli. Anche la tipologia della Vergine rimanda alla Cleopatra di collezione privata a Brescia[117], il cui precedente si individua nella tela di uguale soggetto del Museo di Capodimonte. Anche in esiti della fase tarda dell’artista, quali le tele per Santa Maria Donnalbina (Nascita della Vergine, San Francesco, Sant’Antonio da Padova, San Pasquale Baylon)[118] o il San Nicola di Bari (firmato) della cappella Pontano affiorano convincenti riscontri tipologici.

Nel suo complesso la Madonna del Carmine fornirà elementi compositivi validi per un successivo sviluppo al pittore Giacinto Diano (1731-1803), il quale condividerà con lui l’esperienza didattica nell’Accademia di Belle Arti di Napoli, a seguito della riforma introdotta da Luigi Vanvitelli nel 1772. Infatti, nella Madonna del Carmine (1771) della chiesa dell’Annunziata di Venafro[119] (Abruzzo), il Diano, sulla base di tale esempio, avrà modo di rivelare la propria capacità di ampliamento spaziale in chiave decorativa, nel tentativo di riaffermare il valore del barocco napoletano, in controtendenza rispetto ai canoni neoclassici.

Gli inizi del pittore[120] risultano condizionati da una rigorosa adesione all’arcadia demuriana, che caratterizza la decorazione del soffitto dello scalone del Seminario (1755) e le tele della chiesa di San Raffaele (1758-60) a Pozzuoli, oltre che i due grandi teloni per il presbiterio di San Pietro Martire a Napoli. Del 1762 sono la Madonna del Rosario del santuario della Madonna dell'Arco, la Decollazione del Battista della cappella del seminario di Pozzuoli e la Sacra Famiglia di Sant’Agostino degli Scalzi, che attraverso un più spiccato gusto cromatico si ricollega alle Allegorie dipinte dal De Mura per i Savoia a Torino. A queste seguirono la Crocifissione di Sant’Agostino alla Zecca (1763), gli Episodi della vita di San Giovanni di Dio, affrescati sulla volta della sala grande dell'ospedale di Santa Maria della Pace (1764) e nel ‘67 la Lavanda dei piedi e Cristo che saluta Maria per il Duomo di Pozzuoli (ora a Capodimonte), mentre nel 1768 nelle due tele per Sant’Agostino alla Zecca, con il Battesimo e la Conversione di Sant’Agostino, emerge, in un crescendo della densità dei valori atmosferici pervasi da una luce dorata, che rimanda al Giordano, un interesse nuovo verso l'ampliamento della dinamica spaziale. La decorazione della volta della sagrestia della chiesa di Santa Maria di Pozzano (Castellammare), realizzata su disegno di Luigi Vanvitelli, segnò l'inizio di una convergenza di interessi, soprattutto rispetto al nuovo ruolo assunto dalle architetture all'interno della composizione, che avvalorò la possibilità del suo inserimento tra i pittori attivi nella Reggia di Caserta. Nel 1773 realizzò la Deposizione per Sant’Agostino alla Zecca e nel ‘75, per il Santuario di Santa Maria Materdomini a Nocera Superiore, l'Apparizione di Maria e il Ritrovamento della Tavola miracolosa. Nel 1776, in occasione della decorazione della volta della sagrestia di Sant’Agostino alla Zecca con la raffigurazione della Dedicazione del tempio di Salomone, nel prendere come modello l’affresco realizzato da Giuseppe Bonito sulla volta di Santa Chiara, ebbe modo di approfondire i rapporti cromatici, impreziosendo la materia con raffinate striature luminose, secondo un metro operativo che trova continuità anche negli affreschi della volta del Duomo di Lanciano (1789), sempre in Abruzzo.

Al Diano spetta la tela raffigurante Davide e Abigail del Museo del Palazzo dei Rettori a Dubrovnik, che riprende modelli sviluppati dal De Mura verso il 1750, in occasione della decorazione delle sovrapporte del Palazzo Reale di Torino (Episodi della vita di Alessandro e Eroine romane)[121]. L’elegante figura di Abigail trova inoltre un precedente nella donna sulla destra della tela del De Mura con Paride che saetta Achille (Roma, collezione privata)[122]. Nel suo complesso la scena, con le rigide architetture sullo sfondo e le ampie muscolature dei portatori di doni in primo piano consente confronti con quanto realizzato dal pittore nel Martirio di Santa Caterina d’Alessandria (1758) e nella Guarigione di Tobia (1760) per la chiesa di San Raffaele a Pozzuoli.

Sempre nell’ambito della pittura del Settecento a Dubrovnik trova collocazione un artista che interviene nella decorazione della chiesa dei Gesuiti tra il 1735 e il 1738: Gaetano Garsia.

Dal Gabburri[123] ricaviamo un’importante informazione: «Don Gaetano Garzia di Palermo, pittore di storie, prospettive, architetture e ritratti. Scolare prima di Guglielmo Borrhomanz in Sicilia e poi in Roma scolare del cavalier Sebastiano Conca. In età di 26 anni, dopo il suo ritorno alla patria, ha dipinto in Palermo la galleria del Principe di Refadale don Antonio Montaperti e due gran quadri in due cappelle del monastero del cancelliere delle RR. MM. Benedettine di Palermo, con altre opere in detta città. Presentemente in questo anno 1738, chiamato a Ragusa, dipinge con plauso universale tutta la volta di quella chiesa cattedrale»[124].

Quest’ultimo riferimento risulta cronologicamente esatto (a parte l’inesattezza del luogo indicato, la Cattedrale al posto della chiesa del Gesù), in quanto trova conferma nell’Annuario del Collegio dei Gesuiti del 1738: «Ai 19 Gennaio, festa del SSmo Nome di Gesù, fu scoperta la tribuna della nostra chiesa, dipinta al fresco dal Sig. Gaetano Garzia Siciliano avendo in detto lavoro impiegato quasi tre anni nel qual tempo però fece anche il quadro di S. Saverio ad olio disegnato per l’altare della chiesa, dovendosi fare la nuova cappella di marmo, quali opere riuscite vaghe sono state universalmente applaudite avendo speso il Collegio per esse (oltre il mantenimento del pittore in casa) colori e aiuto de muratori zecchini duecento et altri 25 donatigli per regale»[125]. L’impegno maggiore risulta pertanto la decorazione dell’abside della chiesa dei Gesuiti, con la raffigurazione della Gloria di Sant’Ignazio nella calotta superiore e con i dipinti della zona dell’altare maggiore, dove è raffigurato al centro Sant’Ignazio che diffonde la devozione del Nome di Gesù nelle quattro parti del mondo , mentre a sinistra è l’Incontro di Sant’Ignazio con San Francesco Saverio e a destra Sant’Ignazio che accoglie nel suo ordine San Francesco Borgia .

Il pittore dovette entrare anche in contatto con l’Accademia di Francesco Solimena, sia per il fatto che collaborò con Antonio Baldi (1692-1773) per realizzare l’antiporta del volume Discussioni istoriche, teologiche, e filosofiche di Constantino Grimaldi, fatte per occasione della risposta alle lettere apologetiche di Benedetto Aletino (1725), sia in quanto nella scena dell’Incontro di San Francesco Saverio riutilizza per la figura sulla destra il servo di Abramo del dipinto del Solimena con Rebecca che si congeda dal padre ,inviato alla famiglia Baglioni di Venezia, di cui si conservano repliche ad Ajaccio e a Wiesbaden[126].

A parte tale citazione, l’influenza più determinante sul pittore maturò in ambito romano, come è manifesto nell’affresco superiore dell’abside, dove la scena della Gloria del santo è inserita in un contesto ripreso integralmente dall’affresco della cupola di Sant’Agnese a Roma[127] (realizzato nel 1689 da Ciro Ferri, allievo di Pietro da Cortona), per cui risulta evidente la sostituzione della Vergine con Sant’Ignazio. Soprattutto al Cortona rimandano le scene relative agli episodi della vita di Sant’Ignazio, come è manifesto nella ripresa, per la figura della Fede nell’Incontro con San Francesco Saverio, della Sibilla dell’Annuncio ad Augusto dell’avvento di Cristo (Nancy, Musée des Beaux Arts) e per il paggio nel San Francesco Borgia del Cortona, presente nella tela con Anania che guarisce San Paolo (Roma, Santa Maria della Concezione). Oltre ai riferimenti agli affreschi del Baciccio della cappella di Sant’Ignazio nella chiesa del Gesù, va sottolineato come la Morte di San Francesco Saverio di Garsia costituisca una copia del modello realizzato da Carlo Maratta per la stessa chiesa (1679), già ripresa da Gaetano Lapis nella tela di San Filippo a Cagli.

Concludo qui il percorso sulla pittura napoletana in Croazia, avendo seguito un arco cronologico che va dagli inizi del Seicento alla seconda metà del Settecento, che conferma una costante percezione, da parte della committenza croata, degli episodi pittorici di maggior rilievo verificatisi a Napoli nell’arco di tempo considerato.

Un’ultima segnalazione riguarda l’Apollo e Dafne del Museo del Palazzo dei Rettori a Dubrovnik, che costituisce la ripresa di un modello di ambito napoletano, tra Solimena e De Matteis, dove va sottolineata la variante della corsa dei due protagonisti, rispetto all’esemplare del Solimena, individuato di recente in collezione privata, che aveva fatto parte del gruppo di opere inviate al procuratore Canale a Venezia agli inizi del Settecento[128].

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Il presente lavoro ha avuto origine dalla collaborazione al catalogo della mostra Majstori talijanskog baroka u Hrvatskoj (Zagabria, Galerija Klovićevi dvori, 16 aprile – 2 agosto 2015) organizzata dal collega Radoslav Tomić e dalla dott. Danijela Marković, che ringrazio per avermi offerto questa rara occasione di rivolgere attenzione ad un panorama artistico finora non analizzato nella sua complessa articolazione.

1 G. B. D’Addosio, Documenti inediti di artisti napoletani del XVI e XVII secolo dalle polizze dei banchi, in “Archivio Storico per le province napoletane”, V, n. s., 1919, p. 394.

2 Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco di Sant’Eligio, giornale copia polizze, matr. 31, partita di ducati 200, estinta il 6 ottobre 1606: documento pubblicato da V. Pacelli, New documents concerning Caravaggio in Naples, in “The Burlington Magazine”, CXIX, dicembre 1977, pp. 819-829.

3 Cfr. B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, Ricciardi, Napoli 1742-45, III, p. 447: «in quella del Rosario […] è S. Domenico e S. Francesco d’Assisi, che si abbracciano…»; M.A. Pavone, Pittori napoletani del primo Settecento. Fonti e documenti, Liguori, Napoli 1997, p. 110.

4 K. Prijatelj, Radovi slikara iz srednje i juzne Italije na territoriju Dubrovacke Republike, in Barok u Hrvatskoj, a cura di A. Horvat, Sveučilična Naklada Liber, Zagabria 1982, p. 831.

5 Cfr. G. De Vito, Tracce di pittura napoletana del 600 a Ragusa, in “Ricerche sul 600 napoletano”, 1982, p. 46, nota 2.

6 Cfr. V. Pacelli, Caravaggio. Le Sette Opere di Misericordia, Edizioni 10/17, Salerno 1984, pp. 8-9, pp. 101-102; M. Basile Bonsante, Arte e devozione. Episodi di committenza meridionale tra Cinque e Seicento, Congedo, Galatina 2002, pp. 77-99; A. E. Denunzio, Per Nicolò Radolovich e il conte-duca di Benavente: testimonianze e riflessioni su due committenti di Caravaggio, in “Quaderni dell’Archivio Storico”, Napoli 2004, pp. 63-82.

7 Cfr. A.E. Denunzio, Per Nicolò Radolovich…, 2004, pp. 63-82: «È qui un Raguseo mercante ricchissimo, che vorrebbe negotiare due cose a Mantua, cioè sali, et oglio […] Il detto Mercante ha tre navi sue, ha denari assai…».

8 Cfr. M.A. Pavone, IHS come messaggio visivo, in “Grafica”, 2, 1986, p. 63 ss.

9 M. Basile, Arte e devozione…, 2002, p. 79.

10 V. Pacelli, Caravaggio…, 1984, p. 9 ss.

11 P. Leone De Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli 1573-1606, Electa Napoli, Napoli 1991, p. 333.

12 S. De Mieri, Girolamo Imperato nella pittura napoletana tra ‘500 e ‘600, Arte Tipografica, Napoli 2009, p. 210 ss.

13 V. Pacelli, L’ultimo Caravaggio, Ediart, Todi 1994, p. 15 ss.

14 Cfr. C. Restaino, Giovan Vincenzo Forlì, ‘pittore di prima classe nei suoi tempi’, in “Prospettiva”, 1987, 48, pp. 33-51.

15 Mostra didattica di Carlo Sellitto primo caravaggesco napoletano, catalogo della mostra (Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte, 1977), Macchiaroli, Napoli 1977.

16 G. De Vito, Tracce di pittura…, 1982, pp. 41-61.

17 S. Loire, École italienne, XVII siècle, Réunion des Musées Nationaux, Paris 1996, pp. 232-235.

18 B. De Dominici, Vite…, 1742-45, p. 110.

19 Cfr. V. Farina, Intorno a Ribera. Nuove riflessioni su Giovanni Ricca e Hendrick van Somer e alcune aggiunte ai giovani Ribera e Luca Giordano, in “Rivista di Storia Finanziaria”, Università di Napoli “Federico II”, 27, luglio-dicembre 2011, pp. 156-165: www.ilseicentodivivianafarina.com, 28 gennaio 2012, pp. 11-22; nonchéG. Porzio, Interferenze tra Francesco Guarini e la cerchia riberesca, in Francesco Guarini. Nuovi Contributi 1, Paparo, Napoli 2012, pp. 37-53.

20 Cfr. Il Museo Diocesano di Napoli, a cura di P. Leone de Castris, De Rosa, Napoli 2008, pp. 124-125.

21 G. Wiedmann, Francesco Guarini e Antonio De Bellis «tutti discepoli del Cavalier Massimo Stanzione», in Francesco Guarini…, 2012, pp. 55-65.

22 Cfr. N. Spinosa, in Bernardo Cavallino, catalogo della mostra (Napoli, Museo Principe Diego Aragona Pignatelli Cortes, 24 aprile - 30 giugno 1985), Electa Napoli, Napoli 1985, p. 178; P. Leone de Castris, in I tesori dei D’Avalos. Committenza e collezionismo di una grande famiglia napoletana, catalogo della mostra (Napoli, Castel Sant’Elmo, 22 ottobre 1994 – 22 maggio 1995), Fausto Fiorentino, Napoli 1994, pp. 120-121.

23 Cfr. N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli. Da Caravaggio a Massimo Stanzione, Arte’m, Napoli 2010, pp. 208, 88.

24 Cfr. G. De Vito, Tracce di pittura…, 1982, fig. 32.

25 Cfr. N. Spinosa, in Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra (Napoli, 24 ottobre 1984 - 14 aprile 1985), Electa Napoli, Napoli 1984, p. 239.

26 Cfr. G. De Vito, Ritrovamenti e precisazioni a seguito della prima edizione della mostra del 600 napoletano, in “Ricerche sul ‘600 napoletano”, 1984, fig. 47.

27 Cfr. N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli…, 2010, pp. 210-211.

28 Ibid., p. 212.

29 Cfr. N. Spinosa, in Bernardo Cavallino…, 1985, p. 179. Per una versione successiva, volta ad una maggiore concentrazione sul tema e ad una inversione delle figure, anche rispetto al bassorilievo posto sul pozzo, si veda in Quattro stanze, Quattro pittori, catalogo della mostra (Napoli, Galleria Napoli Nobilissima, 28 febbraio - 12 aprile 2008), a cura di G. Porzio, Napoli 2008, pp. 62-65, nonché N. Spinosa, Ritorno al barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli, catalogo della mostra (Napoli, Museo di Capodimonte, 12 dicembre 2009 – 11 aprile 2010), Electa Napoli, Napoli 2009, pp. 203-204.

30 Cfr. N. Spinosa, in Civiltà del Seicento..., 1984, p. 239; nonché la versione resa nota in occasione della mostra Quattro stanze, Quattro pittori..., 2008, pp. 58-61. Si veda in proposito G. Wiedmann, Francesco Guarini e Antonio De Bellis…, 2012, p. 57, fig. 1.

31 Cfr. P. Leone de Castris, Il Seicento napoletano nella fototeca Longhi: Giovan Battista Spinelli e Antonio De Bellis, in “Paragone”, 1991, 491, pp. 41-53.

32 Cfr. N. Spinosa, in Ritorno al barocco…, 2009, pp. 208-209.

33 Cfr. G. Wiedmann, Francesco Guarini e Antonio De Bellis…, 2012, figg. 5-6.

34 Cfr. N. Spinosa, in Civiltà del Seicento…, 1984, p. 238.

35 Cfr. G. De Vito, in Painting in Naples from Caravaggio to Giordano, catalogo della mostra (Londra, Royal Academy, 2 ottobre – 12 dicembre 1982), Royal Academy of Arts, London 1983, pp. 149-150; Id., Ritrovamenti e precisazioni…, 1984, pp. 11-13.

36 Ibid., figg. 42-44.

37 Cfr. G. De Vito, Ritrovamenti e precisazioni…, 1984, fig. 45; R. C. Leardi, Intorno a un ritrovato Antonio De Bellis, in “Esperide”, 2011-2012, pp. 34-45.

38 Cfr. G. De Vito, Tracce di pittura…, 1982, fig. 33.

39 Cfr. N. Spinosa, in Civiltà del Seicento…, 1984, p. 236.

40 Ibid., p. 237.

41 Cfr. G. Wiedmann, Francesco Guarini e Antonio De Bellis…, 2012, p. 58, fig. 3; N. Spinosa, Grazia e tenerezza "in posa". Bernardo Cavallino e il suo tempo 1616-1656, Roma 2013, pp. 447-468.

42 G. De Vito, Tracce di pittura…, 1982, fig. 32.

43 Cfr. N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli…, 2010, p. 133.

44 Cfr. P. Leone de Castris, Il Seicento napoletano nella fototeca Longhi…, 1991, pp. 41-53: un’opera che andrà considerata in parallelo alla tela di uguale soggetto del Museo di Nevers (cfr. G. Porzio, La Sainte Agathe en prison du musée de Nevers et les débuts de Bernardo Cavallino,in “La revue des musées de France”, 62, 2012, 5, pp. 52-53).

45 Cfr. N. Spinosa, in Bernardo Cavallino…, 1985, p. 181.

46 Cfr. M. Pasculli Ferrara, in Angelo e Francesco Solimena: due culture a confronto, catalogo della mostra (Casa di Sant’Alfonso de Liguori, Pagani; Convento di Sant’Anna, Nocera Inferiore; Cattedrale di San Prisco, Nocera Inferiore, 17 novembre – 31 dicembre 1990), Franco Maria Ricci, Milano 1990, p. 30, tav. 6.

47 Cfr. G. De Vito, Tracce di pittura…, 1982, fig. 34; N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli…, 2010, p. 208.

48 Cfr. N. Spinosa, in Ritorno al barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli, catalogo della mostra (Napoli, 12 dicembre 2009 – 11 aprile 2010), Electa Napoli, Napoli 2009, p. 206.

49 Cfr. G. De Vito, Tracce di pittura…, 1982, fig. 32.

50 B. De Dominici, Vite…, III, 1742-45, pp. 109-111.

51 Cfr. L. Bertic, Le mura di Dubrovnik, Dubrovnik 1966, pp. 25-26; G. De Vito, Tracce di pittura…, 1982, p. 44.

52 R. Causa, La pittura del Seicento a Napoli dal naturalismo al barocco, in Storia di Napoli, Soc.Ed. Storia di Napoli, Cava de’ Tirreni 1972, V/2, pp.949-950; M. D’Elia, Sulle orme dei Fracanzano in Puglia, in Studi di storia pugliese in onore di N. Vacca, Congedo, Galatina 1971, pp. 117-130; M. D’Elia, La pittura barocca, in La Puglia tra barocco e rococò, Electa,Milano 1982, pp. 234-244.

53 M.L. Bugli, Cesare Fracanzano: nuovi documenti e alcuni dipinti inediti, in “Kronos”, 2001, 3, pp. 73-84

54 Cfr. G. De Vito, Tracce di pittura…, 1982, p. 43.

55 Cfr. B. De Dominici, Vite…, 1742-45, III, pp. 82-87.

56 Cfr. Blindarte, Asta 69, Napoli 30 novembre 2014, lotto 113: olio su tela, cm 102 x 75 (firmato per esteso).

57 Cfr. S. Cvetnić, Napuljski “presepio” u Strossmayerovoj galeriji u Zagrabu, in “Peristil”, 1994, 37, pp. 133-136.

58 Ibid., p. 83.

59 Cfr. M. Kolić Pustić, Tragom dubrovačķih naručitelja slika s područja južne Italije u baroknom razdoblju, in Umjetnost i Naručitelji, a cura di J. Gudelj, Zagabria 2010, pp. 101-110: dove è indicata tale attribuzione sulla base di una comunicazione orale di J. Spike.

60 Cfr. A. D’Addario, voce Antonino Pierozzi da Firenze (1389-1459), in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, 1961, 3: www. treccani.it.

61 Si intende avanzare qui l’ipotesi della provenienza dell’opera da Cortona, anche in assenza di uno specifico riferimento delle fonti (G.G. Sernini Cucciatti, Quadri in chiese e luoghi pii di Cortona alla metà del Settecento, a cura di P. J. Cardile, Calosci, Cortona 1982; A. Della Cella, Cortona antica, Tipografia Sociale, Cortona 1900), tanto più che D. Tartaglini (Nuova descrizzione dell’antichissima città di Cortona, Costantini, Perugia 1700, 164) ricordava la sosta a Cortona di San Francesco, Sant’Antonio da Padova, San Bernardino da Siena e Antonino arcivescovo di Firenze «che l’illustrò co’ suoi dottissimi scritti».

62 Cfr. R. Vodret, “Gregorio dello Prete” a Roma nel 1624, in Gregorio Preti, calabrese (1603-1672): un problema aperto, a cura di R. Vodret, G. Leone, catalogo della mostra (Cosenza, Galleria Nazionale di Palazzo Arnone, 11 maggio – 27 luglio 2004), Silvana, Milano 2004, pp. 21-24.

63 Cfr. G. Porzio, Per una rivalutazione di Gregorio Preti, in “ArtItalies”, 2012,18, pp. 39-45.

64 G. Valentino, Il tempo di Gregorio. Tracce per una ricostruzione storica del patrimonio artistico di taverna dal 1603 al 1672, in Gregorio Preti…, 2004, pp. 39-47.

65 J. T. Spike, Gregorio Preti. I dipinti, i documenti, Centro Di, Firenze 2003, p. 57.

66 Cfr. R. Lattuada, in Gregorio Preti…, 2004, pp. 156-157.

67 Cfr. Gregorio Preti…, 2004, pp. 116-117, 120-121, 126-127.

68 Cfr. K. Prijatelj, Dvije slike Andree Vaccara u Dubrovniku, in “Studije o Umjetninama u Dalmaciji”, I, Zagreb 1963, pp. 71-72.

69 B. De Dominici, Vite…, 1742-45, III, p. 137.

70 R. Tomić, O slikama u crkvi Gospe od Karmena u Dubrovniku, in Restaurirane slike iz crkve Gospe od Karmena u Dubrovniku, Hrvatski Restauratorski Zavod, Restautorski Odjel Dubrovnik, Tiskano u Hrvatskoj, Zagreb 2007, 5-12.

71 Cfr. R. Lattuada, I percorsi di Andrea Vaccaro (1604-1670), in M. Izzo, Nicola Vaccaro (1640-1709), Tau Editrice, Todi 2009, pp. 101-103.

72 Cfr. G. De Vito, Appunti per Andrea Vaccaro con una nota su alcune copie del Caravaggio che esistevano a Napoli, in “Ricerche sul ‘600 napoletano”, 1994-1995, p. 112.

73 Cfr. V. Pacelli, Andrea Vaccaro patriarca della pittura del Seicento a Napoli, in “Studi di Storia dell’arte”, 2008, 19, p. 164.

74 Cfr. A. K. Tuck-Scala, Andrea Vaccaro. Naples, 1604-1670. His Documented Life and Art, Paparo, Napoli 2012, pp. 136-139.

75 Christie’s Roma, 18 giugno 2002, lotto 770; Sotheby’s Milano, 29 novembre 2005, lotto 168.

76 R. Tomić, Andrea Vaccaro: novi podaci i zapažanja o njegovim slikama u Dubrovniku, in“Journal of the Institute of Art History, Zagreb”, Zagabria 2011, pp. 125-130.

77 Cfr. G. Ceci, Scrittori della Storia dell’arte napoletana anteriori al De Dominici, in “Napoli Nobilissima”, VIII, 1899, p. 164.

78 B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, Napoli, 1742-1745, edizione commentata a cura di F. Sricchia Santoro, A. Zezza, Paparo, Napoli 2009, vol. II, t. I, p. 562.

79 R. C. Leardi, Francesco di Maria (1623-1690), tesi di laurea magistrale, Seconda Università di Napoli anno accademico 2008-2009; ibid., Novità e precisazioni su Francesco de Maria (1623/26-1690), un attivo conservatore nella Napoli del secondo Seicento (in corso di stampa).

80 Cfr. C. Fiorillo, Aspetti poco noti del Seicento Napoletano. Francesco Di Maria, Arte Tipografica, Napoli 1985, pp. 109-110.

81 Cfr. M. A. Pavone, Angelo Solimena e la pittura napoletana della seconda metà del Seicento, Arti Grafiche Boccia, Salerno 1980, pp. 19-22.

82 Cfr. A. Nappi, Pontecorvo tra i secoli XVI e XVII, in “Ricerche sul ‘600 napoletano”, 2005, p. 91.

83 Cfr. G. Pagano de Divitiis, I due Recco di Burghley House. Osservazioni sul collezionismo inglese e sul mercato delle opere d’arte nella Napoli del Seicento, in “Prospettive Settanta”, 1982, p. 386; G. Labrot, Collections of Paintings in Naples (1600-1780), Saur, Monaco 1992, pp. 146-147; M. Bugli, Da Capodimonte a Palazzo Grande a Chiaia. La collezione d’Avalos ‘torna’ nella prestigiosa dimora, in “Ricerche sul ‘600 napoletano”, 2004, pp. 14, 32.

84 D. A. Parrino, Nuova guida, Parrino, Napoli, s.n., 1725, p. 89; B. De Dominici, Vite..., 2009, vol. II, t. I, p. 561.

85 B. De Dominici, Vite…, 2009, vol. II, t. I, p. 576.

86 L’opera è resa nota da Kruno Prijatelj nel 1975. Cfr. C. Fiorillo, Aspetti…, 1985, p. 79, fig. 39; p. 94; p. 137, nota 141.

87 C. Fiorillo, Aspetti…, 1985, p. 137, nota 141.

88 K. Prijatelj, Dvije Dubrovacke pale iz Napuljskog secenta, in “Studije o Umjetninama u Dalmaciji”, V, Zagreb 1989, pp. 80-84.

89 C. Fiorillo, Aspetti…, 1985, pp. 81, 109, fig. 40. Per l’artista si veda M. Rotili, voce Castellano, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1978, vol. XXI; e la recente trattazione in M. di Mauro, Nuova luce sulla bottega del Beinaschi, in V. Pacelli, F. Petrucci, Giovan Battista Beinaschi. Pittore barocco tra Roma e Napoli, Budai, Roma 2011, pp. 225-226.

90 Cfr. A. Tecce, in G. A. Galante, Guida alla Napoli Sacra, a cura di N. Spinosa, Società Ed. Napoletana, Napoli 1985, pp. 267, 275, nota 18.

91 Devo la conoscenza dei dipinti all’amico e collega Riccardo Lattuada, che me ne ha segnalato la presenza in Santa Maria della Libera come opere del de Maria.

92 K. Prijatelj, Prilog Odjeku Caravaggia u Dalmaciji, in “Studije…, 1989, pp. 85-90.

93 B. De Dominici, Vite…, 1742-45, III, p. 339.

94 Cfr. V. Ruffo, Galleria Ruffo nel secolo XVII in Messina, in “Bollettino d’Arte”, 1916, X, pp. 318, 369.

95 J. T. Spike, Mattia Preti. Catalogo ragionato dei dipinti, Centro Di, Firenze 1999, p. 129/28.

96 Id., A Chronology, in The Four Evangelists in the Oeuvre of Mattia Preti,atti del convegno, (Dubrovnik, 16-17 ottobre 2008), Hrvatski Restauratorski Zavod, Dubrovnik 2008, pp. 59-61.

97 Cfr. N. von Breska Ficović, The Four Evangelists by Mattia Preti as Part of the Baroque Ensemble of Our Lady of Carmel, in The Four Evangelists…, 2008, p. 43.

98 Cfr. F. Bologna, Solimena al Palazzo Reale di Napoli, in “Prospettiva” 1979, 16, pp. 53-67; N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento, Electa Napoli, Napoli 1986, pp. 118-119; F. Petrelli, in Ritorno al Barocco…, 2009, pp. 286-287.

99 B. De Dominici, Vite…, 1742-45, III, pp. 557-558.

100 S. Abita, Michele Pagano, un paesaggista a Napoli nel Settecento, in “Bollettino d’arte” 1976, pp. 188-192; Cfr. N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento…, 1986, pp. 69-74, 96; S. Costanzo, Pittura tra Malta e Napoli nel segno del barocco. Da Raimondo il “Maltese” a Bernardo De Dominici, CLEAN, Napoli 2011, pp. 350-356, 415-420.

101 Cfr. M.A. Pavone, Pinacoteca Provinciale di Salerno. I dipinti dal Quattrocento al Settecento, Edizioni Menabò, Salerno 2001, pp. 163-176.

102 B. De Dominici, Vite…, 1742-45, III, p. 557-558.

103 Cfr. S. Ortolani, Giacinto Gigante e la pittura di paesaggio a Napoli e in Italia dal ‘600 all’800, a cura di R. Causa, Montanini, Napoli 1970, p. 121.

104 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani..., 1997, p. 219; F. Pezzella, Santolo Cirillo. Pittore grumese del ‘700, Tip. Cav. Mattia Cirillo, Frattamaggiore 2009; C. De Letteriis, Sviluppi della pittura solimenesca a San Severo: le opere di Alessio D’Elia e Santolo Cirillo. Nuove attribuzioni, in 33° Convegno Nazionale sulla Preistoria, Protostoria, Storia della Daunia,a cura di A. Gravina, Sansevero 2013, pp. 257-282.

105 C.T. Dalbono, Storia della pittura in Napoli e in Sicilia dalla fine del 1600 a noi,Stamp. L. Gargiulo, Napoli 1859, p. 110.

106 U. Fiore, in M.A. Pavone, Pittori napoletani..., 1997, p. 549.

107 W. Vitzthum, Disegni napoletani del Sei e Settecento, catalogo della mostra (Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte, 19 dicembre 1966 – 19 gennaio 1967), L’arte tipografica, Napoli 1966, p. 37.

108 V. Rizzo, in Le Arti figurative a Napoli nel Settecento, Soc. Ed. Napoletana, Napoli 1979, p. 232; U. Fiore, in M.A. Pavone, Pittori napoletani..., 1997, p. 548.

109 V. Rizzo, Santolo Cirillo un nostalgico degli ideali classicistici del Domenichino, in “Napoli Nobilissima”, gennaio-dicembre 1998, pp. 195-208.

110 Ibid., pp. 205-208.

111 F. Formica, Giovanni De Mari «per molti anni dipintore di figura presso il celebre Francesco De Mura», in Interventi sulla «questione meridionale». Saggi di Storia dell’arte, a cura del Centro di studi sulla civiltà artistica dell’Italia meridionale «Giovanni Previtali», Donzelli, Roma 2005, p. 262.

112 Fondazione Federico Zeri, Università di Bologna, Fototeca: Anonimo secolo XVIII, Abramo e i tre angeli, Fascicolo Francesco Solimena: bottega; scheda n. 64392, busta n. 0597.

113 Cfr. F. Formica, Giovanni De Mari…, 2005, p. 261.

114 N. Spinosa, Pittori napoletani del secondo Settecento: Jacopo Cestaro, in “Napoli Nobilissima”, 1970, maggio-agosto, pp. 73-87.

115 P. Napoli Signorelli, Gli artisti napoletani della seconda metà del sec. XVIII, a cura di G. Ceci, in “Napoli Nobilissima”, 1923, p. 26.

116 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani…, 1997, pp. 221-223.

117 Cfr. N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento..., 1986, pp. 72-73.

118 Cfr. N. Spinosa, Pittori napoletani del secondo Settecento: Jacopo Cestaro…, 1970, pp. 81-82.

119 Cfr. L. Mortari, Molise. Appunti per una storia dell’arte, De Luca, Roma 1984, p. 165.

120 Cfr. M.A. Pavone, voce Diano Giacinto, detto il Pozzolano, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1991, vol. 39: www.treccani.it.

121 G. D’Alessio, Nuove osservazioni sulle committenze reali per Francesco De Mura tra Napoli, Torino e Madrid, in “Prospettiva”, 1993, 69, pp. 70-87.

122 Cfr. N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento..., 1986, p. 160, fig. 303.

123 G. Perini, voce Gabburri, Francesco Maria Niccolò, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 51, 1998; N. Barbolani di Montauto, Francesco Maria Niccolò Gabburri «gentiluomo intendente al pari d’ogn’altro e dilettante di queste bell’arti», in Storia delle arti in Toscana. Il Settecento, a cura di M. Gregori, R.P. Ciardi, Edifir, Firenze 2006, pp. 83-94.

124 F. M. N. Gabburri, Vite di Pittori, Ms. Firenze, Biblioteca Nazionale, Fondo Palatino, Vol. II, p. 725.

125 M. Vanino, Ljetopis dubrovackog kolegija, Vrela i prinosi 7, Sarajevo 1937, p. 68; cfr. K. Prijateli, Garcijine freske u Dubrovackoj isusovackoj crkvi, in “Studije o umjetninama u Dalmaciji”, 1983, IV, pp. 106-118.

126 Cfr. S. Carotenuto, Nuovi documenti sui rapporti di Francesco Solimena con la committenza veneta e una proposta per l’Apollo e Dafne, in “Arte Veneta”, 2014, 69, pp. 55-69.

127 Cfr. V. Marković, Zidno slikarstvo 17. I 18. Stoljeca u Dalmaciji, tesi di dottorato, Zagabria 1978, pp. 103-104: citazione in K. Prijateli, Garcijine freske…, 1983, p. 112; V. Marković, O predloscima za zidne slike 17. I 18. St. u Dubrovniku, inPeristil”, 1994, 37, pp. 137-140.

128 Cfr. S. Carotenuto, Nuovi documenti…, 2014, pp. 55-69; nonché La fortuna del Barocco napoletano…, 2010, pp. 138-141.

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Temi di Critica - numero 11
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