teCLa :: Rivista

in questo numero contributi di Antonio Cuccia, Salvatore Mercadante, Edgard Fiore, Paolo Emilio Carapezza.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Novità su Jacopo Cestaro di Edgard Fiore

Nel saggio introduttivo alla Pittura napoletana del Settecento,[1] che analizza i pittori napoletani attivi negli anni di Carlo (1734-1759) e Ferdinando di Borbone (1759-1816), Nicola Spinosa sottolinea come i vari artisti formatisi presso l’Accademia di Francesco Solimena abbiano riproposto, con interpretazioni diverse, gli insegnamenti, i modelli e le indicazioni dell’Abate Ciccio. Jacopo Cestaro rappresenta sicuramente uno degli esempi più significativi di tale orientamento, sebbene la sua attività si collochi verso la fine di tale percorso. Il pittore risulta nato a Bagnoli Irpino (AV) nel 1718, secondo quanto affermato da De Rogatis,[2] mentre Di Castiglione,[3] facendo riferimento ad altre fonti, ipotizza come data di nascita l’anno 1712. Va chiarito a tal proposito che non è stato ancora rinvenuto l’atto di nascita del pittore, sebbene vari documenti testimonino che fosse originario di tale località.

Finora dalla consultazione dei registri conservati nella chiesa madre e da quelli comunali non sono emersi dati relativi al pittore. Secondo quanto riportato da Di Castiglione,[4] l’artista sposava nel 1750 la napoletana Serafina de’ Sio, dalla quale avrebbe avuto quattro figli: Giuseppe, Gennaro, Nicola ed Andrea.

Il Cestaro, probabilmente allievo del Solimena tardo, nel momento in cui l’Abate Ciccio stava recuperando le suggestioni di Mattia Preti e del Lanfranco “napoletano”, va artisticamente collocato al di fuori sia dalle libere impressioni cromatiche di Domenico Mondo, sia dalle aeree raffinatezze formali di Giacinto Diano. La posizione dell’artista non va comunque considerata all’interno della “fronda antisolimenesca”,[5] sviluppatasi ad inizio secolo sull’esempio di Giacomo del Po e di Domenico Antonio Vaccaro, e successivamente di Francesco De Mura, anche se con motivazioni diametralmente opposte.[6] Il pittore di Bagnoli, infatti, nonostante il favore del pubblico e degli “intendenti” contemporanei (il Vanvitelli lo riteneva uno dei migliori pittori del panorama artistico di quegli anni) non ha goduto di grande fortuna critica né tra i biografi del tardo Settecento né tra quelli di inizio Ottocento. Tra i biografi solo il Napoli Signorelli[7] ha dedicato al Cestaro un seppur rapido accenno, mentre il Ceci[8] ha scritto in modo significativo in merito alla figura del pittore. Quest’ultimo tentò di tracciare, in base ad una conoscenza delle opere dell’artista abbastanza sommaria, anche se diretta, un catalogo dell’artista, senza però alcun tentativo di critica o di interpretazione del suo processo stilistico. Altre informazioni sul Cestaro sono date dal Ceci nella corrispondente voce del dizionario Thieme-Becker (1912). Un notevole passo avanti si deve in primis a Raffaello Causa[9] e successivamente a Ferdinando Bologna, il quale, ricordando le decorazioni cestariane della chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, ha indicato come la maggior dote dell’artista fosse il «rinnovare l’impeto del Solimena con spirito quasi neo-lanfranchiano».[10]

Più di recente il rinnovato interesse sviluppatosi in relazione al fondamentale apporto delle testimonianze documentarie ai fini della conoscenza e dell’approfondimento dei percorsi artistici dei pittori del Settecento attivi a Napoli, soprattutto a seguito di quanto emerso dalle ricerche di Rizzo e di Fiore, ha consentito a Pavone[11] di riconsiderare anche la produzione artistica del Cestaro, all’interno del globale processo di revisione condotto sui pittori napoletani del primo Settecento, precisandone le fasi operative e avviando un riesame della sua attività giovanile. Uno dei passaggi di rilievo emersi in tale circostanza è sicuramente quello relativo all’incarico per le cinque tele da destinare alla chiesa di S. Francesco a Marsico Nuovo, delle quali quattro sono state ritrovate nella cattedrale del piccolo centro lucano.[12] Altra testimonianza cardine è il primo e più complesso progetto decorativo, che vede il pittore impegnato tra il 1757 e il 1760 presso la chiesa del conservatorio dell’arte della seta, dedicata ai SS. Filippo e Giacomo, la cui traccia operativa verrà integrata dai lavori di Alessio D’Elia,[13] condotti in parallelo e di seguito, come è attestato da un singolare documento del giugno 1760:

[…] e tutti detti ducati 280 sono per l’intiera sodisfazione di tutta la pintura fatta nella chiesa del suddetto conservatorio, cioè tutte le pitture fatte a fresco tanto sotto la lamia del Coro all’entrare nella Chiesa suddetta che nella facciata del Coro medesimo e cinque quadri dipinti ad oglio, uno rappresenante l’effigie de SS. Filippo e Giacomo, situato nella cappella di detti SS., due laterali alla medesima e due altri in un’altra delle cappelle di detta loro Chiesa inclusi indi d. 280 per la spesa di lumi fatta da detto D. Alessio per aver dipinto sotto la lamia suddetta all’oscuro a causa dell’andito che stava posto sotto la soffitta da un capo all’altro per le pitture che in quella si stavano facendo e per ciò veneva impedito il lume ed ogni altro speso per la causa suddetta […].[14]

Se l’intervento decorativo dei SS. Filippo e Giacomo rappresenta il momento artistico più importante e complesso del Cestaro che, in quegli anni, era al culmine della propria maturazione stilistica e nel pieno di una complessa meditazione sul proprio orientamento artistico ed ideologico, la definizione del linguaggio dell’artista procede da un lato verso il potenziamento delle capacità di coordinamento delle scene, sempre legate ad una visione di sotto in su in chiave solimenesca, ma accogliendo con ancora maggiore convinzione la perlacea ed “irreale” luce demuriana.

Se la ricerca documentaria sembra arrivata da qualche anno a un punto di stallo, in tempi recenti il ritrovamento di alcune importanti opere del pittore di Bagnoli Irpino ha fatto ripartire una serie di riflessioni a cui è necessario dar seguito.

A tal proposito risulta quindi essenziale passare in rassegna le “nuove” opere, al fine di riscontrare, con gli appositi raffronti, secondo quali parametri e riferimenti stilistici è andata sviluppandosi la maniera del Cestaro. Tra le opere ritrovate in tempi recenti, sono state oggetto di studio due tele raffiguranti S. Gennaro, una inedita di collezione privata (segnalata da Pavone 2015[15]), l’altra già segnalata dal Sigismondo (1788-89)[16] all’interno della Cappella del Tesoro.

Va poi aggiunto al catalogo dell’artista la tela raffigurante la Madonna col Bambino e S. Marco, rinvenuta da chi scrive a Bagnoli Irpino. Più problematico risulta l’inserimento del S. Biagio, reso noto nella recente mostra di Zagabria.

L’ovale della cappella del Tesoro rappresentante S. Gennaro, recentemente recuperato, era stipato nelle segrete dello storico edificio della Deputazione che ospita la Cappella del Tesoro di S. Gennaro, insieme ad alcune incisioni su rame attribuite a Luca Giordano ed a Francesco Solimena. Le opere sono state riportate alla luce grazie all’attenta lettura dei documenti d’archivio e alla volontà della direzione del Museo. La tela del S. Gennaro è stata, di poi, esposta nella mostra I volti di San Gennaro, tenutasi nel Duomo di Napoli nel 2012.

L’opera era stata segnalata dal Sigismondo «Nell’entrare [della cappella] … con suo cristallo avanti e cornice dorata»,[17] mentre il Catello la ricorda «nel corridoio verso il cortile».[18] La collocazione cronologica del S. Gennaro rientra negli anni di poco precedenti all’intervento decorativo dei SS. Filippo e Giacomo, viste anche le assonanze stilistiche con la serie formata da sette ovali, di cui cinque, rappresentanti i SS. Evangelisti e Maria Maddalena sonoconservati al Museo Civico di Castelnuovo a Napoli, e gli altri due, S. Paolo e l’Allegoria dell’Eucarestia, sono collocati nella Sala delle Colonne della Real Annunziata a Napoli. In questo periodo il Cestaro recupera dal Solimena forti accenti naturalistici e le intensità chiaroscurali, coniugandoli con riferimenti alla produzione di Luca Giordano, Pietro da Cortona e Mattia Preti, nonché al Lanfranco “napoletano”. L’impostazione grafica e la modulazione del volto, che caratterizzano il S. Gennaro realizzato dal Cestaro, richiamano chiaramente la tela del Solimena (datata 1702) con il medesimo soggetto, presente nella sagrestia della cappella del Tesoro. La differenza fra le due opere risiede nell’impostazione cromatica e, in particolar modo, nella rinuncia da parte del Cestaro ad una traduzione della figura in chiave arcadica, secondo quanto proposto dal Solimena ad inizio secolo.

Per comprendere secondo quali modalità il pittore di Bagnoli Irpino abbia successivamente inteso recuperare la lezione arcadica solimenesca per porla in relazione a quanto prodotto a seguito della svolta demuriana, è necessario analizzare una parte del vasto intervento pittorico realizzato nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo.

Il risultato di maggiore effetto in tal senso, cioè di abbinamento di istanze espositive con la chiarezza dell’impronta cromatica, viene raggiunto nell’affresco centrale della volta, dove l’Assunzione della Vergine, nel rispettare la scansione del due piani, siglata da una densa nuvola centrale, rende esplicita la coniugazione cestariana del metro solimenesco con quello demuriano, che si delinea con forza nella luce lattea che inonda la candida veste della Vergine. Indubbio come l’esempio dell’affresco con il medesimo tema realizzato nel 1751 dal De Mura alla Nunziatella, abbia influenzato il Cestaro e una serie di artisti provenienti dalla scuola del Solimena, sempre più orientati verso l’adesione alle formule aggraziate e persuasive, estratte dalle intonazioni demuriane. Va poi sottolineato come il pittore avesse tenuto presente in tale occasione anche alcuni fondamentali esempi del Solimena, dai quali ebbe modo di recuperare sia peculiari pose dei personaggi, sia le anticipazioni cromatiche in chiave di aerea luminosità: come nel caso della Gloria dell’ordine domenicano (1707), realizzata nella sagrestia di S. Domenico Maggiore di Napoli o dell’Allegoria delle fasi per il raggiungimento della Gloria, già Napoli, palazzo del principe di San Nicandro, ora Parigi, residenza privata. Quest’ultimo dipinto è stato collocato nel 1730 da Pavone[19] a seguito di una lettura incrociata di un brano del De Dominici e di un documento relativo all’attività svolta da Michelangelo Schiller nella chiesa napoletana dei SS. Bernardo e Margherita a San Potito.

Circa l’influenza del De Mura, maturata in occasione della decorazione della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, che Spinosa ha limitato «ad una generica suggestione per certi schemi compositivi assai frequenti nell’opera di quest’ultimo […] e, più che altro, alla ripresa di quelle soluzioni cromatiche che dai SS. Severino e Sossio alla volta della Nunziatella avevano costituito, per la luminosa chiarità delle tinte e la raffinata delicatezza dei toni, l’aspetto più affascinante della pittura demuriana»,[20] va considerato come tale innesto all’interno della produzione del Cestaro costituì il primo approdo alla trasposizione in chiave arcadica delle tematiche sacre, attraverso l’utilizzazione di figure chiave del repertorio demuriano, riprese anche attraverso il riferimento all’ampiezza dei manti e alla loro vibrazione nell’aria.

Questo processo di rinnovamento integrale del linguaggio del pittore avrebbe trovato continuità nelle tele per l’Annunziata di Angri, realizzate nel 1764 e raffiguranti l’Annunciazione (il cui bozzetto è stato segnalato in una collezione privata a Roma) e la Madonna del Rosario: esiti nei quali l’integrazione delle componenti demuriane si pone in linea con quanto prodotto dal de Majo negli anni ‘40. Alla seconda delle due tele di Angri, che si avvale del riferimento canonico ai Misteri nell’arco che chiude la composizione verso l’alto, è stato collegato un disegno riferibile al Cestaro (New York, Cooper Hewitt Museum), reso noto da Marina Causa Picone,[21] che probabilmente venne utilizzato per un’altra composizione, dal momento che in esso sono presenti numerose varianti.

In questi giro di anni trova la giusta collocazione il S. Gennaro di collezione privata segnalato da Pavone.[22] L’opera, per l’ormai avvenuta svolta in chiave demuriana, va cronologicamente inserita negli anni che vanno dall’intervento cestariano nella chiesa dei SS. Filippo e Giacomo a quello realizzato ad Angri. Per l’immagine del Santo martire il pittore parte dal prototipo in precedenza utilizzato per la figura del Santo vescovo francescano nella composizione dei Santi Bernardo e Margherita a Fonseca, rappresentante la Vergine con S. Agostino e S. Monica. Il dipinto reso noto da Pavone va inoltre posto in relazione con le figure dei SS. Efebo, Fortunato e Massimo sito nella chiesa di Sant’Eframo Vecchio di Napoli.

Se il S. Gennaro rientra in quel clima arcadico di stampo demuriano sviluppatosi a Napoli alla fine degli anni Cinquanta del secolo, la tela della chiesa di Sant’Eframo sembra appartenere piuttosto agli anni in cui il Cestaro guardava alle soluzioni pittoriche di stampo neo-pretiano, riportate in auge dal Solimena nel terzo decennio del secolo. Le due tele appaiono diverse per intensità chiaroscurale e scelte cromatiche; mentre le somiglianze si fanno stringenti guardando al bastone pastorale e alla mitra portate sia dal santo martire sia dal Sant’Efebo. I due santi risultano abbigliati in modo quasi speculare e con l’abito vescovile di un prezioso bianco perla ed oro che rimanda direttamente a certe suggestioni del De Mura. La rivoluzione cromatica cestariana, insieme alle nuove soluzioni pittoriche in linea col metro vanvitelliano, faranno del bagnolese uno dei pochi pittori di scuola solimenesca ad avere un ruolo di rilievo nella nuova Reale Accademia del disegno di Napoli.

La Madonna del Carmine con S. Giuseppe, S. Giovanni Battista e S. Biagio che sostiene la città di Dubrovnik, conserva anch’essa buona parte delle soluzioni pittoriche del Solimena. Come sottolineato da Pavone «la solenne figura di San Pietro trova la sua rigorosa collocazione sulla sinistra della tela ricordando la solimenesca Madonna con i santi Pietro e Paolo di San Nicola alla Carità (1682), oltre che le tele di Santa Maria Egiziaca a Forcella (1690-1696)».[23]Lo studioso continua chiarendo come «nel suo complesso la Madonna del Carmine fornirà elementi compositivi validi per un successivo sviluppo al pittore Giacinto Diano (1731-1803), il quale condividerà con lui l’esperienza didattica nell’Accademia di Belle Arti di Napoli».[24] Tali esiti sono riscontrabili guardando anche alle opere della chiesa della Collegiata dell’Assunta di Bagnoli Irpino. Si noti, infatti, come, in particolar modo nell’affresco dell’Assunta , il pittore si allinei agli esiti di Crescenzo Gamba, prendendo a prestito l’impostazione scenografica della tela a medesimo soggetto della certosa di San Martino di Napoli, mentre i moduli compositivi della Vergine Assunta sono paralleli a quelli utilizzati da Giacinto Diano nella pala d’altare della cattedrale dell’Assunta di Ischia. Nel 1761 il Cestaro è presente a Bagnoli Irpino, dove realizza il citato affresco rappresentante l’Assunta per la chiesa eponima,[25] contribuendo anche ad arricchirne la decorazione interna sull’esempio del suo predecessore, il solimeniano Andrea d’Aste,[26] con le tele raffiguranti la Madonna del Carmine con i SS. Lucia, Gennaro e Nicola, la Ss. Trinità con i SS. Giovanni Battista, Pietro e Paolo,l’Immacolata ed il S. Giuseppe con il Bambino, di cui è nota la replica nella già citata chiesa di S. Giovanni Battista ad Angri. Negli stessi anni sono realizzate anche le due tele realizzate, sempre a Bagnoli, per la chiesa di S. Domenico, raffiguranti l’Incoronazione della Vergine e il Sogno di S. Giuseppe, ora trasferite nella chiesa della Collegiata dell’Assunta.[27]

In questo giro d’anni va collocata anche la tela raffigurante La Vergine con il Bambino e S. Marco Evangelista rinvenuta presso un’abitazione privata di Bagnoli Irpino. Ho rintracciato la splendida pala d’altare durante le mie ricerche inerenti la formazione giovanile dell’artista nel suo paese natale. L’opera, in precario stato di conservazione, proviene da una cappella rurale dedicata a San Marco, acquisita a suo tempo dagli attuali possessori. La tela era stata già attribuita al Cestaro in un catalogo delle opere d’arte presenti a Bagnoli Irpino di fine XIX secolo e segnalata presso la famiglia Lenzi.[28] La commissione della tela potrebbe collegarsi a un circuito devozionale molto radicato nel bagnolese verso il santo evangelista. Tale culto trova le sue fondamenta in un voto annuale fatto dai pastori a San Marco prima di partire per la transumanza. Secondo tradizione il voto veniva sciolto il 15 aprile di ogni anno dai pastori ritornati dalla lunga migrazione, i quali si radunavano intorno alla citata cappella regalando latte e formaggi alla popolazione bagnolese in segno di ringraziamento al Santo. L’attribuzione al Cestaro è stata confermata da Mario Alberto Pavone viste le chiare somiglianze stilistiche e formali con altre opere cestariane presenti in loco, quali il S. Giuseppe con il Bambino conservato presso la chiesa della Collegiata dell’Assunta. Le analogie sono evidenti, sia per l’impianto scenico che per la modulazione del viso della Vergine, con la pala d’altare della chiesa degli Scolopi di Genova realizzata dal Cestaro nel sesto decennio del secolo. Il S. Marco, inedito, troverebbe quindi la sua collocazione cronologica nello stesso giro di anni della tela di Genova, purtroppo trafugata. In questa fase il Cestaro abbandona gradualmente le tonalità del Solimena per aderire, in modo sempre più convinto, alle delicate tinte del De Mura. Se la svolta cromatica in chiave demuriana è giunta a compimento, l’impostazione scenografica è ripresa ancora una volta dal maestro. La figura della Vergine con il Bambino in piedi e collocata in alto a destra seduta su una nuvola, trova il suo speculare nella tela del Solimena raffigurante S. Maria dei Martiri e Santi dell’Institute of Arts di Minneapolis. L’accentuato addolcimento cromatico, il più dilatato respiro compositivo, l’atmosfera vibrante e il sentimento più immediato delle eleganze formali, anticipa modalità che da lì a poco ritroveremo in pittori quali Giacinto Diano e Pietro Bardellino. Di fatto il Cestaro agli inizi del sesto decennio del secolo sembra adeguarsi, almeno a livello epidermico, in modo pedissequo all’ondata crescente di adesione ai modi e alle forme commutati dalla scoperta della volta della Nunziatella, da cui venivano concretizzandosi le teorie raziocinanti della nuova estetica classicista. Il discrimine costante della produzione pittorica del bagnolese è comprensibilmente la lunga formazione solimenesca, che gli impedisce di riconoscersi del tutto nelle nuove raffinate armonie demuriane e nei canoni imposti dalla corte borbonica e dal Vanvitelli. Il Cestaro sonda, quindi, altre possibilità di espressione, che da lì a qualche anno si legheranno strettamente alla tarda istanza del gusto “rocaille”, senza tuttavia rinunciare, semmai modificandole ed adattandole alle nuove esigenze, recuperando l’originale chiarezza compositiva e la diretta partecipazione alla vita e ai sentimenti dei personaggi raffigurati, della fase giovanile del maestro.

Altre importanti notizie sulle opere cestariane sono giunte in tempi recenti dal catalogo redatto dalla De Cambiaire,[29] che raccoglie validi riferimenti circa i disegni di vari artisti napoletani, per la mostra Dessins napolitains 1550-1800 tenuta Parigi.

Come molti altri pittori napoletani e disegnatori del suo tempo, la produzione grafica di Jacopo Cestaro risulta lacunosa e ad oggi i suoi disegni sono stati raramente identificati. Punto di partenza per l’attribuzione dei disegni del Cestaro sono stati tre bozzetti connessi a due dei suoi dipinti. Ci si riferisce ai disegni rappresentanti la Circoncisione di Cristo, uno conservato al Museo delle Belle Arti di Budapest e l’altro al Philadelphia Museum, e ad uno studio per il S. Filippo che infrange l’idolo della collezione Suida Manning di New York. L’attribuzione al Cestaro dei primi due disegni è conseguente al passaggio alla mano del bagnolese del dipinto ad olio a medesimo soggetto della Staatsgalerie da parte Spinosa.[30] L’opera al tempo si trovava sul mercato antiquario londinese con attribuzione a Lorenzo de Caro. In seguito all’attribuzione del disegno di Philadelphia anche altri son stati spostati al Cestaro, quali L’adorazione dei Magi del Princeton Art Museum[31] e l’Uomo che guida una donna in una galleria di decorazioni antiche pubblicato recentemente a Parigi dalla De Cambiaire.[32] Il disegno è conservato presso il Getty Research Institutedella città di Los Angeles e rappresenta un uomo vestito all’antica, colto nell’atto di indicare preziose anticaglie ad una figura femminile con la testa cinta da una corona vegetale. Le due figure sono accompagnate da un putto che regge una statuetta. Il disegno, realizzato con penna e inchiostro grigio, potrebbe essere uno studio per un frontespizio o un’illustrazione per un catalogo di antichità e oggetti d’arte, non ancora identificato. L’opera va cronologicamente collocata negli anni di grande entusiasmo verso il mondo degli antichi, sorto con la scoperta degli scavi pompeiani del 1754 e del ritrovamento della Villa dei Papiri ad Ercolano. Con la creazione nel 1759 da parte di Carlo di Borbone, dell’Accademia Ercolanese, si iniziarono a registrare e descrivere i vari ritrovamenti effettuati nella zona vesuviana. Le opere d’arte recuperate erano quindi raccolte in appositi cataloghi ed introdotte da frontespizi non dissimili dal disegno cestariano in questione. L’ambiguità del disegno ci permette inoltre di teorizzare che il probabile frontespizio potesse far riferimento non agli scavi di epoca romana ma, piuttosto, alla Real Fabbrica di Porcellane di Capodimonte istituita da Carlo di Borbone e Maria Amalia nel 1743, trasferita successivamente in Spagna e poi istituita nuovamente a Portici da Ferdinando IV con il nome di Real Fabrica Ferdinandea. L’attribuzione al Cestaro è determinata dalla posa dell’uomo, che è una citazione fedele della figura di San Filippo nel dipinto della chiesa dei SS. Filippo e Giacomo in cui il santo è raffigurato nell’atto di distruggere l’idolo. Tale somiglianza ci permette di collocare il disegno negli anni appena precedenti, o successivi, all’importante decorazione appena citata.

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1 N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento. Dal Rococò al Classicismo, Electa Napoli, Napoli 1986, pp. 13-15.

2 G. De Rogatis, Cenni di biografie di uomini illustri di Bagnoli Irpino, Tipo-litografia Pergola, Avellino 1914, p. 134.

3 G. Di Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie, vol. III, Laruffa, Vibo Valentina 2009, p. 147.

4 Ibidem.

5 Sulla cosiddetta “fronda antisolimenesca” e sul suo significato cfr. F. Bologna, Francesco Solimena, L’arte tipografica, Napoli 1958, pp. 146-148; N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento…, 1986, pp. 13-15.

6 Cfr. R. Causa, Opere d’arte nel Pio Monte della Misericordia, Di Mauro, Cava dei Tirreni 1970, pp. 63-80.

7 P. Napoli Signorelli, Gli artisti napoletani della seconda metà del sec. XVIII (ms. 1798, pubblicato a cura di G. Ceci), in “Napoli Nobilissima”, 3, 1922, p. 26.

8 Ibid.

9 Cfr. R. Causa, La Pittura Napoletana dal XV al XIX secolo, Istituto d’Arti Grafiche, Bergamo 1957, p. 68.

10 F. Bologna, Le arti figurative, in Settecento Napoletano, ERI - Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, Napoli 1962, p. 85.

11 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani del primo Settecento. Fonti e documenti (con appendice documentaria a cura di U. Fiore), Liguori, Napoli 1997, pp. 221-223.

12 Ivi, p. 221.

13 Sull’attività e i modi del D’Elia cfr. C.T. Dalbono, Storia della pittura in Napoli e in Sicilia dalla fine del 1600 a noi,Gargiulo, Napoli 1859, p. 125;G.A. Galante, Guida sacra della città di Napoli,Stamperia del Fibreno, Napoli 1872, pp. 173, 206, 248, 354; F. De Ambrosio, La città di Sansevero in Capitanata. Memorie storiche,Tip. Gennaro De Angelis, Napoli 1875, pp. 96-97, 199.

14 M.A. Pavone, Pittori napoletani del Primo Settecento..., 1997, p. 555.

15 M.A. Pavone, Sulle tracce della pittura napoletana in Croazia tra Sei e Settecento, in “TeCLa - Temi di Critica e Letteratura artistica, n. 11, giugno 2015, Palermo, Università degli Studi di Palermo, 2015, DOI: 10.4413, http://www1.unipa.it/tecla/rivista/11_rivista_pavone.php, p. 78.

16 G. Sigismondo, Descrizione della città di Napoli e suoi borghi, t. 1, Presso i Fratelli Terres, [Napoli] 1788.

17Ivi, p. 25.

18 E. e C. Catello, La Cappella del Tesoro, Banco di Napoli, Napoli 1977, pp. 51-52.

19 Cfr. M.A. Pavone, Pittori napoletani del Primo Settecento..., 1997, p. 173.

20 N. Spinosa, Pittori napoletani del secondo Settecento: Jacopo Cestaro, in “Napoli Nobilissima”, IX, 3, 1970, pp. 73-87.

21 M. Causa Picone, Disegni napoletani del Settecento, in Civiltà del Settecento a Napoli catalogo della mostra (Napoli, Palazzo Reale, 1979-80) a cura di M. Causa Picone, Società Editrice Napoletana, Napoli 1981, p. 390.

22 M.A. Pavone, Sulle tracce della pittura napoletana…, 2015.
 

23 Ivi, p. 78.

24 Ibid.

25 La chiesa sita in Bagnoli Irpino, denominata chiesa madre della Collegiata della SS. Assunta, contiene diverse opere di rilievo, tra le quali La decollazione di S. Giovanni Battista e L’adorazione dei Magi del D’Asti, San Giovanni Battista attribuito a Francesco De Rosa, un magnifico organo, come attestato da una scritta autografa presente all’interno del somiere maestro, costruito dall’organaro Silverius Carelli di Vallo Nuova di Lucania nell’anno 1795, e un coro ligneo realizzato da maestranze bagnolesi.

26 Su Andrea d’Asti vedi M.A. Pavone, Riconsiderando Andrea d’Aste, in “Prospettiva”, 40, 1985, pp. 37-52; R. Enggass, Towards the rediscovery of Andrea dell’Aste, in “The Burlington Magazine”, CIII (1961), pp. 304-312; G. De Rogatis, Cenni di biografie di uomini illustri…, 1914, pp. 132 sgg.

27 Entrambe le tele sono state ricollocate nella chiesa della Collegiata dell’Assunta, viste le pessime condizioni della chiesa di San Domenico, gravemente danneggiata dal terremoto che ha colpito l’Irpinia nel 1980, dichiarata quindi inagibile e ormai in disuso.

28 Opere d’arte esistenti nelle chiese e presso private famiglie di Bagnoli Irpina, Premiato Stabilimento Tipo-Litografico Maggi, Avellino 1884.

29 Cfr. L.M. De Cambiaire, Dessins Napolitains Neapolitan Drawings 1550-1800, Marty de Cambiaire Fine Arts, Paris 2014, p. 88.

30 Civiltà del ‘700 a Napoli, 1734-1799, catalogo della mostra (Napoli, Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte 1979-1980), 2 voll., Centro Di, Firenze 1979-1980, n. 129.

31 Cfr. F. Gibbons, Catalogue of Italian Drawings in the Art Museum of Princeton University, Princeton University Press, Princeton 1977, n. 914.

32 L.M. De Cambiaire, Dessins Napolitains…, 2014, p. 89, n. 34.

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Temi di Critica - numero 12

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