teCLa :: Rivista

in questo numero contributi di Stefano Colonna, Antonio Cuccia, Francesco Paolo Campione, Maria Chiara Bennici, Elvira D'Amico.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Un prototipo delle riviste d’arte in Italia: la “Deca di Belle Arti” (1813) di Francesco Paolo Campione

1. Il mercato dell’informazione sull’arte in Sicilia nell’Ottocento

Il ruolo della stampa periodica nella costruzione della critica e della teoria dell’arte in Italia è da almeno un quindicennio oggetto di una estesa campagna d’indagini che hanno ricostruito, ormai con buona definizione, le dinamiche culturali e il retroterra che stavano a contorno della produzione e della diffusione di questo mezzo d’informazione. Importanti occasioni di confronto tra le diverse équipe di studiosi italiani[1] hanno costituito non solo una registrazione dello “stato dell’arte” intorno agli studi sulle riviste a tema figurativo in Italia tra Ottocento e Novecento, ma anche un preciso indirizzo metodologico nella catalogazione e nell’analisi di quella immensa messe di scritti che dà luogo – a oltre quindici anni di distanza dall’inizio di quelle investigazioni – a un modello ancora perfettamente funzionale.
Lo statuto introduttivo di quegli studi[2], ha mostrato una sostanziale unitarietà nel quadro della “virale” diffusione del sapere artistico in Italia tra il XIX e il XX secolo: si trattasse della colta ed “europea” Milano, della borbonica e caotica Napoli o della lontana e fervida Palermo, ogni realtà culturale e territoriale affidava ai fogli periodici l’ufficio di propagatori della conoscenza in forme più o meno indirizzate dalla politica ufficiale, e con una attenzione sempre viva alla valorizzazione e alla conoscenza del patrimonio artistico locale. L’unificazione culturale della penisola, prim’ancora che attraverso le campagne militari savoiarde, avvenne attraverso la fitta rete di scambi di riviste che circolavano in Italia già a partire dalla fine del Settecento.
Il caso della Sicilia, e di Palermo in particolare, presenta alcune particolarità che indubbiamente fanno di questa realtà storica e culturale un interessante modello di analisi per comprendere, a un livello più generale, quali meccanismi abbiano sovrinteso alla nascita, alla organizzazione e alla diffusione delle testate specificamente dedicate alle arti in Italia nel corso del XIX secolo. Le indagini condotte dal gruppo di studio dell’Università di Palermo[3] hanno messo in luce da una parte la vocazione multidisciplinare che stava a fondamento del progetto culturale di ciascun giornale, dall’altro l’assenza – almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento – di una loro specializzazione esclusivamente dedicata alle arti. D’altro canto, la diffusione della stampa periodica s’inseriva in un disegno di più ampia latitudine: il ceto borghese (o borghesizzato, giacché persino l’aristocrazia a un certo momento si volse a tentare la carta della vocazione imprenditoriale per evitare l’abisso) esigeva uno strumento d’informazione agile, sintetico, a basso costo. Una “piattaforma” ad ampio spettro che servisse a formare il perfetto intellettuale moderno. Bandita (o quasi) la figura dell’erudito di vecchio stampo, spesso un ecclesiastico o un nobile sfaccendato, l’informazione era agita adesso da uno stuolo di “giornalisti” capaci di spaziare, magari con abilità velleitarie, nei più disparati dominî del sapere attraverso l’uso di un linguaggio semplice, immediato, accattivante. Entro questo enciclopedismo, la elaborazione di una sia pure embrionale Kunstwissenschaft era solo l’aspetto emergente di un programma politico più sottile e, per la natura stessa del suo medium, più insinuante: rivendicare alla Sicilia, attraverso la ricostruzione della sua storia artistica, letteraria e scientifica, quella specificità che – all’alba del XIX secolo – le macchinazioni politiche di sovrani sentiti come lontani e abusivi – s’apprestavano a cancellare. Per una stagione relativamente lunga, corrispondente alla prima metà dell’Ottocento, riviste quali il “Giornale di Scienze, Lettere ed Arti” (1823-1842), le “Effemeridi Scientifiche e Letterarie per la Sicilia” (1832-1840), “L’Oreteo” (1839-1841), “L’Osservatore Peloritano” (Messina, 1834-1842), “L’Eco Peloritana, giornale di scienze, lettere ed arti” (Messina, 1853-1858), il “Giornale del Gabinetto Letterario dell’Accademia Gioenia” (Catania, 1834-1858), a cui va aggiunto almeno un centinaio di altri titoli più o meno duraturi, rappresentarono il vero motore della cultura siciliana. Viene da credere che il fenomeno letterario delle riviste fosse però anche l’epifenomeno di una smisurata macchina economica e imprenditoriale: a un certo punto, insomma, alcuni editori e tipografi (i Dato, i Lao, i Meli, Solli, i Clamis & Roberti, i Pedone Lauriel per non citare che i maggiori e più fortunati) dovettero subodorare l’affare, e impiantare un vero e proprio marketing editoriale basato su sottoscrizioni di abbonamenti, diffusione capillare e puntuale dei numeri, qualità e autorevolezza delle firme. Certo non sempre l’avventura delle riviste era accompagnata da durevole successo: a fronte dei casi limite del “Giornale” letterario”, delle “Effemeridi” e del “Giornale Gioenio”, che ebbero vita lunga e prospera, peraltro “protetti” e sorvegliati dalle alte gerarchie della burocrazia (il “Giornale di Scienze, Lettere ed Arti” stava addirittura sotto gli auspici del capo della Polizia borbonica), la gran parte delle riviste pubblicate in Sicilia in quel tempo non vide luce – nella migliore delle ipotesi – per più di due o tre annate. Quale la ragione di una tale “mortalità”? Difficile spiegarlo. Probabilmente la causa della debolezza intrinseca di ciascuna rivista stava da un lato nella scarsa capacità previsionale degli editori (i quali, tuttavia, come in un moderno gioco finanziario, nel giro di pochi mesi aprivano e chiudevano con disinvoltura le testate per aggirare le maglie del fisco o della censura) rispetto all’effettivo impact factor che esse potessero garantire; dall’altra nel pubblico stesso, probabilmente dai gusti ondivaghi e scarsamente propenso alla “fidelizzazione”. A dispetto tuttavia della deciduità di molti titoli, è un dato irrevocabile che la vera partita intorno alle vicende della critica d’arte e dell’estetica in Sicilia, prim’ancora che nei saggi numerosi e informati di un Agostino Gallo, prim’ancora che nei grandi sistemi architettati da un Di Marzo, o nelle altrettanto appassionate pubblicazioni degli studiosi d’area messinese e catanese, si giocò negl’innumerevoli articoli che uno stuolo di intellettuali (è bene ribadirlo, non sempre specialisti del settore) pubblicò in quei decenni risolutivi.
È stato più volte rilevato che la ricerca e la schedatura degli articoli d’arte entro le riviste siciliane[4] deve spesso farsi spazio entro una intricatissima selva di temi, espressione di quell’abito multisettoriale che è il connotato più tipico della pubblicistica periodica del XIX secolo, non solamente in Italia. Nell’Isola bisognerà attendere gli ultimi decenni dell’Ottocento affinché compaiano i primi periodici esclusivamente votati alla critica e alla storiografia artistica: “La Sicilia Artistica e Archelogica”, uscita per tre sole annate a partire dal 1887, ne è il primo esempio significativo sia per la risonanza degli autori che vi contribuirono[5], sia per la splendida veste grafica elaborata dal pittore Rocco Lentini[6]. I nuovi ritrovati della tecnica tipografica e di foto-composizione permettevano adesso di editare riviste illustrate con minori costi di produzione, ma infinitamente più attraenti dei disadorni periodici di qualche decennio prima, solo qua e là arricchiti da una sparuta illustrazione litografica, o da qualche siderografia. Il “vedere e rivedere” di venturiana autorità, d’altro canto, ora esigeva che la rivista d’arte strutturasse un dialogo immediato fra testo e opera d’arte riprodotta. Siamo in verità in un momento molto al di qua rispetto al consolidamento, ormai pressoché definitivo, di una scienza dell’arte in Italia e nel resto dell’Europa che di necessità doveva tradursi in una diffusione a vasto raggio del sapere estetico anche presso la “base” della struttura socio-culturale.
Poco noto è piuttosto il tentativo, esperito agli inizi del XIX secolo, di pubblicare in Sicilia una rivista che fosse in via quasi esclusiva dedicata all’arte. Per la sua breve durata e anche per il periodo cruciale in cui si trovò coinvolto, quell’esperimento fu destinato a un rapidissimo oblio e a non lasciare quasi alcuna traccia negli archivi e nelle biblioteche dell’Isola. Eppure la “Deca di Belle Arti”, pubblicata per pochissimi numeri a Palermo nel 1813, come il fossile di un organismo presto estinto offre alcuni indizi significativi non solo degli indirizzi percorsi da quella sorta di “paleo-critica” d’arte elaborata in Sicilia agli inizi del XIX secolo, ma anche dello stretto rapporto che annodava – in quel preciso momento della storia dell’Isola – la politica e lo studio dell’arte.

2. Al centro di un incrocio “pericoloso”

Scorrendo il ponderoso repertorio bibliografico di Giovanni Maria Mira[7] alla voce “Francesco Franco”[8] apprendiamo che costui, «celebre avvocato», fu autore di una tragedia intitolata L’Amalarico, pubblicata per la prima volta nel 1812[9]. Una pièce, alla quale pare arridesse ampio successo di pubblico e di critica tanto che l’autore dovette ristamparne per ben quattro edizioni[10] fino al 1815[11]. Solo che, a quanto sembra, essa non era tutta farina del suo sacco. Mira ci informa che era stata composta a tre mani con gli interventi di Giacinto Agnello[12] e di Pompeo Insenga[13], altri due giovani e ambiziosi letterati. Ma non è tutto: i tre avevano deciso di spacciare la loro letteraria e letterale falsificazione come un’opera di Vincenzo Monti, il poeta più celebre (e idolatrato) di quel tempo, scatenandone la reazione stizzita[14]. La sfacciata violazione del diritto d’autore, in verità, non pare che recasse alcun tipo di conseguenza, che fosse di responsabilità civile o penale, agli autori i quali si godettero placidamente i frutti della loro impostura.
In effetti, al di là di questo episodio che molto somiglia a una giovanile goliardata, Francesco Franco fu tra i più attivi animatori del panorama culturale palermitano agli inizi del XIX secolo: benché votato agli studi giuridici, nel 1813 intraprese con gli altri due compagni di burla l’avventura di una nuova rivista dedicata alle Belle Arti, argomento che da un lato gli consentiva d’introdursi con un prodotto nuovo nel mercato dell’editoria periodica di quel tempo; dall’altro, di approfittare del momento politico che, giusto in quel preciso frangente, vedeva la Sicilia al centro di un vero e proprio intrigo internazionale. È utile forse delineare brevemente il sottofondo di questa vicenda.

3. L’orizzonte della storia

Nel 1806 l’esercito francese aveva invaso il territorio del Regno di Napoli costringendo Ferdinando IV e la sua famiglia a una precipitosa fuga in Sicilia. Nuovamente nel volgere di pochi anni (l’ultima volta che il re aveva riparato a Palermo era stata in occasione della Rivoluzione del 1799) la Sicilia diveniva sede reale, custode di un trono effettivo rimasto vuoto per secoli. È certo però che, benché nell’animo dei Siciliani il desiderio di un re tutto loro per oltre quattrocento anni fosse rimasto una chimera, adesso la figura di quel sovrano inetto, volgare e fatuo era destinata a scavare uno iato incolmabile tra i sudditi e la corona. Ferdinando, che doveva soffrire di una qualche forma di demenza senile o forse di una inguaribile depressione, preferì gettarsi a capofitto nell’amata caccia, nei divertimenti sfrenati e lascivi consegnando alla spregiudicata moglie Maria Carolina le chiavi del governo, quasi che ormai avesse in orrore le cure dello Stato. Non s’avvedeva, o proprio non voleva accorgersi, che quella totale devoluzione del potere significava condurre verso il naufragio l’intero reame del sud. Ben presto i Siciliani avrebbero sperimentato sulla loro pelle le spese sfrenate della regina (per mantenere le quali occorreva a ogni piè sospinto una richiesta di cospicui “donativi” ai contribuenti), la corruzione della corte ostile agli isolani, il mostruoso disavanzo che costava una guerra impari condotta con mezzi inadeguati e obsoleti. D’altra parte, i segreti raggiri con cui la consorte reale tentava di riprendere il possesso del Regno di Napoli pervenendo a patti con i Francesi di stanza in Calabria[15], e la circostanza del matrimonio della nipote Maria Luisa d’Austria con Napoleone, dal quale la regina attraverso le ormai ben note trame contava di trarre vantaggio, da una parte avevano posto in allarme gli Inglesi – ormai di fatto “protettori” della Corona borbonica –; dall’altra avevano esacerbato ancor più i rapporti tra la nobiltà meno incline a tollerare ulteriori sopraffazioni e l’entourage sovrano, che da sempre considerava la Sicilia una provincia subalterna e una comoda riserva fiscale[16]. L’incapacità previsionale di Ferdinando, proteso a mantenere il proprio trono anche a costo di colare a picco con l’intero Stato, aveva dunque fatto sì che il potere effettivo sul governo passasse ai britannici, che – in misura più o meno esplicita – della Sicilia avevano divisato fare una vera e propria colonia occulta. Per la sua posizione strategica, che avrebbe garantito loro la supremazia navale nel Mediterraneo, e per le risorse del suolo potenzialmente illimitate (che essi erano convinti di poter sfruttare in modo molto più efficace di quanto non facessero i nativi), il possesso dell’Isola avrebbe fatto degli Inglesi i padroni assoluti dei traffici nell’intero continente e avrebbe costituito l’imprescindibile punto di partenza per arrestare l’avanzata di Napoleone in Europa[17]. Nel 1811 Ferdinando impose, oltre a un pesantissimo donativo di quasi 800 mila onze (cui si aggiungevano 100 mila ducati destinati a finanziare gli svaghi della regina), una nuova tassa su tutte le transazioni commerciali e finanziarie. Le proteste da parte di quel settore della nobiltà che ormai mal sopportava un ospite ingombrante e parassita ebbero come risposta l’arresto e il confino dei principali esponenti del partito dissidente, i principi di Castelnuovo, di Belmonte, di Villafranca, di Aci, e il duca d’Angiò, la notte tra il 19 e il 20 luglio 1811, poiché «turbolenti e disturbatori della tranquillità pubblica»[18]. Gli Inglesi, probabilmente informati da spie che avevano disseminato per tutto il territorio, e temendo che una rivolta avrebbe reso impossibili i loro disegni di egemonia sulla regione, decisero dunque di intervenire: il 23 luglio lord William Bentinck sbarcava con le proprie truppe a Palermo per prendervi la carica di plenipotenziario. Doppiamente la Sicilia vedeva tramontare i vaneggiamenti della propria autonomia, giacché si trovava adesso suddita di un re estraneo a sua volta succubo di un’altra potenza straniera. Bentinck sapeva bene che il perdurare delle frizioni tra Corona e aristocrazia avrebbe alla lunga sortito effetti catastrofici, e d’altro canto avvertiva che la sopravvivenza del residuo di un ancien régime altrove da tempo trapassato ostacolava i propri disegni politici. Agitando i fantasmi di una rivoluzione non tanto remota, il generale convinse Ferdinando IV a rafforzare la presenza militare inglese nell’Isola, a coinvolgere maggiormente i baroni nelle scelte politiche (liberando immediatamente i cinque ribelli al confino) e soprattutto a conferire un peso a un ceto – quello borghese – fino a quel momento rimasto escluso dai giochi di potere. Per limitare l’influenza di Maria Carolina, sulla quale le voci di presunti tentativi d’accordo con la Francia e con Napoli erano giunte a Londra con tutti i crismi della certezza, lord Bentinck si fece assegnare il titolo di Capitano Generale degli eserciti e della flotta: una mossa che intendeva esautorare la regina da qualunque ulteriore ingerenza. Posto con le spalle al muro di fronte a scelte che motu proprio non avrebbe mai avallato, il re decise di conferire al figlio Francesco il titolo di vicario del re con pieni e assoluti poteri: in pratica un’abdicazione sotto altre spoglie. Era il 16 gennaio 1812.
I disegni di Bentinck, tuttavia, mancavano ancora di un ultimo e clamoroso tratto: con il nuovo vicario istituì un governo militare in cui entrarono in qualità di ministri i baroni filo-britannici già confinati nelle isole, e che – in quanto comandante supremo delle truppe – lo vedeva capo pressoché assoluto. Ma la mossa più dirompente di quel nuovo assetto di governo, il plenipotenziario se la riservò per ultima: impose al vicario l’emanazione di una costituzione liberale sul modello inglese, che fu approvata il 19 luglio 1812[19]. La Sicilia, unica in Europa, aveva uno Statuto che più la faceva assomigliare a una repubblica che a un regno.
Ovviamente, la promulgazione della carta costituzionale non trovò tutti contenti. Per diverse ragioni, molti – tanto della vecchia aristocrazia quanto della nuova classe borghese – avevano di che temere da quel sussulto politico. I vecchi, perché l’entrata in vigore della Costituzione portava in dote l’abolizione dei diritti feudali, secolari tratti distintivi del privilegio e della prevaricazione; i nuovi, poiché quel documento sanciva di fatto l’entrata della Sicilia nell’orbita politica ed economica dell’Inghilterra e dunque rafforzava le prerogative dei magnati inglesi (non dimentichiamo che questa è l’epoca in cui ascendono alle vette della supremazia mercantile in Sicilia famiglie di imprenditori come gli Ingham, gli Hopps, i Woodhouse, i Whitaker, i Pyne) al cui strapotere quelli isolani non avrebbero potuto che sottomettersi. Tra gli affaristi inglesi giunti in Sicilia in quegli anni agitati, Gould Francis Leckie[20] aveva istituito una tenuta-modello nei pressi di Siracusa[21] (dove ricopriva la carica di console di Sua Maestà) auspicando che il suo esempio fosse in breve seguito non solo dagli altri compatrioti che detenevano interessi commerciali nell’Isola, ma anche dagli stessi abitanti. Proprio Leckie era l’esponente di un partito avverso allo stato di militarizzazione dell’Isola, e che piuttosto considerava possibile debellare la potenza francese in Europa mostrando con i fatti (primo tra tutti proprio l’applicazione del dettato costituzionale) la deriva autoritaria che invece aveva intrapreso il potere napoleonico.
Alla fazione anti-costituzionale dovette invece appartenere Agostino Gallo. L’erudito, lo ricordiamo, proveniva da una famiglia di commercianti di cristalli originaria di Savona[22] e probabilmente non vedeva di buon grado la progressiva inglesizzazione che in quegli anni stava subendo l’assetto politico ed economico della Sicilia. Nel 1813, proprio in contemporanea all’uscita dei primi numeri della “Deca”, aveva iniziato la pubblicazione di un foglio periodico, le “Riflessioni sulla Cronica”, che attaccava la testata ufficiale filo-britannica (intitolata appunto “La Cronica di Sicilia”[23], fondata dagli stessi Franco, Insenga e Agnello e uscita a partire da 2 settembre di quell’anno[24]) con posizioni imbevute di un fiero regionalismo. A proposito dell’ingerenza inglese sui fatti di Sicilia Gallo, il 23 ottobre, scriveva: «Erano essi (gli Inglesi) a dir del saggio, ed imparziale Leckie i giannizzari (sic) del dispotismo del Governo Siciliano, lo proteggevano colla forza, e col danaro, i loro larghi sussidj s’impiegavano al mantenimento d’infami spie, e di truppe dirette a tutt’altro oggetto che a favorire la Nazione»[25]. In altri termini, Gallo era convinto che tra il male di una tirannide esangue e quello di una totale sottomissione alla potenza straniera si dovesse scegliere quello minore, quand’anche ciò comportasse restare letteralmente al palo nella crescita economica, sociale e culturale dell’Isola[26]. Ben diversa la posizione politica assunta dagli autori della “Deca di Belle Arti”, la cui pubblicazione prende avvio proprio in quei giorni convulsi: la Sicilia, ai loro occhi sognanti, pareva già avviata a far parte dell’Impero britannico.

4. Una rivista dalle pagine effimere

Ma tai libri periodici non possono affatto considerarsi sotto il rapporto di giornali letterari nell’indicata estesa significazione, ma piuttosto son da chiamarsi collezione di opuscoli, o raccolte di prose e versi di vario argomento. Questi medesimi pertanto non ebbero lunga esistenza, ma con più o meno spazio di vita cessarono; e l’ugual sorte ebbero eziandio quelli del presente secolo, sebbene in miglior maniera compilati, come a dire il “Giornale politico e letterario di Palermo” comparso nel 1810; il “Giornale enciclopedico di Sicilia”, sotto nome di Specchio delle scienze, scritto da Rafinesque nel 1814; e la “Deca di belle arti” compilata quasi nello stesso tempo da’ valorosi giovani Franco, Inzenga ed Agnello[27].

Così, a distanza di oltre venticinque anni dall’uscita dei pochi numeri della “Deca” (la rivista uscì per soli 12 numeri dal 10 agosto al 30 novembre 1813)[28], un anonimo cronista (da identificare forse con lo stesso Agostino Gallo) registrava la fugace apparizione di alcune pubblicazioni periodiche tra il primo e il secondo decennio del XIX secolo. In effetti, il destino della rivista dovette essere segnato da un lato dal progetto velleitario sul quale si fondava (annodare l’informazione culturale a una ben precisa ideologia politica, di fatto per accreditare l’immagine di una Sicilia che in fondo manteneva la propria identità culturale a dispetto dello stato di asservimento); dall’altro, dall’adesione a un partito politico che – per la situazione d’emergenza su cui aveva fondato il proprio potere – ben presto sarebbe stato messo in mora da un ineluttabile ritorno all’in statu quo.
Il primo numero della rivista esce il 10 agosto del 1813 nella veste grafica estremamente spartana che caratterizzerà l’intera tiratura. La Tipografia Reale di Guerra[29], che stampava il periodico, era d’altro canto quella ufficiale del governo militare e poco indulgeva – causa peraltro la grave crisi economica – a qualsivoglia raffinatezza di stampa[30]. Nel programma pubblicato nel primo numero, ed elaborato forse dallo stesso Francesco Franco, è chiaramente esposta la vocazione della rivista (che si potrebbe riassumere nella formula “informazione rapida, efficace e a basso costo”) con un linguaggio immediato, arguto e apparentemente antidogmatico:

La calcolatrice esperienza ha persuaso che cotesta specie di fogli, per la sua utilità, più ragguardevole risulta de’ grandeggianti volumi. Chi va a sobbissarsi oggigiorno negli archivj polverosi di Manetone e Sanconiatone[31]! Sempre un periodico, oltre la facilità dell’acquisto, il comodo trasporto, la brevità del tempo consumato a percorrerlo, vanta almeno la certa prerogativa, che non mortificando l’amor proprio del leggitore credentesi abile a foggiarlo, riesce perciò lusinghevole e ben accetto. […] Ma qual vistoso argomento sceglieremo pe’ nostri fogli, onde attirare l’altrui ricerca? Forse le gare parlamentarie? O politiche discussioni? Materie dottrinali? Notizie europee? Nulla di ciò: batta chi vuole sì orrevoli ed ardue carriere. Noi rivolti a più dilettosa serie d’oggetti, e pretendendo occuparci di quanto il maggior numero d’ogni classe, d’ogni tempo e luogo agogna conoscere, di che altro mai occuparci dovremo, se non delle figlie primogenite del dilicato sentimento, delle imitatrici della vaga natura, le Veneri letterarie, la magia de’ sensi, l’arti belle? Ah, divine bell’arti! – Freddi apatisti, orang-ou-tanghi dell’umanità non leggete no, qualunque esse sieno, tali carte: altrove, altrove quegli occhi profani: e che ci cale di voi?[32].

Il prologo esibisce con chiarezza la vocazione divulgativa della rivista, che nel progetto degli estensori assurge a uno specimen dell’intera scrittura sull’arte in quel torno di tempo:

Non si ha comunemente nel mondo che idee indistinte e confuse su le belle arti; la loro istoria trovasi sparpagliata in una infinità di libri: molto è stato scritto, molti punti sono stati negletti; il loro nome complessivo non le ha fatte per avventura accuratamente classificare. Frattanto il pubblico accoglie sempre con avidità smaniosa [ciò] che riguarda [le] belle arti: tiensene spesso soggetto nelle conversazioni; ne discorrono le gens d’ésprit e gl’ignoranti. Si sentono desse, è vero; ma si potrebbero sentir meglio. In siffatto stato di cose dunque, un’istruttiva serie di fogli periodici dee certamente riputarsi quale strada deliziosa, che conduce alla volta della perfezione: ed anzi così, a capo di parecchi anni si fonda, si costituisce un considerevole raccoglimento di tutto ciò che serve alla storia dell’arti belle in Sicilia, sotto il secolo decimonono[33].

Il futuro della storiografia artistica, almeno al sentire dei redattori della “Deca”, appare segnato: il pubblico moderno difficilmente s’accosterà ai trattati enciclopedici, alle sconfinate elaborazioni dottrinali che paiono scritte solo a beneficio di chi scrive. Piuttosto, cercherà uno strumento informativo agile e versatile capace di istruirlo senza gravarlo di indigeste erudizioni. Ci si aspetterebbe dunque che, date queste premesse liquidatorie nei confronti della cultura ufficiale, l’impianto teorico sul quale era costruita la rivista si spogliasse del gravame della trazione che ancora la fletteva verso il secolo precedente. Ovviamente nulla di tutto ciò. Di fatto, lo schema che rappresenta l’ossatura su cui si appoggia il progetto della “Deca” è rappresentato da un diagramma intitolato Sistema figurato di Belle Arti, che delinea la costellazione di pratiche artistiche che saranno oggetto di esposizione tra le pagine della rivista. Ed è appunto la medesima aggregazione concettuale che aveva escogitato Charles Batteux quasi settant’anni prima in uno dei testi capitali della storia dell’estetica: Le Belle Arti ricondotte a unico principio (1746)[34] rappresentavano ancora – sebbene portatrici di un costrutto che nulla di nuovo introduceva nell’ambito della storia delle idee – il modello teorico di riferimento della cultura estetologica italiana di inizio Ottocento. Batteux, com’è noto, aveva individuato un sistema di sette arti “belle” (pittura, scultura, architettura, poesia, eloquenza, musica, arte gestuale) accomunate da uno statuto imitativo che le faceva funzionare in modo reciprocamente analogo, e dal quale sarebbe discesa la produzione di “oggetti” belli. È lo stesso prototipo a cui si era affacciato, pochi anni prima dell’uscita del primo numero della “Deca”, il trapanese Giuseppe Maria Di Ferro[35] nelle sue dissertazioni Delle Belle Arti[36] (1807-08) che si configurano come una delle estreme propaggini della cultura settecentesca nel pieno  del XIX secolo. L’intento di Di Ferro, in sostanza, era stato quello di “aggiornare” il dettato di Batteux in una prospettiva che da un lato ricomponesse il dissidio tra arti e scienze intendendole come emisferi di uno stesso universo di conoscenze, che mutuamente si danno senso; dall’altro s’aprisse al non meno cogente portato del Laocoonte lessinghiano, e alla “scoperta” delle differenti qualità semiotiche tra poesia e pittura. Gli scostamenti dal recinto normativo di Batteux in Di Ferro erano stati pur sempre minimali, specie laddove all’orizzonte di tutte le Belle Arti era individuata la poesia, l’arte “bella” a cui sembravano fare da corollario tutte le altre. Da teorico della retorica, l’abate francese aveva approfondito in via quasi esclusiva il sottofondo mimetico dell’arte poetica, sorvolando invece molto alla lontanasu pittura, musica e danza (e naturalmente sull’architettura). Di Ferro, dal canto suo, aveva ricusato la centralità monopolizzante della poesia, attribuendole soprattutto un abito “sentimentale” capace di fornire un sottofondo emozionale a tutte le altre pratiche artistiche[37]. La pittura, secondo Di Ferro, si eleva invece a un podio più alto, per la sua più forte presa sui sensi: la bellezza che essa trasmette è più immediata di quella che per opera del verso s’insinua nella fantasia, perché la vista è più facilmente impressionabile[38].
Nel prospetto elaborato dagli estensori della “Deca”, come è possibile osservare dal grafico che riproduciamo, la propensione classificatoria di Batteux è portata alle ultime conseguenze: le Belle Arti si sono ridotte a tre macrosettori (Belle Lettere, Musica e Disegno) dai quali a loro volta discendono Poesia, Eloquenza, Architettura, Pittura e Scultura, ulteriormente suddivise in una miriade di pratiche individuate – specie per le arti visive – sulla ratio delle tecniche e dei materiali di cui fanno uso. Manca, sia detto per inciso, un qualunque riferimento alla teoria della tattilità, tal quale risulta da Plastica di Herder (1778)[39], cosicché la scultura è ad esempio ancora considerata un’“arte del disegno”, e dunque sovrintesa dai meccanismi fruitivi dell’occhio piuttosto che della mano.
Naturalmente, la sopravvivenza della normativa batteuxiana era anche il più rassicurante ancoraggio a un passato che sembrava la marca identitaria di un’Isola che s’apprestava a perdere del tutto sia la propria specificità politica, sia persino il riconoscimento delle proprie radici culturali. Il compito della rivista consiste dunque, innanzi tutto, nel recupero di questa individualità in un momento nel quale le arti in Sicilia paiono del tutto trascurate dalle gerarchie del potere:

Si teme – scrivono i redattori – che in Sicilia manchi materia onde vestire un foglio ogni dieci giorni. Siam sinceri. Qui non possediamo né la maraviglie di Roma, né la musica di Vienna; ed anzi talune delle belle arti vengono pochissimo curate. Ma si abbia pure la crudeltà di supponerle oggi eliminate ed escluse omninamente da questo suolo, ove in vero nessuno ci contrasterà che pompeggiarono un tempo. Concediamo che non esistano. Non vi entreranno giammai però, finché non si scaglia la prima pietra. Una voce qualunque animatrice dà sempre una spinta salutare al cuore dell’artista, che langue timido ed avvilito negli abissi dell’oscurità. Si può giovare all’arti buone egualmente col predicarne i progressi, quando si trovano già allignate, che col liberarle dagli ostacoli [e] dai pregiudij che fatalmente le inceppano. […] Siamo cittadini degli Empedocli e degli Archimedi; siamo fervidi ed elastici, capaci quando lo vogliamo, ed uomini come gli altri. Ci pregiamo di poeti, di pittori ed artisti e di teatro principalmente, che è il complesso dell’arti tutte. V’ha dunque molto da sperare. Bando dunque al misantropismo[40].

E così, il primo articolo che inaugura la rassegna di interventi nella “Deca” è un commento all’ode Alla Gran Brettagna che Michelangelo Monti[41] aveva composto qualche mese prima. Il fine strumentale di questa recensione, al di là dell’elogio a uno dei poeti allora sulla breccia in Sicilia, sta proprio nella esaltazione del sottofondo politico su cui appoggia la composizione: la Sicilia vi è rappresentata grata alla nazione “liberatrice” e persino nelle vesti di una sorella minore della grande isola albionica:

Che nuovo accordo di pensieri, che felicità di verso, che eleganza di frasi, che tema robusto! Non è la lode che si vende ad un particolare; non la bizzarria d’un poeta; è l’inno del cuore, che una nazione rigenerata (si Di favent) drizza in atto di riconoscenza ad una delle più distinte nazioni Europee[42].

Lord Bentinck – ciò soprattutto muove l’entusiasmo interessato dei redattori – nel carme di Monti è rappresentato come l’eroe portatore di buone leggi, il regolatore che con l’arma della Costituzione ha salvato la Sicilia dal caos cui inesorabilmente stava avviandosi con lo straripare dei Napoleonidi in Europa. Naturalmente, questa partigianeria (parsa a più d’uno frutto di un meschino calcolo di convenienza) attirò non pochi strali sulla testata. In un opuscoletto anonimo pubblicato a Palermo proprio nel 1813 gli autori della “Deca” sono definiti «corifei della macchinata oppressione, [e da ciò sono][43] stati ribassati e consegnati all’odio di tutta la Nazione»[44]. La difesa da parte della redazione è veemente, non solo contro l’anonimo autore del libello tacciato di calunnia, ma anche nei confronti di coloro che nostalgicamente stavano ancora al fianco del regime borbonico:

Già i partigiani non lasceranno di appellarci partigiani com’essi: ma niente di meraviglia in un’epoca turbinosa, in cui si svisano, si ammalignano i fatti più puri, se fia financo calunniata la voce della verità col facile pretesto di nominarla figlia di partito […] Generosa alleata, Brettagna, deh autorizza colla tua augusta testimonianza i nostri detti, sì che impallidisca la plebaglia dei detrattori. – Per nitida, per raggiante che sia, virtù non havvi cui l’invidia non appanni col livido fiele delle sue tinte. Di’ tu, o Brettagna, quai prodi sentirono primi ira virtuosa e pietà cittadina ribollire nel petto? Quali innalzarono la face dell’onore per allumarla all’arte della Patria? Di’, se affrontaro la massa annosa degli abusi? Se egregiamente tranquilli soffrirono ciò che nissuno si sarebbe messo nel periglio di soffrire? – E non è tutto. – Tripartito il governo, distrutta la feudalità, spogliati i Baroni delle loro angariche prerogative, scevri i Comuni del gioco patrimoniale, piantate le fondamenta della macchina politica, insegnatine i costituzionali dettami, scossi i siciliani perché ritornassero uomini… e chi oprò tanto se non dessi? – E non è tutto.– O voi maligni, di qual delitto riuscirete ad accusarli? Altre calunnie! Si: fu delitto in vero la loro deliberazione di rendersi piuttosto sudditi alla legge nel governo equilibrato, anziché primeggianti nell’arbitrato (e ben lo poteano). Si: fu delitto quel maschio eroismo, per la cui riforma incominciarono dal sacrificio esemplare dei loro proprj diritti. E le promesse dispregiate? e le minacce derise? e la fermezza imperterrita infra le mille, fatali vertigini sconvolgitrici dello stato? E quando chiare alfine scoprirono le mire dell’astio personale, quel rientrar quai Silla no, quai Scipj nella classe dei particolari non fu il magnanimo esperimento estremo, onde salvar la già già cedevole patria? Eppure li francheggiava altamente la forza nazionale, la confederata... Ma non è tutto. Noi non viviam come prima: spira un’aura di libertà: se a pro non ci ridonda, contro di chi la colpa?’ (Perché tremare? asseriscasi pure; e fingano di non appropriarselo i perversi). Sta la colpa, eccettuando i pochi, contro d’una faziosa immorale zotica ciurma, anzi mandra di Trebonj, di Camulei, di Petilj, che rompono la pace comune, che mozzate vorrebbero l’altrui sostanze, che ignorano la legge e la si fabbricano in cervello, turgidi di vuota rabbia, finti devoti a libertà ed organi dell’interesse, addentatori dei forti quando lontani e lambitori se prossimi, feroci di lingua ma vigliacchi di cuor. Ahi scorno del nome sicano! Crollò, piombò il già sorgente edifizio; e sulle rovine errano ormai gemebonde e disperse le speranze di Sicilia. - E tu, di concerto co’ tristi, insorgi a latrar contro il sole, o oscuro anonimo, antro della Risposta? Nebbia di fallacia n’è il soggetto, fango la dicitura. Già ci aspettiam more solito un’esplosione di maldicenze e vituperj: ma ci protestiamo fin d’ora che non sarem per degnarli di ascolto. – Arti belle nostr’unica cura![45].

La vena polemica e accesamente settaria della rivista si esprime anche negli interventi rivolti alle arti figurative. Il primo articolo della “Deca” sull’argomento (lo riportiamo integralmente in Appendice 2[46]) esce già nel numero d’apertura, dedicato a un’opera fin d’allora stimata abbastanza marginale di Giuseppe Velasco[47]: la tela raffigurante il Noli me tangere (1808) in quel tempo custodita presso la Chiesa Madre di Mistretta. Il sottofondo ideologico del pezzo, al di là della descrizione minuziosa della scena e dei suoi caratteri stilistici (certamente erudita e dilettantesca), sta soprattutto nell’adombrare una capacità “esegetica” da parte dell’artista che sarebbe mancata alla gran parte dei pittori – anche sommi che in precedenza avevano affrontato questo tema iconografico. Raffaello (erroneamente l’autore gli attribuisce il dipinto oggi custodito al Prado, opera invece di Giulio Romano), Federico Barocci e Francesco Albani ciascuno per proprio conto avrebbero disatteso il dettato evangelico abbandonandosi a licenze rappresentative fuorvianti. Velasco, invece, seguì alla lettera il passo delle Sacre Scritture dando luogo a un «capo d’opera» esattamente narrativo e istruttivo. Sta di fatto, e questa è l’accusa che l’autore dell’articolo (forse Francesco Franco) rivolge alla comunità locale, che «è peccato che debba andare un tanto quadro a seppellirsi in Mistretta»[48]. La chiusa è una esortazione piuttosto pessimistica: «Curiosi, avanti che vi fugga, accorrete a contemplarlo»[49]. In realtà l’intento dell’articolo – in ossequio all’indirizzo “patriottico” del giornale – è quello di mostrare le eccellenze dell’arte siciliana di quel tempo e avvalorare l’idea di un’arte isolana che pur in quella temperie agitata era ancor vivissima.
Sorprende che, benché appartenesse a un partito fieramente avverso ai filo-britannici della “Deca”, Agostino Gallo vedesse pubblicata una sua ode sulle opere di Giuseppe Patania corredata da un ampio apparato di note, uscita sul numero 5[50]: segno certamente della considerazione di cui il giovane studioso godeva già come una delle voci più promettenti della critica d’arte in Sicilia, quali che fossero le sue prese di posizione nel campo della politica. Questa convergenza in effetti va letta con ogni probabilità alla luce della comune appartenenza di Gallo e del “triumvirato” al vertice della “Deca” a congreghe massoniche operosissime proprio in quegli anni[51]: nonostante le divergenze ideologiche, le logge operavano nelle analoghe finalità di preservare gli interessi del ceto egemone e di garantire l’integrità di un patrimonio di cultura posto in serio pericolo dalla politica unificante dei Borbone. Perseguivano questo scopo, ovviamente, da prospettive del tutto diverse. La presenza inglese nell’Isola, d’altra parte, dovette rafforzare e incoraggiare la presenza di circoli massonici ispirati in gran parte proprio alle logge attive a Londra e nelle altre principali città del Regno Unito.
È comunque curioso (ma, alla luce di quanto ora accennato, perfettamente spiegabile) il fatto che la gran parte delle notizie riguardanti le belle arti riportate nel corso delle poche uscite della “Deca” ragguagliassero su fatti che avevano da poco avuto luogo in Inghilterra. Mostre, esposizioni, premi conferiti ad artisti britannici divengono tra le pagine della rivista (dichiaratamente debitrice in questo caso di avvisi desunti dall’“Examiner”[52]) il consueto repertorio informativo a beneficio del lettore anglofilo. La “Deca” realizzava così una inedita koinè artistica anglo-siciliana che poneva sullo stesso piano Giuseppe Patania e Valentine Green, John Flaxman e Liberto Quattrocchi: forse un po’ temeraria, ma certo interessantissima. Di John Flaxman, un autore che – al di là della congiuntura storica – in Sicilia era ammiratissimo[53], ad esempio si dà conto a proposito di un bassorilievo appena esposto a Londra:

Mr. Flaxman ha lavorato un monumentale basso rilievo, cui l’invenzione, la disposizione e la scienza anatomica gareggiano a renderlo insigne: esprime il contrasto del bene e del male con cuore umano. L’azione violenta e le rudi forme angolari e le terribili teste dei demoni disegnano l’impetuosa deformità del vizio: come all’incontro gli eleganti ed energici aspetti degli antagonisti mostrano l’amabile natura e la possanza prosperatrice delle inclinazioni virtuose. Il simbolo risulta puro e luminoso: non come l’arte allegorica inintelligibile nel caso delle pitture di Rubens alla galleria Luxemburg in onore dell’avola immeritevole di Luigi XIV[54].

Nel disegno utopico della “Deca”, lo ribadiamo, la Sicilia era già da considerarsi una colonia inglese in pectore e la Gran Bretagna una benigna e lontana madre patria: nulla di strano, dunque, se l’orizzonte dell’informazione s’estendesse ben al di là del Mediterraneo verso le contrade civili, regolate e progredite del nord Europa. Un traguardo culturale considerato assai più aperto e raffinato rispetto all’abbrutito panorama dell’opinione pubblica locale (ovviamente soprattutto quella di ispirazione filo-napoletana), poiché in grado di apprezzare artisti siciliani che nel luogo d’origine erano stati sottostimati: è il caso del pittore trapanese Giuseppe Errante[55], la cui fortuna – pressoché nulla nell’Isola – s’era invece alimentata di un pubblico di collezionisti entusiasti in Francia e in Inghilterra. A suffragio di questa denuncia, la rivista pubblica tre articoli sul pittore trapanese, sostenuti per altro dalle traduzioni approntate dal poeta Giuseppe Marco Calvino di un saggio pubblicato a Parigi sull’artista siciliano[56].
L’intento della “Deca” è però anche mostrare che il gusto di alcuni siciliani “eletti” è capace di sollevare le sorti culturali e politiche dell’Isola. Non è senza significato che un ampio articolo nella sezione Giardinaggio sia dedicato alla Villa del Principe di Belmonte all’Acquasanta, maestosa architettura innalzata su progetto di Giuseppe Venanzio Marvuglia in uno dei siti più panoramici dell’agro palermitano. Perché proprio questa scelta? Evidentemente perché nel far costruire la propria dimora di svago l’aristocratico aveva trasfuso tutta la propria squisita sensibilità, aggiornata peraltro sugli esiti della coeva architettura europea. La descrizione del parco che circonda la villa è condotta con accenti che, toccando le corde del pittoresco e del sublime, denunciano affetti già preromantici:

Compagno osservatore, sui scalini di questo edifizio t’assidi; e niega se puoi, un profondo senso di meraviglia nel signoreggiar coi volubili occhi il sottopo[sto] mare e porto, l’arco formato dagli alberghi della città; le amenissime campagne che si stendono dai Colli alla Bagaria; ma verso la sinistra sporgi il volto … in giù… precipizio orrendo! Sublime! Scendiamo: la vetta coronata di fichi indiani e giovani cipressi, che vanno le petrose balze ingombrando; ad ora ad ora si trovano candidi sedili rivolti all’occidente, un’infinità di tramitelli serpeggia, sieguono fruttifere chiusure e piani misticati d’alberi e di vigne, in cui le corde che passano fra tronco e tronco dei primi servono a sostener nel mezzo le seconde[57].

Ma soprattutto perché il principe di Belmonte (che di lì a pochi anni, com’è noto, avrebbe donato la propria quadreria alla Regia Università, nucleo primigenio di quello che sarebbe divenuto il Museo di Palermo[58]) è da annoverare tra i padri della patria, tra i più ferventi sostenitori della Costituzione emanata l’anno avanti. Uno di coloro che, nello schierarsi apertamente contro le angherie del sovrano, avevano subito l’onta della deportazione e del carcere.
Siamo già, con l’articolo dedicato alla maestosa villa del principe, giunti al novembre del 1813: un autunno che mestamente annunciava l’epicedio per la rivista. L’ultimo numero, il 12, sarebbe uscito il 30 novembre già consapevole di un domani che non sarebbe mai giunto. Il congedo che la redazione rivolge ai lettori è testimonianza toccante e grottesca a un tempo di un castello di speranze poco meno solido delle carte da gioco. Un anatema contro tutto e tutti (eccettuati i pochissimi abbonati) che disegna il quadro sconsolato di una terra irredimibile, bestialmente votata al servaggio da un lato e all’ignoranza dall’altro. Lo riportiamo, in chiusura di questo nostro articolo:

Congedo
Effuge crudeles terras
, Virg[59].

Ed ecco sepolta la Deca: autori d’opuscoli miserabili e d’insipide memorie non bestemmiate di vantaggio. Gentili celesti germane, arti belle… addio: fuggite da questo suolo malaugurato, e possa deserto da tutti tornar vuoto, come languìa all’era de’ Ciclopi.
A rendimento di conti, ciascun Associato avrà certamente riscosso dodici numeri con un’introduzione e un supplimento; caso mai d’alcun numero si trovasse manchevole, ne porga richiesta pria che gittiamo a’ cani le copie sopravanzanti. Giusta la nota conservata presso Francesco Romeo, coloro che replicarono di buon animo la firma per il secondo quadrimestre, non ascendono dunque a più di 20, numero insufficiente a coprir neppur la parte decima delle spese di stampa. Le poche persone che pagarono per un semestre o per un anno, potranno indirizzarsi all’officina della Cronica esistente al Club, per ivi fedelmente riscuotere il sovrappiù lor dovuto, o per iscontarlo ascrivendosi alla Cronica, qualora così vogliano.
Noi ad ogni modo non risentiamo da rimproverarci il menomo scrupolo, né per la varietà e novità degli articoli esposti, né per la dose dell’erudizione, né per la parte storico sicola, né per lo stile florido e vivace, né per la scelta dei caratteri e l’abbondanza di materia. Pazienza: c’ingannammo nel credere a via di travaglio d’appagare il sopraffino, acutissimo, coltissimo gusto dei Siciliani. Veramente non corre tempo che per qualche giornalista di Palermo, il quale ben appropriato al paese, mercanteggia in ismaltendo carte da zucchero, e a furia di fogli mosaicamente composti ed impressi si diletta d’emungere le borse altrui. Barbarica terra! California! A che ci sei Patria? Terra d’ignoranza ereditaria e di delitti! Popolo che non conto fra’ popoli, popolo d’ourang-outanghi! (Perdonate o scarsi ottimi, che noi conosciamo e veneriamo; perdonate uno sfogo, amaro sì ma necessario e giusto).
Ciò che narrasi d’Archimede, d’Empedocle, di Gorgia, solenne bugia: o affè non appartenevano alla Sicilia. Che marmaglia d’ominacci sozzi, abbrutiti vegetano al dì d’oggi! Togli loro il cibo ed il moltiplicarsi, nascono, vivono, muojono ad una foggia comune, quasi caproni, bestialmente. Forse se insorgesse un giornale o epulonio o muliebre, ne sarìa lo spaccio in certa guisa vantaggioso: ma del resto non si concepisce qui né tampoco la idea primigenia.
Accorrono al teatro per esempio o per cenare o per ciarlare: qual pezzo aggradiscono, anco senza capirlo? Quello ove l’attore fa pruova di polmoni, ove la prima donna il buffo saltella, si contorce in luogo di cantare. La miglior musica? La più strepitosa. Il quadro migliore? Il più rosso.
– Che fogli pubblicate ad ogni dieci giorni ? (mesi addietro nell’associarsi ci chiedeva un cotale).
– Un solo.
– E quanti associati?
– Circa a dugento.
– E basta a leggersi in dieci giorni un foglio, quando girar deve sotto gli occhi di dugento persone?
Che rispondere a sì eterogenea dimanda? Che crassezza! Già per riguardo a’ libri, superata che si ha a forza di sferzate la grammatica, ne giura aperto divorzio la grandissima parte; al più qualcuno non fruga smanioso qua là dei volumi, che per segnarvi a piè dell’ultima pagina le lettere iniziali del suo cognome (come G. Z., p[er] es[empio]). Vedi scimunitaggine! E sempre ed in tutto così. Degli eroi si sollevano intrepidi ad apprestarci libertà, vita, Costituzione: chi ne sa lor grado? Nissuno: per non provare il peso enorme della riconoscenza, si dispregiano, anzi per controcambio scioperatamente s’insultano. I magnanimi confederati ci francheggiano, ci sostengono: ed a chi cale di tanto? Si giunse a stampare una stoltissima lettera contra Bentinck. Gran Dio! Cotesto fu il segnal decisivo della più rude, della più stupida barbarie di Sicilia al 1813… Effuge, effuge crudeles terras.

“Fuggi dalle terre crudeli”: in effetti sembra questo l’esergo di una rivista che si dissolse per il progetto troppo grande e troppo ambizioso che le faceva da fondamento: il pubblico, forse indolente, forse oltremodo legato alla tradizione e ancor più avverso agli Inglesi, ben presto abbandonò i tre temerari animatori della “Deca”. D’altra parte la storia stessa dell’esperimento costituzionale tenacemente sostenuto dal giornale s’avviava a una non meno malinconica fine: solo tre anni dopo, nel 1816, Ferdinando IV adesso primo Re delle Due Sicilie l’avrebbe cancellata, e con essa la specificità stessa del Regno su cui aveva esercitato il potere per oltre mezzo secolo: la Sicilia, come entità politica ma ancor più come luogo di una particolarità culturale, non esisteva più.

Appendice 1
(Riportiamo la rassegna degli articoli pubblicati sui 12 numeri della “Deca” così come compare nell’ultima uscita della rivista. Tra parentesi quadra abbiamo integrato l’indicazione della data d’uscita e dei numeri di pagina. I punti interrogativi riguardano i numeri del giornale che risultano irreperibili)

Indice degli articoli pubblicati[60]

Poesia

Alla Gran Brettagna, ode di Michelangelo Monti, distesamente analizzata e con dei pezzi trascritti, n. 1 [10 agosto 1813, pp. 5-6].
Il Genio di Sicilia restituito in libertà da Ferdinando III Borbone, ode pindarica del P. Francesco Paolo Filocamo, caratterizzata e coll’ inserzione di una stanza, n. 7 [10 ottobre 1813, pp. 32-33].
Ode di Agostino Gallo per il pittore Giuseppe Patania, inserita [nel] n. 5 [20 settembre 1813, pp. 21-22].
Il damerino ode Pariniana, d’uno degli estensori, trascritta n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].
Merito poetico di Giovanni Alcozer cultore delle muse patrie, con uno squarcio di parafrasi del Solvitur acris hiems d’Orazio, n. 12 [30 novembre 1813, p. 51].
La sensitiva, strofe didattiche a Fille, d’altro estensore, inserita [nel] n. 3 [30 agosto 1813, pp. ?].
Sonetto postumo di Vittorio Alfieri, addotto per modello di stile, n. 6 [30 settembre 1813, p. 28].
Sonetto siciliano del chiarissimo Meli, allusive ai fogli ingloriosi che sortivano nello scorso Ottobre, n. 7 [10 ottobre 1813, p. 34].
Sonetto per l’arrivo di Bentinck, sciocca risposta d’un anonimo di verso in verso confutata, e terribile controrisposta sempre nelle stesse rime, n. 8 [20 ottobre 1813, pp. 35-36].
Favole di Giovanni Meli annunziate, colla prima delle medesime trascritta e commentata, n. 2 [20 agosto 1813, pp. ?].

Tragedia

Esame del C. Gracco di Vincenzo Monti, insigne esempio di tragico stile, n. 9 [30 ottobre 1813, p. 42].
Spartaco tragedia spettacolosa di anonimo autore, difetti massicci del medesimo, e cause del suo maraviglioso effetto sul teatro, n. 7 [10 ottobre 1813, p. 32].

Declamazione

Francesco Petta, attore caratteristico nel Gracco: cattivo stato del nostro teatro tragico per la parte sì de’ personaggi che degl’ignoranti spettatori, n. 9 [30 ottobre 1813, p. 41].
Merito di Petta nel declamare con applauso lo Spartaco dopo Marini, n. 7 [10 ottobre 1813, p. 32].
Traduzione
Saggio d’una versione d’Orazio, con alquante idee sul volgarizzare questo classico, e colla traduzione trascritta dell’ode Quem tu Melpomene in prosa ed in verso, n. 11 [20 novembre 1813, p. 47].
Elogio della vita rustica, nella Georgica di Virgilio, tradotto da Francesco Pasqualino in capitolo nostrale, con osservazioni, e coll’inserimento di parecchie terzine [senza l’indicazione del numero].

Oratoria

Rapidi cenni su tutti gli opuscoli usciti dall’epoca della libertà della stampa sino ai 30 del trascorso Ottobre: vie via dal n. 2 al 9.
Idee sulla tachigrafia, in occasione d’un manifesto dell’abb[ate Salvadore] Morso, n. 3 [30 agosto 1813, pp. ?].
Scappata fulminante contro l’opuscolo calunnioso Risposta di un siciliano ad un suo amico in Londra, supplemento al n. 6 [30 settembre 1813, pp. 29-30].
Analisi compiuta dell’Elogio di Gio[vanni] Agostino de Cosini scritto da Vincenzo Gagliani, col rapporto d’uno squarcio sulla tranquilla morte del Cosmi, n. 6 [30 settembre 1813, pp. 25-26].
Epistolare
Lettera onorifica del principe Reggente al marchese di Wellington, additata per modello, n. 10 [10 novembre 1813, p. 43].

Musica

Progetto di miglioramento della nostra musica strumentale e locale, e riorganizazzione de’ conservatoi, ove del divino maestro di canto Michele Guerra e dell’intendentissimo Barone Pisano n. 2 [20 agosto 1813, pp. ?]. Questo progetto venne in parte esaudito: giorni sono, la Secret[eria] di Guer[ra] sciolse un dispaccio, per cui si addossò al prelodato Guerra ed all’abb[ate] Bertini l’incarico di foggiare un piano di musica per il ristoramento de’ conservatoi, ecc.
Invenzioni siciliane di suoni e di strumenti musicali, estratto istorico; ove [si discute] della zampogna, organo d’acqua sambuca, ecc., n. 11 [20 novembre 1813, pp. 49-50].
Differenze notabili fra i cembali di costruzione inglese e di tedesca; e cembali principali qui esistenti; ove [si discute] del nostro fabbricante di Paola, n. 10 [10 novembre 1813, pp. 42-43].

Musica di camera

Daliso, monologo con accompagnamento di piano-forte del P Giuseppe Terzo, sulla maniera dell’Arianna abbandonata dell’Haydn: con un tratto inserto di prosa dell’autore stesso circa il soggetto, n. 9 [30 ottobre 1813, p. 39].

Musica teatrale

Cenni sulla composizione, sui cantanti e l’orchestra, e sul risultato dell’effetto dei seguenti pezzi eseguiti al Carolino:
Orazj e Curiazj, tragedia in musica di Cimarosa, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].
Lodoviska, dramma serio di Simone Muyer, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].
Amore ed armi, dramma giocoso di Luigi Mosca, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].
Cantatrici villane, dramma giocoso di Fioravanti, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].
L’impresario in angustie, farsa di Cimarosa, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].
L’alloggio militare, farsa di Sigismondi, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].
L’erede senza eredità, dramma giocoso di Silvestro Palma, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].
L’Idolo cinese, commedia buffa per musica, di Giovanni Generale, num. 7 [10 ottobre 1813, p. 33]. Strumentatura maestra, e motivi brillanti, benché di qua e là rappezzati; ma il gusto della musica falso per lo sfoggio delle trombe e lo smodato fracassìo. Come già da noi si promise, ciò volevamo patentemente dimostrare, cessata l’idolomania: ma pria di questa cessò la Deca.
Che originali! farsa di Simone Mayer, n. 9 [30 ottobre 1813, p. 39].

Danza

Origine delta danza in Sicilia: saggio completo, n. 7 [10 ottobre 1813, p. 31]. Ci spiace non esser riusciti a pubblicare le istruttive notizie biografiche, ivi compromesse, sul Noverre morto nell’Ottobre 1810.

Opera

L’Andromaca di Paesiello ed il ballo La schiava sultana, eseguiti al teatro S Cecilia. Cattiva la prima, mediocre il secondo, n. 10 [10 novembre 1813, pp. 43-44].

Architettura

Menzione della splendida festa data dal principe della Cattolica per l’arrivo di Bentinck: sul che un’ottava, n. 10 [10 novembre 1813, p. 43].

Giardinaggio

Villa del principe di Belmonte al poggio detto dell’Arenella, articolo di natural leggiadrezza, e trattato colle teorie recenti sulla materia, n. 11 [20 novembre 1813, pp. 48-49].

Pittura

Elenco de’pittori siciliani, interessantissimo ma rimasto incompito, n. 10 [10 novembre 1813, pp. 44-45]. Il Saggio sulla vita e le opere del Mor-realese, arrecava molt’onore alla Sicilia, se giungevamo ad esporlo.

Ritratti

Ritratto di Lady Bentinck, opera di Roberto Fagan, minutamente descritto e dichiarato, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].

Quadri

Rimembranza del nostro Giuseppe Errante; ed inserzione d’una lettera sommamente orrevole del Morning-post a tal proposito, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?].
Continuazione delle notizie circa Errante, e relazione del di lui quadro Artemisia piangente sull’urna di Mausolo, n. 10 [10 novembre 1813, p. 44].
Endimione dormente a’ rai lunari, e Psiche richiamata in vita da Amore, altri due patetici quadri di Errante, n. 10 [10 novembre 1813, p. 44]. Il signor Calvino di Trapani ci favorì, fino a quindici, le relazioni originalmente impresse a Parigi.
Noli me tangere, quadro del Raffaello siciliano, Giuseppe Velasques. Descritto veracemente grande qual è, n. 1, [10 agosto 1813, pp. 7-8]. Quanto l’invidia gracchiò sopra e la descrizione ed il quadro!
Deposizione dalla croce di Salvadore Burgarello: si mostra donde il pittore ricavò le se idee, n. 7 [10 ottobre 1813, pp. 31-32].

Decorazioni

Peregrine, costumate, abbaglianti quelle dell’Idolo Cinese, mercé l’accortezza dell’impresario, n. 7 [10 ottobre 1813, pp. 33-34].
Scultura
Succinta idea de’ nostri scultori, n. 12 [30 novembre 1813, p. 51]. Non ci è dato lo approfittarci dei lumi e della cortesia del Signor Michele Estero riguardo alla storia del Gaggino.
Elogio di Liberto Quattrocchi palermitano morto a 20 Febbrajo 1811. Fedele, n. 8 [20 ottobre 1813, pp. 36-37].

Intaglio

Saggio sull’arte dell’intaglio in Sicilia, n. 3, [30 agosto 1813, pp. ?]. Continuato al n. 5 [20 settembre 1813, pp. 23-24]. Rimasto incompito per mancanza d’opportunità d’ ulteriori inserzioni.

Gliptica

Usi della gliptica, e stato attuale della stessa in Europa; e specialmente encomio ragionato del perfetto artista trapanese Michele Laodicina, n. 6 [30 settembre 1813, pp. 26-27].

Monete

Ciò che si predica al n. 12 [30 novembre 1813, pp. 51-52] circa le virtù de’ fratelli Costanzo, non le adombrano né tampoco per metà.

Notizie d’Inghilterra

Attinenti a bell’arti, n. 4 [10 settembre 1813, pp. ?], n. 5 [20 settembre 1813, p. 24], n. 6 [30 settembre 1813, p. 28].

Varietà ecc.

Appendice 2
(Riproduciamo una scelta di articoli segnatamente dedicati alle arti figurative, tra il breve novero di quelli usciti nei pochi numeri della rivista. Il primo tra essi, come si accennava più sopra, è dedicato al pittore Giuseppe Velasco)

Pittura
Noli me tangere, quadro di Giuseppe Velasques[61]

Qual ventura per il nostro foglio, di aprir la scena pittorica con un quadro di tanta vaglia! Il soggetto è ricavato dall’Evangelio di Giovanni, cap. 20.Per meglio intenderne lo spirito, bisogna premettere che il pittore allude alla circostanza in cui la Maddalena recatasi al monumento, che chiudea il corpo di Cristo, né rinvenutolo ivi, rovesciata anzitrovando la pietra sepolcrale, se ne stava in sulle soglie tutta lagrimosa e desolata; quando richiesta della cagion di quel pianto da un uomo, cui ella prese per ortolano ad una specie di marra che gli scorgea, rispose con ricercare il luogo ove si trovasse il corpo desiato. Ma chiamandola quegli col nome di Maria, già riconosce dessa il di lei maestro. Ecco quanto si deve precedentemente supporre: il momento dell’azione, su cui Velasques atteggia le figure del suo quadro, consiste nello slanciarsi che ella fa, agitata da cento affetti subitanei, verso il Salvatore, e nell’occasionare in lui le famose parole Noli me tangere.
La tela presentatrice di tale argomento ha nove palmi di larghezza, e tredici di altezza.[62] Le sole figure che l’occupano sono il Cristo e la Maddalena: in atto questa di prostrarsi, abbandonata sul ginocchio dritto e sospesa coll’altro, ondeggiante nel panneggio, scarmigliata i biondi capelli, e colle braccia e le dita avidamente distese; l’altro maestoso all’in piedi, sfuggito di corpo, col volto inchinato e di profilo, appoggia la manca sulla marra, e coll’altro braccio nudo e allungato in gesto d’ opposizione, sembra veramente indicare il sentimento principale non toccarmi.
La luce diffusa per la tavola è tranquilla: entra dalla parte delle spalle del Salvatore, il quale tien la dritta; e mentre restano adombrate le membra di questo, s’illumina frattanto tutta la faccia della protagonista. Si veggono all’un canto del terreno alcune erbe ed ajuole, e più in fondo una siepe ed alberame, come per accordare colla marra tenuta dal Nazareno e per rendere verisimile in quei luoghi l’esistenza del creduto ortolano. Dalla parte della Maddalena giace rotta per terra la lapida [sic] sepolcrale, che si finge abbattuta; sulla lapide posa un gentile vaso da unguenti, portato dalla donna sull’idea di ungere il corpo divino; al di sopra grandeggia un masso di monte enorme e scuro: ed i lati d’una porta già disserrata, che incastrati sono nel fianco del masso, fanno comprendere ivi l’ingresso al monumento di Cristo. Nell’alto della tela una fuga di montagne degradate guida alla vetta del Calvario, la quale si può riconoscere alle piccole croci che leggermente ed in lontananza appaiono piantate colà: sotto del Calvario si distingue la strada che conduce a Gerusalemme; ed il pittore seguendo le tracce dell’Evangelio vi ha situate due minutissime figure, che sembrano addrizzarsi alla volta della medesima: sono due Apostoli che riedono dopo essersi addotti per istanza della Maddalena al vuoto sepolcro. L’adattamento delle circostanze locali, la dignitosa gravità del Salvatore in contrasto coll’energica e a dirittura animata vivezza della Maddalena, la nota eccellenza del disegno e dei muscoli, la tornitura delle estremità, il lume ben gettato, il Tizianesco colorito, l’eleganza delle forme, le pieghe non affettate, la verità che vi parla, formano un assieme sì meraviglioso e patetico, che ti può descrivere?… No: si vede, si gusta, si sente.
Il difficile del quadro, che veniam di rapportare, consiste nel cogliere lo spirito delle intensissime parole noli me tangere, e nel far sì che i due personaggi ne eseguiscano scrupolosamente il punto di azione. Tre grandi maestri, per tacer degli altri, hanno maneggiato il presente soggetto, e di un modo differente tra loro, Raffaello,[63] Federico Baroccio,[64] e l’Albano:[65] ma salva la venerazione, che si deve a tali insigni luminari della pittura, e non intendendo escludere i pregi immortali, che ne caratterizzano le opere, noi stimiamo di asserire che nessun di loro afferrò il senso delle sapute parole, e che quindi falsamente lo espresse, benché poi abbiano pennellato il quadro a meraviglia. Esaminiamo i loro pensieri colle stampe sott’occhio. Albano sopraccarica inopportunamente la sua tela di angeli, ad un de’ quali situa in mano la marra: ma oltre che eglino non furono dalla donna riguardati che al di dentro del sepolcro, la marra poi è necessità situarsi nelle mani del Nazareno, altrimenti non riesce verisimile lo sbaglio di lei nel prenderlo per ortolano. Costui frattanto sta atteggiato nella posizione di girarsi, rivolgendo quasi le spalle alla commossa Maddalena; e ciò oppugna manifestamente il testo, giacché dopo la ricognizione racconta S. Giovanni che desso continua ancora a favellarle della sua gloria: il noli me tangere non può, dunque esprimersi colla mossa a partire, come l’ Albano si avvisò di significare. Il Baroccio, facendo erroneamente giacere al suolo la marra, presenta il Cristo con atto violento sì gettato indietro, che sembra paventare il tocco della Maddalena, ed obbliga il pittore alla poco lodevole circostanza di appoggiargli il fianco e la destra a delle spalliere di canne, senza cui si sarebbe squilibrato. Ma già nell’Evangelio leggiamo a chiare note vidit Jesum stantem: e le parole addrizzate da Gesù non sono di proibizione, ma bensì di avvertenza, quasi non fosse necessario il toccare per convincersi della di lui realtà; né dovea temere peraltro d’esser toccato, quando pronunzia già noli me tangere: la mossa di scagliarsi cotanto indietro è quindi esagerata. Meglio di tutti e prima di tutti il Raffaello seppe piantare convenevolmente il Nazareno; lo ravvolse in dei vasti panni, e gli pose la zappa alla spalla, benché si fosse alquanto trasportato nel coprirlo di largo cappello e nel dargli folta e da vecchio la barba; ma dove mancò di molto, fu nel piegare la Maddalena verso i piedi di Gesù, per ungerli d’unguento, di cui porta il vaso; e così credette spiegare il testo con una proibizione di Cristo a non volere esser unto da quella.
Non è verisimile che nel gran punto della riconoscenza fosse tale la primissima idea della Maria, e sì fatta supposizione del pittore è veramente ipotetica e destituita dal soccorso del testo. Raffaello balza fuori dell’argomento, Baroccio esagera, Albano falseggia. Quei che azzecca il verace senso dell’Evangelio è Velasques; il quale esprime colla magia delle tinte, senza cader né in errore né in caricature, la Maddalena che desidera, ed il Salvatore che le volge le sue imponenti parole. Cotesto scopo principale viene poi concordemente secondato dagli accidenti, che spiccano per tutto il quadro: come il piede dritto del Cristo per esempio; il qual piede, benché offerto di fronte in un picciolo sito di tela, pure sembra col favor del lume conservare la totale estensione: la gamba sinistra, che mezza ombreggiata mostra tuttavia risentiti fortemente i suoi muscoli per l’aggravamento fermo e maestoso del Nazareno: ciò che è lo stantem del testo; come il volto e la mano del medesimo, che con uniforme movimento cospirano ambidue a significare il noli me tangere; quel ginocchio della Maria il quale vestito anche del panno, si vede sensibilmente sospeso nell’aria e quasi rilevato dalla tela; la destra di costei scorcia e difficile; la capigliatura diffusa ampiamente sulle spalle e sul petto, il cui color lucido biondo la maestria del dipintore ha saputo egregiamente differenziarlo dal giallo del manto.
Ma quello che rende l’opera immortale è sopra ogni altro il lagrimoso, il giulivo, l’incerto, il marcato viso della Maddalena: è il viso della circostanza. Quanti affetti contrarj, tumultuosi, toccanti, vi passeggiamo, vi fervono ! Lo cercava, ha pianto, lo vede, lo riconosce, si sorprende, ne giubila, vorrebbe toccarlo: ecco la gioja stampata sui vestigj del dolore, ed un misto d’incertezza confusa ancora tra loro. Ha pianto, non v’ ha dubbio; lo dicono le lagrime lucenti parte nella guancia, parte nell’orbita dell’occhio; lo dice quel rossiccio che orla le palpebre faticate: il famoso rubent ocelli di Catullo; intanto le labbra sorridono, e questo angelico sorriso le rischiara la fisonomia; piange e ride e l’espressione del Sozzi:[66] e noi aggiungiamo che tutta la mossa risente ciò, che intendono i Francesi col termine privativo di tressaillement.[67] Prodigio stupendo dell’arte! E mancano capi d’opera in Sicilia? È peccato che debba andare un tanto quadro a seppellirsi in Mistretta. Curiosi, avanti che vi fugga, accorrete a contemplarlo.

Elenco
Dei pittori siciliani[68]

(La stragrande maggioranza delle notizie contenute in questa breve rassegna dei pittori siciliani, specialmente nella prima parte, è desunta dalle Memorie de’ Pittori Messinesi edite a Napoli nel 1792, l’unica raccolta di biografie di pittori fino a quel momento pubblicate in Sicilia. Le Memorie erano state compilate dal pittore tedesco Philipp Hackert, che si era avvalso della fondamentale collaborazione del canonico Gaetano Grano, cui si deve con ogni probabilità l’impostazione dell’opera. In realtà i due autori avevano ben poco posto del proprio nella elaborazione del loro saggio: si tratta infatti di una riproposizione delle Vite de’ Pittori messinesi di Francesco Susinno (che allora circolavano manoscritte in una qualche copia dell’autografo originale), riassunte in 72 pagine e manomesse nemmeno poi tanto da dare l’impressione di un’opera originale. La propensione razionalizzante a ripartire in epoche ben precise la storia della pittura messinese, ciascuna caratterizzata da uno stile distinto, si ravvisa già nella prefazione all’opera: «Tutti i pittori messinesi ponno dividersi in tre classi: ne’ pittori anteriori a Polidoro; nella scuola di questo Pittore; e ne’ pittori posteriori a questa scuola».[69] Dunque il raffaellismo di Polidoro da Caravaggio rappresentava nella classificazione proposta il cardine ed insieme il vertice più alto raggiunto dall’arte pittorica nella città dello Stretto. L’altra fonte è quasi certamente il XXXI dei Discorsi intorno alla Sicilia di Rosario Gregorio, anche questi allora ancora inediti, intitolato Dei più celebri pittori messinesi.Le notizie sugli artisti palermitani potrebbero invece derivare dalle Memorie dei pittori, scultori architetti artefici in cera siciliani[70] di Antonino Mongitore (1743 ca), a quel tempo ancora manoscritte e custodite presso la Biblioteca del Senato di Palermo. Il fatto che in chiusura dell’articolo si accenni alla futura pubblicazione di uno studio su Pietro Novelli farebbe ipotizzare che l’autore dell’articolo sia Giuseppe Maria Bertini,[71] il quale pochi anni dopo – nel 1818 – pubblicherà sul pittore siciliano una biografia apparsa all’interno della Biografia degli Uomini illustri della Sicilia di Giuseppe Emanuele Ortolani [72]).

Demofilo d’Imera creduto da Plinio il maestro di Zeusi.
Fiorì al 1267 Antonio d’Antonio da Messina; contemporaneo di Cimabue. Vedesi nella Cattedrale una tavola del martire S. Placido dipinta da lui.[73] Oggi si annoverano molte tavole appartenenti alla famiglia degli Antonj. Al XV secolo [visse] Jacopello d’Antonio,[74] del lignaggio medesimo. Pinse il S. Tommaso d’Aquino esistente nella chiesa di S. Domenico.[75]
Il più riputato fra gli Antonj fu Antonello d’Antonio, detto volgarmente Antonello da Messina,[76] ove nacque verso il 1430 dal Jacopello che cennammo. Tratto dalla fama del Masaccio recossi a Roma, e vi si formò nel disegno. Di là tornando, oltre varj lavori conservati tutt’ora, riuscì nelle Madonnine. Come racconta Maurolico,[77] in Palermo pennellò due vecchie rugosissime le quali guatandosi e sghignazzando attiravano le risa. Ma quel che val più Antonello, avendo a Napoli presso il re Alfonso riguardato alcune pitture colorite ad olio, d’invenzione del Vandyck,[78] corse a Bruges; e qual semplice amatore dell’arti, introdottosi bel bello nello studio di costui ne discoperse il segreto: il primo poi usollo e comunicò al Bellini, a Domenico Veneziano, al Beccafumi, uno dei suoi allievi, ed agl’italiani tutti in Venezia dove morì nel 1501.[79]
Pietro Oliva fiorì in Messina; e nel 1491 ivi eseguì l’Adorazione dei Magi, che si mantiene nella sagrestia dei Greci.[80]
Antonello Resaliba[81] coetaneo d’Oliva. Nella parrocchia del villaggio di Pistunina ne resta una Vergine col Bambino, colla sottoscrizione Antonellus Resaliba me pinsit anno 1508.
Antonello Pino da Messina, mercò lode in Venezia assieme col suo scolare
Salvo d’Antonio, nipote d’Antonello ed anch’egli famoso verso il 1511. Di lui si possiede nella sagrestia della Cattedrale il Transito della Vergine, opera di grandissima verità e di puro stile raffaellesco.[82]
Merita somma ricordanza Alfonso Franco nato in Messina al 1446 ed ivi morto nel contagio del 1524. Portò il soprannome d’Argentario, per hé pria cotal mestiero esercitava. La maggior parte de’ suoi travagli, pregiati per la naturale forza ed espressione, venne altrove condotta: non ci rimangono che la Deposizione dalla croce a S. Francesco di Paula e la Disputa de’ dottori nel tempio a S. Agostino, in Messina.[83]
Fra pittori di quei tempi primeggia Girolamo Alibrandi,[84] giudicato per il Raffaello di detta città sua patria al 1470. Per elezione spontanea, in vece degli studj forensi, frequentava la scuola allora celebre degli Antonj. Alla morte del padre, andò a Venezia e poi a Milano, nella prima perfezionossi sotto Antonello da Messina. ed in dimestica fratellanza si unì con Giorgione; nella seconda presso Leonardo da Vinci corresse nel proprio stile quella durezza, risultante dalla pretta imitazion della natura. Ammirato il Correggio, ed indi a Roma l’Urbinate, e disegnando sempre quanto di antico ne’ suoi viaggi incontrava, ritornò in Messina al 1514. Molti de’ lavori di lui si sparpagliarono per l’ Italia, a’ più rinomati pennelli attribuendosi. La Sicilia tuttavia ne possiede un capo d’opera, il quale lo è altresì della messinese pittura: intendiamo un quadro di palmi 24 d’altezza e 16 di lunghezza, operato nel 1519, rappresentante la Purificazione della Vergine[85] sotto un magnifico tempio corinzio: si custodisce gelosamente nella chiesa della Candelora a Messina. Per conoscere l’alta vaglia di tal quadro pongasi a mente Polidoro da Caravaggio, che volle dipingere una tela onde conservarlo coprendolo. Il contagio del 1524 ammazzò anche l’Alibrandi: travagliava più per genio che per professione; colto nelle lettere ed intendente della prospettiva ed architettura.
Giacomo del Duca,[86] palermitano, scolare fra’ nostri riputato del Buonarrotti.
Vincenzo da Palermo detto il Romano[87] dalla lunga dimora in Roma. Dopo il sacco di questa città nel 1627 [sic] si rifuggì in Napoli col suo maestro Polidoro: e da Napoli addottisi ambidue a Messina, Polidoro vi si fermò aprendo fioritissima scuola, Vincenzo si ridusse alla patria.
Diodato Guinaccia,[88] nato in Napoli ma passato sin dalla puerizia in Messina, scolareggiò più famosamente degli altri tutti appo Polidoro; e seppe così afferrarne la suppellettile pittoresca e sostenerne la scuola, che si confondono agli occhi degli esperti le opere d’entrambi. Il luminoso quadro della Natività, interrotto per la morte violenta di Polidoro, fu dal costui discepolo terminato. Diversi quadri ce ne restano. Stefano Giordano, pur della scuola medesima, fiorì in Messina circa l’anno 1541. Fece La Cena del Signore,S. Benedetto moribondo, ecc.[89]
Iacopo Vignerio,[90] stessa scuola. Trattò l’arte in varj luoghi della Sicilia; nella sua patria Messina non avanza che l’eccellentissima tavola di Cristo colla croce sulle spalle, faticata nel 1552 per S. Maria la Scala. I conoscitori asseriscono per opera della di lui mano un quadro somigliante nel Monte della Pietà, che si assegna a Giulio Romano.[91]
Mariano Riccio vide la luce in Messina al 1550. Dallo studio di Alfonso Franco passò a quello di Polidoro da Caravaggio. Attestano la di lui abilità il S. Leonardo, il S. Nicolò ecc., nelle chiese rispettive.
Antonello Riccio, figliuolo di Mariano, ed ancor egli allievo di Polidoro. Levò fama verso il 1576, nel qual anno lavorò la Natività del Signore in S. Domenico, che si reputa per l’egregia fra le sue numerose opere.[92]
Alfonso Lazzaro,[93] discepolo di Polidoro. Si vedeano del Lazzaro parecchi quadretti nel fregio della chiesa di S. Giuseppe al Palazzo.
Antonio Barbalonga[94] da Messina, e Francesco Cozza[95] palermitano. Ammaestrati e formati dal Domenichino, acquistarono grido fra noi: in Roma gl’intendenti ne apprezzano dei quadri. Ma Cozza va tacciato d’anacronismo e d’inverisimiglianza.
Pietro Novelli, detto il Morrealese dalla sua patria, morì nel 1647. Daremo un saggio speciale sulla vita e le opere di esso lui.[96]
Agostino e Rosalia Novelli,figli del Morrealese, ambi ai lor tempi in istima. Le lezioni di Rosalia istruirono ed allevarono Anno Sortino,[97] celebratissima per i lavori di cera.

(Sarà continuato)

Giardinaggio
Villa del principe di Belmonte al poggio detto dell’Arenella[98]

In un raffinamento dell’agricoltura destinata alla nostra delizia consiste il giardinaggio: gl’Inglesi, che tanto appassionati ne vivono, lo hanno ultimamente a ragion sollevato alla dignità d’arte imitatrice; in vero nell’architettare un ben inteso giardino l’uomo di genio si para d’innanzi per modello la campestre natura; e ne va acconciamente trascegliendo, disponendo, combinando i diversi oggetti le irregolari vaghezze sì che in fine dal moltiforme intreccio delle parti risulta l’eleganza, lo strepito, il peregrino l’insolito; e la natura vi sorride perché rimbellita delle proprie spontanee bellezze in più breve spazio prodigalizzate e raccolte. L’arte del giardinaggio però, massime sul gusto cinese, credasi da comuni talenti eseguibile; chiama punti d’immaginazione, siti sublimi, patetiche contrade, il dominio intero della poesia; richiede nelle moli, ne’ tempietti, nelle anticaglie, nell’urne architettonica conoscenza; amenità di vedute esige, paesetti di Claudio e Vernet, frappeggiar, pittoresco di foglie, colori armonici negli alberi: in somma, una bell’arte che l’arti belle quasi tutte comprende, e per sovrappiù agronomia l’ottica, ecc. Oh straniero che navighi verso la sponda oretea affacciandoti al Mongerbino non iscopri tu sulla schiena delle colline sovrastanti al foro que’ tre schietti edifizj in proporzionata distanza drittamente decrescenti sino all’altura della montagna? Oh! gitta l’ancora e dismonta; nell’agreste recinto, che li chiude, a passeggiar t’invitiamo: altro di più squisito lusinghevole e più raro non cercare in Sicilia.[99] Anzi se ti pervenne all’orecchio la celebrità degli orti esperii, dei poemetti di Persia [scil. Persio], degli orti di Pompeo, di Lucullo a Roma, dei Verzieri di Alcinoo e di Armida e dell’Eden cantati dall’Omero, dal Tasso, dal Milton, credici, compiuta fede non prestare alle menzogne mitologiche o all’esagerazioni della fama: l’Eden verace si è questo; questo poggio, da sassoso, alpestre infecondo, dopo acuto esame delle ville primarie di Gemania, di Lombardia, di Francia, d’Inghilterra perfettamente giardineggiato in pochi anni. Eccoci, o amico straniero, al piano ellittico, ove un doppio uscio invita a salire il dilettoso luogo; l’orror dei massi sotto il solco dei carri addivenne rotabile; su gli abbattuti macigni largheggiano strade, fiancheggiate da filari di bianco-verde acetosella; ecco viali di rosmarino, e sepolti infra dei frondosi virgulti, ecco scaglioni che conducono all’erta; vedi le due scolpite sfingi guardantisi di rincontro a’ piè della magnifica scalinata che mette al terreno semicircolare ed orlato di mezzane incatenate colonnette, ove posa il palazzo Periclèo, e davanti al palazzo la marmorina vasca maestosamente umile e cheta, i fioriti parterre, e la terrazza entro cui accolgonsi tepidi bagni. Ma stacchiamoci da cotesta fabbrica di greca idea; e movasi al destro lato per il cespuglioso pendio che ci offre agevole la discesa. Qui non regna la monotona francese euritmia, que’ scompartimenti simmetrici , quella corrispondenza di figure e di linee, que’ verdi torturati quelle piante cincischiate da una forbice goticamente ingegnosa: regolarità sempre stessa e fredda, bello guasto e tedioso, gusto affettato che taluno appellò Fontenellismo dello stile campestre. Qui l’incantatrice negligenza del genio con ordinato disordine alligna e campeggia; e per tal riguardo dee cedere Versailles alla Villa del General Marborou p[er] es[esmpio], debbono cedere la squadra e la regola di la Quintinie e di le Nautre ai precetti sentimentali dei Kent e dei Chambers, dei Whately e dei. Brown. Ad ogni passo che s’innoltra cangi[a]no i punti di vista; né l’occhio si stancherà giammai quando via via non s’avviene in veruna delle scene che lasciò all’indietro.
Ritornando alla descrizione locale, in sulla dritta, per contrapposto all’arsiccio ed inutile dosso del monte, le coste da esso dominate si fecondano di vivifica cultura; qua e là caccian fuori ed ulive e ramoscelli tra le pietre e le vallee del suolo gratamente ineguale: gittando lo sguardo dal poggetto vicino ti ferisce un coffee-house chinese, il quale, costrutto di legno ed intessuto di fior di passione e d’ellera quinquifronde rosseggia, spicca sulle virenti cime degli affollati arboscelli: cammin facendo, incontrasi la piramide fondata per l’acque da lungi addotte; intanto le spalliere di vite e rosmarino attaccano con degli obbliqui e lunghi viottoli. che tagliando e vincendo le falde scoscese guidano al gotico, edifizio sovra la rupe più alta sorgente. Compagno osservatore, sui scalini di questo edifizio t’assidi; e niega se puoi, un profondo senso di meraviglia nel signoreggiar coi volubili occhi il sottopo[sto] mare e porto, l’arco formato dagli alberghi della città; le amenissime campagne che si stendono dai Colli alla Bagaria; ma verso la sinistra sporgi il volto … in giù… precipizio orrendo! Sublime! Scendiamo: la vetta coronata di fichi indiani e giovani cipressi, che vanno le petrose balze ingombrando; ad ora ad ora si trovano candidi sedili rivolti all’occidente, un’infinità di tramitelli serpeggia, sieguono fruttifere chiusure e piani misticati d’alberi e di vigne, in cui le corde che passano fra tronco e tronco dei primi servono a sostener nel mezzo le seconde. Se addrizzi i passi per il pendevole manco sentiero ti perdi, ti sprofondi dentro la collaterale selvetta: qua dunque alla prossima collina, all’argivo tempietto che ivi centreggia la villa. Ricchi de’ predati odori, senti nel salutarci quanta fragranza diffondano gli ospiti zeffiri! Mira o straniero amico qual sevie labirintica di sfumati elisii paesaggi! Che consolatrice verzura, che verzura sorprendente! e come accordata a varj colori, ed in varj gruppetti disposta! D’un fianco, pomifero giardino di soavemente sparpagliati pini e cipressi; s’incrocicchiano viottoli l’acetosella i timi; qualche vasca, dei bassi canali; boschetti e pratelli; mormoreggiano acque; e la vasca che le acchiude resta invisibilmente tra le piantagioni celata; piccole spalliere di landro, ortaggi riparati da siepi, casetta da pampani vestita e coverta, colti alberami; luoghi per ciascheduna delle stagioni, scene differenti per la mattina pel meriggio per la sera, piacere e di rapimento di meditazione e di brio; sempre novità sempre venustà di paradiso, sempre natura. Ah l’arte per soverchio assottigliarsi distrugge se stessa! Come spiegarlo! Oh magia! internandoci nel retto e spazioso berceau e abbandonando a mancina le stalle e gli abituri con accortezza appartati e dietro fogliose piante nascosti, ci riduciamo all’urna eretta su tondo piedistallo e feralmente patetica per le quattro cipressate pareti che la stringono.
All’uscirne scogliosa fontana a semicerchio spalleggiata di landro, col suo arcato disegno guarda e ci addita finalmente la nota magione.
Straniero se cerchi il Genio animoso che da’ macigni di ferree radici trasse sì delizievole villa, sappi che desso, altri ferri, altri macigni di più annosa e selvaggia asprezza rompendo, si è uno dei pochissimi per cui germoglia in Sicilia la pianta esotica di saggia Costituzione. Il suo nome ? chiedilo a lei che tanto gli deve: alla Patria.

Scultura
Idea de’ nostri scultori[100]

(La preponderanza di notizie su scultori trapanesi contenuta nell’articolo fa credere che esso, se non scritto direttamente, possa essere stato ispirato da Giuseppe Maria di Ferro, biografo ed erudito trapanese su cui supra. È interessante notare come nell’intervento sia riservata un’attenzione particolare ad artisti dell’età barocca, segno di una apertura abbastanza precoce della storiografia artistica siciliana verso un’epoca e uno stile a lungo considerati degenerati)
Se in altri tempi tenevansi in deposito le opere primeggianti de’greci, si ch’ebbe a dir Cicerone che la curiosità di Verre costò più Dei a Siracusa che non era ad essa costata d’uomini la vittoria di Marcello; se la Sicilia rammenta nei suoi fasti il nome di Pitagora leontino, famoso statuario a cui si attribuisce di aver primiero con singolar naturalezza espresso le vene i nervi ed capelli e il di cui simulacro di Astilo trionfatore nei giochi olimpici venne riputato mertevole, giusta il racconto di Plinio, di collocarsi in Olimpia; se Perillo agrigentino, benché per infame crudeltà famoso a sentenza di Diodoro, offrì a Falaride quel toro di bronzo cotanto artifiziosamente animato e pareggiabile alla decantata vacca di Mirone: in Trapani al 1582 se Annibale Scudani[glio][101] coi lavori in metallo; dopo il 1650 Giuseppe Milante[102] coi lavori in marmo bianco ed in istucco e Pietro Orlando[103] con quelli in legname segnarono strisce d’orrevole rinomanza; se quindi emersero colà Leonardo Bongiorno[104] e Mario Ciotta,[105] discepoli illustri dell’Orlando; ed un Tartaglio,[106] un Filippo la Valle,[107] un Nolfo,[108] i fratelli Tipa[109] tutti trapanesi; un Vitagliano[110] di Palermo, un Marabitti[111] ecc., nondimeno egli non ispettò che ad Antonio Gaggino[112] messinese padre di Jacopo[113] e di Fazio,[114] anch’essi scultori, la gloria di avere altamente nobilitato ed arricchito cotale bell’arte. Noi fil filo dovevamo dunque in tre o quattro fogli assorbire un saggio scultorio sul Gaggino: qual saggio ci giunge per posta trasmesso dalla cortesia di Michele Estero[115] siracusano, ed è per colmo di ventura completo ed istruttivo come si potrebbe dagl’intendenti desiderare. Ma ora…

---------------------------------

1 Citiamo solo a titolo di esempio i convegni nazionali dal titolo Riviste d’arte fra Ottocento ed età contemporanea. Forme, modelli, funzioni, Atti del convegno, Torino 3-5 ottobre 2002, a cura di G.C. Sciolla, Skira, Milano 2003; e Percorsi di critica. Un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, Atti del convegno, Milano 30 novembre-1 dicembre 2006, a cura di R. Cioffi e A. Rovetta, Vita & Pensiero, Milano 2007.

2 Agli esiti cui sono approdati i convegni ora citati nel corso degli anni si sono aggiunti i risultati delle indagini condotte dalle Università di Milano, Genova, Torino, Padova, Napoli, Lecce e Palermo.

3 Cfr. in particolare S. La Barbera, Linee e temi della stampa periodica palermitana dell’Ottocento, ivi, pp. 87-121. Sui temi più generali della critica d’arte a Palermo nell’Ottocento studiata attraverso le riviste, bisognerà citare almeno lo studio pubblicato in formato elettronico nel 2007 Pagine di critica d’arte nei periodici palermitani dell’Ottocento della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, frutto della convenzione fra la cattedra di Storia della Critica d’arte dell’Università degli studi di Palermo tenuta da Simonetta La Barbera e la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana “Alberto Bombace”, che raccoglie – oltre a quelli della coordinatrice – gli studi di C. Bajamonte, F.P. Campione, R. Cinà, V. Sarri; cfr. inoltre: C. Bajamonte, Due periodici palermitani del primo Ottocento: “L’Iride” e “L’Indagatore”, in Riviste d’arte fra Ottocento ed età contemporanea, cit., pp. 143-158; R. Cinà, “La Sicilia Artistica e Archeologica” (1887-1889), ivi, pp. 231-257; P. Palazzotto, Cronache d’arte ne “La Cerere” di Palermo (1823-1847), ivi, pp. 123-142; R. Santoro, L’iter editoriale del “Mercurio siculo o sia collezione enciclopedica di materie, e argomenti relativi alle arti, scienze, e belle lettere” (1818), “teCLa – Temi di Critica e Letteratura artistica”, 2, dicembre 2010, pp. 12-25; F.P. Campione, Istanze di rinnovamento culturale e prassi critica ne “La Favilla” (1856-1859) e ne “L’Ateneo Siciliano” (1858-1859), in Percorsi di critica…, cit., pp. 159-176.

4 L’unità di ricerca di Palermo, coordinata da Simonetta La Barbera, nel corso di circa dieci anni d’indagini ha censito e catalogato circa il 95 per cento degli articoli effettivamente reperibili e la quasi totalità dei titoli pubblicati.

5 Erano collaboratori fissi della rivista Giovan Battista Filippo ed Ernesto Basile, Gioacchino Di Marzo, Giuseppe Meli e Giuseppe Taormina.

6 Sui temi e sulle personalità che animarono il dibattito all’interno della rivista, rimando al già citato saggio di R. Cinà, in Percorsi di critica…, pp. 231-257.

7 G.M. Mira, Bibliografia Siciliana ovvero Gran Dizionario Bibliografico delle opere edite ed inedite, antiche e moderne di autori Siciliani o di argomento siciliano stampate in Sicilia e fuori, G.B. Gaudiano, vol. I, Palermo 1875, ad vocem pp. 368-369.

8 Su Francesco Franco (Palermo, 1793-1847) sono abbastanza scarne le notizie biografiche, desumibili soprattutto da testimonianze secondarie. Ci informa Giuseppe Bozzo che fino alla morte, avvenuta a 54 anni nel 1847, Franco si era distinto come uno dei migliori avvocati del Foro di Palermo, autore di numerose orazioni scritte in bello stile. Cfr. G. Bozzo, Le lodi dei più illustri siciliani trapassati ne’ primi 45 anni del secolo 19, scritte da Giuseppe Bozzo, vol. II, Clamis e Roberti, Palermo 1852, p. 90, nota 1. Stando a Mira (ad vocem, cit.), Franco – oltre che di un poemetto dichiaratamente ispirato a Ugo Foscolo (I cipressi, poemetti in versi sciolti, Palermo 1820) – fu autore delle seguenti opere di carattere giurisprudenziale: Commentario dell’articolo del codice sulla retroattività delle leggi, Palermo 1819; Sulla prescrizione, Palermo 1820; Su’ ricorsi in Corte Suprema circa le istituzioni fidecommissarie, Palermo, 1821; Memoria in favore del duca di Monteleone, Palermo 1842. Un altro Francesco Franco, contemporaneo sacerdote messinese, fu solo un omonimo che tuttavia Mira identifica erroneamente con l’autore in questione. Di Francesco Franco resta un bel ritratto litografico (che qui riproduciamo) realizzato da Giuseppe Patania su disegno di Giuseppe Di Giovanni, impresso dalla Tipografia Minneci di Palermo verosimilmente in occasione della morte.

9 Sull’Amalarico, cfr. G. Agnello, I veri autori dello Amalarico, quarta tragedia di Vincenzo Monti. Aneddoto nella storia letteraria di Sicilia nel 1815. Memoria letta alla Nuova Societa di storia per la Sicilia l’11 aprile 1869 da Giacinto Agnello, Tipografia Montaina, Palermo 1880; G. Pipitone Federico, Dell’Amalarico; tragedia attribuita a Vincenzo Monti, Tipografia Fratelli Castellana, Palermo 1895.

10 In realtà le edizioni della tragedia furono, fino al 1815, solo tre: per conferire un’aura ancor più viva di successo alla loro opera, gli autori indicarono la stampa di esordio come “seconda edizione”.

11 Tra le recensioni che accolsero, in questo caso ex post, la tragedia è il caso di citare quella di Agostino Gallo pubblicata sul “Giornale di Scienze, Lettere ed Arti”: «Nel 1812. il Dott. Francesco Franco, uno de’ nostri più arditi e felici ingegni, del quale al presente si onora il foro, produsse una tragedia titolata L’Amalarico, e pubblicolla sotto il nome del celebre Vincenzo Monti, forse per assicurarsi del successo della stessa, o per altro motivo. Il fatto rispose alla sua aspettazione. L’Amalarico fu applaudito, e per tre volte replicato sulle pubbliche scene. E in verità quella produzione ad onta de’ positivi difetti ne’ caratteri, e precisamene in quello di Amalarico, e di Bruchilda, che son fuori natura, comecché personaggi che appartengono a’ secoli barbari, tuttavolta è di grandissimo effetto per diversi punti di scena, ed ha meriti essenziali nello stile; e per la forza ed arditezza è poi in tutto imitante i versi dell’immortale autore della Baswilliana. Si distingue tra i varj squarci il dialogo di Amalarico con Bruchilda, in cui il primo gli rimprovera tutti i delitti de’ suoi maggiori e la tratta con tutta la rabbiosa asprezza d’un guerriero, e d’un barbaro re de’ Goti. Né meno bella è un’apostrofe al sole, sebbene alquanto lirica. Il Monti a ragion si dolse d’essere stata stampata sotto il suo nome; e l’autore non lasciò di rendergli una gentile soddisfazione con una sua lettera privata». Cfr. A. Gallo, Continuazione del Prospetto della Storia Letteraria di Sicilia, “G.S.L.A.S.”, anno I, tomo, II, Palermo 1823, p. 118.

12 Giacinto Agnello (Palermo, 1791-1870), «d’integerrimi costumi ed amante della patria» (G.M. Mira, Bibliografia…, cit., vol. I, p. 11) fu sostenitore assieme al principe di Castelnuovo e a Paolo Balsamo della Costituzione del 1812. Di queste convinzioni politiche si fece assertore in un periodico intitolato “La Cronica” presto additato dalle gerarchie più reazionarie del governo come giornale “indesiderabile”. La sua vocazione liberale si manterrà viva ancora in occasione della Rivoluzione del 1848, quando – sodale di Ruggero Settimo – fu Deputato alla Camera dei Comuni del Parlamento Siciliano.

13 Pompeo Insenga ([spesso citato come Inzenga] Palermo, 1783-1854) fu tra i più caratteristici esponenti dell’erudizione siciliana dell’Ottocento, soprattutto per via della propensione enciclopedica che informa la sua produzione. Animatore del “Giornale Letterario”, Insenga – in ossequio all’abito eclettico della rivista – fu poeta e storico della letteratura (scrisse un compendio e una continuazione della Storia Letteraria di Sicilia di Domenico Scinà), nonché editore. Nel 1824, pochi mesi dopo la scoperta a opera degli archeologi inglesi Samuel Angell e William Harris delle metope del Tempio “C” di Selinunte, scrisse un carme celebrativo su quello straordinario rinvenimento. Nel 1842 pubblicò inoltre una edizione commentata e accresciuta della Storia cronologica dei Viceré di Sicilia di Giovanni Evangelista Di Blasi, che era stata pubblicata per la prima volta nel 1790.

14 Sembra tuttavia che Francesco Franco avesse inviato a Monti una lettera di scuse che in qualche modo placò le ire del celebre poeta.

15 Su questi aspetti della politica segreta di Maria Carolina, e in generale sulla situazione politica dell’Isola agli inizi del XIX secolo, un testo ormai classico (basato peraltro su un’ampia messe di documenti allora inediti) è quello di G. Bianco, La Sicilia durante l’occupazione inglese (1806-1815). Con appendice di documenti inediti degli Archivi di Londra, Firenze e Palermo, Reber, Palermo 1902, in particolare a pp. 93 e ss.

16 Su questi aspetti cfr. lo studio fondativo di R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Roma-Bari 2001 (1a edizione 1950), p. 122.

17 Sul periodo dell’occupazione inglese della Sicilia uno dei testi più accreditati è quello di D. Gregory, The Insecure Base. A History of the British Occupation of Sicily, 1806-1815, Fairleigh Dickinson University Press, London-Toronto 1988.

18 Ivi, p. 94.

19 Sulla promulgazione della Costituzione Siciliana del 1812, cfr. soprattutto G. Gullo (a cura di), La Sicilia e l’Unità d’Italia: la Costituzione del 1812, la Relazione del Consiglio straordinario di Stato del 1860 e lo Statuto del 1946, introduzione di F. Renda, Rubbettino, Soveria Mannelli – Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana, Dipartimento dei beni culturali e dell’identità siciliana, Palermo 2011.

20 Su Gould Francis Leckie (Londra, 1767 - Livorno, 1850), politologo e acuto osservatore della situazione economica e sociale della Sicilia durante il periodo dell’occupazione inglese, nonché autore di un saggio sulla politica coloniale britannica intitolato An Historical Survey of the Foreign Affairs of Great Britain, for the years 1808, 1809, 1810 (Londra, 1810), nel quale deprecava gli effetti che lo stato di perenne conflitto sortivano sull’economia internazionale, cfr. D. D’Andrea, Gould Francis Leckie e la Sicilia, 1801-1818, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2012.

21 Per Leckie l’architetto tedesco Karl Friedrich Schinkel aveva progettato nella contrada di Tremilia una suggestiva villa neogotica nella quale nel 1804 trovò ospitalità il poeta Samuel Taylor Coleridge. La villa era stata edificata sulle strutture della chiesetta paleocristiana di San Pietro ad Baias e su una porzione delle fortificazioni dionigiane. L’intero complesso, abbandonato da tempo, è stato danneggiato da un incendio nel settembre 2014.

22 Su Gallo, cfr. F.P. Campione, Agostino Gallo: un enciclopedista dell’arte siciliana, in S. La Barbera (a cura di), La critica d’arte nell’Ottocento in Sicilia, Flaccovio, Palermo 2003, pp. 107-128.

23 “La Cronica di Sicilia”, bisettimanale pubblicato dal 2 settembre 1813 al 4 febbraio 1814, fu fondato dai tre “giornalisti” sopra citati e diretto dal conte Giovanni Aceto Cattani. Rappresentava, per le sue posizioni apertamente favorevoli alla presenza inglese in Sicilia, l’organo ufficiale del “Club degli Amici della Costituzione e dell'Alleanza Britannica”.

24 Cfr. S. Bottari, La stampa siciliana nel “decennio inglese”: consenso e dissenso, in Ordine e disordine. Amministrazione e mondo militare nel Decennio francese, Atti del sesto Seminario di Studi “Decennio francese (1806-1815), Vibo Valentia 2-4 ottobre 2008”, a cura di R. De Lorenzo, Giannini editore, Napoli 2012, pp. 333-357.

25 Cfr. [A. Gallo], “Riflessioni sulla Cronica di Sicilia”, n° 2, Palermo 1813, p. 2.

26 La reazione della polizia anglo-borbonica non si fece attendere: Gallo fu tratto in arresto e rinchiuso per nove mesi nella fortezza del Castello a Mare. Una prigionia in verità non particolarmente rigorosa, se lo studioso poté continuare a ricevere gli amici e a tenervi una sorta di salotto letterario. Di questa detenzione è testimonianza un altorilievo che lo stesso studioso commissionò a Costantino La Barbera intorno al 1850 (oggi custodito presso il Museo del Risorgimento di Palermo), eseguito sulla base di un disegno di Giuseppe Patania: nell’opera Gallo è ritratto in una cella della prigione in compagnia dello stampatore Vincenzo Li Pomi e di un corteggio di visitatori, Domenico Scinà, Giovanni Meli, Giuseppe Patania. Cfr. F. P. Campione, Agostino Gallo, honos et decus Siciliae in Kalós, n° 3 Maggio-Giugno 1998, p. 14. Il disegno di Patania è pubblicato da I. Guccione, in Poliorama Pittoresco. Dipinti e disegni dell’Ottocento siciliano, catalogo della mostra a cura di G. Barbera (Agrigento, 28 ottobre 2001 - 10 febbraio 2008), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007, pp. 184-185.

27 Anonimo [A. Gallo?], Quadro dei Giornali letterari, che sono stati in Sicilia dai tempi andati fino ai giorni nostri, “Effemeridi Scientifiche e Letterarie per la Sicilia”, a. VIII, t. XXVI, Palermo 1839, pp. 111-120, a p. 113.

28 Gli unici esemplari della rivista tuttora reperibili, sia pure in una consistenza lacunosa, si conservano presso la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte di Palazzo Venezia a Roma, mancanti dei numeri 2, 3 e 4. Il testo è peraltro consultabile on-line su http://periodici.librari.beniculturali.it/PeriodicoScheda.aspx?id_testata=39. Non siamo riusciti a verificare la eventuale presenza e la consistenza degli esemplari custoditi presso la Biblioteca Comunale di Palermo per via della inaccessibilità ormai annosa della sezione periodici. Del tutto assente risulta la rivista presso le raccolte della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana.

29 Istituita nel 1806, la Tipografia Reale di Guerra continuerà a operare fino al 1835, dunque ben oltre la fine dell’occupazione militare inglese della Sicilia. Cfr. D. Vacca, Indice generale-alfabetico della collezione delle leggi e dei decreti per il regno delle Due Sicilie, distinto per materie con ordine cronologico dall’anno 1806 a tutto il 1836, Stamperia dell’Ancora, Napoli 1837, pp. 730-731 (la sezione s’intitola Stamperie e Tipografie Reali).

30 Come informa il colophon della prima uscita, ogni numero costava 14 grani ed era in acquistabile presso la rivendita di Francesco Romeo, al n° 339 della via Toledo. Era possibile scegliere tra diverse soluzioni d’abbonamento, che costavano 7, 10 o 18 tarì a seconda della formula quadrimestrale, semestrale o annuale.

31 Manetone e Sanconiatone sono due scrittori rispettivamente egizio e fenicio ai quali sono attribuite le testimonianze più antiche di ricostruzione storica.

32 [F. Franco], [Appello alle] Genti colte, “Deca di Belle Arti”, n° 1, 10 agosto 1813, p. 2.

33 Ibidem.

34 Ch. Batteux, Les Beaux Arts réduits à un même principe (1746); ed. moderna a cura di E. Migliorini, Le Belle Arti ricondotte a unico principio, Aesthetica, Palermo 2002.

35 Giuseppe Maria Berardo Di Ferro e Ferro (Trapani, 1774-1836), figura tipica d’intellettuale periferico nella Sicilia dell’inizio del XIX secolo, si formò in verità di una cultura libresca, e trasfuse buona parte delle proprie energie in opere celebrative della sua città, con uno spirito che riecheggia della più tipica erudizione municipalista settecentesca. Oltre alle dissertazioni Delle Belle Arti, Di Ferro fu autore della Guida per gli stranieri in Trapani (1825), e della Biografia degli Uomini Illustri Trapanesi, 3 voll., 1830, 1831 e 1850, l’ultimo dei quali postumo.

36 G.M. Di Ferro, Delle Belle Arti dissertazioni del Cavaliere Di Ferro, e Ferro Accademico Arcade, 2 voll., Stamperia del Solli, Palermo, 1807-08. Sull’opera di Di Ferro, cfr. S. La Barbera, Giuseppe Maria Di Ferro teorico e storico d’arte, in V. Abbate (a cura di), Miscellanea Pepoli. Ricerche sulla cultura artistica a Trapani, Assessorato regionale ai Beni culturali e Ambientali – Museo Pepoli, Trapani 1997, pp. 147-166; e F.P. Campione, La cultura estetica in Sicilia nel Settecento, “FIERI. Annali del Dipartimento di Filosofia Storia e Critica dei Saperi”, Università degli Studi di Palermo, n° 2, 2005, pp. 172-176, 180-181.

37 G.M. Di Ferro, Delle Belle Arti, cit., vol. 1, p. 75.

38 Ivi, p. 50, nota 1.

39 J.G. von Herder, Plastik: Einige Wahrnehmungen über Form und Gestalt aus Pygmalions bildendem Traume (1778): ed. mod. a cura di S. Tedesco, Plastica (alcune riflessioni su forma e figura a partire dal sogno plastico di Pigmalione), Aesthetica, Palermo 2010.

40 Anonimo [P. Insenga?], [Avvertenza], “Deca di Belle Arti”, n° 1, 10 agosto 1813, p. 5.

41 Michelangelo Monti (Genova, 1749 – Palermo, 1823), professore di eloquenza nella Regia Accademia degli Studj di Palermo, fu maestro tra gli altri di Agostino Gallo che ne raccolse gli scritti curandone la pubblicazione nel 1839. Per Monti, cfr. P. Cozzo, ad vocem in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 76, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 279-281.

42 Anonimo [P. Insenga?], Poesia. Alla Gran Brettagna, ode di Michelangelo Monti, “Deca di Belle Arti”, n° 1, 10 agosto 1813, p. 5.

43 Proponiamo questa integrazione al testo, notevolmente scorretto dal punto di vista sintattico come rilevato dagli stessi estensori della “Deca”.

44 Anonimo, Risposta di un siciliano ad un suo amico in Londra, Solli, Palermo 1813, p. 3. Il frontespizio reca la notizia “Via di S. Francesco num. 3: si vende tarì uno dal sig. Barravecchia, via delli Cintorinara num. 5”.

45 Anonimo [P. Insenga?], Oratoria, “Supplimento allaDeca di Belle Arti”, n° 6, 30 agosto 1813, pp. 28-29.

46 Anonimo [F. Franco?], Pittura. Noli me tangere, quadro di Giuseppe Velasques, “Deca di Belle Arti”, n° 1, 10 agosto 1813, pp. 7-8.

47 Giuseppe Velasco (Palermo, 1750-1827) ascese vivente ad ampia fama per via dello stile tersamente neoclassico che caratterizza la sua opera, aggiornata sugli sviluppi della contemporanea pittura italiana ed europea pur non avendo mai lasciato la Sicilia. Su Velasco, cfr. A. d’Angelo Palumbo, Elogio del pittore Giuseppe Velasques, “G.S.L.A.S.”, tomo XV, fasc. 50, 1827, pp.189-207; A. Gallo, Vita di Giuseppe Velasques palermitano egregio dipintore scritta da Agostino Gallo, Stamperia D. Barcellona, Palermo 1845; I. Bruno, Giuseppe Velasco alle soglie dell’età neoclassica, supplemento a “Kalós. Arte in Sicilia”, n° 1, anno X, gennaio-febbraio 1998; C. Bajamonte, La collezione di Giuseppe Velasco e il Museo di Palermo nell’Ottocento, S. Sciascia editore, Caltanissetta 2008.

48 Anonimo [F. Franco?], Pittura. Noli me tangere, cit., p. 8.

49 Ibidem.

50 Ode con note di Agostino Gallo sulle opere di Giuseppe Patania, “Deca di Belle Arti”, n° 5, 20 settembre 1813, pp. 21-22.

51 Sul ruolo della Massoneria in Sicilia in quel preciso momento, cfr. M.A. Ridolfo, Massoneria e modelli politici dalle Constitutions al decennio inglese di Sicilia, 1723-1815, Trisform, Messina 2002. Più in generale, sull’incidenza delle logge latomistiche nell’Isola a cavallo tra Sette e Ottocento, cfr. E. Librino, I Liberi Muratori in Sicilia dal regno di Carlo III a quello di Francesco I, “Archivio Storico Siciliano”, a. XLV, n.s. (1924), pp. 379-406; A. Nobile, Eustachio de la Viefuille ed i primordi della Libera Muratoria siciliana, Tip. ed. Fiamma serafica, Palermo 1976; F. Landolina, Logge siciliane tra ’700 e ’800, Tipheret, Acireale-Roma 2010; R. Di Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i Fratelli meridionali del ’700, vol. 5 - La Sicilia, Gangemi Editore, Roma 2014.

52 “The Examiner” era stato fondato nel 1808 dai fratelli Leigh e John Hunt. La rivista, che uscirà fino al 1886, si caratterizzava curiosamente per un abito del tutto disallineato rispetto al potere ufficiale: circostanza che determinò non pochi guai giudiziari per i due giornalisti.

53 Ne dà testimonianza, tra l’altro, il breve scritto di Raffaello Politi intitolato Slancio artistico di R. Politi all’ombra di Flaxman, famoso scultore Inglese e sublime imitatore delle dipinture greco-sicole che si osservano ne’ vasi fittili, Tipografia Li Pomi, Agrigento 1826.

54 Anonimo, Notizie dall’Inghilterra tratte dall’Examiner, “Deca di Belle Arti”, n° 5, 20 settembre 1813, p. 24.

55 Giuseppe Errante (Trapani, 1760 - Roma, 1821) lavorò soprattutto a Roma, dove si era stabilito già nel 1784. Su Errante, il primo saggio biografico fu quello di F. Cancellieri, Memorie raccolte da Francesco Cancellieri intorno alla vita ed alle opere del pittore cavaliere Giuseppe Errante di Trapani defunto in Roma a’ XVI di febbraio MDCCCXXI, presso Francesco Bourlié, Roma 1821.

56 Anonimo, Pittura [Saggio su Giuseppe Errante], “Deca di Belle Arti”, n° 6, 30 settembre 1813, p. 25; n° 8, 20 ottobre 1813, pp. 37-38; n° 10, 10 novembre 1813, p. 44.

57 Anonimo [F. Franco?], Giardinaggio. Villa del principe di Belmonte al poggio detto dell’Arenella, “Deca di Belle Arti”, n ° 11, 20 novembre 1813, p. 48-49, a p. 49.

58 Sull’argomento, cfr. G. Barbera, M.C. Di Natale (a cura di), Il Museo dell’Università. Dalla Pinacoteca della Regia Università di Palermo alla Galleria di Palazzo Abatellis, New Digital Frontiers, Palermo 2016.

59 La citazione è desunta dal libro III dell’Eneide.


60 Ivi, pp. 52-54.

61 Anonimo [F. Franco?], Pittura. Noli me tangere, quadro di Giuseppe Velasques, “Deca di Belle Arti”, n. 1, 10 agosto 1813, pp. 7-8.

62 Nella Vita di Giuseppe Velasques (cit., p. 56) Agostino Gallo riferisce che il dipinto si custodiva presso la Chiesa Madre di Mistretta. In data imprecisabile, e comunque dopo il 1845 (anno della pubblicazione della biografia), il dipinto fu trasferito nella chiesa di San Giuseppe del Collegio di Maria della cittadina nebroidea, dove ancora si custodisce nel secondo altare del lato destro.

63 In realtà è probabile che l’autore si riferisca al dipinto di Giulio Romano con questo soggetto (1520 ca.) custodito presso il Museo del Prado.

64 Il Noli me tangere di Federico Barocci (1590 ca.) è conservato presso la Galleria degli Uffizi.

65 Francesco Albani dipinse diverse versioni del Noli me tangere. L’unica che corrisponde alla descrizione dell’autore è quella custodita a Mantova presso la Fondazione Banca Agricola Mantovana, risalente probabilmente al 1640.

66 L’autore fa riferimento a Olivio Sozzi (Catania, 1690 - Ispica, 1765) che rappresentò uno dei maggiori esponenti della pittura siciliana del Settecento.

67 Letteralmente “brivido”.

68 Anonimo [G.M. Bertini?], Elenco dei Pittori siciliani, “Deca di Belle Arti”, n. 10, 10 novembre 1813, pp. 44-45.

69 Ph. Hackert - G. Grano, Memorie de’ pittori messinesi, Napoli 1792, pp. 10-11.

70 A. Mongitore, Memorie dei pittori, scultori architetti artefici in cera siciliani, Ms. del XVIII secolo (1743 ?) in B.C.P. ai ss. Qq c 63, edito a cura di E. Natoli, Flaccovio, Palermo 1977.

71 Giuseppe Maria Bertini (Palermo, 1759-1852), fu tra i primi studiosi ad affrontare la questione relativa alla vita e alle opere di Pietro Novelli al quale, dopo l’iniziale profilo biografico su cui infra, dedicherà una serie di articoli dal titolo Di alcuni autentici documenti nuovamente scoperti, relativi alla Biografia del celebre dipintore Pietro Novelli apparsi in “G.S.L.A.S.”, tomo XX, anno V, Palermo 1827, pp. 205-222, 305-321.

72 G.M. Bertini, Pietro Novelli il Monrealese,in G. E. Ortolani, Biografia degli Uomini Illustri della Sicilia ornata da’ loro rispettivi ritratti, tomo 2°, presso Nicola Gervasi, Napoli 1818, pp. n.n.

73 Ph. Hackert - G. Grano, Memorie de’ pittori messinesi…, p. 11. Il dipinto è andato perduto.

74 Jacobello di Antonio (not. fino al 1488) fu in realtà figlio di Antonello da Messina. La confusione nelle notizie risale in gran parte alle errate informazioni di Francesco Susinno, il “peccato originale” di tutte le fonti messinesi almeno fino a Gioacchino Di Marzo e Gaetano La Corte Cailler.

75 Anche questo dipinto, come la chiesa che lo custodiva, non è più esistente.

76 La prima fonte moderna su Antonello, e cronologicamente immediatamente precedente alla stesura della “Deca”, è quella di T. Puccini, Memorie istorico-critiche di Antonello degli Antoni, pittore messinese compilate dal cav. Tommaso Puccini, Carli, Firenze 1809. Puccini, tuttavia, interpreta correttamente i dati biografici relativi ad Antonello indicandone la morte a Messina nel 1479.

77 F. Maurolico, Sicanicarum rerum compendium Maurolyco abbate Siculo authore, s.l., Messina 1562, p. 186.

78 Qui per Van Eyck.

79 Si noteranno gli errori grossolani nella cronologia e nella geografia dei movimenti di Antonello, il quale non visse oltre il 1479. Qui l’autore dell’articolo curiosamente si distacca da Hackert e Grano (p. 13), che pure danno una corretta informazione sulla data di morte dell’artista.

80 La notizia è desunta integralmente da Ph. Hackert - G. Grano, Memorie de’ pittori messinesi…, p. 15.

81 Antonello de Saliba (Messina?, 1466 ca.-1535) fu nipote di secondo di Antonello in quanto figlio del cugino di questi Giovanni Resaliba o de Saliba.

82 Qui l’autore copia senza citare la referenza da R. Gregorio, Dei più celebri pittori messinesi, in Discorsi sulla Sicilia, XXXI. La raccolta nel 1813 era ancora inedita, e sarebbe stata data alle stampe a Palermo solo nel 1821 per i tipi di Pedone e Muratori. Il passo è a p. 191 di questa edizione.

83 Ph. Hackert - G. Grano, Memorie de’ pittori messinesi…, pp. 15-16.

84 Girolamo Alibrandi (Messina, 1470ca.-1524) fu con ogni probabilità il maggiore tra i proto-manieristi messinesi. Le opere tuttora custodite rivelano una grande originalità di stile e una propensione alla monumentalità che si rivela soprattutto nella Presentazione al Tempio (1519) del Museo regionale di Messina.

85 La Purificazione (in realtà Presentazione al Tempio) si conservava presso la chiesa di S. Nicolò dei Gentiluomini. Gravemente danneggiata dal sisma del 1908, è ora custodita presso il Museo regionale di Messina.

86 Giacomo del Duca (Cefalù, 1520 - Messina, 1604), autore di numerosi progetti soprattutto a Messina (dove fu autore dell’originario disegno della Palazzata e della Tribuna della chiesa di San Giovanni di Malta), fu tra i maggiori seguaci di Michelangelo operosi in Sicilia.

87 Si tratta in realtà di Vincenzo degli Azani da Pavia (Pavia, ultimo ventennio XV sec. - Palermo, 1557), sul quale la confusione generata da Francesco Susinno, che aveva sovrapposto la figura del pittore a quella di Vincenzo da Imola (in realtà, “da Rimini”), e la errata lettura dei documenti da parte di Antonino Mongitore, avevano portato a far coincidere il pittore con un fantomatico “Vincenzo Aimmola” presto passato ad Ainemolo detto erroneamente Il Romano. Solo nel 1916 Gioacchino Di Marzo identificherà con esattezza il pittore con l’artista originario della Lombardia.

88 Deodato Guinaccia (Napoli, 1510 - Messina, 1585) fu tra i maggiori veicoli del secondo Manierismo pittorico continentale a Messina.

89 La referenza è desunta di peso da Ph. Hackert - G. Grano, Memorie de’ pittori messinesi…, pp. 23-24.

90 Jacopo Vignerio (not. dal 1541 al 1552) fu tra i più interessanti pittori della Maniera a Messina.

91 La fonte è, al solito, Ph. Hackert - G. Grano, Memorie de’ pittori messinesi…, pp. 26-27.

92 Su Mariano (Messina, 1510-?) e il figlio Antonello Riccio (Messina, not. fino al 1593) la fonte utilizzata dal giornalista è Ph. Hackert - G. Grano, Memorie de’ pittori messinesi…, pp. 24-26.

93 Il pittore, del quale non restano opere attestate, potrebbe essere stato confuso dalla storiografia sette-ottocentesca con Alonso Rodriguez (Messina, 1578 - Messina, 21 aprile 1648), il primo e il maggiore caravaggesco messinese.

94 Antonio Alberti detto “Il Barbalonga” (Messina, 1600 - 2 novembre 1649) fu con ogni probabilità il migliore tra i seguaci di Domenichino in Sicilia.

95 Erroneamente, sulla scorta di Mongitore, l’autore ritiene Francesco Cozza (Stignano, Reggio C., 1605 - Roma, 13 gennaio 1682) palermitano

96 Sulla storiografia ottocentesca intorno a Pietro Novelli, e alle vicende che portarono alla stesura della prima biografia di rilievo del pittore, l’Elogio storico di Pietro Novelli di Agostino Gallo (1831), cfr. F.P. Campione, La fortuna critica di Pietro Novelli nell’Ottocento, in S. La Barbera (a cura di), La critica d’arte in Sicilia nell’Ottocento, Flaccovio, Palermo 2003, pp. pp. 129-156.

97 In realtà Anna Fortino, stimata ceroplasta palermitana della metà del XVIII secolo.

98 Anonimo [F. Franco?], Giardinaggio. Villa del principe di Belmonte al poggio detto dell’Arenella, “Deca di Belle Arti”, n ° 11, 20 novembre 1813, p. 48-49.

99 La Villa dei principi di Belmonte all’Acquasanta fu costruita nel 1799 su progetto di Giuseppe Venanzio Marvuglia per volontà di Giuseppe Emanuele Ventimiglia principe dei Belmonte su una delle estreme propaggini del Monte Pellegrino, in una posizione dominante sul Golfo di Palermo. Il parco della Villa – oggi molto ridimensionato – s’inerpicava molto in alto verso le balze della montagna, tra padiglioni neoclassici, cinesi e neogotici attraverso un percorso suggestivo e talora spaventevole.

100 Anonimo [P. Insenga?], Scultura. Idea de’ nostri scultori, “Deca di Belle Arti”, n. 12, 30 novembre 1813, pp. 51-52

101 Annibale Scudaniglio (Trapani, metà XVI secolo - Londra, inizi XVII secolo) firmò il grande leggio bronzeo custodito presso il Museo “Agostino Pepoli” di Trapani, datato 1582. In realtà è molto probabile che il ruolo di Scudaniglio riguardasse solo quello di fonditore, e che l’opera sia piuttosto da ricondurre a un disegno di Jacopino Salemi.

102 Giuseppe Milanti (Trapani, 1658-inizi XVIII secolo) lavorò fra Trapani e Palermo declinando uno stile tardo barocco dalla vena fortemente patetica.

103 Pietro Orlando (Trapani, 1651-inizi XVIII secolo) appartenne a una numerosa famiglia di scultori, per la maggior parte votati alla lavorazione del legno.

104 Leonardo Bongiorno (Trapani, not. dal 1685 al 1703) fu soprattutto scultore in legno.

105 Mario Ciotta (Trapani, 1698 ca.-post 1750) realizzò due gruppi scultorei fra i celebri Misteri di Trapani: la Spartenza e la Lavanda dei piedi.

106 Giacomo Tartaglia (Trapani, 1678-1751) operò soprattutto in qualità di scultore in marmo.

107 Filippo Della Valle (Firenze, 1698 - Roma, 1768), autore tra l’altro di alcune sculture della Fontana di Trevi a Roma, realizzò il paliotto per l’altare della Cappella del SS. Sacramento nel Duomo di Siracusa, raffigurante l’Ultima Cena.

108 I Nolfo (Antonino, Domenico, Francesco e Giuseppe) operarono a Trapani nella seconda metà del Settecento.

109 Andrea Tipa (Trapani, 1725-1766) assieme al fratello Alberto (Trapani, 1732-1783) fu probabilmente il maggiore scultore trapanese del Settecento, abile soprattutto a dar vita a raffinate creazioni in avorio e pietra incarnata.

110 Gioacchino Vitagliano (Palermo, 1669-1739) fu tra i più raffinati interpreti della corrente barocca a Palermo, dove lavorò per l’intera carriera in sinergia con architetti come Giacomo e Paolo Amato, pittori come Antonino Grano e scultori come il genero Giacomo Serpotta.

111 Ignazio Marabitti (Palermo, 1719-1797) rappresenta il maggiore “traghettatore” della scultura siciliana dalle forme del tardo barocco a quelle del Neoclassicismo.

112 Antonello Gagini (Palermo, 1478 ca.-1536) fu il massimo scultore siciliano del Rinascimento, ma anche colui che per primo nell’Isola s’affacciò alle forme della Maniera italiana.

113 Giacomo Gagini (Palermo, 1517-1598) collaborò in quasi tutte le imprese scultoree del padre Antonello, tra le quali l’immensa e ora distrutta Tribuna della Cattedrale di Palermo.

114 Fazio [Bonifazio] Gagini (Palermo, 1520-1567), rappresenta ormai il compimento del passaggio della scultura siciliana al Manierismo.

115 È verosimile si tratti di un criptonimo, giacché in nessun repertorio del tempo si rinviene il nome di questo studioso. Piuttosto curioso è d’altro canto che un erudito siracusano si volgesse all’esame dell’opera di uno scultore che – benché avesse lasciato alcune opere nel Duomo di Ortigia – aveva operato soprattutto nella Sicilia occidentale e a Messina. Potremmo avanzare l’ipotesi che sotto quel nome si celi Agostino Gallo, che allora s’affacciava allo studio delle opere di Antonello Gagini e che nel 1821 ne pubblicò a Palermo una biografia per i tipi della Reale Tipografia di Guerra.

Galleria di Immagini

tecla 14 - campione tecla 14 - campione tecla 14 - campione tecla 14 - campione tecla 14 - campione tecla 14 - campione tecla 14 - campione tecla 14 - campione tecla 14 - campione


Scarica il numero della rivista in versione stampabile

Temi di Critica - numero 14

Scarica il documento PDF/OCR





Avviso! Gli utilizzatori di Safari, Opera, Firefox, Camino su piattaforma MacOS o Linux che non visualizzano correttamente il file pdf possono scaricare il plugin qui.
Gli utilizzatori di Google Chrome che non visualizzano correttamente lo zoom possono impostarlo in automatico digitando nella barra degli indirizzi "about:plugins" e abilitare la voce "Adobe Reader 9 - Versione: 9.4.1.222 Adobe PDF Plug-In For Firefox and Netscape '9.4.1'"

Licenza Creative Commons
"teCLa" - Temi di Critica e Letteratura Artistica by http://www.unipa.it/tecla/ is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License