teCLa :: Rivista #1

in questo numero contributi di Gianni Carlo Sciolla, Giovanni Gasbarri, Simona Moretti, Tiziana Migliore, Francesco Paolo Campione.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Ogni opera d’arte esibisce i sintomi di una qualche affezione... di Francesco Paolo Campione

Ogni opera d’arte esibisce i sintomi di una qualche affezione...

Sintomi fisici, giacché non diversamente dal resto dei viventi esse seguono il decadimento della materia di cui sono composte, e talora questo disfacimento resiste ai tentativi di porvi rimedio, fosse pure la più innovativa tecnica di restauro; e anche segni immateriali, poiché nella loro forma è racchiusa la sostanza psichica e spirituale di chi le ha concepite. Si direbbe che nemmeno la più “apollinea” fra le creazioni artistiche, nemmeno la più “impersonale” sia del tutto immune dai segni caratteristici dell’artefice, da ciò che in minore o maggiore misura vi ha trasferito il suo “fare”. L’aveva intuito, sebbene con una presa di posizione paradossale, Gilles Deleuze in quella specie di testamento intellettuale che è Critique et Clinique[1] a proposito della letteratura (il discorso potrebbe evidentemente estendersi all’ambito del visivo) la quale, per riacquistare una qualche efficacia rappresentativa o ampliare gli orizzonti a mondi possibili, dovrebbe essere in grado di condurre la lingua al delirio[2]. Di più ancora in Présentation de Sacher Masoch[3] in cui la tesi di fondo è che l’artefice (in questo caso lo scrittore austriaco “inventore” della eponima devianza) sia in realtà un grande sintomatologo, e che i sintomi che esibisce l’opera debbano essere intesi come «segni [che] rimandano a modi di vita, a possibilità di esistenza, […] sintomi di una vita rigogliosa o sfinita»[4]. L’oggetto artistico, dunque, “soffre” come un organismo; di più: soffre dei medesimi sintomi di chi l’ha reso visibile. A fortiori se il medium rappresentativo è incarnato dall’artista stesso.

Quando, nel 1974, Lea Vergine pubblicava Il corpo come linguaggio[5] la body art contava – almeno ufficialmente – pochi anni di vita. Almeno ufficialmente, poiché – come notava l’autrice stessa – le sue radici erano antiche[6]. Senza risalire a epoche antecedenti, o sconfinare nei territori dell’etnologia o della storia delle religioni, già nell’ambito dell’Espressionismo, del Dadaismo, del Surrealismo, il corpo era stato assunto a strumento espressivo capace di veicolare tutta una serie di stati psichici ed emozionali, non di rado patologici. Solo tuttavia con la liberazione dei costumi e, soprattutto, con il discredito in cui – nei vari livelli sociale, culturale, economico – era precipitata la nozione tradizionale di arte, la body art ha potuto affermarsi come frontiera estrema dell’arte, prima dell’inevitabile baratro. Si aggiunga a ciò il fatto che mezzo secolo di psicanalisi, come scoperchiando un vaso di Pandora, aveva liberato forze fin allora arcane, furie che adesso bisognava ostentare perché l’artista stesso non ne fosse la prima vittima. Perciò non è senza significato il fatto che Lea Vergine s’interroghi «se di “arte” si possa ancora parlare»[7] a proposito della body art, un’arte nata nel solco stesso dell’ideologia borghese e che alla borghesia apertamente s’opponeva come antagonista.

Di fatto la performance, che della body è l’epifania, è essa stessa transeunte, simbolo di una forma artistica il cui statuto riposa nella irripetibilità: in nessun luogo come in essa l’hic et nunc trova la sua più compiuta esemplificazione.

L’esibizione non si dà se non nel momento in cui essa è ormai consegnata alla morte, né i frammenti fotografici, le riproduzioni video, finanche i grafici – che pure costituiscono il necessario supporto alla sua documentazione – possono efficacemente surrogare la sua carica espressiva. La body art vuole che l’oggetto artistico perisca nella materializzazione stessa del fenomeno. Essa esige che la solitudine dell’artista, la sua timidezza esasperata in un feroce esibizionismo, siano ricomposte nella propensione al voyeurismo di chi ne fruisce. Un “contratto” avrebbe forse affermato lo stesso Deleuze, fra opera-artista e spettatore fondato sulla propensione di quest’ultimo – antica come l’uomo – al sadismo. Le radici di queste considerazioni sono lontane: si potrebbe ascendere persino a Du Bos e alle Réflections critiques sur la poésie et sur la peinture (1719), uno dei testi capitali attraverso i quali l’estetica s’introduce alla modernità: «Si accorre in massa per vedere uno dei più raccapriccianti spettacoli che gli uomini possano guardare; intendo dire il supplizio di un altro uomo che subisce il rigore della legge sul patibolo e che muore a causa di orribili tormenti: […] l’attrattiva dell’emozione, per molte persone, è più forte delle riflessioni e dei consigli dell’esperienza»[8].

Un’opera d’arte tradizionale esiste indipendentemente dalla presenza dell’osservatore. Per definizione, anzi, un capolavoro dell’antichità, un polittico gotico, un testo esemplare del Rinascimento devono (o dovrebbero) sopravvivere al di là del tempo, al di là del contesto di cui sono espressione. E dunque, per la sua fragilità, più un’opera è antica, più alla sua conservazione è nociva la presenza del fruitore, più il suo respiro ne sgretola la composizione chimica, ne attacca la struttura fisica. Per questo, nei musei, la prossemica della fruizione ha scavato uno iato sempre più profondo tra oggetto e soggetto. Il tempo attuale ha rovesciato quello che Herder aveva teorizzato allo scadere del Settecento: «Una statua mi può abbracciare, può farmi inginocchiare, fare che io diventi il suo amico e compagno di gioco, essa e presente, è qui»[9]. Tramontata la tattilità, la possibilità d’esperire attraverso il senso la materia dell’oggetto artistico (toccare una statua, ovvero la superficie accidentata di un quadro), è crollata la specificità di ciascuna delle arti: le opere sono tornate nel sancta sanctorum del museo, destinate a una visione esclusivamente a distanza.

Un’opera di body art, al contrario, è condivisione. «L’uomo – scrive Lea Vergine – è ossessionato dalla necessità di agire in funzione dell’altro, ossessionato dalla necessità di mostrarsi per poter essere»[10]. Così l’esibizione mette in scena, come in un gabinetto psicanalitico, ogni sorta di pulsione inconscia cosicché l’artista mostri allo spettatore ciò che egli stesso è, ne metta a nudo – con l’atto di denudarsi materialmente – tutte le sue infermità. Nella body il linguaggio della critica ha abdicato alla terminologia medica. In taluni casi persino a quello della criminologia. Sadismo e masochismo, nevrosi, propensioni distruttive, paranoia, isteria, culto dell’osceno, ostentazione di funzioni biologiche fin allora relegate nell’ambito del privato, autoerotismo: tutto è passibile di rappresentazione sulla scena della performance, tutto ciò che possa scuotere il presunto equilibrio dello spettatore.

Lea Vergine allude più volte, nel breve giro delle pagine dell’introduzione, a Sade. Che la body, prim’ancora che nei progenitori d’inizio Novecento, avesse nel Divino Marchese il suo antesignano[11]? È, ovviamente, un’esagerazione… Eppure in molte pagine dello scrittore settecentesco, che sappiamo peraltro riscoperto proprio nel seno del Surrealismo e dai surrealisti idolatrato per la sua carica eversiva[12], la costruzione del racconto è condotta come fosse la descrizione di una performance. I libertini di Sade sono artisti del corpo e con il corpo. Nel corpo dell’altro, oltraggiato, vilipeso, spesso persino mangiato, essi figurano il proprio per darsi esistenza. Solo nella sofferenza della vittima essi possono affermare con rabbiosa determinazione la propria libertà, pur se ogni atto rappresenta un ulteriore restringimento delle catene della natura. Le brutalità ch’essi commettono su soggetti spesso descritti nelle forme più seducenti della bellezza, tutta la gamma della degradazione attraverso cui discendono, le macchine di tortura che inventano e le composizioni erotiche che realizzano: tutto ha luogo nella manipolazione del corpo, nel rituale del sacrificio, nella convulsione orgiastica che fa rivivere gli strati primitivi dell’esperienza, ere lontanissime eppure non mai sepolte[13].

Così, quanto Sade aveva immaginato nei suoi romanzi rivive sulla scena della body, in Hermann Nitsch ad esempio: «Siamo sempre più attratti dalla nostra propria esperienza. – scrive l’artista nel presentare Performance 1965 nell’antologia di testi raccolti da Lea Vergine – Ogni opera d’arte non è altro che la mistica dell’essere. L’estetica che ci spinge fino all’orrore. L’estetica dell’orrore»[14]. Nell’Azionismo viennese, che in quel momento rappresentava forse la più estrema epifania della body art, il recupero di pratiche ancestrali, la simulazione di sacrifici, la messa in scena di azioni violente nelle quali lo spettro mono-cromatico è rappresentato dal rosso, sono altrettanti moventi per un possibile sfogo catartico dello spettatore[15]. Quello che Aristotele aveva teorizzato oltre due millenni prima a proposito della tragedia, a proposito dei sentimenti di terrore e dolore con i quali l’astante s’identifica nell’azione[16], nel Teatro delle orge e dei misteri ora tornava attuale. Sbigottito al cospetto dell’azione violenta, e incapace di reagire affinché la catastrofe sia evitata, egli accetta quanto avviene sulla scena, quand’anche questo rappresenta il raccapriccio di un corpo mutilato, lo squartamento di un animale sacrificale o il ribrezzo d’una pratica auto-aggressiva: la frenesia orgiastica, l’esaltazione galliambica del rito riportano alla luce ciò che la coscienza aveva tentato di soffocare. Rompere il meccanismo dell’auto-preservazione, su cui la teoria del Sublime a partire da Burke aveva affondato i suoi plinti[17]: così la performance violenta si propone di disarticolare il dispositivo della rimozione, di modo che la memoria di crimini di cui tutti siamo stati complici riemerga tormentosa: «Qui si canta la perversa malinconia del nulla – scrive Gianfranco Baruchello a proposito di Perforce 1968 – ci si spartiscono le colpe della catastrofe»[18]. L’arte ora non può essere nulla se non pubblica autoaccusa. «Credo che niente abbia senso se non viene sacrificato, distrutto, smembrato, bruciato, trafitto, tormentato, molestato, torturato, massacrato, divorato, lacerato, tagliato, impiccato, pugnalato, distrutto o annientato. Dobbiamo batterci per distruggere l’umanità, per distruggere l’arte…»[19]: è una frase che parrebbe tolta di peso da La Nouvelle Justine o da Le centoventi giornate di Sodoma di Sade, romanzi entro i quali a ogni piè sospinto compaiono simili sentenze; è invece la dichiarazione di poetica di Otto Muehl a proposito di Degradazione di una Venere, azione del 1963 in cui – con scoperto riferimento allo scrittore francese – una donna viene gettata su un mucchio di rifiuti e il suo corpo dipinto e vilipeso con materie ignobili.

Nell’arte del corpo, sia pure con esasperazioni che non di rado digradavano nel ridicolo, si realizzava quel meccanismo che – nell’ambito dell’antropologia criminale – un secolo prima Lombroso aveva registrato sotto la formula della “regressione

atavica”[20]. Come il criminale (Lombroso credeva che i delinquenti nascessero tali, come organismi geneticamente tarati) nel suo agire riporta all’attualità comportamenti caratteristici delle società primitive, che si riflettono  finanche nel suo aspetto “australe”, nel suo corpo marchiato dalle stigmate della degenerazione, così l’artista sprigiona nella performance il delirio di comportamenti pre-razionali, la ferinità repressa da millenni di convenzioni, l’aggressività distruttiva che – diversamente – esploderebbe nel delitto. Nella body dunque insiste un palese dualismo: l’attività estetica da una parte, che sublima l’irrappresentabile e degrada il sacro; il piacere regressivo, dall’altro. Quello stesso «piacere intellettuale della regressione»[21] di cui Horkheimer e Adorno hanno parlato a proposito della Juliette di Sade, che fa rivivere modi d’agire che, in realtà, non hanno mai smesso di condurre un’esistenza nascosta. Comportamenti in cui naturale e proibito divengono in ultimo sinonimi. Ernst Kris, in ordine ai rapporti tra arte e psicanalisi, scrive che lo sbocco delle emozioni rimosse consente all’io di assicurare o di ristabilire un controllo su esigenze istintuali censurate[22]. L’arte assurge così al ruolo di possibile valvola di sfogo, diviene teatro sul quale mettere

in scena le contraddizioni, abbattere i tabù, scuotere l’equilibrio omeostatico del riguardante. Le automutilazioni e la teatralizzazione del suicidio di  Schwarzkogler, i tagli sulla pelle e le punture di Gina Pane, i morsi sui propri arti (usati poi come altrettanti “timbri”) e il pubblico autoerotismo di Vito Acconci, più recentemente i segni “graffiati” sul corpo da Marina Abramović e le sconcertanti Suspension di Stelarc, se da un lato desacralizzano il concetto stesso di corpo, l’idea cristiana della sua intangibilità in quanto oggetto “indisponibile”, conducendo al limite del sopportabile il dolore fisico e la stessa fruizione della pièce, dall’altro esibiscono un nuovo concetto di mimesis entro il corpo stesso dell’arte. Nella sua declinazione estremizzante, la body art ha inteso riprodurre nell’atto della performance gli effetti di una condizione psicopatologica. La performance si è talora configurata nella epifania dell’isterico. Ma qual è il nesso che tiene insieme arte e isteria, nel particolare dominio della body, e soprattutto nella sua accezione più scandalosa?

Sin dai primi studi ottocenteschi, l’affezione isterica era stata descritta come la capacità patologica da parte dell’organismo di riprodurre, di imitare senza apparente causa organica, tutte le altre malattie[23]. Nel corpo dell’isterica, e in special modo nella sua epidermide, gli studiosi inoltre notavano una quasi totale anestesia: anche le pratiche apparentemente più dolorose, come il trapassarne la pelle da parte a parte con uno spillone, il bucarne il seno o il ventre, nel corso degli esperimenti di laboratorio non procuravano nel paziente alcuna registrabile reazione algesica.
Georges Didi-Huberman, che alla questione dell’incarnazione nelle arti visive ha intitolato un testo esemplare[24], nel capitolo dedicato al tema del corpo-cliché ha affrontato il motivo della dermografia a partire dalle testimonianze mediche di Georges Dujardin-Beaumetz, di Toussainte Barthélémy, di Élie Châtelain, tutte risalenti agli ultimi anni del XIX secolo. In un ambito nosologico a metà tra la neurologia e la dermatologia, gli studiosi in questione avevano notato – nel corso di numerose sedute terapeutiche – che la pelle di alcuni soggetti affetti da patologia isterica, quanto perdeva in senso (nella capacità in altre parole di avvertire il dolore) riacquistava in sensibilità: bastava che l’epidermide fosse sfiorata con le dita o con altro strumento a punta arrotondata, perché ne rimanesse un segno, uno stigma, quasi si trattasse di una tela, di un foglio di carta o meglio, di una pellicola fotografica. I segni corporei presentavano, nei soggetti sottoposti al trattamento, alcune costanti: il tratto si tingeva dapprima di rosso, poi il rosso trascolorava fino al bianco, e nella sua metamorfosi finale passava dalla profondità – attraverso la superficie – fino al rilievo. Nella forma del “grande dermografismo” il tratto sporgente giungeva persino a rilevarsi di sei millimetri, quasi in una forma di “ponfo figurato”. Didi-Huberman ha notato come la inusitatezza del fenomeno avesse scatenato nei medici una vera e propria mania descrittiva: il linguaggio medico (con un’operazione che pare l’uguale e il contrario rispetto alla critica della body art) mutuava il suo armamentario da quello delle arti figurative in un letterale  esercizio ecfrastico[25]. Quasi si trattasse di un nuovo materiale, di  un nuovo supporto espressivo, i medici testavano sul corpo isterico la permanenza del sintomo, che poteva variare da pochi minuti a diversi giorni.
La mutevolezza del segno si esprimeva anche nella sua diversa cromia simultaneamente presente sulla pelle, cosicché in alcuni pazienti – in una variante del fenomeno che ancor più eccitava la curiosità e la propensione estetica degli studiosi – i grammata risultavano contemporaneamente bianchi e rossi, incavati e rilevati. E così l’estremo dell’esperimento dermografico consiste in un’opera-zione in tutto artistica: nel 1891 Élie Châtelain “firma” il corpo di una delle sue pazienti affinché la foto che ritrae l’esperimento sia consegnata al museo della clinica[26]. Un’operazione sconcertante, a ben guardare. Tanto più sconcertante, in quanto pare anticipare – di settant’anni – le analoghe performance di Piero Manzoni: le “firme” che tra il 1960 e il ‘61 l’artista cremonese pone sul corpo delle sue modelle, trasformandole per ciò stesso in sculture viventi, corredate peraltro di documenti di autenticità e di talloncini che ne indicano la data di scadenza, contribuiscono a ridisegnare il tradizionale concetto di arte in un’ultima variazione biologica del ready made[27]. Viene così a istaurarsi un curioso gioco di rimandi tra il corpo clinico e il corpo artistico: l’isteria trasforma il corpo in medium rappresentativo, capace di trattenere i segni che v’imprime il medico e di restituirli “dal di dentro” come sintomi di una latente affezione, e insieme come simulacri del segno artistico.
L’arte, d’altro canto, nella performance della body mima non di rado l’isteria, e nel corpo – nel gradiente che va dal semplice segno grafico al cruento infierire perché vi restino ferite esposte – riproduce i prodromi della malattia del mondo. «La sintomatologia è sempre un problema d’arte» scrive Deleuze, citato per altro dalla stessa Vergine. Nella body il sintomo è sempre un atto estetico: si tratti della sagoma di una stella che lacera la carne attorno all’ombelico di Marina Abramović, delle iscrizioni auto-degradanti ottenute con la stessa tecnica da Regina José Galindo o della malattia che divora Hannah Wilke, esibita nella performance Intra Venus; o ancora della cruenta messa in scena di uno stupro sfoggiata da Ana Mendieta, e del dissanguamento cui giunge Franko B.: i segni del corpo diventano denuncia, le piaghe – per usare ancora una volta un’espressione di Didi-Huberman, a proposito delle ferite al costato di Cristo nella pittura di Carlo Crivelli – “urlano” laddove l’artista resta muto di fronte allo scempio di sé. Nella colonia penale di Kafka una macchina-carnefice scrive sul corpo del condannato la sentenza capitale per una colpa che egli non conosce, e il condannato – dalla ferita che il meccanismo gli imprime con artistica e feroce eleganza – solo nell’ultimo istante della sua vita viene a sapere ciò che l’arte ha impresso sulla sua pelle. Verso la fine del racconto,  però, il meccanismo smette di funzionare, il segno diventa solo un colpo di grazia incapace di veicolare alcun significato. È un po’ la metafora della body, sia pure astratta dal suo contesto: l’arte è insieme conoscenza e condanna, i segni del corpo sono prima di tutto le spie di un sapere perseguito oltre il limite del dolore, oltre il quale è solo la semplice provocazione.

Che senso hanno dunque, più recentemente rispetto alle prime esperienze della body, l’orecchio impiantato sull’avambraccio di Stelarc, un vero e proprio terzo organo dell’udito, o le protesi al silicone che Madame Orlan[28] già a partire dalla fine degli anni Ottanta si fa introdurre nel viso? «Io ho sempre lavorato sul mio corpo come se fosse una materia da plasmare come io desideravo

– afferma la Orlan in un’intervista – quel che mi interessa non è il risultato finale, mi interessa che il mio corpo sia diventato un luogo di dibattito pubblico»[29]. La sala operatoria, al posto della galleria d’arte, è il luogo in cui si modella un nuovo concetto di bellezza, in cui il corpo estende – nella dimensione del post-umano – la sua azione biologica. La rete di internet – con le estensioni cyber di Stelarc si può persino interagire in connessione remota – diviene l’ou-topos della performance[30]. Avviene così quell’ultima metamorfosi che pure rappresenta, con ogni probabilità, la messa in liquidazione della stessa body art: Il corpo comincia a scomparire dalla scena, almeno come entità fisica: in suo luogo compare un corpo diffuso. Gina Pane, ormai alla fine della sua carriera, sostituisce la sua presenza materiale con teche che –contenendo reliquie che richiamano al suo martirio – introducono un nuovo concetto di misticismo, una risacralizzazione laica del corpo che lo porta a essere ubiquamente presente. La Orlan, a ogni operazione chirurgica cui si sottopone, si fa asportare brandelli di pelle che conserva poi nei cosiddetti “reliquiari”, oggetto per altro di mercato. Il relitto della pratica cruenta prende infine il posto della esibizione dei suoi segni. I segni, dunque, cominciano a scomparire, o a essere sempre più imperscrutabili. Leggere i segni del corpo, leggere la body art significa sempre di più leggere una pagina bianca


[1]  G. Deleuze, Critique et Clinique, Collection “Paradoxe”, Les Éditions de Minuit, Paris 1993; trad. it. a cura di A. Panaro, Critica e Clinica, Raffaello Cortina, Roma 1996.

[2]  Ibid., p. 16.

[3]  Id., Présentation de Sacher Masoch. Le froid et le cruel, Les Éditions de Minuit, Paris 1967; trad. it. a cura di G. De Col, Il freddo e il crudele, SE, Milano 1991.

[4]  Id., Gilles Deleuze. Segni ed eventi. Intervista di Raymond Bellour e François Ewald, in Il secolo deleuziano, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano 1997, p. 116.

[5]  L. Vergine, Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Prearo Editore, Milano 1976; nuova ed. Skira, Ginevra-Milano 1976.

[6]  Ibid., p. 12: «Le radici di tutto questo sono antiche; ma volendo riferirsi a vicende del nostro stesso secolo, non si possono certo escludere in primo luogo quell’Espressionismo che ribolliva al di là del Reno, né il Dadaismo, il Surrealismo o Artaud col suo Teatro della Crudeltà (si guardi alle foto di Egon Schiele, all’acconciatura e alla tonsura di Marcel Duchamp e, più vicini a noi, agli stessi interventi di Piero Manzoni e Yves Klein…)».

[7]  Ibid., p. 7.

[8]  J.-B. Du Bos, Réflections critiques sur la poésie et sur la peinture (1719); ed. it. Riflessioni critiche sulla poesia e la pittura, a cura di M. Mazzocut-Mis, P. Vincenzi, con prefazione di E. Franzini, Aesthetica, Palermo 2005, p. 40.

[9]  J.G. Herder, Der Plastik (1778); trad. it. Plastica, a cura di S. Tedesco e D. Di Maio, Aesthetica, Palermo 2010, p. 39.

[10]    L. Vergine, Il corpo come linguaggio…, p. 8.

[11]    Per le implicazioni “estetiche” delle teorie sadiane in ordine ad arte e crimine, mi permetto di rimandare a F. P. Campione, Per un’estetica del crimine: da Sade a Lombroso, in Premio Nuova Estetica, “Aesthetica Preprint - Supplementa”, 23, aprile 2009, pp. 65-90.

[12]    Tra gli artefici della riscoperta de Sade agli inizi del XX secolo, oltre a Guillaume Apollinaire (che ne 1909 aveva curato l’edizione de L’Oeuvre du marquis de Sade nella collana “Les Maitres de l’Amour”, coniando la formula fortunata di Divino Marchese), è necessario rammentare almeno Andrè Breton. Nel Secondo Manifesto del Surrealismo, lo scrittore francese aveva di fatto identificato Sade quale progenitore del Movimento per la sua volontà di abbattere il tabù della morale tradizionale. Per la rivalutazione di Sade in seno al Surrealismo, cfr. I. Margoni (a cura di), Breton e il Surrealismo, Mondadori, Milano 1976, p. 468.

[13]    Per queste considerazioni, è utile consultare M. Mazzocut-Mis, Rappresentare il limite, in Ead., Il senso del limite. Il dolore, l’eccesso, l’osceno, Le Monnier, Firenze-Milano 2009, pp. 134-81, soprattutto § V.

[14]    L. Vergine, Body art e storie simili…, p. 176.

[15]    Per questi aspetti è utile consultare A. Julius, Trasgressioni. I colpi proibiti dell’arte, Bruno Mondadori, Milano 2003 (si veda soprattutto il paragrafo intitolato La violazione dei tabù, pp. 143-87).

[16]    Aristotele, Poetica, 1448b 10: «Prova ne è quel che accade in pratica, giacché cose che vediamo con disgusto le guardiamo invece con piacere nelle immagini quanto più siano rese con esattezza, come ad esempio le forme delle bestie più ripugnanti e dei cadaveri»; 1453b 5-10: «Quanto poi a quelli che per mezzo della messa in scena procurano non il terrore, ma ciò che è soltanto mostruoso, questi non hanno niente a che fare con la tragedia».

[17]    E. Burke, A Philosophical Inquiry into the Origin of Our Ideas of The Sublime and Beautiful, 1757-1759; ed. it. Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di G. Sertoli, G. Miglietta, Palermo 2006, pp. 70-71: «Le passioni che riguardano l’autopreservazione si riferiscono per lo più al dolore e al pericolo. Le idee di dolore, malattia, morte, riempiono la mente di forti emozioni di orrore; ma le idee di vita e di salute, sebbene ci mettano in grado di provare piacere, non producono col semplice godimento altrettanta impressione. Le passioni quindi che riguardano la preservazione dell’individuo si riferiscono principalmente al dolore o al pericolosee sono le più forti di tutte le passioni».

[18]    L. Vergine, Body art e storie simili…, p. 38.

[19]    The Artist’s Body, a cura di T. Warr, con un saggio di A. Jones, Phaidon, London 2000, p. 92.

[20]    C. Lombroso, L’uomo delinquente, Hoepli, Milano 1876, p. XV.

[21]    M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Excursus II. Juliette, o illuminismo e morale (1944), in Id., Dialettica dell’illuminismo, trad. it. a cura di R. Solmi con introduz. di C. Galli, Torino, Einaudi, 20064, pp. 87-125, qui p. 100 (cit. leggermente adattata).

[22]    E. Kris, Ricerche psicoanalitiche sull’arte (1952), trad. it. a cura di E. Fachinelli, Einaudi, Torino 1988, p. 54.

[23]    Tale definizione era stata formulta da Paul Briquet nella sua opera considerata fondativa della patologia isterica, il Traité clinique et thérapeutique de l’hystérie, Baillière, Paris 1859, pp. 161 e sgg.

[24]    G. Didi-Huberman, L’image ouverte. Motifs de l’incarnation dans les arts visuels, Gallimard, Paris 2007; trad. it. a cura di M. Grazioli, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Bruno Mondadori, Milano 2008. Il capitolo in questione (pp. 211-37) è intitolato Il sangue, il senso, la sentenza. Una breve storia del “corpo-cliché”.

[25]    Ibid., p. 217.

[26]    É. ChÂtelain, Pseudo-urticaire dermographique, in “Journal des maladies cutanées et syphilitiques», III, 1891, pp. 547-55 (ivi, pp. 222 e 291, n. 47).

[27]    Per questo particolare aspetto della “produzione” di Piero Manzoni, cfr. G. Celant, Piero Manzoni. Catalogo generale, Prearo, Milano 1975, p. 56; cfr. anche E. Grazioli, Piero Manzoni, Bollati Boringhieri, Milano 2007, pp. 113-17 (Le sculture viventi).

[28]    Per Madame Orlan (Mireille Suzanne Francette Porte, Saint-Étienne, 1947), è utile consultare in ultimo Orlan. A Hybrid Body of Artworks, a cura di S. Donger, S. Sheperd, Routledge Editions, London 2010. Il sito http://www.orlan.net/ offre una panoramica continuamente aggiornata della sua produzione artistica.

[29]    L’intervista, rilasciata il 10 maggio 1999, è consultabile su http://www.repubblica.it/online/internet/ Media- mente/orlan/orlan.html

[30]    Per questi aspetti, cfr. R. Marchesini, Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Milano 2002.



Scarica il numero della rivista in versione stampabile

Temi di Critica - numero 1

Scarica il documento PDF/OCR





Avviso! Gli utilizzatori di Safari, Opera, Firefox, Camino su piattaforma MacOS o Linux che non visualizzano correttamente il file pdf possono scaricare il plugin qui.
Gli utilizzatori di Google Chrome che non visualizzano correttamente lo zoom possono impostarlo in automatico digitando nella barra degli indirizzi "about:plugins" e abilitare la voce "Adobe Reader 9 - Versione: 9.4.1.222 Adobe PDF Plug-In For Firefox and Netscape '9.4.1'"

Licenza Creative Commons
"teCLa" - Temi di Critica e Letteratura Artistica by http://www.unipa.it/tecla/ is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License