teCLa :: Rivista #3

in questo numero contributi di Monica Preti-Hamard - Bénédicte Savoy, Nicoletta Di Bella, Carmelo Bajamonte, Iolanda Di Natale, Roberta Priori Marcella Marrocco.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Vedere attraverso e oltre l’opera d’arte. Erwin Panofsky e l’educazione estetica in presenza di disabilità visiva di Roberta Priori

Se oggi per uno studioso dell’arte la collocazione del proprio oggetto di studio in un contesto e la contemporanea decifrazione delle concezioni personali culturali che esso ha in sé, è un metodo d’analisi ormai consolidato, si può senza alcun dubbio affermare che questo si deve alle intuizioni del teorico tedesco Erwin Panofsky.

Il metodo di ricerca e interpretazione dei fenomeni artistici da lui teorizzato, quello iconologico, domina tuttora il dibattito riguardante gli studi storico-artistici[1] e continua a stimolare riflessioni sulle pratiche volte all’apprendimento della storia dell’arte e nell’ambito della didattica sperimentale delle arti. Dal 1999 presso il Museo Tattile di Pittura antica e moderna “Anteros” dell’Istituto per Ciechi “Francesco Cavazza” di Bologna viene svolta un’intensa attività didattica rivolta alle persone non vedenti e ipovedenti. La curatrice e autrice dei contenuti tecnico-scientifici del museo, Loretta Secchi, in sinergia con l’Associazione Scuola di Scultura Applicata, la Cattedra di Ottica fisiopatologica dell’Ospedale Sant’Orsola, l’Unione Italiana Ciechi e l’Istituto per Ciechi “Francesco Cavazza” di Bologna, ha partecipato all’elaborazione di un metodo funzionale al raggiungimento di una più profonda comprensione dell’opera per i non vedenti attraverso l’iconologia[2]. All’interno del vasto corpus di studi panofskiano[3], il saggio Iconography and Iconology. An introduction to the Study  of Reinassance Art, pubblicato nel 1955 in Meaning in the visual art [4], rappresenta un punto di arrivo della riflessione di Panofsky sul metodo di indagine dell’opera d’arte e sancisce la nascita dell’iconologia come disciplina.

Quando infatti Erwin Panofsky affidava a questo celebre contributo la definizione di iconologia come «ramo della storia dell’arte che si occupa del soggetto o significato delle opere d’arte contrapposto a quelli che sono i loro valori formali»[5], affermava lucidamente che la forma e il contenuto potessero e inevitabilmente dovessero coesistere per una comunicazione unitaria e approfondita del fenomeno artistico.

Osserva in proposito Claudia Cieri Via:

 

L’iconologia, come metodo di studio delle immagini e in particolare delle opere d’arte si caratterizza sostanzialmente per un’implicita finalità conoscitiva volta a cogliere nell’immagine e/o nell’opera d’arte non solo il come o il cosa ma anche il perché dei fenomeni artistici, indagando sulla genesi, sui diversi aspetti del loro manifestarsi, in rapporto alla tradizione artistica e letteraria e al contesto storico-culturale, con un’attenzione infine per i fenomeni di diffusione e di ricezione[6].

 

Percezione formale, cognizione e interpretazione – il cosa, il come e il perché – dell’opera d’arte rappresentano quindi i passaggi che conducono alla sintesi interpretativa cui giunse Panofsky attraverso l’elaborazione del metodo iconologico e costituiscono l’anello di congiunzione tra le caratteristiche del suo pensiero e il tema di questo studio: rintracciare nel percorso che conduce alla sistematizzazione del metodo tripartito le potenzialità del pensiero panofskiano rivolte all’educazione estetica in presenza di disabilità visiva e l’applicabilità dei suoi aspetti educativo-pedagogici all’interno del complesso dibattito su percezione e significazione delle forme dotate di valore estetico.

L’educazione estetica dei non vedenti è stata negli ultimi  anni al centro di numerosi studi che hanno visto la nascita di diversi contributi teoretici volti a sviluppare metodi pedagogici che possano garantire non solo l’accesso ai beni culturali ma favorire la formazione e l’integrazione sociale dei disabili della vista all’interno di un ormai acquisito riconoscimento della funzione educativa e psicoriabilitativa dell’esperienza estetica[7].

Su queste premesse opera l’équipe coinvolta nella sezione didattica del Museo “Anteros” composta da esperti in teoria dell’arte, psicologia della percezione tattile e ottica, storia e pedagogia dell’arte, tiflologia e scultura applicata.

La collezione del museo comprende circa quaranta esemplari di capolavori della pittura dei periodi compresi tra l’età classica e quella contemporanea: riproduzioni tridimensionali in bassorilievo prospettico di celebri dipinti[8], rilievi tecnici, copie di rilievi rinascimentali, tavole propedeutiche al concetto di stile storico, tavole funzionali alla comprensione della prospettiva e delle categorie della rappresentazione[9].

La lettura tattile di un bassorilievo avviene in tre fasi.

 

Queste tre fasi, specifica la Secchi, coincidono con tre livelli di lettura, correlati e inscindibili, che vengono sempre rispettati ma praticati in proporzioni diverse. Dopo aver letto le strutture geometriche nascoste e gli schemi interni della composizione (analisi preiconografica), riconosciuto i contenuti convenzionali dell’immagine (analisi iconografica), ed esplorato il senso dell’opera d’arte (analisi iconologica), il lettore giunge all’esperienza estetica, anche in relazione al suo pregresso culturale e alle sue potenzialità percettive.

 

La Secchi sintetizza così:

 

Percezione tattile delle forme e delle strutture (anche ottica in caso di uso del residuo visivo) = lettura preiconografica[10].

Cognizione delle forme e riconoscimento della loro identità = analisi iconografica[11].

Significazione della rappresentazione e sua estensione di senso = interpretazione iconologica[12].

 

Tre livelli interpretativi: livello esterno fenomenico, semantico e documentario[13], dunque, che si rivelano teorie essenziali per un corretto approccio all’opera d’arte e che vedono «teoria dell’arte, formalismo, storia degli stili, contenutismo, semiotica e psicologia della percezione confluire nell’applicazione didattica, adattata alle esigenze percettive e cognitive dei disabili della vista, del metodo tripartito panofskiano»[14].

A questo punto è necessario ripercorrere seppur brevemente alcuni passaggi della produzione teorica di Panofsky, soprattutto giovanile, per comprendere meglio le peculiarità del suo pensiero in merito alla percezione  e cognizione delle immagini all’interno del denso dibattito teorico sviluppatosi a partire dalla seconda metà del XIX secolo in Europa e la funzionalità del suo metodo interpretativo rivolta all’educazione estetica dei non vedenti e ipovedenti. L’analisi dello stile, della forma e del contenuto di un’opera d’arte ha dominato le ricerche teoriche dell’arte e il pensiero panofskiano è stato più volte al centro di aspre e controverse critiche, rimproverandosi allo studioso un’interpretazione dell’opera deficitaria della conoscenza dei valori della forma[15].

L’esigenza di Panofsky, fin dai suoi primi scritti, è appunto quella di affrontare le questioni cruciali delle ricerche metodologiche della Scienza dell’arte (Kunstwissenschaft), di rintracciare un metodo che permetta un approccio alternativo e complementare all’opera d’arte, e di codificarlo nell’ambito della tradizione della Kunstgeschichte, intesa come disciplina[16].

Quando Panofsky, nel secondo decennio del XX secolo, comincia a scrivere i suoi primi saggi, la disciplina della Storia dell’arte è quasi esclusivamente dominata da parametri di analisi e giudizio formalisti.

In risposta alle concezioni espresse da Wölfflin, teorico formalista, in una conferenza sul problema dello stile nelle arti figurative, tenuta il 7 dicembre 1911 presso l’accademia Prussiana delle scienze[17], Panofsky pubblica nel 1915 uno dei suoi primi contributi teorici: Das Problem des Stils in der bildenden Kunst [18], che possiamo considerare il primo manifesto del suo sistema interpretativo. In esso affiora una precisa critica all’estetica di Wölfflin.

Le tematiche della conferenza di Wölfflin contenevano già le idee che egli svilupperà in una delle sue più importanti pubblicazioni: Kunstgeschichtliche Grundbegriffe. Das Problem der Stilentwicklung in der neuren Kunst[19]. In quest’opera la forza dell’interpretazione formalista, già trattata da Wölfflin in Reinassance und Barock del 1888 in cui affronta il problema dello stile dal Rinascimento al Barocco[20], sembra raggiungere l’apice[21].

L’approccio critico di Panofsky trova origine nella distinzione wölffliana fra il contenuto espressivo delle opere d’arte e le forme che sono i veicoli di tale espressione. Per Wölfflin le forme dipendono dal modo di vedere e di raffigurare di tutta un’epoca, cioè dall’“occhio” e non dalla disposizione individuale degli artisti. «Per Panofsky invece la visione è un processo fisiologico immutabile nel corso della storia»[22]: quello che varia è l’interpretazione di ciò che si vede. Così i modi di rappresentazione, differenti e tipici per ogni epoca, non sono fissi e immutabili essendo essi il risultato di un’interpretazione attiva e pregni di un profondo significato espressivo.

Lo stile, per Panofsky, si forma dunque non sulle impressioni visive fisiologiche, ma sulla loro interpretazione[23]. Già nel modo in cui si rapporta a Wöllflin, Panofsky manifesta la necessità di non considerare più separata la forma dal contenuto.

Inoltre, in Das Problem der Stils in der bildenden Kunst, Panofsky, ancora in opposizione a Wölfflin, traccia una relazione fra il termine visione e le possibili interpretazioni del suo significato.
Così i vari vocaboli che rimandano all’idea di visione – sehen (vedere), Auge (occhio), optische (ottico) – se intesi unicamente nel loro senso letterale, rimangono relegati ad un ambito meccanicistico, vuotati di ogni significazione che non faccia riferimento ad una mera funzionalità fisica. Dunque, sostiene Panofsky,

 

colui che ponesse alla base della proprie considerazioni questo concetto fisiologico - obiettivo della visione, dovrebbe effettivamente affermare che la visione rientra in una sfera “inferiore” dell’attività artistica, in una sfera che sta al di qua dell’espressione, e che essa non ha nulla a che fare col sentimento o col temperamento […]; ma egli dovrebbe anche ammettere che la visione in questo senso non svolge ruolo alcuno nella costituzione di uno stile: l’occhio in quanto organo, che agisce soltanto nella registrazione della forma ma non per la costituzione della forma, non sa nulla del “pittorico”, delle “ superfici”, della forma “chiusa” o della forma “aperta”. La visione nel senso figurato della parola sta al di qua di qualsiasi espressione, ma anche al di qua di ciò che Wölfflin denomina “ottica”[24].

 

Panofsky, allora, si domanda: se l’occhio è uno strumento organico e non psicologico, come sottintenderebbe Wölfflin, possiamo separare la relazione dell’“occhio” con il mondo dalla relazione della psiche (Seele) col mondo?[25].

Fornendo ai termini che rimandano all’idea di visione (occhio, vedere, ottico) una connotazione che superi il semplice riferimento all’attività fisiologica, Panofsky sottolinea il ruolo fondamentale svolto dalla psiche (Seele). Considerata il “luogo” del sentire e del temperamento, infatti, la Seele conferisce un contenuto espressivo a ciò che l’occhio vede, quasi gonfiando ogni lavoro artistico di valori e intenzioni che superano lo stadio immediatamente fruibile delle forme.
Di conseguenza, lo stile non sembra avere una doppia origine: «una forma intuitiva priva di significato psicologico» da una parte, e «un contenuto costituito dallo stato d’animo e interpretabile in termini espressivi», dall’altra[26].

Pertanto, mettendo in correlazione l’intima dimensione fornita dall’“occhio” e l’elaborazione individuale fornita dalla Seele, Panofsky arriva a dimostrare il ruolo combinato della rappresentazione e dell’espressione nell’esperienza percettiva. L’opera d’arte, considerata individualmente o in relazione con altre immagini, è il risultato di un’interazione fra le categorie generali della rappresentazione e la Seele individuale. Gli artisti, sostiene Panofsky, ognuno dando voce alla propria psiche, determinano comunque categorie stilistiche generali. Insomma:

 

l’esigenza espressiva dell’artista, […] si manifesta sì in forme generali ma anche queste ultime […] derivano da […] una volontà di forma che in certo modo è immanente a tutta un’epoca e che si fonda su un atteggiamento fondamentale identico dello spirito, non dell’occhio[27].

 

Al contrario di Wölfflin, dunque, per Panofsky, per usare una terminologia che si pone in linea con la critica kantiana, la singola opera d’arte e l’arte di un periodo sembrano affini come manifestazioni di una volontà aprioristica di forma e di espressione[28]. È in questo senso quindi che per il non vedente nella prassi di apprendimento dell’opera d’arte la percezione della forma può avvenire, in una prima fase, proprio attraverso la «denominazione dei soggetti primari, [l’]apprezzamento dei valori comunicativi delle forme, l’individuazione di geometrie nascoste e tipologie stilistiche»[29]. E, come accade per la relazione fra occhio e psiche, le categorie generali di Wölfflin ottengono pieno valore solo quando sono poste in relazione con forme reali e particolari. Per Panofsky questa relazione crea e allo stesso tempo spiega il problema dello stile: se la relazione dell’occhio con la Seele sembra essenziale per attivare la categoria dello stile e per fornirla di valore analitico ed euristico, allora questa reale interazione sarebbe anche responsabile della molteplicià e dell’eterogenità della forma individuale.
Lungi comunque dall’offrire un completo ragionamento sulle categorie di Wölfflin, Panofsky conclude il suo saggio asserendo che una spiegazione esaustiva non è in ogni caso possibile perché la causalità non può essere sempre determinata. Tuttavia, continua, anche «se la conoscenza scientifica non è in grado di rilevare le cause storiche e psicologiche delle forme generali della raffigurazione artistica, a maggior ragione il suo compito dovrebbe essere quello di indagare il suo senso (Sinn) metastorico e metapsicologico, cioè di chiedersi che cosa significhi il fatto che un’epoca raffigura in modo lineare o pittorico, in superficie o in profondità. Ma la scienza dell’arte si alienerebbe la possibilità stessa di porre queste domande, che sono infinitamente feconde, se, invece di concepire i grandi fenomeni rappresentativi come imponenti manifestazioni dello spirito (Geistes), volesse per così dire determinarli mediante leggi naturali e se volesse vedere in essi modalità della visione che non sarebbero più in alcun modo interpretabili»[30]. L’individuazione del significato convenzionale e culturale insieme all’individuazione del tema costituisce un ulteriore passaggio della lettura dell’opera.

Operare come un teorico della conoscenza, permette inoltre a Panofsky di assumere il ruolo di interprete. Da questo punto di osservazione egli è in grado di considerare (vedere) ciò che sta nell’oggetto e allora «un gesto involontario, privo di qualsiasi proposito espressivo può essere espressivo»[31]. Convalidando il ruolo dell’interprete contemporaneo delle opere d’arte di uno stesso artista, o registrando le reazioni estetiche ai vari lavori dei diversi artisti contemporanei, Panofsky si avvia a determinare la sostanza e la funzione dei concetti fondamentali della Storia dell’arte: la determinazione di categorie interpretative; la ricerca dei principi che regolamentano il rapporto tra l’opera e il suo contesto, soltanto per citarne qualcuno[32]. Procede nell’intento, quindi, di determinare le basi teoriche e filosofiche per l’analisi dell’opera e per la sua comprensione  fenomenica attraverso il confronto con la figura di Alois Riegl.

Secondo Panofsky: «il più importante rappresentante della vera filosofia dell’arte può essere considerato Alois Riegl»; è stato lui ad essere «andato più lontano nella determinazione e nell’applicazione dei concetti fondamentali […]: se lo stesso concetto di volere artistico (Kunstwollen) è stato coniato da lui, egli ha scoperto alcune categorie che sono in larga misura adatte a definirlo […].
I suoi concetti di “ottico” e di “tattile” […] mirano già […] a chiarire un senso che è immanente ai fenomeni artistici»[33]. Il concetto di Kunstwollen, allora teorizzato da Riegl nell’opera Stilfragen [34], trova una probabile definizione nell’«impulso, tendenza formale impersonale che orienta l’insieme della produzione artistica delle differenti epoche storiche»[35], una sorta di volere genetico, una necessità intima che, insieme, genera e condiziona opera e stile. La volontà artistica interiore, quindi, si fa artefice del progredire stilistico attraverso i  tempi, racchiudendo in sé non soltanto l’atteggiamento spirituale di un’epoca ma anche gli intenti più profondi dell’artista.

Nello scritto del 1920 intitolato Der Begriff der Kunstwollen, Panofsky continua la sua riflessione sulle problematiche metodologiche della scienza dell’arte.

Sebbene il saggio sia anteriore al periodo amburghese, possiamo sicuramente allinearlo agli scritti teorici che seguiranno e che costituiranno le basi teoriche del suo pensiero, anche dopo l’emigrazione negli Stati Uniti. L’inizio dell’opera ci introduce subito lungo una delle principali linee di riflessione  dei primi saggi teorici di Panofsky:

 

Il fatto che gli oggetti artistici affaccino di necessità la pretesa di venir considerati in modo che non sia semplicemente storico, costituisce la maledizione e insieme la fortuna della scienza dell’arte. Una considerazione puramente storica, sia che proceda rifacendosi esclusivamente al contenuto o alla storia della forma, spiega il fenomeno opera d’arte solo a partire dalla relazione di quest’ultimo con altri fenomeni e non da una fonte di conoscenza di ordine superiore: risalire dal punto di vista iconografico alle fonti di una determinata raffigurazione, far derivare un determinato complesso di forme dalla storia dei tipi oppure da determinati influssi, spiegare la realizzazione artistica di un certo maestro nell’ambito della sua epoca oppure sub specie del suo carattere individuale, tutto ciò significa mettere i fenomeni in relazione l’uno con l’altro, nell’ambito del grande complesso globale dei fenomeni che vanno indagati, e non determinare la loro posizione e il loro significato da un punto d’Archimede fissato al di fuori della loro cerchia d’essere[36].

 

Panofsky ci avverte subito che la Storia dell’arte dovrebbe riferire i propri studi anche ad una «conoscenza di ordine superiore», piuttosto che rifarsi solamente ad una «conoscenza di ordine storico». Determinare la posizione e il significato di un fenomeno d’arte non può prescindere da un’indagine dei fattori esterni ad essa, occorre infatti un’analisi di diversi fenomeni relazionati tra loro, nell’ambito dell’intero complesso dei fenomeni che vanno indagati. Teorizzare di una certezza fondata esclusivamente sull’apporto informativo della fonte, per esempio, sarebbe come generare un postulato privo di conferme oggettive.

Nel saggio, Panofsky sottolinea anche come le opere d’arte fossero ancora tradizionalmente analizzate in relazione alla loro collocazione (ruolo) all’interno di differenti griglie formali ed iconografiche. Lo studioso è ben consapevole che queste classificazioni analizzavano i fenomeni artistici prescindendo dall’opera d’arte in quanto fenomeno intellegibile in sé, osservando che «non basta spiegare un’opera d’arte [come fa Wölfflin] rifacendosi ad altre opere d’arte, oppure ad altri eventi accaduti nella stessa epoca […]: come filosofi dobbiamo prima di tutto fissare alcuni principi interpretativi che ci mettano in grado di guardare all’opera d’arte nel suo valore intrinseco»[37]. Tali principi, come osserva la Neher, ci forniranno quello che Panofsky definisce un punto d’Archimede, cioè «uno spunto di spiegazione che fonderà la Storia dell’arte e che darà alle nostre intuizioni un’urgenza che va oltre l’opinione contingente e il fatto raccolto»[38]« per indicare, così come scrive Ann Michael Holly, il modo in cui le parole possono essere in grado di esprimere la potenza ontologica di una singola rappresentazione visiva»[39].

Fino ad ora risulta evidente rileggendo i saggi giovanili di Erwin Panofsky quanto il Nostro ricerchi una conciliazione fra l’approccio formale e quello contenutistico all’opera d’arte soprattutto dal momento in cui si avvicina alla figura di Aby Warburg[40].

«Si può affermare, che l’attività di Warburg ha mostrato alla storia dell’arte, per parlare alla Dürer, un neu Künigreich (nuovo regno) e l’ha dotata dei mezzi per conquistarlo». Così scrive Panofsky nel necrologio di Aby Warburg, che venne pubblicato in “Hamburger Fremdenblatt”[41] il 28 ottobre 1929, due giorni dopo la scomparsa dell’amato maestro.

Da qui si può partire per comprendere quanto fondamentale, secondo Panofsky, sia stato il contributo di Warburg alla storia dell’arte, quanto peso abbia avuto l’influenza dello studioso nella sua stessa opera e quanto incisivo sia stato il suo apporto per lo sviluppo di un approccio contestuale all’opera d’arte. L’indagine storico artistica di Warburg, infatti, propende per una conoscenza contenutistica ed iconografica dell’opera d’arte.

I suoi scritti, pubblicati per intero nel 1932, possono considerarsi tra i massimi contributi del tempo agli studi sulla pittura rinascimentale[42].

Già nei primi saggi[43] Warburg lascia trasparire in modo evidente il suo metodo innovatore: l’attenzione all’ermetismo, alla commistione di diverse culture lo conducono  a considerare la propria ricerca come un «percorso di ricostruzione organica della creazione artistica»[44].

L’immagine nell’opera d’arte è per lui principalmente un aiuto per l’espressione di una memoria sociale. L’immagine doveva essere considerata nel suo rapporto con la religione e con i suoi riti, con la poesia, e cioè legata ad un concetto di cultura inteso come un tutto, come un insieme articolato e inscindibile.

La frequentazione di Warburg[45], durata circa un decennio, influenzerà gli interessi di Panofsky verso nuovi e più ampi campi di ricerca.

Nel necrologio, egli sottolinea «l’attenzione assoluta per i dettagli apparentemente meno significanti, nell’indagine dei quali [Warburg] scorse sempre la premessa di ogni conoscenza e la volontà (o meglio necessità) di considerare la storia della cultura umana come una storia delle passioni umane, che nella loro orrida semplicità […] rimangono costantemente uguali in uno strato dell’esistenza solo in apparenza celato dalla civilizzazione e – che proprio per questo – lo spirito, che conferisce la forma, deve contemporaneamente manifestare e domare con creazioni culturali»[46].

Ancora: gli scritti redatti tra gli anni Venti e Trenta da Panofsky, risentono fortemente delle letture e della frequentazione dell’ambiente che si sviluppa intorno all’istituto Warburg, fondato nel 1922 e costantemente in collaborazione con le attività del Kunstistorisches Seminar[47]47.

L’attenzione del pensiero panofskyano trova una nuova direzione: l’analisi non è più soltanto prettamente formale, ma scandaglia i motivi che originano l’opera, i riflessi culturali che la rendono manifestazione di un significato espresso.

L’ interpretazione di Warburg rappresenta, quindi, per Panofsky, una chiave di volta utile alla trasformazione della storia dell’arte in una disciplina in cui l’origine dello stile venga considerato come il risultato di un insieme di condizioni che abbracciano ogni aspetto dell’esperienza umana e costituisce la base per la lettura iconologica panofskiana. «Warburg – continua Panofsky – dovette provare a comprendere storicamente non solo la letteratura e la teoria dell’arte, ma anche il culto, la lingua, la filosofia, la matematica e le scienze naturali, in breve, la somma di quello, che Ernst Cassirer tenterà di fondare sistematicamente come mondo della “forma simbolica”»[48].

Cassirer e Panofsky furono colleghi all’università di Amburgo e al Warburg Institute fin dagli inizi degli anni Venti.

Per anni Panofsky si recò a seguire le sue lezioni e un vivace e fertile scambio di pensiero caratterizzò la loro amicizia.

Cassirer appare come attento interprete neokantiano fin dalle sue prime pubblicazioni[49]. Ad Amburgo, negli anni Venti, si dedicherà alla sua monumentale opera Die Philosophie der Symbolischen Formen (1923-1929)[50] . Come già dal titolo si può dedurre, punto centrale della filosofia di Cassirer è il simbolo[51]. Le forme simboliche – la lingua, il pensiero, l’arte e così via – sono il mezzo attraverso cui si estrinseca la realtà. Egli investiga «ogni tipo di sforzo umano senza distinzione, poichè ognuno di essi include, nella sua struttura, le forme simboliche di cui lo spirito fa uso per comprendere la realtà»[52] e, ancora, sviluppa i percorsi e le ramificazioni delle forme, mostrando come uno stesso concetto assuma un diverso significato in base ai differenti sistemi filosofici in cui esso trova applicazione come elemento costruttivo.

La teoria di Panofsky sulla Storia dell’arte rispecchia fin da subito ciò che egli aveva imparato da Cassirer. Diverse saranno le tematiche che consolideranno il loro sodalizio intellettuale: i comuni interessi per il neoplatonismo[53]; l’adesione al programma critico kantiano; l’idea che i contributi culturali umani debbano essere compresi nelle loro strutture di fondo, per poterli confrontare in tutte le loro diverse manifestazioni[54]. I riflessi della teoria cassireriana costituiranno per Panofsky un fondamento filosofico che caratterizzerà l’interpretazione dell’aspetto tematico - oggettivo[55] dell’arte e saranno palesati in uno dei suoi saggi teorici più fortunati e conosciuti: mi riferisco al saggio sulla prospettiva[56].

La prospettiva come “forma simbolica” è uno dei saggi più famosi e significativi tra quelli riguardanti gli anni amburghesi nel quale la tesi principale esposta da Panofsky è che la prospettiva lineare non è il solo e naturale modo di rappresentare lo spazio tridimensionale pittorico, ma anche una convenzione appropriata all’esperienza occidentale dello spazio. Egli è ben consapevole del fatto che ci siano stati altri metodi di rappresentazione che hanno cercato di catturare aspetti della visione trascurati nella prospettiva lineare, osserva, però, che il modo in cui lo spazio è organizzato nelle opere d’arte corrisponde alla comprensione teorica dello spazio nel periodo preso in considerazione. I fuochi della considerazione di Panofsky sono l’Antichità e il Rinascimento.

È ben nota la sua dimostrazione che gli antichi erano consapevoli delle curvature prospettiche cui può essere soggetta l’esperienza visiva basandosi anche su diversi testi filosofici e teoretici, come quello sull’ottica di Euclide[57].

Periodo dopo periodo, Panofsky mette in rapporto il trattamento artistico delle relazioni spaziali, particolari varianti di prospettive realizzate dagli artisti di una determinata era, con le tendenze filosofiche e scientifiche.

Nella forma simbolica si condensano sintomi e problematiche scientifiche, politiche, religiose ed economiche del periodo che ha prodotto l’opera d’arte. Si solleva, quindi la possibilità che culture differenti abbiano inteso il mondo intorno a loro in modi differenti. Ecco perché «diviene essenziale per le varie epoche e province dell’arte chiedersi non soltanto se conoscano la  prospettiva, ma di quale prospettiva si tratti»[58].

La spiegazione di Panofsky dello sviluppo dello spazio pittorico è posto in uno schema di sviluppo che termina con il Rinascimento e che inaugura la moderna concezione matematica dello spazio inteso come luogo infinito e omogeneo[59]. Si ritiene che si potrebbe perfino comparare la funzione della prospettiva rinascimentale, continua Panofsky, con quella della filosofia critica[60].

Nell’ultima parte del saggio, Panofsky tenta una riconciliazione in modi diversi fra i principi interpretativi delle parti precedenti e alcune questioni – quelle relative alla forma e al contenuto – trattate nei suoi primi contributi teorici. Questa parte, poi, trova una sua naturale prosecuzione nel manifesto teoretico del 1925,  il saggio intitolato Sul rapporto tra la storia dell’arte e la teoria dell’arte in cui si ritrova un’esposizione più ampia degli schemi neo-kantiani già trattati nei saggi precedenti. Prosegue dunque da parte di Panofsky la teorizzazione di una nuova metodologia critica della Storia dell’arte: ovvero ciò che può essere considerato uno dei principali apporti panofskiani alla tradizione del metodo tedesco.

Nei cinque anni che separano questo saggio dal “concetto di Kunstwollen” c’è stato, nella concezione panofskiana, un mutamento del modo di intendere e costruire i fondamenti della Storia dell’arte (Grundbegriffe). L’occasione per il cambiamento è data dal contatto con Edgard Wind, di cui Panofsky e Cassirer all’università di Amburgo avevano esaminato la tesi di dottorato. Gli interessi di Panofsky per il significato intrinseco, per la coerenza e l’antitesi della coppia obiettivismo/soggettivismo, mutuati da Riegl[61], sono sempre presenti. Quest’ultimo riferimento, però, subisce una riformulazione, diventando antitesi ontologica fra “plenum” e “forma” (Fülle und Form), antitesi considerata dallo studioso la categoria fondamentale della realizzazione artistica[62]. Plenum e forma costituiscono i due poli entro cui le singole opere d’arte possono essere situate, «l’incontro tra percezione indiscriminata e capacità di organizzazione dei dati sensibili»[63]. Tutto ciò che è un’opera d’arte, realizza una risoluzione in plenum e forma[64], cercando di fornire le categorie che regolamentano il processo artistico, producendo un ulteriore spunto fondamentale utile al tentativo di analisi sistematica del prodotto dell’arte.

Questo breve percorso espositivo su Erwin Panofsky – muovendosi attraverso i suoi scritti, teorico-metodologici – ha voluto evidenziare le linee del pensiero critico di uno dei più esimi studiosi di storia dell’arte che, prima di altri, ha applicato i suoi sforzi nella continua ricerca dei motivi oggettivi dominanti il prodotto artistico e il suo significato, non limitandosi esclusivamente all’esame della forma pura. Panofsky infatti, come abbiamo visto, considera la caratteristica e l’interpretazione della forma tanto necessaria quanto di pari livello per un apprezzamento completo dell’opera d’arte, perché essa è «eine unlöslich verschränkte Einheit seiner Elemente Form, Idee (Motiv und Bedeutung) und Gehalt ist» [un’indissolubile, intrecciata unità dei suoi elementi: forma, idea (Motivo e Significato), e contenuto][65].

Gli scritti sin qui citati vanno intesi allora come i presupposti epistemologici all’approccio panofskyano alla storia dell’arte, la genesi tematica e teoretica di quel metodo iconologico che sarà poi teorizzato nel periodo americano e che offre i presupposti per un lettura dell’opera in cui caratteristiche strutturali, estetiche e stilistiche diventano comprensibili e interpretabili per il vedente e per il non vedente.

E se è vero che l’approccio iconologico verrà coerentemente sistematizzato solamente nel 1939[66], è vero anche che i fondamenti necessari alla sua teorizzazione vanno ricercati proprio nei lavori degli anni amburghesi, primo fra tutti quel Zum Problem der Beschreibung  und Inhaltsdeutung von Werken der bildenden Kunst  pubblicato nel 1932 e ritenuto uno dei più importanti scritti dell’ultimo periodo tedesco[67].

Questo testo rappresenta il momento culminante dell’elaborazione critica che sfocierà nella formulazione del metodo tripartito iconologico.

Per arrivarci Panofsky prende le mosse dalla questione essenziale che riguarda la pura descrizione di un’opera d’arte. Essa, afferma ancora il teorico, va necessariamente compiuta non soltanto sulla base delle percezioni immediate dell’oggetto ma tenendo presente «il sapere concernente i principi generali di raffigurazione»[68], sfruttando quindi, una conoscenza stilistica che esclusivamente un esame storico può produrre.

Allora una descrizione che si limitasse unicamente all’apprezzamento formale descriverebbe il prodotto artistico come elemento di una creazione completamente privo di ogni senso. Ogni descrizione, nota allora Panofsky, deve trasformare gli elementi costitutivi dell’opera d’arte in simboli «di qualcosa di raffigurato». Riconoscendo il carico di valori significativi che muove la creazione artistica.

Atteso questo, l’oggetto della descrizione non può più essere soltanto la forma ma unitamente ad essa il senso della forma. Senso che appartiene alla regione che il Nostro definisce “anteriore”. Una regione in cui resiste l’immediata esperienza esistenziale, le informazioni immediatamente accessibili perché conosciute, poiché secondo le parole di Panofsky, “culturalmente consaputo”. Se così non fosse, citando ancora un esempio inserito nel saggio, «un uomo che non avesse mai sentito parlare del contenuto dei Vangeli, riterrebbe probabilmente la Cena di Leonardo la rappresentazione di un gruppo di commensali piuttosto agitati che fossero in disaccordo su una faccenda di denaro»[69].

Esiste allora un primo strato “primario”, che Panofsky definisce “regione del senso fenomenico”, intuibile attraverso l’esperienza esistenziale, e uno strato secondario – la “regione del senso del significato” – cui possiamo pervenire soltanto in base ad un sapere tramandato per “via letteraria”. Pertanto, senza precedenti conoscenze letterarie non potremmo comprendere ciò che intendesse rappresentare Leonardo nel senso del significato. Potremmo invece soltanto descriverlo limitandoci esclusivamente, e sottolinea Panofsky “grezzamente”, a ciò che salta subito all’occhio.

È chiaro, dunque, come la relazione tra i dati della raffigurazione e le rappresentazioni dell’esperienza sia il risultato di una familiarità con i principi generali della raffigurazione che permettono poi la realizzazione dell’opera. Cioè, come nota il teorico, con la “conoscenza dello stile” raggiungibile soltanto attraverso una penetrazione della situazione “storica”. Per dirla con Panofsky, insomma, «un’opera d’arte estranea, per tempo o per genere, a colui che vuole descriverla, prima di poter essere descritta, deve venire articolata nella storia dello stile»[70]. Intesa così, dunque, la descrizione di un’opera d’arte si trasforma in un’interpretazione che fa diretto riferimento alla storia della raffigurazione. E all’intuizione descrittiva nel senso del fenomeno si affianca l’intuizione iconografica nel senso del significato.

E se per il senso del fenomeno era determinante la conoscenza dello stile, per il senso del significato ciò che risulta essenziale è la “conoscenza dei tipi”. E con quest’ultima espressione, “i tipi”, Panofsky, intende «una raffigurazione in cui un senso fenomenico determinato si è così saldamente fuso con un determinato senso del significato da diventare tradizionalmente il veicolo di quest’ultimo»[71]. La conoscenza dei tipi, inerisce, allora, a quel bagaglio di fonti che rimanda alle informazioni vive nella “coscienza del tempo”. La storia dei tipi, pertanto, ci permette di selezionare quale, tra due testi probabilmente adatto all’interpretazione dell’opera, sia in realtà quello che meglio realizza il senso del suo significato. In una diversa sezione del saggio, infine, Panofsky, rimandando alle proposizioni di Heidegger e alle sue considerazioni sul pensiero kantiano[72], arriva all’espressione di un concetto che egli definisce l’«essenza dell’interpretazione». Muovendosi, infatti, dal concetto generale desunto da Heidegger per cui «di qualsiasi conoscenza filosofica ciò che conta non è ciò che essa dice nella proposizione che enuncia, bensì ciò che di non detto essa propone attraverso ciò che essa dice»[73], e adattandolo al campo della descrizione artistica, Panofsky, ricava l’assunto per cui una descrizione deve necessariamente superare lo stadio iniziale della considerazione per valutare quello più complesso dell’interpretazione.

Esiste però, nell’ambito “pericoloso” dell’interpretazione il rischio per nulla secondario di incorrere in una descrizione falsata. Ancora citando Heidegger, allora, il Nostro trova, nella limitazione dell’arbitrio, il limite a qualsiasi attività interpretativa.

La fonte dell’interpretazione, dunque, deve essere sempre costituita dalla facoltà conoscitiva e dal patrimonio conoscitivo del soggetto che compie l’interpretazione, cioè dalla nostra esperienza esistenziale di vita, quando occorre scoprire semplicemente il senso del fenomeno, dal nostro sapere letterario quando si tratta del senso del significato[74].

Sarà pertanto la storia di ciò che ci è stato tramandato a delimitare il campo delle possibilità interpretative di un opera d’arte.

E se poi la corretta interpretazione arriva a superare lo strato costituito dal senso del significato, ecco allora che essa si eleva fino a raggiungere quella regione alta che Panofsky definisce la «regione del “senso del documento” ovvero la “regione del senso dell’‘essenza’»[75]. Così, raggiungendo il suo senso più profondo e sublime, ogni manifestazione d’arte, superando il suo senso fenomenico o di significato, raggiunge un contenuto ultimo “essenziale”, «l’involontaria e inconscia», per dirla con le parole del Nostro, «autorivelazione di un’atteggiamento di fondo verso il mondo»[76].

Da ciò segue, naturalmente, che il compito dell’interpretazione sia quello di affondare nello strato ultimo del «senso essenziale». Solo così essa potrà disvelarne il senso profondo, cogliendo la pienezza della sua emanazione come testimonianza elevata del «senso unitario della concezione del mondo»[77].

Il senso essenziale, o significato intrinseco o simbolico di un’immagine dotata di valore estetico, come abbiamo visto, è quindi il punto di arrivo di un percorso conoscitivo e permette l’integrazione di persone che attraverso l’arte, intesa come scienza o come storia delle idee, possono così percepire e interpretare ciò che non vedono.

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TTutte le immagini sono state gentilmente concesse dal Museo Tattile di pittura Antica e Moderna “Anteros” di Bologna, ad eccezione di quelle delle pp. 145 e 154 (Copyright ©2011 Institute for Advanced Study, Princeton)


[1]  Cfr. C. Cieri Via, Nei dettagli nascosto. Per una storia del pensiero iconologico, Carocci, Roma 20092.

[2]  Cfr. L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione, Carocci, Roma 2004. Per un approfondimento sull’istituto e il museo si consiglia la consultazione del sito www.cavazza.it.

[3]  L’opera completa di Panofsky, che comprende i primi scritti teorici, quella svolta ad Amburgo tra il 1921 e il 1933 e quella successiva del periodo statunitense – quest’ultima redatta quasi esclusivamente in lingua inglese –, comprende diciassette libri e circa centocinquanta articoli. All’interno della monumentale opera panofskiana possiamo distinguere tre grandi linee: gli scritti nei quali prevale la ricerca storico-artistica, quelli dedicati alla teoria dell’arte e quelli riguardanti la metodologia. La principale fonte bibliografica in lingua italiana sulle opere di Panofsky, è reperibile in E. Panofsky, Studi di Iconologia, I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 1975, pp. 349-370, alla quale rimanda anche Gian Carlo Sciolla in G.C. Sciolla, La critica d’arte del novecento, Utet, Torino 1995, p. 145. La fonte bibliografica in lingua tedesca, invece, è quella in E. Panofsky, Sinn und Deutung in der bildenden Kunst, a cura di R. Heidt, DuMont, Köln 1996, pp. 477-491. 

[4]  E. Panofsky, Meaning in the Visual Arts, New York 1955 (trad. it. Il significato nelle arti visive, Torino 1996). Il testo era già apparso come introduzione al saggio Studies in Iconology del 1939. Cfr. E. Panofsky, Studies in Iconology, Oxford University Press, New York 1939 (trad.it. Studi di Iconologia, Einaudi, Torino 1975, pp. 3-38). Cfr. C. Cieri Via, Nei dettagli nascosto…, pp. 181-199. 

[5]  E. Panofsky, Il significato nelle arti visive…, p. 31.

[6]  Cfr. C. Cieri Via, Nei dettagli nascosto…, p. 17. 

[7]  A questo proposito aggiunge la Secchi: « La conoscenza della pittura nelle persone non vedenti rafforza i processi immaginativi e aiuta la comprensione del mondo della rappresentazione grafica e plastica. Inoltre il rapporto con il valore estetico dell’immagine predispone alla pratica dell’interpretazione determinata dalla conoscenza sensoriale e intellettuale dell’immagine e permette la condivisione di codici linguistici, semantici e tecnici che hanno il pregio di arricchire la comunicazione e l’integrazione tra persone vedenti e non vedenti». L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione…, p. 63.

Per una esaustiva e completa bibliografia sulla percezione dei non vedenti rimando a L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione…, pp. 167-173. Per un’introduzione agli aspetti teoretici pedagogici dell’educazione estetica ed un panorama delle iniziative rivolte ai non vedenti nell’ambito dei beni culturali in Italia e in Europa cfr. AA. VV. L’arte a portata di mano. Verso una pedagogia di accesso ai Beni Culturali senza barriere, Atti del convegno, Portonovo di Ancona 21 – 23 ottobre 2004, Armando editore, Roma 2006.

[8]  Il bassorilievo prospettico ha origini nel Rinascimento fiorentino e la sua particolarità è la presenza del sottosquadro, cioè di «profili staccati dal piano di posa, corrispondenti alle qualità estetiche del disegno, delle linee di contorno e dei volumi dei corpi. Per questa ragione, spiega la Secchi, il bassorilievo tecnico mutua le regole della rappresentazione dalla pittura prospettica quattrocentesca e le traduce in valori tattili. (…) Le ragioni per le quali si è ritenuto opportuno tradurre la pittura in bassorilievo, a uso delle persone disabili della vista, sono le seguenti: la pittura prima d’ora era stata avvicinata dalle persone non vedenti solo mediante descrizioni verbali supportate dall’esplorazione tattile di disegni a rilievo e ciò non facilitava l’acquisizione, percettiva e cognitiva, dei concetti di scorcio, spazio prospettico, relazione spazio-temporale tra elementi, contorno, volume, superficie, valore espressivo ed estetico della forma. Tra disegni a rilievo e bassorilievi vi è però una significativa complementarietà». Ibid. p. 64. Sulla realizzazione del bassorilievo tecnico si veda L. Secchi, P. Gualandi, Logiche di ideazione e realizzazione della pittura tridimensionale per una didattica speciale delle arti, in AA. VV. L’arte a portata di mano. Verso una pedagogia di accesso ai Beni Culturali senza barriere…, 2006, pp. 235-245 e L. Secchi, P. Gualandi, Tecniche di rappresentazione plastica della realtà visiva, in Toccare l’arte. L’educazione estetica di ipovedenti e non vedenti, a cura di A. Bellini, Armando, Roma 2000. Infine sull’uso descrittivo, informativo e colmativo della parola cfr. L. Secchi, Tra sensi e intelletto. Cecità e forza dello sguardo interiore, in “L’integrazione scolastica e sociale”, edizioni Erikson, v. 7, n. 3, giugno 2008.

[9]  Cfr. L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione…, 2004, pp. 63-66.

[10] Questo primo livello di analisi individua «soggetti primari e avviene attraverso percezione tattile e ottica (in caso di uso del residuo visivo)». Cfr L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione…, 2004, p. 63; R. Arnheim, Aspetti percettivi dell’arte per i ciechi, in Per la salvezza dell’arte, Feltrinelli, Milano 1994;. R. L. Gregory, Occhio e cervello. La psicologia del vedere, Il Saggiatore, 1966 Milano; Y. Hatwell, Elaborazione dei dati spaziali e sviluppo cognitivo dei non vedenti, in AA.VV., Vedere con la mente: conoscenza, affettività, adattamento nei non vedenti, a cura di D. Galati, Franco Angeli, Milano 1992.

[11] In questo passaggio si arriva all’individuazione del tema e del suo significato convenzionale. Cfr. L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione…, 2004, p. 74.

[12] Ibid., p. 72. In questo terzo livello, conclude la Secchi, «si cerca il significato intrinseco, simbolico ed estensibile, dell’immagine. Nel confronto tra opere di medesimo tema iconografico, appartenenti ad epoche e artisti diversi, si svela la costante risignificazione dei contenuti e delle forme». Ibid., p. 74.

[13] Cfr. G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento…, 1995, p. 132.

[14] L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione…, 2004, p. 73.

[15] Tra questi basti citare l’ espressione coniata da Otto Pächt, esponente della Nuova Scuola viennese, nel 1964 di “Storia dell’arte per ciechi” per definire gli indirizzi di studio iconologici.

[16] In una lettera a Erbert von Einem datata 1 aprile 1962, Panofsky afferma: «Con le mie ricerche mi sono proposto non tanto di produrre qualcosa di “originale”, ma piuttosto, e per quanto hanno potuto le mie forze, di salvare per il XX secolo il più possibile della tradizione del XIX (Vöge, Riegl, Goldschmidt, Warburg, perfino un po’ di Friedländer e di Wölfflin). Difatti, è importante che esistano degli eclettici nella scienza come nell’arte. Sono orgoglioso di aver imparato dagli studiosi di lingua tedesca e di essere considerato, non a torto, un rappresentante del metodo tedesco». H. Von Einem, Erwin Panofsky zum Gedänknis, in “Wallraf-Richartz-Jahrbuch”, XXX, 1968, pp. 362-367.

[17] H. Wöllflin, Das Problem des Stils in der bildenden Kunst, in Sitzungberichte der Königlichen Preussischen Akademie der Wissenschaften”, XXXI, 1912, p. 572 e sgg; l’intervento contiene già le idee che saranno sviluppate in Kunstgeschichtliche Grundbegriff nel 1915.

[18] E. Panofsky, Das Problem des Stils in der bildenden Kunst, in “Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft”, 10, 1915, pp. 460 467, trad. it., Il problema dello stile nelle arti figurative, in La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 145-156. Cfr. S. Tedesco, Il metodo e la storia, Aesthetica Preprint, Supplementa, Centro internazionale Studi di Estetica, Palermo 2006, pp. 13-33.

[19] H. Wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe: Das Problem der Stilentwicklung in der neueren Kunst, München 1915, trad. it., Concetti fondamentali della storia dell’arte, Longanesi, Milano 1953.

[20] H. Wölfflin, Renaissance und Barock, München 1888, trad. it. Rinascimento e Barocco. Ricerche intorno all’essenza e all’origine dello stile barocco in Italia, Vallecchi, Firenze 1928.

[21] Egli definisce infatti l’opera d’arte come una «storia delle forme che procede da una continuità interiore dell’evoluzione». H. lfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe: Das Problem der Stilentwicklung in der neueren Kunst, München 1915, trad. it., Concetti fondamentali della storia dell’arte, Longanesi, Milano 1984, p. 456. Cfr. A. M. Holly, Panofsky and the Foundations of Art History, Cornell University Press, Ithaca, NY 1984, trad it. Panofsky e i fondamenti della storia dell’arte, Jaca Book, Milano 1991, p. 38.

[22] G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento…, 1995, p. 127.

[23]  Cfr. ibid.

[24] E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica” …, p. 149.

[25] Ibid., p. 148. «Ma le cose stanno veramente così? Possiamo veramente dire che sia soltanto il diverso atteggiamento dell’occhio a promuovere ora uno stile pittorico, ora uno lineare, ora uno stile subordinante, ora uno coordinante? E anche se ci decidessimo ad esprimerci in questo modo, a chiamare cioè le possibilità della linearità, ecc. possibilità ottiche, e a definire ciò che determina la scelta di queste possibilità come un particolare atteggiamento dell’occhio, potremmo ancora considerare questo “occhio” come uno strumento organico e per nulla psicologico, e ritenere che sia possible distinguere di principio il suo rapporto col mondo dal rapporto complessivo dello spirito col mondo?».

[26] E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica” …, p. 146.

[27] Ibid., p. 155. 

[28] Panofsky parla di Ausdruckwillen (volontà espressiva) e Gestaltungswille (volontà di forma).

[29] L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione…, 2004, p. 74.

[30] E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica…, p. 155.

[31] 31 E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica” …, p. 156.

[32] In realtà Panofsky, durante tutto il suo percorso formativo e teorico, si confronterà sempre con la figura e la portata delle tesi elaborate da Wölfflin. In non pochi interventi riconosce l’unicità e l’importanza del teorico formalista e sottolinerà sempre il debito che la moderna disciplina della storia dell’arte ha nei suoi confronti. Il lavoro di Wölfflin, per esempio, su Albrecht Dürer: Die Kunst Albrecht Dürer, Bruckmann, Monaco 1905 - trad. it., Albrecht Dürer, Salerno, Roma 1987 – sarà un riferimento fondamentale e imprescindibile per alcuni scritti di Panofsky sull’artista; cfr. E. Panofsky, Dürers Stellung zur Antike, in “Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte”, I, pp. 43-92 (trad. it. Albrecht Dürer e l’antichità classica, in Il significato nelle arti visive, Einaudi Torino1996, pp. 227-76) e E. Panofsky, Dürers Darstellungen des Apollo und ihr Verhältnis zu Barbari, in “Jahrbuch der preussischen  Kunstsammlungen”, XLI, 1920, pp. 359-377. Arriverà persino a dedicargli uno scritto: Heinrich Wölfflin. Zu seinem 60. Geburtstage am 21. Juni 1924, in “Hamburger Fremdenblatt”, 21 giugno 1924. Ancora, negli scritti amburghesi, Wölfflin sarà un punto di confronto continuo e imprescindibile e sarà esplicitamente considerato fra i grandi teorici della Storia dell’arte di lingua tedesca, cfr.. E. Panofsky, Das erste Blatt aus dem «Libro» Giorgio Vasaris; eine Studie über die Beurteilung der Gotik in der italienischen Renaissance, mit einem Exkurs über zwei Fassadenprojekte Domenico Beccafumis, in “Städel-Jahrbuch”, VI, pp. 25-72; trad. it. La prima pagina del «Libro» di Giorgio Vasari, in Il significato nelle arti visive, Torino 1962, pp. 171-224..

 

[33]  E. Panofsky, Der Begriff des Kunstwollens, in “Zeitschrift für Ästhetik und Allgemeine Kunstwissenschaft”, XIV, pp. 321-39; trad. it. Il concetto del «Kunstwollen», in La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, Milano 1994, pp. 157-177, p. 159 e sgg. Sulla “tattilità dell’occhio” e sulla funzione informativa del tatto Alois Riegl ha lasciato osservazioni molto utili alla riflessione sul ruolo della tattilità nella teoria dell’arte tra XIX e XX secolo: «Nelle sue analisi sulle forme della visione e sul Kunstwollen (volontà artistica) troviamo costanti riferimenti alla visione da lontano e da vicino, oppure alla visione intermedia che permette di bilanciare il bidimensionalismo visivo con la ricostruzione intellettuale del volume attraverso l’evocazione della percezione tattile e la comprensione della plasticità dei corpi», cfr. L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione…, p. 49. «La vista – afferma Riegl in Grammatica storica delle arti figurative, la raccolta delle lezioni pubblicate dopo la sua morte nel 1966 – non può penetrare le cose: vede sempre e solamente quella superficie delle cose che è rivolta verso chi guarda. Cioè l’occhio non vede una forma tridimensionale, ma una superficie bidimensionale: vede solo l’altezza e la larghezza, non la profondità. Abbiamo bisogno di un altro senso per convincerci dell’esistenza della profondità, cioè il tatto. La vista rivela solo l’esistenza della profondità, ma solamente il tatto può accertarsi della sua forma». Ibidem . Cfr. A. Riegl, Historische Grammatik der bildenden Künste, tr. it. Grammatica storica delle arti figurative, Cappelli, Bologna 1983, pp. 360-61. Cfr. A. Von Hildebrand, Il problema della forma nelle arti figurative, Andrea Pinotti e Fabrizio Scrivano, a cura di, Aesthetica, Palermo 2001. Cfr. M. Mazzocut-Mis, Voyerismo tattile. Un’estetica dei valori tattili e visivi, Il Melangolo, Genova 2002.

[34] A. Riegl, Stilfragen, Siemens, Berlin 1893; trad. it. Problemi di stile, Feltrinelli, Milano 1963.

[35] D. Arasse, Note sur Alois Riegl et la notion de”volonté d’art”(Kunstwollen), in “Scolies. Cahiers de recherches de l’Ecole Normale Supérieure”, 2, 1972, pp. 123-32, come sottolineato da G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento…, pag 16

[36] E. Panofsky, Der Begriff des Kunstwollens, in “Zeitschrift für Ästhetik und Allgemeine Kunstwissenschaft”, XIV, pp. 321-39. trad. it. Il concetto del «Kunstwollen», in La prospettiva come “forma simbolica”…, pp. 157-177, p. 157-158. Per punto di Archimede è generalmente riconosciuto quel principio di certezza che non trae origine dalle proprie percezioni. La definizione si vuole far risalire a Cartesio. «Non ci è noto come il termine “punto di vista archimedeo” sia divenuto un’espressione ricorrente nella teoria della storia dell’arte, ma sappiamo che W. Worringer già lo usò nel saggio del 1907 Abstraktion und Einfühlung. Cfr. A.M. Holly, Erwin Panofsky e i fondamenti della storia dell’arte,… 1984, p. 76.

[37] A. M. Holly, Panofsky e I fondamenti della storia dell’arte…, pp. 76-77. 

[38] Cfr. A. Neher, “The Concept of Kunstwollen”, neo-Kantianism, and Erwin Panofsky’early art theoretical essays, in “Word & Image”, vol. 20, 1, Taylor & Francis Ltd, Essex 2004, pp. 41-51. Panofsky dichiara che la fondazione della Storia dell’arte deve essere intesa in termini kantiani e rifacendosi, dunque, al pensiero del grande filosofo tedesco, indica la sua idea di  Kunstwollen: la Storia dell’arte dovrebbe iniziare un’indagine dentro ciò che può essere individuata come la categoria che equivale all’arte, cercando i “criteri di determinazione”, cogliendoli in base a concetti fondamentali, dedotti a priori, non attribuirli allo stesso fenomeno, ma alle condizioni della sua esistenza e del suo essere “così”. Panofsky crede fermamente che in tal modo si possa pervenire ad una comprensione delle basi dell’arte “parallela” alla conoscenza empirica formulata da Kant. A suo avviso i passi più importanti in questa direzione sono stati fatti da Riegl, che sebbene non riuscì mai a centrare l’argomento direttamente, ha dato la chiave di lettura con la quale cercare “le leggi inerenti che stanno sotto l’attività artistica”. Osserva infatti che Riegl «introdusse un concetto che […] doveva designare la somma o l’unità delle forze creative che in esse si esprimevano, che l’organizzavano sia formalmente sia contenutisticamente dall’interno: il concetto di “volere artistico” [Kunstwollen]»; cfr. E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”…, 1994, p. 159. Ancora, il concetto di Kunstwollen «definisce le caratteristiche fenomeniche dell’argomento in questione non in senso generale, come il concetto specifico scoperto per via astrattiva, ma mediante un concetto fondamentale, che riveli il senso - significato immanente e che riveli le radici più proprie dell’essenza del fenomeno»; «[…] il volere artistico non può essere altro che ciò che “sta” (non per noi, bensì obiettivamente) come un senso ultimo e definitivo nel fenomeno artistico». Ibid., p. 166. Ciò che abbiamo bisogno di fare nella Storia dell’arte, allora, è iniziare un’analisi critica o trascendentale dei nostri giudizi sull’arte, allo scopo di determinare il loro puro contenuto artistico. Panofsky non stava insinuando che il concetto di Kunstwollen potesse individuare tutte le categorie artistiche, ma credette che forse poteva fornirci quella centrale perché il Kunstwollen spiegava come gli elementi della struttura visiva fossero trasformati da processi interni e specifici all’arte, anche se inizialmente dipendono dalla relazione che la coscienza stabilisce col mondo.

[39] A. M. Holly, Panofsky e I fondamenti della storia dell’arte…, pp. 93.

[40] Cfr. T. Lancioni, Il senso e la forma. Il linguaggio delle immagini fra teoria dell’arte e semiotica, ed. Leonardo, Bologna 2000. Nel 1921 Panofsky viene nominato Privatdozent e posto alla guida del Kunsthistorisches Seminar di Amburo dove manterrà questa carica fino al 1926, anno in cui diventerà professore ordinario. Panofsky si dedicherà all’insegnamento fino al 1933 circondato dai colleghi Edgar Wind, Charles de Tolnay e manterrà stretti contatti con Fritz Saxl, Rudolf Wittkower e Gertrud Bing della Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg. Trascinatori indiscussi e figure cardine dell’ambiente amburghese - definito uno dei più vivaci centri della Germania prebellica - furono Aby Warburg e Ernst Cassirer, punti di riferimento fondamentali nell’evoluzione del pensiero panofskiano. 

[41] Riedito in E. Panofsky, A. Warburg, in “Repertorium für Kunstwissenschaft”, LI, 1930, pp. 1 - 4; trad. it. Aby Warburg in E. Panofsky, Imago pietatis e altri scritti del periodo amburghese (1921-1933)…, pp. 183-188.

[42] A. Warburg, Gesammelte Schriften, Die Erneuerung der heidnischen Antike. Kulturwissenschaftliche Beiträge zur europäischen Renaissance, Teubner, Leipzig- Berlin 1932; trad. it. La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, Nuova Italia, Firenze 1987, p. 248; cfr. nuova edizione: Id., Opere I-II. La rinascita del paganesimo antico e altri scritti, I (1889 – 1914); II (1917-1929), a cura di M. Ghelardi, Aragno, Torino 2004-07. Cfr. C. Cieri Via, Nei dettagli nascosto…, pp. 31-129.

[43] A. Warburg, Sandro Botticellis “Geburt der Venus” und “Frühlig”. Eine Untersuchung über die Vorstellungen von der Antike in der italienischen Frürenaissance, L. Voss, Hamburg-Leipzig 1893, tr. it. La “nascita di Venere” e la “Primavera”di Sandro Botticelli. Ricerche sulle immagini dell’antichità nel primo Rinascimento italiano, in  La rinascita del paganesimo antico, 1987, pp. 121 e sgg .

 

[44] L. Secchi, nota introduttiva a E. Panofsky, Imago Pietatis e altri scritti del periodo amburghese (1921-1933)…, 1998, p. 27.

[45] L’attività di Warburg del tutto legata alla fondazione ad Amburgo di un’originale biblioteca, fu costantemente rivolta alla ricerca comparata. «L’idea decisiva era che i libri nel loro insieme – ciascuno con la sua maggiore o minore quantità di informazione e ciascuno potenziato da quelli vicini- potessero guidare lo studente, attraverso i loro titoli, alla considerazione delle forze fondamentali dello spirito umano e della sua storia», cfr F. Saxl, The history of Warburg’s Library (1886/1944) redatto nel 1943, rimasto incompiuto, fu integrato da Gombrich: cfr. E. H. Gombrich, Aby Warburg: an Intellectual Biography, The Warburg Institute, London 1978, tr. it. Aby Warburg. Una vita intellettuale, Feltrinelli, Milano 1983. Cfr. A. M. Holly, Panofsky e I fondamenti della storia dell’arte …, p. 107.

[46] E. Panofsky, Imago pietatis e altri scritti del periodo amburghese (1921-1933)…, p. 184.

[47] Tra gli scritti sui motivi iconografici religiosi si segnala: Id., Das Braunschweiger Domkruzifix und das «Volto Santo» zu Lucca, in Festschrift für Adolph Goldschmidt zum 60. Geburtstag, Leipzig, pp. 37-44, trad. it. Il crocifisso del duomo di  Braunschweiger e il “volto Santo” di Lucca, in Id., Imago Pietatis e altri scritti del periodo amburghese, Il Segnalibro, Torino, 1998. Cfr. Id., Bemerkungen zu Dagobert Frey’s “Michelangelostudien”.., 1921, pp. 35-45. Cfr. E. Panofsky, F. Saxl, Dürers «Melanconia I»; eine quellen- und typengeschichtliche Untersuchung, Leipzig-Berlin 1923. Cfr. E. Panofsky, Dürers Stellung zur Antike, in “Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte”, I, 1921, pp. 43-92, trad. it. Albrecht Dürer e l’antichità classica…, pp. 227-76. Nel 1922 il saggio è stato pubblicato a Vienna. E. Panofsky, F. Saxl, A Late-Antique Religious Symbol in Works by Holbein and Titian, in “Burlington Magazine”, XLIX, 1926, pp. 177-181; ripubblicato in Meaning in the Visual Arts…; trad. it. L’ «Allegoria della prudenza» di Tiziano: poscritto, in Il significato nelle arti visive…, pp. 149-168. 

[48] E. Panofsky, Imago pietatis e altri scritti del periodo amburghese (1921-1933) …, p. 185.

[49] E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, I - III, Berlin 1906 - 1920; IV, Stuttgart 1957; trad.it., Storia della filosofia moderna, I: Il problema della conoscenza nella filosofia  e nella scienza dall’umanesimo alla scuola cartesiana; II: Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza da Bacone a Kant; III: Il problema della conoscenza nei sistemi postkantiani; IV: Il problema della conoscenza nei sistemi posthegeliani, Einaudi, Torino 1952, 53, 55, 58.

E. Cassirer, Kants leben und Lehre: Immanuel Kant Werke, Berlin 1918; trad.it. Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze 1977). 

[50] E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, 3 voll., Berlin 1923-1929; trad. it. Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze: vol.I: Il linguaggio, 1961, 1976; vol. II: Il pensiero mitico, 1964, 1977; vol III/ 1, III/ 2: Fenomenologia della conoscenza, 1966. Cfr. M. Van Vliet, a cura di, Ernst Cassirer et l’art comme forme symbolique, PU Rennes, Rennes 2010.

[51] Secondo la stessa definizione di Cassirer: «La filosofia delle forme simboliche non solo cerca le categorie della conoscenza dell’oggetto nella sfera teoretico - intellettuale, ma parte dal presupposto che simili categorie si debbano trovare ovunque, così che da un caos di impressioni si formi un cosmo, cioè una caratteristica e tipica “visione del mondo”». Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche…, 1923-1929, II, p. 43; cit. in A. M. Holly, Panofsky e i fondamenti della storia dell’arte…, 1991, p. 128.

[52] A. M. Holly, Panofsky e i fondamenti della storia dell’arte…, 1991, p. 132.

[53] E. Panofsky, Idea: Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie, G. B. Teubner, Leipzig - Berlin 1924, trad. it. Idea, Contributo alla storia dell’estetica, La nuova Italia, Firenze 1996. In questo saggio monografico Panofsky esamina l’evoluzione della nozione platonica d’idea dall’antichità a Bellori. Idea sviluppa in termini storici ciò che Cassirer aveva sostenuto durante una conferenza, tenutasi alla biblioteca Warburg, sulla dottrina platonica del bello in arte, pubblicato in E. Cassirer, Die Idee des Schönen in Platos Dialogen, in “Vorträge der Bibliothek Warburg”, II, Hamburg 1924. 

[54] R. Heidt Heller, Erwin Panofsky (1892- 1968), in Altmeister moderner Kunstgeschichte…, pp. 164-187.

[55] R. Heidt Heller, Erwin Panofsky (1892- 1968)…, 1999, p. 168. La Heidt utilizza per indicare il termine «oggettivo» l’aggettivo tedesco «gegeständlich». C’è una ben articolata distinzione nella lingua tedesca: mentre das Objekt, letteralmente, denota un oggetto nel mondo, das Gegenstand, nell’accezione filosofica, invece, implica la comprensione di un oggetto da parte della mente in modo che esso si manifesti come una ri - rappresentazione, o elemento per l’analisi.

[56] E. Panofsky, Die Perspektive als «simbolische Form», in “Vorträge der Bibliothek Warburg” 1924-25, Leipzig- Berlin 1927, pp. 258 – 330, trad. it. La prospettiva come “forma simbolica”, in La prospettiva come “forma simbolica”…, pp. 37-141.

[57] Ibid., pp. 46-54.

[58] Ibid., p. 50.

[59] «Così la grande evoluzione che da uno spazio di aggregati conduce a uno spazio sistematico giunge a una provvisoria conclusione; ma a sua volta questa conquista della prospettiva non è altro che una espressione concreta di ciò che contemporaneamente era stato scoperto dalla filosofia teoretica e dalla filosofia della natura. […] L’infinità in atto, che per Aristotele non era neppure concepibile e che per l’alta Scolastica lo era soltanto nella forma dell’onnipotenza divina, […], ha ormai assunto la forma della Natura naturata. […]. Nonostante l’afflato mistico, questa concezione dello spazio è già quella che più tardi verrà razionalizzata da Cartesio e formalizzata nella teoria kantiana». E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”…, pp. 70-71. 

[60] La prospettiva può essere concepita in termini kantiani sia perché essa è «come un consolidamento e una sistematizzazione del mondo esterno, sia come un ampliamento della sfera dell’io», ibid., p. 72.  Neher sottolinea nel suo articolo che i saggi panofskiani sulla prospettiva e sulle umane proporzioni presentano un punto di vista autorevole nei confronti del passato ed hanno un carattere espressamente ermeneutica; inoltre, la Neher ricorda che il fine dei due saggi non è normativo, come invece accade nel saggio sul Kunstvollen. Cfr. A. Neher “The Concept of Kunst wollen”…, 2004, p. 47.

 

[61] Cfr. E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” …, pp. 179 e sgg.

[62]  La prima formulazione dell’antitesi “plenum” “forma” va attribuita a Wind. Cfr. E. Wind, Zur Systematik der künstlerischen Probleme, in “Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft”, 18 (1924/1925), pp. 438-486.

[63] L. Secchi, L’educazione estetica per l’Integrazione…, 2004, p. 68.

[64] E. Panofsky, Über das Verhältnis der Kunstgeschichte zur Kunsttheorie, in “Zeitschrift für Ästhetik und Allgemeine Kunstwissenschaft”, pp. XVIII, pp. 129-61; trad. it. Sul rapporto tra la storia dell’arte e la teoria dell’arte, in La prospettiva come “forma simbolica” …, p. 181.

[65] R. Heidt Heller, Erwin Panofsky (1862 – 1968) in H. Dilly (a cura di), Altmeister moderner Kunstgeschichte…, pp. 164-187, p. 164.

[66] § n. 4.

[67] Precedente a questo testo è Hercules am Scheidewege und andere antike Bildstoffe in der neueren Kunst, (Ercole al bivio e altre antiche rappresentazioni nell’arte nuova, 1930), uno studio delle trasformazioni e propagazioni di un tema classico (Ercole al bivio) nell’arte medievale rinascimentale. Cfr. G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento…,  1995, pp. 131-132.

[68] E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” …, p. 216.

[69] E. Panofsky, ibid., p. 216.

[70]  Ibid., p. 220

[71] Ibid., p. 222

[72]  M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Longanesi, Milano, 1973

[73] E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” …, p. 224.

[74] Ibid., p. 226.

[75] Ibid, p. 227.

[76] Ibid., p. 228.

[77] Ibid. In ultima analisi, a conclusione di saggio Panofsky,  inserisce in Suna tavola sinottica gli elementi indispensabili per una piena e profonda interpretazione di ogni prodotto artistico.



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Temi di Critica - numero 3

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