teCLa :: Rivista #4

in questo numero contributi di Stefano Colonna, Edoardo Dotto, Giuseppe Pucci, Gabriele Scaramuzza, Alexander Auf Der Heyde Stefano Valeri Michele Dantini Clarissa Ricci..

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

La regola lo sguardo. La critica di Giuseppe Damiani Almeyda al libro dei cinque ordini d’architettura di Vignola di Edoardo Dotto

Nel 1878 l’architetto ed ingegnere Giuseppe Damiani Almeyda diede alle stampe un esile fascicolo di testo dal titolo Giacomo Barozzi da Vignola ed il suo libro dei cinque ordini d’architettura[1]. La pubblicazione, per i tipi dello stabilimento palermitano Giliberti, era la ristampa di un testo poco prima comparso sul giornale “Scuola e Famiglia”, una pubblicazione su cui Damiani altre volte aveva esposto, con le capacità espressive che lo caratterizzavano, le sue opinioni sui temi dell’educazione all’arte ed all’architettura[2].

Nel suo breve scritto Damiani sviluppa una netta critica nei confronti della Regola dei Cinque Ordini redatta da Vignola, pubblicata nel 1562, evidenziando energicamente i limiti cui ciascuno studente si espone nel fondare esclusivamente su di essa l’apprendimento del linguaggio classico dell’architettura. Secondo Damiani lo studio degli ordini compiuto attraverso la rilettura che Vignola ne aveva fornito ben tre secoli prima, nel costituire un sistema definito di forme e di proporzioni, piuttosto che stimolare lo studio “dal vero” dei monumenti greci e romani, rischiava di tradursi nell’acquisizione e nell’applicazione di formule stantie, quanto mai distanti dallo spirito e dall’esempio delle antichità, tanto che il volume era addirittura da «riguardarsi come pericoloso per la professione artistica»[3].

Altre volte Damiani aveva espresso il proprio parere su questo tema. Già l’anno prima, a proposito della recente eliminazione dai programmi ministeriali dello studio della Regola di Vignola, aveva scritto:

 

con molta precisione d’idee e profonda cognizione della materia si proscrive dalle scuole il Vignola, libro che, se fu e sarà sempre un grandissimo monumento di sapienza architettonica, messo in mani inesperte restringe il campo delle osservazioni, annulla lo studio dell’antico e riduce la composizione degli ordini ad una panacea di generale[4] .

 

Nella Storia dell’Arte Moderna Italiana avrebbe affermato che il «libro del Vignola fu rimedio insufficiente […] al tempo suo, ed un pericolo didascalico nei tempi posteriori»[5]. Nonostante qualche anno prima Giovanni Battista Filippo Basile[6] si fosse espresso in modo analogo sull’applicazione rigida delle regole proporzionali agli ordini di architettura, desunte pur faticosamente e con molte ambiguità dal superstite trattato di Vitruvio, quando fu formulata, l’obbiezione di Damiani nei confronti del testo di Vignola poteva apparire stridente rispetto all’uso consolidato che se ne faceva in campo didattico e professionale. Il volume era allora diffuso in modo capillare ed era un punto di riferimento per studenti, professionisti ed artigiani. Soltanto in Italia alla metà dell’Ottocento erano disponibili in commercio decine di rielaborazioni dell’opera di Vignola, talune di stesura recente, altre di origine settecentesca e regolarmente ristampate.

In queste pagine non si intende in alcun modo affrontare la fortuna critica dell’opera teorica di Vignola ma, dopo aver sottolineato la specificità del contenuto della Regola, si vuole esclusivamente tentare di chiarire la posizione critica di Damiani, mostrando come essa si rivolga più che alla sostanza degli argomenti del lavoro di Vignola, alle sue applicazioni superficiali, ai limiti che la sua assunzione dogmatica comportava, tenendo conto della connotazione paradossale che essa aveva assunto nel corso del tempo, soprattutto alla metà dell’Ottocento, quando nell’uso comune e nella didattica la Regola si era trasformata in una ferrea gabbia formale, un sistema deterministico privo quasi del tutto di ogni duttilità.

Come è noto, la vicenda della costruzione del linguaggio classicista dell’architettura tra il Quattrocento ed il Cinquecento è stata oggetto di studi compiuti di grande interesse[7] che hanno mostrato inequivocabilmente come la “ricostruzione” degli ordini dell’architettura antica sia in realtà consistita in una radicale rilettura, se non talvolta addirittura in una invenzione ex-novo[8]. Sulla scia delle indicazioni di Vitruvio, sottoposte in tempi diversi a faticose esegesi, Alberti, Serlio, Vignola, Palladio assieme ad altri studiosi, hanno tentato di definire forme e rapporti tra le misure delle parti degli ordini architettonici, allo scopo di costruire un linguaggio condivisibile, imbrigliando con la ragione geometrica forme che originariamente erano in continuo mutamento. Lo straordinario successo del nuovo linguaggio ispirato, più che mutuato, da un’attenzione all’antico che trovava nell’approccio consapevole al rilievo di architettura il suo primo fondamento, ha avuto come veicolo privilegiato la capillare diffusione del libro a stampa nell’Europa del Cinquecento[9]. La necessità di ridurre le complesse forme degli ordini ad immagini e descrizioni testuali pensate per la massima diffusione tra esperti ed appassionati, ha favorito l’affinarsi delle tecniche di comunicazione del disegno, contribuendo allo sviluppo di metodi di rappresentazione privi di ambiguità[10].

Nel panorama variegato della trattatistica di architettura, il lavoro di Vignola occupa un posto piuttosto isolato[11]. Esso non ricalca in alcun modo la struttura del testo di Vitruvio, preso a modello da parecchi autori; non contempla la dimensione – per così dire – multidisciplinare dell’opera di Serlio che, benché soggetta a complesse vicende editoriali che ne hanno parzialmente sfigurato l’immagine complessiva, affronta nel suo complesso i diversi aspetti dell’architettura. Nemmeno propone rilievi dell’architettura antica accostati a rilievi e progetti “contemporanei” come fa Palladio, il quale come è noto tra l’altro affronta con autorevolezza questioni costruttive e compositive di grande rilievo. Il volume di Vignola ha la particolarità di occuparsi esclusivamente di un aspetto della scienza dell’architettura che si colloca a cavallo tra le questioni formali e linguistiche e quelle tettoniche, cioè lo studio degli ordini. Inoltre, laddove in generale i trattati sono prodighi di indicazioni testuali, la Regola si caratterizza per un utilizzo estremamente ridotto della parola scritta, relegata nei fatti ad un breve proemio introduttivo ed a poche, talvolta laconiche, didascalie nelle tavole a stampa[12]. Nella sua introduzione al volume, Vignola dichiara di avere determinato «una breve regola facile et spedita da potersene valere li cinque ordini di Architettura»[13], inizialmente non destinata alla pubblicazione ma piuttosto alle sue personali «occorrenze» di lavoro. Essa è stata desunta da «quelli ornamenti antichi delli cinque ordini i quali nelle anticaglie di Roma si veggono»[14]. La costruzione di questa regola, però è tutt’altro che un’operazione semplice, dato che è frutto – «tutti insieme considerandoli et con diligenti misure esaminandoli» – di innumerevoli comparazioni e di raffinate valutazioni basate sul rilevo dei monumenti e delle loro parti. Nel caso dell’ordine dorico, ad esempio, la proposta di Vignola deriva sostanzialmente da un riadattamento di «quel del Teatro di Marcello […] da ogni huomo il più lodato». Però

 

se qualche minimo membro non havrà cosi ubidito intieramente alle proporzioni de numeri (il che avviene ben spesso dall’opera de Scarpellini ò per altri accidenti che in queste minutie ponno assai) questo l’haverò accomodato nella mia regola, non mi discostando in cosa alcuna di momento, ma bene accompagnando questo poco di licenza con l’autorità degli altri dorici che pur son tenuti belli da quali ne ho tolto l’altre minime parti quando mi è convenuto supplire a questo.

 

In Vignola quindi non vi è alcuna velleità, per così dire, antiquaria: quando alcune sequenze di membri sono danneggiate o mancanti, e quindi illeggibili esse vengono sostituite con altre, desunte dal rilievo di monumenti diversi.

Sempre nel proemio, Vignola chiarisce come il proprio contributo sostanziale al disegno degli ordini non riguardi tanto il tracciamento di forme e modanature, che come si è visto negli ordini della Regola discende dalla collazione di parti ricavate da esempi dell’antichità, quanto piuttosto la definizione di un sistema elementare di rapporti tra le dimensioni delle singole parti, riferiti ad un’unità di misura astratta, una dimensione modulare arbitraria. Sostanzialmente non propone altro «se non la distribuzione delle proporzioni fondata in numeri semplici senza havere a fare con braccia, ne piedi, ne palme di qual si voglia luogo, ma solo ad una misura arbitraria detta modulo». Utilizzando un modulo astratto, le regole di tracciamento dell’ordine assumono un valore generale e possono essere applicate ad ogni scala, nella decorazione di un oggetto minuto come in una architetture imponente[15] [16]. Per lo stesso Vignola tra l’altro le proporzioni delineate sono tutt’altro che immutabili tanto che, prevenendo una delle più comuni obbiezioni alla Regola, scrive:

 

dirò solamente che se qualcuno giudicasse questa fatica vana con dire che non si può dare fermezza alcuna di regola atteso che secondo il parere de tutti, et massime di Vitruvio molte volte conviene crescere o scemare delle proporzioni de membri delli ornamenti per supplire con l’arte dove la vista nostra per qualche accidente venghi ingannata, a questo gli rispondo, in questo caso essere in ogni modo necessario sapere quanto si vuole che appaia all’occhio nostro, il che sarà sempre la regola ferma che altri si havera proposta di osservare; poi in ciò si procede per certe belle regole di Prospettiva la cui pratica necessaria à questo et alla Pittura insieme[17].

 

La correttezza formale delle proporzioni è quindi un punto di arrivo che va giudicato con la vista e non uno strumento immutabile da applicarsi in modo inconsapevole. Le proporzioni sono soggette anch’esse alla mutevolezza delle condizioni visive e vanno adattate e modificate, con criterio. Vignola sottolinea chiaramente che il suo «intento è stato di essere inteso solamente da quelli che habbino qualche introduzione nell’arte».

Non si tratta di un libro per neofiti, quindi la nomenclatura delle parti è stringatissima e tutto quello che può essere mostrato con le figure non viene descritto nel testo. Al suo pubblico di esperti, nelle poche tavole della Regola[18] – circa una trentina – Vignola mostra come costruire i cinque ordini disposti in ordine canonico (tuscanico, dorico, ionico, corinzio e composito) in diverse configurazioni: il colonnato senza piedistallo, l’arcata senza piedistallo e l’arcata con il piedistallo. Di ciascun ordine viene mostrato nel dettaglio, in due tavole differenti, il piedistallo con la base della colonna ed il capitello con la trabeazione. Inoltre di alcuni elementi – la trabeazione dorica o il capitello composito – sono presentate delle varianti; di altri si indagano utilissimi approfondimenti – come della voluta ionica[19] o del capitello corinzio.

La più sostanziale particolarità della Regola riguarda però le modalità della costruzione grafica degli ordini[20]. Si tratta di una sottile ma fondamentale differenza tra i metodi proposti da trattatisti che si ispirano più direttamente a Vitruvio e la tecnica suggerita da Vignola. La costruzione di ciascun ordine, utilizzando ad esempio il metodo proposto da Palladio, obbliga ad una divisione progressiva delle singole parti, secondo partizioni successive. Usando il metodo proposto dalla Regola, invece si può riferire direttamente ciascuna parte o addirittura ciascuna modanatura alla dimensione dell’ordine intero attraverso semplici rapporti numerici con la mediazione della grandezza modulare. Dato che questa caratteristica è, a parere di chi scrive, la più importante ragione del successo della Regola di Vignola ed al contempo l’aspetto che più di ogni altro le ha attirato attenzioni e critiche, sarà bene chiarire con un esempio la differenza tra i questi due procedimenti.

Consideriamo la costruzione del capitello dorico in Palladio, visualizzando con una serie di immagini in sequenza le diverse fasi del tracciamento, seguendo le istruzioni riportate ne I quattro libri[21]. Il primo passo riguarda la dimensione e la partizione generale dell’elemento: «il capitello deve essere alto la metà del diametro della colonna: e si divide in tre parti». La misura del diametro della colonna, misurata all’imoscapo[22], corrisponde – come in Vignola – all’altezza del capitello che va divisa in tre parti, uguali tra loro. Il terzo superiore viene attribuito «all’abaco, e cimacio». Dopo Palladio aggiunge: «il cimacio è delle cinque parti di quella le due, e si divide in tre parti: d’una si fa il Listello, e dell’altre due la Gola». Quindi il terzo superiore deve essere diviso in cinque parti. Le due parti superiori sono occupate dalla cimasa, composta da un pianetto, in alto e da una gola rovescia. Dividendo in tre parti la cimasa si può assegnare il terzo più alto al pianetto e gli altri due alla gola. Si passa quindi al disegno dell’echino: «La seconda parte principale si divide in tre parti uguali: una si dà a gli anelli, ò quadretti: i quali sono tre uguali: e l’altre due restano all’ovolo». La parte centrale del capitello, si divide in tre parti uguali, di cui due in alto dedicate all’ovolo e una in basso agli anuli[23].

La parte bassa del capitello è costituita da una fascia: «la terza parte poi si dà al collarino. Tutto lo sporto è per la quinta parte del diametro della colonna». In questa costruzione, come si può immaginare, è piuttosto difficile desumere ad esempio la misura di un anulo direttamente dall’altezza complessiva del capitello. La sua misura è un ventisettesimo dell’altezza del capitello (un terzo di un terzo di un terzo) e ricavarla direttamente sarebbe un’operazione proibitiva sia numericamente che graficamente. Operando con divisioni successive, seguendo le indicazioni di Palladio che non permettono di saltare alcun passaggio, il tracciamento invece è semplicissimo. Tra l’altro per la divisione di un segmento in parti uguali si può utilizzare la cosiddetta costruzione di Talete, uno dei fondamenti della pratica del disegno geometrico[24].

Se volessimo costruire il capitello secondo il metodo di Vignola invece la questione sarebbe ben diversa. L’altezza complessiva del capitello vale ancora la metà del diametro del fusto, cioè un modulo, che viene per comodità diviso in 12 sottomultipli dette “parti”[25]. Questa volta però le misure di ciascun membro si possono riferire direttamente alla lunghezza del modulo, ed alle sue frazioni. Le misure indicate da Vignola nella tavola XIII della Regola sono, partendo da sopra, ½ parte per il pianetto, 1 parte per la gola rovescia, 2 ½ parti per l’abaco, 2 ½ parti per l’ovolo, ½ parte per ciascun anulo (1 ½ parti in totale), 4 parti per il collarino. Il tracciamento di ciascuna modanatura è immediato in quanto ogni misura è una frazione definita del modulo.

Laddove in Palladio il disegno della forma compiuta, avviene attraverso l’applicazione di successive approssimazioni alla “soluzione” finale, come una sorta di algoritmo grafico che descrive una procedura di tracciamento nel suo progredire, il metodo di Vignola propone uno schema che permette di determinare ciascuna parte dell’ordine direttamente dalle misure generali. Il modo di Palladio è ‘diacronico’ e segue una logica di tipo grafico-geometrica, mentre quello proposto da Vignola è ‘sincronico’ e segue una logica di tipo numerico.

Il confronto tra questi due sistemi ci mostra il vantaggio operativo del contributo di Vignola26[26]. Ovviamente il metodo si applica sia ai singoli elementi, come nel caso appena illustrato, che al rapporto tra le parti maggiori degli ordini, cioè il piedistallo, la colonna e la trabeazione. In questo caso i rapporti tra le altezze, in Vignola rimanevano fissi e valevano 4:12:3, quindi il piedistallo è alto un terzo della colonna e la trabeazione è alta un quarto. L’altezza della colonna varia a seconda dell’ordine. Nel tuscanico vale 7 diametri (cioè 14 moduli), nel dorico 8 diametri (16 moduli), nello ionico 9 diametri (18 moduli). Nel corinzio e nel composito vale 10 diametri, cioè 20 moduli. Deciso l’ordine da impiegare, dato il modulo, si ricavano le altezze delle diverse parti. Ricordando ed utilizzando non più di sette numeri interi (7, 8, 9 e 10 per la snellezza delle colonne, 4:12:3 per i rapporti tra le parti), si possono definire le altezze degli elementi principali di ciascun ordine[27]. Le semplici relazioni numeriche introdotte da Vignola sono tutt’altro che neutrali dal punto di vista formale. Esse caratterizzano con chiarezza gli ordini descritti nella Regola rendendoli riconoscibili per la loro tipica ‘corporeità’[28].

Scrive Thoenes:

 

solo questa regola per la “distributione delle proportioni” viene da lui rivendicata nel proemio come suo personale contributo alla teoria degli ordini; le forme di questi ultimi sarebbero rimaste esemplate sui modelli classici già da lungo tempo noti. Vista così, la Regola perde un po’ dell’ottusità che di solito le viene rimproverata[29].

 

Anzi, potremmo dire, sotto questa luce essa si connota didatticamente in un modo che avrebbe potuto convincere lo stesso Damiani, senza alcuna riserva.

Come si diceva, al tempo in cui Damiani scrive la Regola di Vignola era un testo di grande diffusione. Ovviamente nella maggior parte dei casi si trattava di riedizioni ex novo, che ben di rado mantenevano lo spirito del testo originario[30]. Non è purtroppo possibile in alcun modo tratteggiare in queste pagine la storia della fortuna editoriale

della Regola di Vignola e nemmeno ricordare sinteticamente le principali edizioni pubblicate ininterrottamente dalla fine del Cinquecento sino alla metà dell’Ottocento, nemmeno prendendo in considerazione soltanto l’ambiente italiano. Giova però ricordare come già nel corso del Seicento e del Settecento fosse uso comune quello di ristampare la Regola con ampie aggiunte, magari integrandola con trattati di disegno geometrico o di meccanica come avviene per l’edizione tascabile stampata da Giuseppe Remondini[31] nel 1787 o la famosissima edizione di Giovan Battista Spampani e Carlo Antonini del 1770 che ebbe larga diffusione fin oltre alla metà dell’Ottocento[32].

Lo stesso Damiani possedeva due edizioni ottocentesche della Regola. Quella di Carlo Amati pubblicata nel 1839 riporta un ampio testo di commento ed è illustrata da una serie di calcografie di straordinaria qualità, ombreggiate con gusto ed esattezza geometrica. Damiani custodiva anche l’edizione stampata a Firenze nel 1851[33] che, benché fosse tra le edizioni ottocentesche la più fedele all’opera originale, riporta dei testi nuovi e delle nuove illustrazioni.

Se la tecnica di disegno proposta da Vignola avrà costituito il principale motivo del successo dell’opera, la stringatezza del testo – che certo non avrà reso particolarmente semplice lo studio dell’opera

ai più – sarà stato uno degli stimoli alla redazione di nuove, più compiute (nonché didascaliche) edizioni. Una ininterrotta competizione editoriale ha spinto autori, disegnatori ed incisori a dotare l’opera di nuove immagini dal gusto aggiornato, ombreggiate con precisione e, soprattutto dopo la diffusione dei contenuti innovativi del

l’opera di Monge[34], emendate di ogni ambiguità grafica. A partire dai primi decenni dell’Ottocento, la diffusione della tecnica litografica, ha consentito tirature delle immagini pressoché illimitate e la realizzazione di tavole di formato ridotto tracciate con una densità di informazioni sino ad allora improponibile. Alcune di queste tavole ricalcavano, seppure in linea di massima, lo schema di quelle originali di Vignola mentre in molti casi si proponevano soluzioni del tutto inedite.

In altri termini la Regola, a seguito di successive rielaborazioni, finì per svilupparsi secondo percorsi autonomi rispetto agli assunti iniziali, paradossalmente smarrendo lo spirito originale.

I naturali margini di indefinizione presenti nelle tavole disegnate da Vignola furono lentamente colmati da soluzioni che andavano sedimentandosi nella tradizione comune. Le immagini delle tavole originali divennero oggetto di esami approfonditi che permisero l’apposizione pedante di una quotatura minuziosa, non solo negli alzati ma anche negli aggetti[35].

Per avere un’idea del modo in cui la Regola si presentava nelle pubblicazioni contemporanee alle riflessioni di Damiani, può essere utile consultare le opere didattiche di Giuseppe Antonio Boidi, architetto e professore di disegno attivo in Piemonte nella seconda metà dell’Ottocento, che da questo punto di vista rappresentano un caso esemplare[36]. Boidi dedicò diverse opere agli ordini di architettura di Vignola. La sua opera più completa sull’argomento è il Corso compiuto di disegno geometrico industriale, che nel secondo volume ospita il Corso teorico-pratico d’architettura civile ossia il Vignola degli studenti, pubblicato nel 1865. Basta sfogliare l’Atlante, che comprende 63 tavole[37], per vedere come nel lavoro di Boidi gli ordini siano stati illustrati in modo completo e come ne siano state esplorate le applicazioni. Ai disegni che rappresentano gli ordini si aggiungono infatti una lunga serie di immagini che rappresentano architetture di fantasia o rilievi di monumenti, illustrati con piante, prospetti sezioni e piante iposcopiche dettagliate sino all’inverosimile. Il Vignola degli studenti non ebbe grande successo editoriale, soprattutto se paragonato ad opere dello stesso Boidi meno impegnative dal punto di vista economico. Il Manuale di disegno architettonico ossia i cinque ordini del Vignola[38] l’opera didattica di Boidi che ha avuto la maggiore diffusione, consente dalla lettura dei testi e dall’osservazione congiunta delle tavole, forse meglio di qualunque altra, di comprendere a fondo l’atteggiamento dell’autore.

Nella premessa Al Lettore, Boidi chiarisce le ragioni della sua fatica:

 

Quantunque l’Italia possegga un gran numero di operette d’Architettura del celebre Giacomo Barozzi […] pure difficilmente da una di esse possono ricavarsi le prime divisioni dell’Architettura, le divisioni degli ordini e delle varie parti che li compongono […] Esse piuttosto potrebbero appellarsi memoriali per quei che sanno[39].

 

Nelle considerazioni di Boidi quindi la quantità di informazioni disponibile, non soltanto nelle pagine della Regola originale, ma anche nelle tavole delle successive riedizioni, già ampiamente rivisitate, è ancora insufficiente. Le fittissime tavole disegnate da Boidi, nel corso degli anni vengono ulteriormente perfezionate, tanto che nella decima edizione del Manuale, l’autore scrive:

 

In questa edizione non ho solamente cercato di migliorare la finitezza d’esecuzione dei disegni, scrivendo su ciascuno un maggior numero di quote o misure, ma ho pur cercato d’accrescere il numero degli esercizi per isvolgere l’intelligenza dell’alunno, con spaccati e disposizioni diverse che possono prendere le colonne e i pilastri nella composizione degli edifici.

 

La differenza tra i disegni delle tavole della Regola e quelli redatti con diligenza da Boidi, può essere resa evidente dal confronto di due tavole corrispondenti. La tavola XXV della Regola ospita la vista iposcopica e un prospetto del capitello corinzio, ruotato secondo un angolo di 45° rispetto alla direzione della trabeazione, in modo da mostrare la diagonale dell’abaco in tutta la sua estensione e la disposizione delle volute angolari. La pianta mostra la costruzione grafica dell’abaco e delle circonferenze di inviluppo del fogliame. È divisa in quattro parti, ciascuna delle quali mostra la vista iposcopica del capitello ad un livello differente: al livello del fusto con l’astragalo che aggetta coprendo le foglie, al livello della ima folia, al livello della secunda folia, ed al livello delle volute. Anche il prospetto mostra il capitello a livelli diversi. La parte di destra mostra il kalatos nudo, con la proiezione del massimo aggetto delle foglie[40]. Nella parte di sinistra il capitello è mostrato compiutamente, ma con le foglie lisce. I disegni di Vignola sono ombreggiati con grande sapienza e sono composti con estremo garbo. Geometria ed ornato si fondono con naturalezza e riescono a costituire un ‘racconto’ di grande chiarezza[41]. In sole cinque righe di testo Vignola esaurisce la descrizione della tavola – «con la pianta et il profilo di questo capitello Corintio si può conoscere tutte le sue misure» – facendo riferimento alle poche quote apposte negli alzati, oltre che negli aggetti maggiori.

Se si osserva la tavola corrispondente del Manuale di Boidi[42] si nota subito che essa riporta un numero molto maggiore di disegni. Oltre alla pianta iposcopica ed al prospetto ruotato, come in Vignola, si trova mezzo prospetto del capitello circolare (non ruotato) e la rappresentazione (mezzo prospetto e mezza pianta iposcopica) del capitello per i pilastri, a base quadrata. Il tono generale della tavola è molto differente. Non vi è traccia dell’ombreggiatura che rendeva evidenti le masse, ma piuttosto ciascuna linea è resa con un tratto sottile che muta lievemente di spessore accennando le ombreggiature, sul tipo della cosiddetta “linea greca”. La quotatura è molto più fitta. Non solo gli alzati ma anche tutti gli aggetti sono misurati in modo minuzioso. Stupiscono inoltre due disegni nella stessa tavola che rappresentano lo sviluppo delle foglie d’acanto, quindi che mostrano la forma della ima e della secunda folia come se fossero srotolate su di un piano. Con un tratteggio Boidi segna delle linee orizzontali che permettono di visualizzare la larghezza variabile della foglia alle diverse altezze. Queste larghezze sono numerate in ordine, e trovano corrispondenza anche nel disegno della foglia arrotolata, vista di profilo. In altre parole Boidi arriva persino a controllare con le misure l’andamento mutevole della larghezza delle foglie d’acanto.

Boidi commenta questa tavola con ben più delle cinque righe di Vignola: in tre pagine fitte di notazioni ed istruzioni si spiegano le operazioni grafiche da compiersi per il tracciamento del capitello:

 

[…] si conducano due perpendicolari YZ e ZV, di cui una ne sarà l’asse, e rimarrà parallela al quadro del disegno da alto in basso, e l’altra parallela ai lati di base; fatto centro nel punto d’intersezione, con un raggio eguale a 15 parti di descriva un circolo, che rappresenterà la proiezione superiore della colonna […][43].

 

Queste descrizioni sono le stesse che a Vignola saranno sembrate scontate – e quindi superflue – e per risparmiare le quali, alla fine delle sue sintetiche righe di testo talvolta scriveva: «il resto si vede».

Certamente i due diversi modi di disegnare risentono della distanza di tre secoli che li separa. Ma oltre ad un diverso approccio alla precisione, la differenza più profonda sta probabilmente nel fatto che i disegni di Vignola mostrano una profonda indulgenza nei confronti delle variazioni ed una fiducia verso le possibilità artigianali di scultori e scalpellini mentre Boidi descrive una gabbia di misure e di forme al di fuori della quale è quanto meno sconveniente avventurarsi. Se la Regola di Vignola è un canovaccio il cui scopo è – appunto – ‘regolare’ i rapporti di forma tra le parti, la connotazione che essa assunse nell’Ottocento mostra il rischio di un algido irrigidimento attorno ad alcuni clichés formali.

Al tempo in cui Damiani esprimeva la sua critica e Boidi pubblicava i suoi lavori, quindi la trasformazione della Regola di Vignola in un rigido sistema di controllo delle forme era del tutto compiuto.

Si vedano alcuni degli esercizi proposti nel volume:

 

Un architetto deve costruire un piedistallo d’ordine toscano alto metri 1,40: quale sarà l’altezza della colonna da sovrapporsi, e la lunghezza del modulo, per determinare le altre modanature?[44].

Oppure:

Si è trovato fra le rovine d’un antico edificio una Trabeazione ben conservata di metri 1,32 d’altezza: si vorrebbe sapere l’altezza dell’Ordine compiuto, onde questa trabeazione faceva parte[45].

 

Si tratta come si vede di puri esercizi aritmetici, dall’esito scontato, il cui svolgimento non richiede alcuna sensibilità verso le questioni linguistiche dell’architettura. Benché anche al tempo di Boidi lo studio degli ordini fosse basato sul paziente e faticoso ridisegno delle tavole e sull’esame della struttura – potremmo dire – ortografica, grammaticale e sintattica del linguaggio classicista, nella seconda metà dell’Ottocento, in analogia con il coinvolgimento pervasivo della matematica nelle scienze, la possibilità di affidare ad un sistema definito di relazioni numeriche il carico di buona parte delle scelte formali in fase di progetto rischiava di apparire particolarmente rassicurante e seducente.

In questi termini è più facile capire per quale motivo Damiani, che pur dichiarava il suo totale apprezzamento per la figura e per l’opera di Vignola – «l’uomo più dotto dell’arte antica, l’architetto più ingegnoso che sia mai vissuto in Italia, che parve un antico caduto in quel secolo»[46] – fosse compiaciuto dell’esclusione della Regola dai programmi di studio e perché ne considerasse l’uso, come si diceva, «pericoloso per la professione artistica».

Damiani stesso era stato iniziato allo studio degli ordini attraverso l’opera di Vignola e nel suo scritto riporta le parole di uno dei suoi maestri, l’architetto Enrico Alvino[47], il quale insegnava che «l’architettura non si copia dai libri […] ma si studia sui monumenti antichi […] sull’antico e sul vero»[48] allo scopo «di ottenere l’originalità indispensabile al carattere, che è la prima fonte d’ogni bellezza in arte». Ciò nonostante, in una certa fase della formazione difficilmente sarebbe possibile studiare gli ordini «più facilmente e bene che copiando da questo famoso libro», potendo imparare da Vignola «la struttura e la ragion d’essere d’ogni parte onde sono composti». In seguito – gli diceva il maestro – «provvederà l’antico, affinché tu impari a comporteli da te stesso», diversamente dai molti architetti che lavorano «saccheggiando i libri, perché di lor vita non disegnarono mai». Il libro di Vignola, «opera eminentemente didascalica», può essere utilizzato come «guida a chi è digiuno ancora dei principi dell’arte», come primo manuale, come guida per avere un approccio corretto ed approfondito alla forma ed alla struttura degli ordini. Damiani evidentemente era del tutto soddisfatto del proprio percorso formativo tanto da promuovere a metodo di insegnamento la propria esperienza, vissuta sotto la guida di maestri illuminati.

Nel suo opuscolo Damiani sintetizza con efficacia la sostanza disciplinare della Regola:

 

Il metodo del Vignola consiste nell’aver riferite le misure d’ogni parte d’un ordine al raggio della colonna in base come unità, onde non solo ogni cosa è con quella unità commensurabile, ma risultano dei coefficienti astratti comodissimi per dar norme a comporre l’ordine […] talché l’incipiente con questa guida saprà segnare un ordine d’architettura con grande prontezza e belle proporzioni[49].

 

Egli riconosce nella Regola, in accordo con lo spirito originario dell’opera, uno strumento utile a guidare con sicurezza la composizione degli ordini, senza i quale si avrebbero «una tale serie di numeri sciolti tra loro da ogni relazione che bisognerebbe lunga abitudine a decifrarli, né nella mente lasciano alcun che di numericamente concreto». Dopo avere illustrato i meccanismi del metodo di Vignola, Damiani chiarisce lo spirito della sua critica. Gli argomenti come si è visto sono sostanzialmente di due tipi. In primo luogo, benché il risultato dell’operazione compiuta da Vignola abbia dato risultati di grande qualità, essa ha il torto di ridurre a rapporti fissi la varietà delle forme, limitando la creatività; inoltre l’applicazione esclusiva della Regola limita lo studio diretto delle opere dell’antichità:

 

nell’attuare il gran concetto del Modulo Barozziano, fu forza piegare le più belle proporzioni dell’arte antica all’esigenza della commensurabilità, la quale, appunto perché ottenuta dalle ricerche di sì sapiente artista, lasciò negli ordini il tipo d’una grande bellezza. Però fece due danni: l’uno, di ridurre a regole quel che per sua indole deve scaturire dal cuore dell’artista, voglio dire le proporzioni d’ogni parte col tutto; l’altro d’interporsi tra l’antico della più bella epoca romana ed i secoli a venire, restringendo virtualmente il campo delle ricerche e delle osservazioni[50].

 

Ed ancora:

 

[…] come libro d’istituzione elementare, il Vignola sarà sempre una grandissima facilitazione pe’ principianti, ed un libro di riscontro utilissimo per quelli cui non è dato di elevare i loro studii oltre gli ordini, come son gli operai. Però il tenerlo come un codice di architettura è un errore pericoloso, che restringe talmente il campo, da far parere che fuori di esso non siavi architettura ammissibile[51].

 

I difetti della Regola quindi stanno tutti nelle limitazioni cui conduce il suo utilizzo esclusivo: limiti allo studio ed alla creatività. Per chi è disposto a ridurre i suoi studi nell’ambito della sola esecuzione il Vignola sarà un’«infallibile guida», altrimenti, «per gli artisti è solo il primo termine della lunga via dell’arte, e dovrà ritenersi sempre […] come un ottimo strumento didascalico, purché maneggiato da un insegnante dotto nell’arte degli antichi»[52]. Con un certo ottimismo, Damiani giudica l’esclusione del Vignola dai programmi di studio come «[…] un primo segno che si comincia a riguardar l’arte del bene architettare come un’arte bella […] imperocché il bisogno di ricercar gli ordini nelle grandi opere dello Stuart, del Galliabaud, del Canina, del Durand implica lo studio della storia dell’arte fin dai primi passi della carriera, ispira l’amor delle ricerche, obbliga al più attento esame delle forme per mezzo della critica, introduce naturalmente il gusto del greco che il Vignola nel suo stretto obbiettivo esclude». Non limitandosi all’«esclusivismo dannoso» della Regola, ogni studioso, ora che «le più accurate pubblicazioni dei monumenti più celebri sono alla mano di tutti»[53], poteva avere accesso ad un ventaglio di possibilità pressoché illimitate:

 

La storia dell’arte illustrata dai monumenti, fornisce una serie archeologica di fatti, il cui studio è il fondamento della critica e la naturale dottrina dell’arte nuova, perchè ci addita la ragione d’essere di quei modelli da imitare, o da modificare, o da innovare affatto per le attuali esigenze[54].

 

La riflessione di Damiani sul linguaggio dell’architettura ed il peso che lo studio dei monumenti antichi assume nel disegno degli ordini coinvolge direttamente il tema della “storia come maestra”, affrontato e chiarito da Paola Barbera[55] in un lavoro recente – cui si rimanda –, e che occupa una parte sostanziale della teoria dell’architettura di Damiani. Le due fonti di studio predilette da Damiani, «l’antico ed il vero», consentono di sviluppare una solida creatività, non arbitraria, faticosamente costruita con gusto, cultura e consapevolezza, innestata sulla conoscenza del passato: «non datevi peso di ricercar l’arte nova, cominciate ad imparar l’antica, e l’altra verrà spontaneamente dalla lenta, continua, naturale e fatale trasformazione di quella»[56].

L’esame approfondito dei progetti e delle opere realizzate di Giuseppe Damiani Almeyda permetterebbe di potere apprezzare appieno il senso di queste parole. Si potrebbero ricavare indicazioni di grande rilievo anche dallo studio delle sue principali opere didattiche, quelle che costituiscono la Scuola italiana di Architettura Civile, cioè le Istituzioni Ornamentali, pubblicate nel 1890 e le Istituzioni Architettoniche, ancora sostanzialmente inedite[57]. Nelle 60 cromolitografie delle Istituzioni Ornamentali Damiani presenta immagini di rilievi dei monumenti antichi e di elementi decorativi di cui ha avuto esperienza diretta, e che forniscono, oltre che spunti per complesse esercitazioni, una sorta di vocabolario formale cui attingere nella pratica del progetto. Le 60 tavole ad acquarello delle Istituzioni Architettoniche mostrano una serie di composizioni di architettura, in molte delle quali Damiani utilizza gli ordini nei loro ‘aggiustamenti’, quindi nelle loro applicazioni, adattati nelle proporzioni generali in modo da attribuire un senso coerente alle forme. Damiani non usava soltanto le fonti desunte dall’antichità come fondamento per il disegno degli ordini, ma talvolta, specie in campo didattico, utilizzava il sostegno delle forme illustrate nella Regola:

 

il metodo del mio insegnamento si svolge sullo studio dell’ornato a mano libera, della figura e delle forme architettoniche tolte, nei dettagli, dal Vignola, ma negli aggiustamenti le proporzioni si determinano a mano libera, guardando i modelli in rilievo o le stampe di edifizi classici, o mettendo in proporzione uno schizzo del professore, su cui siano scritte le quote di altezza e di larghezza[58].

 

Benché in questa fase degli studi sull’architettura di Giuseppe Damiani Almeyda ciò possa apparire prematuro, si può azzardare un rapido confronto tra l’ordine dorico applicato, ad esempio, nella quarta tavola delle Istituzioni architettoniche – in cui si mostra Un edifizietto in un villino[59] – e il dorico della Regola.

Riferendo le grandezze al raggio della colonna all’imoscapo (il modulo), si vede immediatamente come vi sia una perfetta corrispondenza tra le misure del fregio e dei suoi elementi (metope e triglifi), oppure l’altezza della base e del capitello, in entrambi i casi uguali ad un modulo. La differenza più evidente tra i due ordini riguarda la snellezza della colonna, pari a 8 diametri in Vignola ed a 8 ½ in questo disegno di Damiani. La colonna, alta 16 moduli in Vignola, ne misura quindi 17 in Damiani. Il piedistallo, che mantiene il rapporto 1:3, come in Vignola, qui risulta più snello, data la maggiore altezza della colonna.

Il fregio mantiene il rapporto 1:4 e misura quindi 4 moduli ed un quarto, invece che 4 come in Vignola. L’andamento delle sagome della trabeazione con mutuli è lo stesso della Regola, solo che Damiani caratterizza con più energia la bipartizione dell’architrave. Anche base e capitello mostrano lo stesso andamento della Regola, ma gli aggetti appaiono più pronunciati ed il toro della base viene sostituito da una modanatura a “becco di civetta”.

Analogamente, nello zoccolo e nella cimasa del piedistallo si notano andamenti desunti da Vignola, lievemente modificati.

Le modifiche apportate da Damiani alla proposta di Vignola, che riguardano la snellezza complessiva dell’ordine e qualche variazione nelle sagome, potranno apparire trascurabili, ed invece si tratta di trasformazioni che – come minimi spostamenti nei lineamenti di un volto – possono cambiare radicalmente il senso e la qualità generale delle forme. Le sottili variazioni dell’ordine disegnate da Damiani sottraggono parzialmente il dorico di Vignola alla sensazione di solidità grave che talvolta lo caratterizza. La snellezza un po’ aumentata della colonna, assieme ad aggetti più generosi ed alla sostituzione di alcune modanature, alleggerisce ed ammoderna le forme, pur mantenendone intatta la compostezza.

Il modo con cui Damiani si accosta alla struttura formale degli ordini di architettura, rivedendone con straordinaria duttilità il significato, mostra una capacità fuori dal comune, tanto che verrebbe da chiedersi quanti potessero essere i suoi reali interlocutori, cioè i progettisti e gli studiosi capaci di condividere con lui non solo la critica alla Regola, ma anche un approccio creativo al disegno degli ordini fondato su un’analoga conoscenza dell’antico e su un adeguato senso della proporzione.

La capacità di Damiani di muoversi con tanta libertà è frutto infatti di una formazione complessa che oltre allo studio dei molteplici aspetti dell’ingegneria e dell’architettura, prevede una pratica assidua del disegno di figura ed una solida formazione alle tecniche pittoriche[60]. Questo aspetto, come emerge dalla nota biografica inclusa nel suo scritto, avvicina tra l’altro Damiani a Vignola il quale da giovanetto «crebbe in fama di abilissimo disegnatore»[61], come anche i più grandi architetti che «furono sempre nella loro origine pittori, o almeno disegnarono la figura come i pittori». Sicuro delle necessità di questo tipo di formazione, basato sulla educazione dello sguardo, Damiani, che pure era esperto degli aspetti tecnici del costruire, sostiene che «il bello in architettura non è affare di formule, ma di concetto e di forma, cose che non possono conseguirsi colla soluzione d’un equazione».

Come si è visto, lo spirito della Regola di Vignola in origine era tutt’altro che quello di un’equazione. Anche se secondo Damiani essa aveva avuto la funzione di «opporre un argine all’irrompente decadenza»[62], pur nel fornire un rigido schema di riferimento per il disegno degli ordini, il metodo di Vignola lasciava enormi margini di libertà creativa, raramente esplorati dai suoi lettori. Nell’Ottocento, pur nella forma paradossale che aveva assunto, essa rappresentava il più rapido ed efficace accesso alla grammatica del linguaggio classico dell’architettura allora disponibile e costituiva un fondamento educativo con cui ciascuno studente era costretto a confrontarsi, ancor più se intenzionato a prenderne le distanze[63].

La critica di Damiani a Vignola, in definitiva riguarda in primo luogo il valore strettamente accademico che essa aveva assunto nell’Ottocento, costituendo, ancora una volta, un argine alle nuove istanze di rinnovamento. Come scriveva Anna Maria Fundarò, la risposta di Damiani a questo atteggiamento «è un’opposizione genuina, radicale […] nei confronti di ogni impostazione aulica, monumentale, trattatistica, impostazione che per tutto l’Ottocento, irradiata dall’Accademia di S. Luca, aveva costituito la linea vincente della cultura architettonica»[64]. Il suo rapporto diretto con i monumenti dell’antichità, studiati «dall’antico e dal vero», non mediato quindi dall’accademismo imperante finiva così con l’assumere una connotazione smaccatamente anticlassicista. In questo senso è da riguardarsi ad esempio l’applicazione della policromia agli elementi del linguaggio classico[65], sostenuta da una sincera attenzione al rilievo dell’antico che, per ricordare un caso eccellente, conduce ai risultati mirabili della equilibrata e gioiosa composizione del Politeama di Palermo.

Nella seconda metà del XIX secolo, in un periodo in cui le curiosità linguistiche ereditate dal Settecento erano sfociate apertamente nelle sperimentazioni dei neostili, l’aspetto rivoluzionario ed innovativo della lezione di Damiani, si fondava direttamente sullo studio approfondito e sensibile delle forme della classicità. In questo senso nel percorso formativo, professionale e didattico di Damiani, la Regola di Vignola ha costituito il viatico per lo sviluppo di una raffinata creatività guidata dall’uso consapevole, sensibile ed educato dello sguardo.

 

 

_________________________

* Ringrazio l’ingegnere Mario Damiani, curatore dell’Archivio Damiani di Palermo, non solo per avermi concesso la possibilità di pubblicare il dettaglio della tavola 4 delle Istituzioni Architettoniche alla figura di pagina 43, ma anche per l’assistenza che con competenza e gentilezza mi ha fornito nel corso delle ricerche d’archivio


[1]  G. Damiani Almeyda, Giacomo Barozzi da Vignola ed il suo libro dei cinque ordini d’architettura, Palermo 1878. La pubblicazione, di formato 11,4 x 17,8 centimetri, è costituita da 16 pagine spillate ad una copertina in cartoncino rosa su cui era replicato il frontespizio, con alcuni ornamenti ed un riquadro a filetto. Il fascicolo fu stampato presso lo Stabilimento Tipografico Giliberti. Per un quadro generale di riferimento su G. Damiani Almeyda (Capua 1834 – Palermo 1911) si veda P. Barbera, Giuseppe Damiani Almeyda. Artista architetto ingegnere, Pielle edizioni, Palermo 2008. Il volume costituisce, assieme agli studi di A.M. Fundarò, un riferimento ineludibile per lo studio della figura dell’architetto.

[2]  G. Damiani Almeyda, La Scuola di Disegno negli Istituti Tecnici d’Italia. Lettera dell’Ing. Giuseppe Damiani Almeyda al Prof. Giusti di Torino, in “Scuola e Famiglia. Giornale dell’Istituto Randazzo”, n. 24, 16 dicembre 1875; Id., Programmi di disegno negli Istituti Tecnici, ivi, n. 4, 15 febbraio 1877. In seguito vi avrebbe pubblicato,  ID., Alcune idee sull’Esposizione nazionale di Torino esposte ai giovanetti, estratto da “Scuola e Famiglia. Giornale dell’Istituto Randazzo”, Palermo 1884; Id., Programmi di Disegno negli Istituti Tecnici, in “Scuola e Famiglia Giornale dell’Istituto Randazzo”, n. 4, 15 febbraio 1887, pp. 25-27.

[3]  Id., Giacomo Barozzi da Vignola..., p. 12.

[4]  Id., Programmi di Disegno negli Istituti..., p. 25.

[5]  Id., Storia dell’Arte Moderna Italiana, a cura di M. Damiani, Edizioni Anteprima, Palermo 2005, pp. 27-28. Il volume fu redatto entro il 1882.

[6]  Si veda G.B.F. Basile, Metodo per lo studio dei monumenti, Stamperia Console, Palermo 1856. Basile invita gli studenti ad osservare le antiche costruzioni dal vero e ad abbandonare i precetti Vitruviani, colpevoli di avere ridotto l’architettura a «mestiero limitato». Cfr. G. Ciotta, L’opera teorica e didattica di G.B.F. Basile, in G.B.F. Basile. Lezioni di architettura, a cura di M. Giuffrè, G. Guerrera, L’epos, Palermo 1995, p. 228.

[7]  La bibliografia sull’argomento è smisurata. Per un approccio sintetico al tema si veda C. Thoenes, Gli ordini architettonici: rinascita o invenzione? [1982], in Id., Sostegno e adornamento. Saggi sull’architettura del Rinascimento: disegni ordini magnificenza, Electa, Milano 1998 pp. 125-133. Si vedano anche F.P. Fiore, Trattati e teorie d’architettura del primo Cinquecento, in Storia dell’architettura italiana. Il primo Cinquecento, a cura di A. Bruschi, Electa, Milano 2002, pp. 504-521; R.J. Tuttle, Jacopo Barozzi da Vignola a Roma e nello Stato Pontificio, in Storia dell’architettura italiana. Il secondo Cinquecento, a cura di C. Conforti e R. Tuttle, Electa, Milano 2001, pp. 108-129 (in particolare le pp. 119-121); Jacopo Barozzi da Vignola, a cura di C.L. Frommel, C. Thoenes, Electa, Milano 2002.

[8]  Si consideri ad esempio la vicenda “evolutiva” del capitello composito, le cui forme mutevoli hanno accolto e stimolato in età moderna complesse composizioni talvolta inedite, segni evidenti di un gusto in continuo mutamento. Sull’argomento si veda V. Pizzigoni, L’ordine composito, ovvero, della liceità del comporre, in Idee per la rappresentazione 2. Ibridazioni, atti del convegno, (Venezia 19 settembre 2008), a cura di P. Belardi, A. Cirafici, A. di Luggo, E. Dotto, F. Gay, F. Maggio, F. Quici, Artegrafica, Roma 2009, pp. 38-47.

[9]  M. Carpo, L’architettura dell’età della stampa. Oralità, scrittura, libro stampato e riproduzione meccanica dell’immagine nella storia delle teorie architettoniche, Jaca Book, Milano 1998.

[10]  A. Sgrosso, Rinascimento e Barocco, in A. De Rosa, A. Giordano, A. Sgrosso, La Geometria nell’Immagine. Storia dei metodi di rappresentazione, UTET, Torino 2001, pp. 127-156. Tra l’altro condizioni nuove e tra loro distanti, come la diffusione estensiva delle stampe calcografiche, il rapido crollo del costo della carta e la nuova organizzazione del cantiere di architettura, hanno rapidamente mutato il peso, oltre che il significato, del disegno nella pratica costruttiva.

[11]  Cfr. C. Thoenes, La “Regola delli cinque ordini” del Vignola [1981], in Id., Sostegno..., pp. 77-108.

[12]  Le tavole della edizione originale della Regola sono 32. Per un esame approfondito della consistenza del volume e delle varie edizioni, cfr. Id., La Regola.... I testi nelle tavole di Vignola sono incisi con una scrittura cancelleresca piuttosto elegante, e non preparati con caratteri mobili.

[13]  J. Barozzi Da Vignola, Regola delli cinque ordini d’architettura, (1562), proemio.

[14]  Ibidem. Le citazioni che seguono hanno la stessa fonte.

[15]  Benché in modo più o meno esplicito fin dalle descrizioni di Vitruvio si sia fatto riferimento ad una misura di riferimento, in Vignola per la prima volta il concetto di modulo viene chiarito compiutamente.

[16]  Vitruvio, a proposito delle correzioni ottiche da apportare nell’entasi delle colonne a seconda del punto di vista privilegiato scrive: «Venustates enim persequitur visus, cuius si non blandimur voluptati proportione et modulorum adiectionbus, uti quod fallitur temperatione adaugeatur, vastus invenustus conspicentibus remitteur aspectus» (è necessario fornire alla vista un effetto gradevole e se noi non soddisfacessimo il suo gusto col rispetto delle proporzioni e correggendo leggermente le misure così da compensare equilibratamente eventuali difetti, si presenterebbe a chi guarda un’immagine rozza e sgraziata), Vitr. III, 13. Probabilmente è questo il passo cui si riferisce Vignola.

[17]  Continua Vignola: «in modo ch’io m’assicuro vi sia grata spero anco tosto di donarvi». Il trattato sulla prospettiva di Vignola, Le due regole della prospettiva pratica di M. Iacomo Barozzi da Vignola, uscì postumo, edito da Egnazio Danti nel 1583.

[18]  La prima tavola è occupata dal frontespizio, la seconda dal proemio. Nell’edizione originale la terza era occupata dal privilegio di stampa, sostituito alla morte di Vignola, da un confronto sinottico tra gli ordini, alla maniera di Serlio. Le tavole dalla IV alla VIII riguardano l’ordine tuscanico, dalla XIX alla XIV il dorico, dalla XV alla XX lo ionico, dalla XXI alla XXVI il corinzio e dalla XXVII alla XXXII il composito.

[19]  La costruzione proposta da Vignola per il tracciamento della voluta del capitello ionico è la più diffusa in assoluto ed è stata pubblicata sui manuali di disegno architettonico sino alla fine del XX secolo. Essa è una semplificazione della originalissima costruzione del 1552 proposta da Giuseppe Porta, detto Salviati. Sulla costruzione si veda V. Fazzina, La geometria della voluta ionica, tesi di dottorato in Teoria e Storia della Rappresentazione, Università di Catania, XX ciclo, tutor prof. E. Dotto, Siracusa 2008.

[20]  Sul tema si consulti il fondamentale contributo di R. Migliari, Il disegno degli ordini e il rilievo dell’architettura classica: Cinque Pezzi Facili, in “Disegnare idee immagini”, n. 2, 1991, pp. 49-65. Si veda anche M. Carpo, L’architettura..., pp. 111-117.

[21]  A .Palladio, I quattro libri dell’architettura, [Venezia 1570], rist. anastatica Hoepli, Milano 1980, pp. 26-27. Le citazioni seguenti hanno la stessa fonte.

[22]  Come è noto il fusto della colonna è rastremato, quindi il diametro superiore, al sommoscapo, è minore di quello in prossimità della base, all’imoscapo.

[23]  Anche l’aggetto dell’ovolo è ottenuto da una successiva partizione delle misure: esso «ha di sporto i due terzi della sua altezza».

[24]  Sulla storia e le applicazioni della costruzione di Talete si veda E. Dotto, La divisione in parti uguali di un segmento: applicazioni strumentali del teorema di Talete, in Ikhnos. Analisi grafica e storia della rappresentazione, Lombardi editori, Siracusa 2010, pp. 153-162.

[25]  Il modulo di Vignola è diviso, se si opera nell’ordine tuscanico o dorico, in 12 parti uguali, mentre se si lavora con l’ordine ionico, corinzio o composito, in 18 parti. In questo modo si utilizza un numero minore di misure frazionarie anche disegnando ordini in cui i membretti raggiungono dimensioni minime.

[26]  La semplicità operativa, secondo alcuni pareri, non coincide per forza con una maggiore chiarezza formale. Per Migliari il modo di Palladio ad esempio, manifesta più chiaramente la gerarchia tra le parti degli ordini e risponde in modo migliore alle «ragioni del disegno». R. Migliari, Il disegno..., p. 51.

[27]  Vi sono altre costanti che consentono di semplificare il proporzionamento delle parti più minute, che emergono da uno studio approfondito della regola. Tra quelle più evidenti vi è, ad esempio, l’altezza costante delle basi delle colonne, uguale, in ciascun ordine, ad un modulo.

[28]  La trabeazione, che come si diceva in Vignola è alta un quarto della colonna, in Palladio ad esempio è alta soltanto un quinto. Anche i piedistalli di Vignola sono piuttosto alti, se paragonati a quelli proposti da altri trattatisti.

[29]  C. Thoenes riporta giudizi poco lusinghieri sulla Regola non solo da parte di J. von Schlosser (1924) ma anche da parte di suoi contemporanei. Cfr. C. Thoenes, La Regola..., pp. 81 e 98.

[30]  Si tratta di un ‘destino’ di quest’opera: già a pochi anni dalla pubblicazione della prima edizione, forse nel 1583 – lo stesso anno della morte di Vignola –, allo scadere del privilegio decennale, fu diffusa una edizione clandestina, non autorizzata dagli eredi, che includeva una tavola non disegnata da Vignola. Si veda la nota 18.

[31]  L’architettura di Jacopo Barozzi da Vignola ridotta a facile metodo per mezzo di osservazioni a profitto de’ studenti. Aggiuntovi un trattato di meccanica. A spese Remondini di Venezia, Bassano 1787.

[32]  G.B. Spampani, C. Antonini, Il Vignola illustrato, Roma 1770. D’altra parte – detto per inciso – anche alcune edizioni ottocentesche ebbero un successo che le mantenne in commercio sino alla metà del secolo scorso. L’edizione di Ferdinando Reycend, ad esempio, pubblicata per la prima volta nel 1856 fu stampata regolarmente almeno sino al 1958.

[33]  C. Amati, Gli Ordini di Architettura del Barozzi da Vignola, Milano 1839; Barozzi Da Vignola, Li Cinque Ordini di Architettura, Firenze 1851. L’elenco completo dei volumi posseduti da Damiani si trova in M. Damiani, La biblioteca di Giuseppe Damiani Almeyda, in A.M. Fundarò, Giuseppe Damiani Almeyda, tre architetture tra cronaca e storia, Flaccovio editore, Palermo 1999, pp. 151-154. Sulla diffusione degli ordini di architettura in Sicilia si veda: M.R. Nobile, Incisioni e Architetture, in Barocco e Tardobarocco negli Iblei Occidentali, a cura di M.R. Nobile, Regione Siciliana, Assessorato ai beni culturali ambientali e alla P.I., Palermo 1997, pp. 9-27; F. Scaduto, Serlio e la Sicilia. Alcune osservazioni sul successo di un trattato, Offset studio, Palermo 2000; E. Garofalo, G. Leone, Palladio e la Sicilia, Edizioni Caracol, Palermo 2004.

[34]  Nonostante fossero già state collaudate da parecchi secoli delle tecniche di rappresentazione analoghe ai metodi delle proiezioni ortogonali, la rivoluzione concettuale – più che tecnica – messa in atto alla fine del Settecento nel mondo della rappresentazione da Gaspard Monge (1746-1818), che portò alla definizione della Geometria Descrittiva, ha lentamente sottratto l’ambito del disegno dal gravame di alcuni errori proiettivi che causavano di frequente delle ambiguità di lettura, soprattutto tra le sezioni e le proiezioni rappresentate. Sull’argomento si veda M. Borgherini, Dal disegno alla scienza della rappresentazione, Cafoscarina, Venezia 2005, pp. 135-162; A. Giordano, Dal secolo dei Lumi all’epoca attuale, in A. De Rosa, A. Giordano, A. Sgrosso, La Geometria nell’Immagine..., pp. 3-140.

[35]  Vignola è particolarmente attento, nella quotatura dei disegni, a definire la partizione degli alzati, ma lascia meno indicazioni nella definizione degli aggetti. Nelle edizioni ottocentesche, invece, ciascun aggetto trova una sua definizione, e non è raro che edizioni differenti diano valori differenti.

[36]  Sulla vita e le opere di Giuseppe Antonio Boidi Trotti si veda P. Ballesio, Il campanile del duomo di San Pietro Apostolo in Alessandria: studi per la conservazione, tesi di laurea, relatori C. Bartolozzi, V. Nascè, F. Novelli, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, a.a. 2004-2005.

[37]  G.A. Boidi, Corso compiuto di disegno geometrico industriale. Parte seconda. Corso teorico-pratico d’architettura civile ossia il Vignola degli studenti, Tipografia scolastica di Sebastiano Franco e figli, Torino 1865. Le tavole sono di formato 42,5 x 30,5.

[38]  Id., Manuale di disegno architettonico ossia i cinque ordini del Vignola, Stabilimento tipografico Cassone, Torino 1876. Le tavole furono mirabilmente litografate presso lo stabilimento tipografico torinese Salussolia

[39]  Id., Manuale di disegno architettonico ossia i cinque ordini del Vignola, Stabilimento tipografico Cassone, Torino 1899 (decima edizione), pp. III-IV. Le citazioni seguenti hanno la stessa fonte.

[40]  Questa immagine, come è ovvio, mostra una proiezione geometricamente errata, dato che le diverse foglie sono poste su differenti piani radiali rispetto all’asse della colonna. Nonostante ciò essa consente di definire con precisione l’aggetto delle foglie d’acanto.

[41]  Per avere un esempio diretto delle straordinarie capacità grafiche di Vignola, non mediate dall’intervento dell’incisore, si veda il disegno preparatorio per il capitello e la trabeazione ionica conservato nel codice Resta di Palermo. Si veda S. Prosperi Valenti Rodinò, I disegni del Codice Resta di Palermo, Silvana Editoriale, Palermo 2007, p. 277.

[42]  G.A. Boidi, Manuale..., tav. XXVII.

[43]  Ivi, p. 59.

[44]  Ivi, p. 12. Dato che la colonna misura tre volte il piedistallo, essa misurerà 1,40 x 3= 4,20 metri. Essendo la colonna alta 14 moduli, un modulo misurerà 4,20/ 14 = 0,3 metri.

[45]  Ivi, p. 5. Se la trabeazione misura 1,32 metri, la colonna misura il quadruplo, cioè 1,32 x 4 = 5,28 metri. Il piedistallo misurerà un terzo della colonna quindi 5,28 / 3 = 1,76 metri. L’ordine completo misura quindi 1,76 + 5,28 + 1,32 = 8,36 metri. In questo esercizio si nota un’inesattezza dovuta ad un artificio retorico a vantaggio della chiarezza didattica (o forse addirittura un malinteso) dato che ovviamente non vi è alcuna garanzia che un ordine di architettura antico abbia dei rapporti di forma fissi identici a quelli ipotizzati e utilizzati da Vignola.

[46]  G. Damiani Almeyda, Giacomo Barozzi..., p. 11.

[47]  Sul rapporto tra Damiani ed i suoi maestri, incluso Enrico Alvino, si veda P. Barbera, Giuseppe Damiani..., pp. 21-35.

[48]  G. Damiani Almeyda, Giacomo Barozzi..., p. 4. Le successive citazioni hanno la stessa fonte.

[49]  Ivi, pp. 5 e 6.

[50]  Ivi, p. 12.

[51]  Ivi, p. 6.

[52]  Ivi, p. 12.

[53]  Ibidem. Presso la sua biblioteca Damiani custodiva parecchi repertori di rilievi di monumenti antichi, il cui elenco completo si trova in M. Damiani, La biblioteca....

[54]  G. Damiani Almeyda, Storia dell’Arte..., p. 13.

[55]  P. Barbera, Dall’antico al contemporaneo. La storia come modello per la scienza e l’arte del costruire, in Giuseppe Damiani Almeyda. Arte e scienza in architettura, Lombardi editori, Siracusa 2011, pp. 63-80.

[56]  G. Damiani Almeyda, Alcune idee..., p. 42.

 

[57]  Id., Istituzioni Ornamentali sull’antico e sul vero, Carlo Clausen editore, Torino-Palermo 1890. A.M. Fundarò, Le “Istituzioni Ornamentali” di Giuseppe Damiani Almeyda in G. Damiani Almeyda, I casi della mia vita, a cura di M. Damiani, Palermo 2001 pp. 208-213. Cfr. anche P. Barbera, Giuseppe Damiani Almeyda..., pp. 132-141. Alcune delle tavole delle Istituzioni architettoniche sono pubblicate in Giuseppe Damiani Almeyda. Una vita per l’architettura tra insegnamento e professione, a cura di R. Pirajno, M. Damiani, P. Barbera, Salvare Palermo edizioni, Palermo 2008.

[58]  G. Damiani Almeyda, I casi..., p. 151.

[59]  La tavola originale è conservata presso l’Archivio Damiani, Palermo.

[60]  Cfr. E. Dotto, La linea di equilibrio. Sensibilità geometrica e tecnica pittorica nei disegni di architettura, in Giuseppe Damiani Almeyda. Arte e scienza..., pp. 11-30.

[61]  Damiani tratteggia la figura di Vignola in una breve biografia, degna del massimo interesse. Essa, nonostante enfatizzi alcuni tratti del carattere di Vignola, discende direttamente dalla nota biografica redatta da Egnazio Danti e pubblicata ne Le due regole della Prospettiva, di cui ricalca la struttura, l’ordine degli eventi narrati, l’elenco delle opere di architettura curate da Vignola.

[62]  Continua Damiani: «[…] che ai tempi di Michelangelo si manifestò, per poi velocemente di volgere a quella rovina, che fu la risultante delle politiche sventure d’Italia». G. Damiani Almeyda, Giacomo Barozzi..., p. 12.

[63]  Anche nel XX secolo, nonostante l’esclusione della Regola dai programmi ministeriali, nelle pubblicazioni didattiche di disegno non mancano dei richiami agli ordini di Vignola. Per citare, uno per tutti, un esempio di grande qualità si veda G. Izzi, Corso elementare di Proiezioni e Prospettiva, Stabilimento tipografico Andrea Brangi, Palermo 1904, in cui alle tavole 62, 63 e 64 si trova una mirabile illustrazione dell’ordine toscano. Benché fortemente ridotto, limitato anche ad un semplice ordine come il toscano, l’argomento del linguaggio classicista rimase affrontato con gli strumenti messi a punto da Vignola.

[64]  A.M. Fundarò, Qualità artistiche e scientifiche in architettura. Note su Giuseppe Damiani Almeyda, in G. B. F. Basile. Lezioni..., pp. 249-256.

[65]  P. Caselli, Il colore progettato. La sperimentazione cromatica ottocentesca nel progetto di Damiani Almeyda per il teatro Politeama di Palermo, in “Disegnare idee immagini”, n. 2, giugno 1991, pp. 67-74. L. Gallo, Il Politeama di Palermo e l’architettura policroma dell’Ottocento, L’epos, Palermo 1997.



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Temi di Critica - numero 4

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