teCLa :: Rivista #5

in questo numero contributi di Carmelo Bajamonte, Eleonora Charans, Francesca Gallo, Giuseppe Giugno, Michela Ruggeri, Vincenzo Scuderi.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

La Net.Art e il museo ai tempi di Internet: la Tate Gallery di Londra di Michela Ruggeri

 

Muovendosi a partire dal lavoro di tesi dal titolo Net.art: la collezione della Tate di Londra e le iniziative del MAXXI di Roma[1], da me discussa all’Università La Sapienza di Roma, si propone qui un breve estratto relativo al suo nucleo costitutivo principale.

Il movimento della Net.art, nato nella seconda metà degli anni Novanta come avanguardia autoreferenziale, è un fenomeno che ha già avuto una sua storicizzazione critica e a cui è stato dedicato ampio spazio[2], anche in relazione al profuso studio delle opere new media. Ciò che si vuole evidenziare specificamente in questa sede è, invece, il rapporto della Net.art con l’istituzione museo, nello specifico esaminando il caso della Tate Gallery di Londra.

Il lavoro di studio si è basato per gran parte sulle risorse disponibili su Tate Online[3], la piattaforma web nata come portale informativo e come opzione e-space della galleria londinese. Tate Online è infatti uno spazio virtuale che raccoglie ed espone non solo la collezione Net.art e new media art, ma funge anche da piano di interconnessione tra le risorse web relative: siti degli artisti e delle loro opere, ma anche documenti istituzionali e contenuti divulgativi, ad esempio estratti video di performance, interviste o conferenze, report e altri documenti dedicati al pubblico del museo, grazie ai quali è possibile realizzare studi sulla galleria e reperire quante più informazioni possibili semplicemente via Internet[4].

Un tipo di ricerca on-line chiaramente in relazione con la natura stessa del contenuto studiato; declinatasi talvolta anche in un’indagine di costume, nella quale diventavano manifesti i livelli di interazione uomo-macchina e uomo-Internet nella società e nelle sue espressioni, compresa quella artistica.

 

La Tate Gallery e il cultural-shift della Net.art

La presenza della Net.art nella collezione Intermedia Art, New Media, Sound and Performance[5] si configura come un chiaro atteggiamento di apertura verso un movimento che è nato dapprima in contrapposizione all’ambiente istituzionale, ma dal quale ha avuto poi, col passare del tempo e con una certa distanza storico-critica, il riconoscimento come pratica artistica e la conseguente istituzionalizzazione.

La Tate Gallery di Londra rappresenta, in Europa, uno degli esempi più riusciti per cui un museo storico tradizionale ha finito col rivolgere parte delle sue attenzioni e risorse - non ultime quelle finanziarie – al recente movimento Net.art, in questo modo legittimandolo, storicizzandolo e conservandone memoria. Un «loop-culturale»[6] già profetizzato nella seconda metà degli anni Novanta, quando la Net.art stava assumendo sempre più coscienza di sé.

Interessante a tal proposito, per la comprensione dell’arte di Internet, dei suoi fini e del suo rapporto con l’istituzione museo nel periodo di transizione dal XX al XXI secolo, l’Introduzione alla Net.art[7] (1994-1999), elaborata da Natalie Bookchin e Alexei Shulgin.

Essa si preoccupava di fornire il Manifesto stilistico al movimento, dal quale emergevano importanti dichiarazioni sul cosa/come e sulle trasformazioni in atto. Ad esempio, è già evidente la dialettica tra gli artisti irriducibili del filone critico e indipendentista degli inizi, con affermazioni come «0% compromessi. a) mantenendo l’indipendenza dalle burocrazie istituzionali»[8] e il prendere atto che, effettivamente, allo stato attuale: «la net.art sta affrontando grandi trasformazioni come risultato del suo nuovo status e del riconoscimento istituzionale»[9], ragion per cui essa «sta mutando in una disciplina autonoma con tutto il corollario di: teorici, curatori, dipartimenti di musei, specialisti e consigli di direzione»[10].

Ancora nel manifesto si parla di «morte pratica dell’autore»[11], immediatezza, immaterialità e temporalità come peculiarità della Net.art, azione basata su processo, gioco e performance, «disintegrazione e trasformazione dell’artista, del curatore, dell’amico di penna, del pubblico, della galleria, del teorico, del collezionista e del museo»[12]: contemporaneamente lavorare fuori dall’istituzione per la sua denuncia, sfida, sovversione, ripensamento e arrivare al loop culturale per cui si finirà a lavorare dentro l’istituzione[13].

Tra la fine degli anni Novanta e il XXI secolo la cultura Net, col suo fiorire di pubblicazioni e corsi accademici, rendeva  le forme d’arte on-line «an instructive and vigorous intellectual force»[14], che godeva dei benefici effetti della rivoluzione informatica nel mercato a metà degli anni Novanta. Nonostante un certo freno si registri nella primavera del 2000, a proposito del quale Rachel Greene sottolinea come il crollo del mercato finanziario avesse prodotto un forte cinismo nei confronti di Internet e delle sue promesse disattese, determinando «a more conservative climate in museums»[15] e l’avvicinamento degli artisti Net verso «other cultural fields such as tactical media, free software and film»[16], l’interesse delle istituzioni per la è ormai una realtà, delineata da eventi come le mostre net_condition allo ZKM (1999-2000) e 010101: Art in Technological Times al Museum of Modern Art di San Francisco (2001), la presenza della Net.art alla Biennale di Venezia del 2000, l’ingaggio di Christiane Paul come new media curator al Whitney Museum of American Art di New York, le commissioni di opere on-line da parte del Guggenheim di New York e naturalmente della Tate di Londra, cominciate nel 1999 (l’ultima commissione risale al 2011)[17]. Si noti a tal proposito che la Tate non è un’istituzione neonata. Ciò significa che la sua esistenza nella storia la configura non come una galleria nata nell’ambito delle nuove tecnologie multimediali, come polo di diffusione e ricerca sui nuovi media (come ad esempio lo ZKM, Zentrum für Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe in Germania), ma come galleria nazionale dell’arte britannica nella metà dell’Ottocento, con una collezione di pittori come Constable, Turner e Blake, che ne rappresentano tutt’oggi il nucleo di maggiore attrattiva per il pubblico. In questo caso, dunque, l’apertura istituzionale verso il panorama di opere new media come quelle net è un avvenimento che possiamo associare ad una capacità di adattamento, all’interno di una sorta di teoria dell’evoluzione della specie museale.

Il Regno Unito degli anni Novanta, durante la fase di esplosione della New-economy, risente, insieme agli USA,  della situazione di favore di cui gode il mercato dell’informatica, il quale cambia di fatto le abitudini e i rapporti fra soggetti e organizzazioni economiche.

Nel saggio on-line Art meet Net, Net meet Art Matthew Fuller scrive a proposito del rapporto fra il mondo dell’arte e le nuove prospettive della rete in Gran Bretagna alle soglie del XXI secolo, sottolineando lo spostamento dei meccanismi economici:

 

The last year or so in the UK saw an enormous amount of investment in Internet-related companies. It clicked rather loudly that you could stick a website in front of a warehouse instead of a chain of distributors and retailers. (…)  Suddenly, at the same time, the work of artists using the web seems ripe for an initial public offering[18].

 

Il museo inglese quindi, così come altre istituzioni della società di quel periodo, subisce il fatale spostamento d’asse, confrontandosi con le recenti implicazioni della tecnologia informatica e cominciando una lenta evoluzione. In generale si può affermare che la politica dei musei negli ultimi dieci anni e più ha visto lo snodarsi di un percorso che va dalle prime esperienze di digitalizzazione del patrimonio, per accrescere la fruizione sfruttando il canale Internet, all’ampliamento di mostre con contenuti on-line. Contestualmente, nella nuova società tecnologica, il ruolo della rete sembra sempre più configurarsi come «modello pratico di decentralizzazione della conoscenza e delle strutture di potere»[19]. Il museo tradizionale si trova così al bivio che può essere crisi senza scampo o viceversa occasione di rivoluzione. Un processo in fieri, non senza traumi o problematiche concrete, obbligato a relazionarsi con l’arte complessa, capricciosa, immateriale e insofferente alle classificazioni com’è quella dei nuovi media.

La Tate come istituzione

 

[…] has only recently come to accommodate photography or video: the focus is firmly on visually pleasurable, minutely disciplined, singular and valuable objects. What is interesting therefore is not simply that it has chosen to begin an involvement now. For culture-bunkers, the decision must be made to collect now or face the possibility of archival lack[20].

 

Da un lato quindi i recenti investimenti legati a Internet, dall’altro la possibilità che il museo, come tradizionale detentore e conservatore (addirittura assimilato a un bunker culturale), dedito da sempre alla tesaurizzazione, perda per sempre queste opere new media se non comincia a collezionarle da adesso.

Da queste premesse diventa possibile un dialogo con gli artisti che lavorano con e sulla rete:

 

[…] to now involve museums as one of the media systems through which their work circulates […] crucial is, alongside the avoidance of being simply nailed down by the spotlight, to attempt to establish, not a comfy mode of living for the museum on the networks, but a series of prototypes for and chances at something other and more mongrel than both[21].

 

Stando a quanto afferma in Network Art and the Networked Gallery  Charlie Gere, risulta fondamentale il passaggio dalla Tate come galleria alla Tate come network distribuita, costituita da «multiple connections between the various sites, virtual and physical»[22], evitando la struttura centralizzata. Cessando di essere un edificio e diventando un marchio, brand applicabile a diversi luoghi e processi, reali e virtuali in diretto collegamento fra loro, la Tate utilizza in maniera vincente le strategie della società post-industriale, per la quale «the means and location of actual production are less important than the sustaining of the brand»[23]. Ovvero, oltre alla dislocazione fisica dell’istituzione nelle quattro sedi (Tate Britain, Tate Modern, Tate Liverpool, Tate St. Ives) si hanno tutta una serie di iniziative estese, reali e virtuali, che si snodano anche a partire dal portale web Tate Online[24]: canali, podcasts, blog sino al merchandising firmati TATE.

Dire Tate oggi, insomma, non vuol dire solo conservazione e mantenimento del ruolo storico dell’istituzione museo, bensì soprattutto diffusione: irraggiamento e divulgazione di contenuti, su livelli diversi e molteplici canali, all’interno di una rete creatasi intorno al marchio.

Parallelamente e in quest’ottica, la presenza della Net.art nella Tate testimonia non più l’evento artistico marginale di difficile collocazione, ma il paradigma dello «spostamento culturale» o «cultural-shift»[25], dovuto all’avvento di Internet e al suo sviluppo tecnologico nella società di massa.

La collezione Net.art trova quindi la sua collocazione virtuale su Tate Online alla sezione Intermedia Art, New Media, Sound and Performance[26], della quale si chiarisce lo scopo di voler essere stimolo alla ricerca e al dialogo museo-artisti-new media: «The Intermedia Art programme aims to support artists’ use of new tools and new methods as well as to expand modes of distribution and display beyond the walls of the gallery»[27] E a proposito dei nuovi media in collezione:

 

Artworks may be created with newer or older networked and time-based media such as video, radio, computer technologies or the internet. They may involve performance or discussion, straddle a variety of media, or even fuse media in the creation of new hybrid, intermedia forms[28].

 

Significativamente, la collezione vuole raccogliere opere d’arte intermediali, nate dal dialogo e dalla commistione dei nuovi media fra loro. La Net.art ne costituisce un capitolo che non è né purista né a sé, ma si presenta nelle sue diverse declinazioni, in rapporto alle sperimentazioni nello spazio reale e nelle sue implicazioni più recenti, soprattutto emerse nel decennio successivo al 1999.

La Tate tradisce quasi da subito un’impostazione incline alla divulgazione anche attraverso il web. Dal 2003 crea una sezione dedicata alle scuole su Tate Online, instituendo un E-learning Curator. Due anni dopo la digitalizzazione del patrimonio arriva a portare on-line 60.000 opere d’arte, continuando con oltre 10.000 altri contenuti virtuali[29].

In questo senso, l’impressione è che sia stata l’istituzione stessa a sfruttare a proprio vantaggio il medium Internet, accogliendolo entusiasticamente come mezzo propulsivo, piuttosto che come moda problematica o ineluttabile epilogo dovuto alla deriva tecnologica dei tempi. Si legge infatti sul Tate Report 2002-2004: «Many of Tate’s aims can be fulfilled through embracing new technology and finding ways to use it most effectively»[30].

Logisticamente, Internet rappresenta tutt’ora per il museo un vantaggio, comprovato da esperienze quali la vendita on-line dei biglietti (almeno il 50% vengono acquistati via Internet), le e-letters informative o il download di files multimediali sul cellulare.

Un approccio senz’altro positivo, che ha evitato alla galleria inglese di tribolare sulle questioni ideologiche e ristagnare nel complesso dibattito che vede contrapporsi museo reale e museo virtuale.

L’istituzione Tate ha dunque risolto il problema non solo diventando un marchio versatile, ma soprattutto scegliendo l’opzione e-space del museo, cioè quella di creare uno spazio in Internet dove conservare ed esporre le opere virtuali: la sezione Intermedia Art sulla piattaforma Tate Online. Tramite questa si attuano continui rimandi fuori e dentro l’opera Net.art esposta, nelle sue peculiarità tecniche e nelle sue implicazioni politico-sociali. La presenza massiccia del materiale digitale, che trova nella rete non solo la sua diffusione ma, nel caso delle opere, anche la sua stessa ragione d’essere, consente una certa fruibilità di argomenti utili all’inquadramento del movimento storico di Internet e dei suoi protagonisti, artisti e critici.

 

Problemi della Net.art in rapporto all’istituzione museo

Il riconoscimento di opere new media, conseguentemente il loro ingresso nei musei, hanno posto da subito l’urgenza dell’aspetto conservativo legato alla tecnologia, così fortemente condizionata dai suoi mutamenti, divenuti ormai frequenti e repentini.

Le opere di Net.art in particolare sono un tipo di opere facilmente assimilabili sia a quelle concettuali, sia a quelle site-specific[31], imprescindibilmente legate ad uno spazio che è quello virtuale, con la sua temporalità e la sua semantica. Il legame con la tecnologia che le ha prodotte è un aspetto che ne condiziona fortemente l’esistenza storica, ponendo spesso gli stessi problemi avanzati dall’arte concettuale degli anni Sessanta, quando la documentazione video e fotografica tentava di risolvere il problema di conservare e garantire il possesso dell’opera.

Documentare l’avvenimento in rete è una pratica ancora meno riproducibile, anzi più specifica di un istante storico. Trasferire quindi le opere di Net.art su CD-rom a scopo conservativo non è sufficiente per sciogliere la questione, dal momento che il significato e il funzionamento stesso dell’opera risiedono e sono validi solo sulla rete, nel suo presente specifico.

Conservare l’effimero dunque, così come restaurarlo o mantenerlo operativo nel tempo, è ancora una questione aperta dell’arte contemporanea, giacché «il valore concettuale e progettuale dell’opera emerge rispetto a quello formativo, a prescindere dai materiali utilizzati»[32]. Inoltre, la cosiddetta arte sine materia, può addirittura svincolarsi dall’obbligo di essere conservata, perché parte del suo significato risiede proprio nella sua caducità: il «diritto di morte» è  preventivato dall’artista sin dall’inizio[33].

Vuk Cosic sottolinea con forza l’aspetto della temporaneità dell’opera net, la quale è parte integrante del suo senso: «[…] and I think the intentions of the artist should not be respected when you make an archive of that sort because then you lose because you have to then buy software and hardware and maintain stuff»[34]34. Per l’artista Net della prima generazione il concetto alla base dell’opera risiede altrove.

Parallelamente, la caratteristica di molte delle opere net di essere interattive ha finito con lo sfumare i contorni dell’autorialità. È in questo senso che cambia il ruolo del pubblico dell’opera: dal connoisseur al fruitore. Perfino il valore dell’unicità non sussiste più, per le pratiche di plagio legittimate in Internet e per certi meccanismi informatici che gli sono propri, come la memoria cache[35].

I problemi conservativi, di fruizione e di possesso, esasperati e portati avanti con la Net.art nella nuova società tecnologica in rete, ha visto particolarmente impegnata, negli ultimi venti anni, l’istituzione museo in seguito alle prime acquisizioni. Davanti all’emergenza Net.art essa ha cercato di riorganizzarsi e ponderare soluzioni ad hoc, proponendo standard e modelli, variando pratiche e sperimentazioni nella conservazione, nel possesso e nell’allestimento di questo tipo di collezioni[36]. Alcuni musei hanno deciso di acquistare il codice di programmazione delle opere net, altri espongono tramite il loro sito web, altri ancora partecipano commissionando e sponsorizzando, mentre nuove organizzazioni Dotcom[37] per la promozione e la ricerca sui nuovi media prolificano e ricevono persino finanziamenti governativi[38]. Il problema della contrapposizione fra museo reale e museo virtuale quindi, che fu uno dei principali argomenti di discussione in ambito Net.art, oggi risulta decisamente obsoleto. Superando una prima diffidenza verso un tipo di arte così tecnicamente complessa e potenzialmente minacciosa per la sopravvivenza del museo reale (basti pensare alla gestione di fondi e investimenti), pian piano la distanza storica e l’evolversi delle pratiche hanno annullato divisioni nette e conflitti amministrativi all’interno dell’istituzione, aumentando sempre più gli spazi di dialogo. Vi sono musei che hanno cessato di esistere nella realtà per diventare virtuali, altri hanno scelto di digitalizzare il loro patrimonio per renderlo più fruibile, mentre la celebre Rhizome.org è un’organizzazione in forma di database on-line, esempio più riuscito di museo sul web[39]. Le sperimentazioni di artisti e curatori, dunque, si evolvono continuamente e in maniera rapidissima, così come le opere stesse vivono sempre più al confine fra due mondi che, fino a quasi un ventennio fa, sembravano destinati ad una convergenza impossibile.

Silvia Bordini riassume così questa fase di adattamento reciproco fra Net.art e istituzione:

 

Dunque anche gli intenti alternativi e globalizzanti della Net.art si stanno lasciando riassorbire dalla dimensione decontestualizzante del sistema dell’arte, portandovi i processi di libera partecipazione della comunicazione in rete che ne costituisce la premessa fondamentale, ma anche irrigidendoli nel metalinguaggio degli apparati espositivi[40].

 

Citando Vuk Cosic, siamo già nell’era della «post-modem art»[41].

 

Opere della collezione Intermedia Art, New Media, Sound and Performance

La collezione Intermedia Art della Tate Gallery si compone di 14 opere Net Art in totale. Per questo breve estratto ne sono state selezionate solo alcune, in base a criteri che sono principalmente la rappresentatività dei loro autori nel panorama Net e Web Art, i temi affrontati di rilevanza politico-sociale, la capacità di evidenziare i rapporti uomo-macchina-rete, o ancora lo speciale utilizzo delle tecniche new media. Nella collezione Intermedia Art è ricorrente la critica, da parte degli artisti, di alcuni aspetti della società e della politica reali, dei quali Internet e l’opera net si rendono testimoni tattici per innescare nuove declinazioni di senso, approfondendo il discorso sulla comunicazione in rete. In generale l’opera d’arte su Internet ha già, per sua stessa natura, una connotazione politica, perché nata direttamente in opposizione alla gerarchia verticale dell’istituzione; fermo restando che in certe opere questo carattere è nettamente spiccato, pure in contesti museali[42].

La maggior parte delle opere della collezione presuppone l’interattività, uno dei paradigmi fondamentali della Net.art, ovvero la partecipazione estesa degli utenti in rete per lo sviluppo dell’opera – a volte infinita più che non finita – e l’uso di Internet come vero e proprio spazio di scambio e confronto, presupponendo sempre l’aspetto connettivo e l’uso che facciamo di strumenti quali il software o il semplice sito web. Tuttavia l’uso della rete si evolve nelle sperimentazioni, giungendo a esiti che pian piano escono fuori dal cyberspazio, alla riconquista del reale, secondo nuove tecnologie che mescolano sempre più realtà e finzione, uomo e macchina, concretezza e utopia.

 

Graham Harwood, Uncomfortable Proximity, 2000.

Problematiche come il ruolo dell’arte, come mezzo per l’affermazione dello status sociale, sono molto care ad uno dei net artisti storici presenti nella collezione Tate: Graham Harwood con l’opera Uncomfortable Proximity[43]. Graham Harwood è meglio conosciuto come co-fondatore di Mongrel[44]:

 

Mongrel is a mixed bunch of people, machines and intelligences working to celebrate the methods of London street culture. We make socially engaged culture, which sometimes means making art, sometimes software, sometimes setting up workshops, or helping other mongrels to set things up[45].

 

Impegnata da sempre nel sociale infatti, l’attività di Harwood coinvolge pratiche legate all’informatica e alle arti visive, ma fondendole alle problematiche sociali dell’ambiente londinese, quali ad esempio gli stereotipi razziali o il disagio individuale[46].

Il rimescolamento figurativo digitale è una pratica ricorrente nella poetica di questo artista, per il quale la vista diventa il senso principale per la comunicazione e l’identificazione fra gli individui, nelle loro differenze e nei loro disagi, il livello ove maturano gli stereotipi sociali e che media la comunicazione interpersonale: esattamente come l’interfaccia grafica media il nostro rapporto col computer. Con Uncomfortable Proximity, Harwood si cimenta nello sviluppo di un vero e proprio sito web della Tate, parallelo a quello reale: citando l’artista «just a complete rewritting»[47] delle pagine in HTML[48]. Si ricorda che all’epoca (alla fine degli anni Novanta) era pratica diffusa dei musei la digitalizzazione del patrimonio.
La Tate di allora aveva sposato questa esigenza lanciando il proprio sito web, che illustrava la collezione e varie informazioni pratiche e storico-artistiche sul museo.

Il sito mongrelizzato parallelo a quello Tate, è stato attivo per tutto il 2000 e prevedeva  che, durante la consultazione del sito web istituzionale, dietro queste pagine rimanesse aperto il sito-copia di Uncomfortable Proximity. Questo appariva quindi non appena venivano chiuse le finestre ufficiali. Harwood interviene cioè con un’azione di digital hijaking[49], proponendo la visione personale della collezione del museo: le nuove opere nascono mischiando, in maniera tanto creativa quanto critica, le immagini di alcuni dipinti (di Constable e Turner ad esempio, simboli illustri dell’identità culturale inglese) con quelle prese in prestito dai corpi di familiari e amici dell’artista. Lo scopo è denunciare il ruolo dell’istituzione museale Tate (la sede Tate Britain era l’ex prigione di Milbank) utilizzata come strumento di controllo e repressione nella società inglese. Harwood ne sottolinea la pratica accentratrice, esercitata nella storia sui corpi come sulle menti, gli stessi che oggi popolano l’edificio museale e ne sono parte integrante.

Harwood baratta i contenuti virtuali di un certo sito web reinventandone la funzione, approfittando dell’interesse iniziale del visitatore verso il sito Tate istituzionale, irrompendo all’improvviso con nuovi contenuti, come detta la tradizionale pratica Net.art del dirottamento digitale.

 

Heath Bunting, BorderXing Guide, 2002.

La presenza del londinese Heath Bunting[50] nella collezione Intermedia Art Tate è senz’altro indicativa non solo di una progressiva istituzionalizzazione delle pratiche Net.art degli albori, ma anche della volontà museale di raccogliere le più significative testimonianze storiche del movimento artistico, conservandone il racconto.

Secondo Deseriis, l’opera BorderXing Guide (2002) dell’artista londinese, appartenente alla prima fase di commissioni Tate, rappresenta molto bene la transizione dalla fase autoreferenziale e astratta della Net.art a un più intenso intreccio con soggetti e luoghi fisici[51]. Siamo infatti nei primi anni del XXI secolo e il networking è attraversato da un nuovo tipo di riflessione che punta a  «riterritorializzare oltre lo schermo» l’esperienza di condivisione virtuale, «concatenando alla realtà fisica e geografica la virtualità delle reti»[52].

L’opera si presenta lanciandola dal link nella sezione Intermedia Art di Tate Online, che rimanda a <www.irational.org>, il sito web dell’artista. La schermata che appare presenta una lista di luoghi geografici reali, nazioni o più precisamente vie di varie città e luoghi del mondo, indicati come unici client[53] autorizzati alla connessione che permette di fruire dell’opera: solo trovandosi fisicamente lì è possibile fruire della BordeXing Guide.

Nient’altro che una sorta di guida turistica molto meno frivola, il cui scopo è «crossing national borders without permission»[54]. Bunting in prima persona, a seguito di un viaggio di un anno e mezzo, attraversa circa venti confini in tutto il mondo evitando dogane, controlli e recinzioni, scegliendo come passaggi preferenziali foreste e fiumi. Si pone in questo modo l’attenzione sulle problematiche dell’immigrazione clandestina, sulla politica che la gestisce e sulla presunta accessibilità di Internet, messa prepotentemente in discussione grazie ad uno sbarramento tecnico impostato dal programmatore-artista.

Le limitazioni individuali nella società sono qui enfatizzate perché messe in stretto contatto con un limite tecnico della rete, indicata spesso come utopia di democraticità e accessibilità, connettore assoluto di mondi e spazi[55]. Il punto focale non è più il Web, ma l’individuo e la sua posizione nello spazio concreto: al di là dell’utopia di Internet come falso garante di un’accessibilità totale al cyberspazio, si registra un chiaro ritorno al reale.

La mobilità è oggi una questione molto presente nelle discussioni riguardanti la società globalizzata, la tecnologia informatica e il cambiamento dei flussi economici. Gli individui che si muovono in questa nuova percezione spaziale si spostano supportati da una tecnologia che è anch’essa nomade e permette di portare con se capitali, beni, oggetti culturali.

Lev Manovich, nel suo Software takes command, definisce questo tipo di tecnologie portatili «ibride»[56], sottolineandone la presenza massiccia in «user interfaces, web applications, visual design, interactive design, visual effects, locative media, digital art, interactive environments, and other areas of digital culture»[57]. La nuova deriva oggettuale è legata, ad esempio, alla diffusione di ricevitori Gps a basso costo, i cui dati raccolti e diventati open source contribuiscono a creare una geografia umana condivisa, mappando ambienti e ricostruendo una cartografia di paesaggi e luoghi, condivisi in rete attraverso vari dispositivi informatici[58]. Esperienze del genere nella vita quotidiana, che utilizzano tecnologie mobili, wireless e software appositi, finiscono col creare nuove cartografie del territorio e del sociale, giungendo ad esiti quali ad esempio il navigatore collaborativo che costruisce relazioni tra luoghi diversi tramite l’aggiunta di dati multimediali come foto, suoni, video, informazioni[59]. Una nuova geografia sociale, che sfuma in sostanza i confini reali di popoli e nazioni e le altre barriere fisiche, ma che non può rinfrancare dalla fine dell’utopia di Internet come terra franca di libertà e accessibilità assoluta.

 

Susan Collins, Tate in Space, 2003.

La questione delle ambizioni culturali di un’istituzione prestigiosa come la Tate Gallery, è alla base del progetto di Susan Collins, una vera e propria fiction architettata in rete: Tate in Space (2002-2003).

La galleria si prepara ad accogliere i nuovi visitatori, quelli della generazione futura, di questo o di un altro pianeta, dichiarando di aver lanciato un nuovo programma, Tate in Space, del quale Susan Collins è la direttrice. Il programma prevede che un satellite Tate venga mandato nello spazio con, all’interno, una parte della collezione del museo debitamente attrezzato e pronto ad accogliere i visitatori del cosmo, che funzioni come una ulteriore succursale del già variamente dislocato museo londinese. La Collins prevedeva che la sezione Tate in Space si innestasse realisticamente sull’allora sito web Tate Online come un’altra delle sedi museali, insieme alle altre sezioni navigabili dedicate al Tate Modern, Tate St. Ives, Tate Britain e Tate Liverpool.

È la finzione la chiave di lettura, il pretesto per indurre i navigatori di Tate Online a trovarsi faccia a faccia con questa nuova proposta, attivando la fantasia per immaginare il museo in orbita, così avanguardistico, suggerendo soluzioni ai limiti del reale, sfruttando la popolarità del mezzo Internet e l’uso di contenuti virtuali del tutto fittizi o quasi. Giocando sul piano della finzione, la Collins sfrutta la dialettica fra reale e virtuale attraverso la vetrina Internet. Si fa sempre più pallida la distinzione fra Net.art e happening, inteso come esperienza che coinvolge il pubblico nello spazio, nel tempo e nell’emotività. Susan Collins innesca un meccanismo che ha come conseguenza la processualità di una serie di azioni e reazioni, in un lavoro più concettuale che  tecnico, che trae vantaggio dal fatto di essere fruibile in rete: «yet the piece is so successful because it’s on-line. It’s taking full advantage of the medium»[60].

Il progetto avviato dalla Collins si è perpetrato efficacemente con tutta una serie di iniziative reali molto specifiche: la sezione Tate in Space, infatti, contiene concorsi di architettura spaziale, domande frequenti sul progetto, forum on-line, notizie fornite in dettaglio sui dati dell’orbita del satellite Tate e sui costi delle operazioni. Essa propone addirittura link esterni e riferimenti vari per approfondire il discorso della Space Art, facendo riflettere su questioni come l’accessibilità, l’innovazione, i  nuovi pubblici, nonché l’ambizione colonialista della conquista del cosmo o la problematica dell’inquinamento ad essa legata, allo scopo di incentivare il dibattito. Come l’artista stessa dichiara nel saggio The Actual and the Imagined la proposta di collaborazione della Tate per un lavoro on-line, alla fine del 2001, fu pensata per agire come un «agent provocateur to explore a range of issues and ideas including the nature of cultural ambition»[61].

 

Natalie Bookchin, AgoraXchange, 2004.

Insieme a Heath Bunting, Natalie Bookchin rappresenta uno dei nomi più famosi della Net.art internazionale. Americana, pioniera nell’arte di Internet degli esordi e legata alle esperienze dell’ hacktivism, si muove da sempre in un contesto nel quale la distribuzione libera di software, idee e informazioni è parte attiva della scena on-line. In AgoraXchange[62], commissione Net.art della Tate nel 2003, si elabora un gioco multi-player[63] dai costrutti esplicitamente politici. L’idea di partenza è quella di usare il gioco on-line, una delle più popolari esperienze possibili in rete, dalla straordinaria diffusione, per tentare di portare avanti l’ideale di uno Stato virtuale nel quale siano abolite tutte quelle leggi e quei costrutti culturali che nell’attualità creano fenomeni di disuguaglianza e ingiustizia, economica e sociale, in tutto il  mondo.

«The democratic potential of the net lies in fact that it extremely easy and affordable to be a producer and distributor as well as a consumer»[64], afferma l’artista, spiegando che il suo interesse principale è cercare di coinvolgere le normali attività di un navigatore annoiato verso qualcosa che lo coinvolga nella promozione di modelli alternativi, validi politicamente e socialmente impegnati[65].

La prima versione di AgoraXchange[66] (2004) era in forma di forum di discussione, al fine di incentivare il dibattito politico, definendo democraticamente il tipo di grafica e i principi fondamentali del gioco, resi sottoforma di quattro decreti.
La versione Beta[67] successiva (2008) consiste in un sito web con strumenti classici, come il forum, le FAQ, i decreti e il Manifesto che impieghi i lineamenti del gioco on-line coinvolgere il fruitore all’interno della dimensione video ludica[68].

Tuttavia, non è tanto la prospettiva finale del gioco a costituire l’essenza del progetto, bensì è davvero cruciale l’aspetto collaborativo di AgoraXchange: quello di porsi come risorsa aperta, pubblica e globale, esperimento connettore di individui diversi per appartenenza sociale e geografica, chiamati a partecipare al dibattito politico-sociale internazionale.

A proposito del collaborativismo globale on-line e delle risorse open source, si afferma infatti:

 

We have been influenced by various aspects of successful Internet collaborations, including self-regulating community weblogs, open source programming models, and large scale collaborative projects, such as Wikipedia, Slash dot, and Sourceforge.net[69].

 

È questo il caso in cui un’opera di Net.art fa leva sulle potenzialità di Internet come agorà di scambio, luogo per incontrarsi e creare relazioni fra gli individui partecipanti: «The form of this project is very much connected to the global and open source possibilities of the internet, especially its ability to network people with related commitments, regardless of citizenship»[70].

 

YOUNG HAE-CHANG HEAVY INDUSTRIES, The Art of Sleep, 2004.

Gli YOUNG HAE-CHANG HEAVY INDUSTRIES[71] sono presenti nella collezione Tate con l’opera The Art of Sleep[72]. Il loro lavoro si basa esclusivamente sull’uso del testo per scopi narrativi, ma allontanandosi totalmente dalla tecnologia ipertestuale degli albori Net.art[73].

Una loro opera si presenta come un testo dal font largo, di solito il Monaco, di colore nero, blu o rosso su sfondo bianco o colorato, che scorre lampeggiando grazie all’utilizzo della tecnologia di animazione Flash[74]. Le frasi, le parole, la punteggiatura, occupano interamente la finestra del browser e appaiono in sincronia con un sottofondo musicale jazz o classico, una particolarità che enfatizza la partecipazione alla narrazione e la componente ironica attraverso un ritmo audio–visuale. I contenuti dei testi si ispirano a brani di letteratura, alla politica, alla cultura in generale, ma anche al livello più intimo del flusso di coscienza.

L’opera commissionata dalla Tate è uno dei più classici esempi dello stile YHCHI, la quale lascia impressionati per «such a dynamic, emotionally powerful work of art on a computer screen, let alone one that had reached me in a hotel room via a 56.6 K modem»[75], riferisce Mark Tribe, fondatore di Rhizome.org. Si tratta infatti di una tecnologia che sfrutta solo una minima parte delle funzioni applicative Flash, un pacchetto di soli 4,18 MB di dimensione, tale che può essere fruito anche con un tipo di connessione a bassa velocità.

Gli artisti parlano difatti dell’inefficacia comunicativa delle opere Net.art degli anni Novanta, quando la banda larga non era ancora diffusa e caricare opere dai contenuti multimediali complessi (musica, testi, immagini) sul browser diventava un processo piuttosto lungo. Riducendo quindi i contenuti a solo testo e mp3, è possibile massimizzare la capacità di diffusione di Internet indipendentemente dalla portata della connessione, creando opere che durano fino a 28 minuti ma caricate senza difficoltà.

Contrariamente alle poten-zialità offerte dal software di Adobe, anche il livello dell’interazione è qui pra-ticamente azzerato: basta infatti lanciare l’opera e lasciarla scorrere per la durata di circa 18 minuti senza interruzioni. Proprio l’assenza di interattività ha contribuito a classificare The Art of Sleep come Web Art, piuttosto che Net.art. Gli YHCHI non sono interessati all’opera Net.art interattiva, la quale, nella loro ottica, è simile più alla TV d’intrattenimento che alla rete, secondo l’inevitabile corrispondenza che lega i due media. Vi è tuttavia la possibilità di interrompere la visione dell’opera, tornando indietro col tasto back. Per gli artisti questa funzionalità di fatto ridimensiona il ruolo totalmente passivo dello spettatore, dal momento che «clicking away is one of the essences of the Internet. It’s no different from deleting. It’s rejection, it’s saying ‘no’. That’s ultimate power»[76].

Mark Tribe ribadisce che tecnicamente il lavoro degli YHCHI manca delle «distincti-ve features of the Net.art medium as interactivity or algorithmic computation»[77] e la loro ricerca rientra più nell’ambito di sperimentazione new media art, «to reach audiences directly, without art-world intermediaries; collaborative production; and a global perspective»[78]. Gli artisti ammettono infatti che, molto più che le possibilità del medium Internet come sinonimo di accessibilità, diffusione e interattività, l’enfasi si pone più spesso sulla sua artisticità[79].

Rimanendo sulla superficie tecnologica del software quindi, il risultato è un’opera quasi filmica, che gioca sul piano della comunicazione, dell’associazione di idee, dell’intrattenimento, la quale, esibita sullo schermo, annulla la piattezza del web con le sue proposizioni letterarie[80].

In The Art of Sleep la tematica trattata è quella duchampiana sul ruolo dell’arte, del mercato e dei suoi critici. Le proposizioni che scorrono sullo schermo sono nient’altro che il flusso di pensieri di un anonimo insonne narratore, che riflette e si interroga sul vero valore dell’arte in se stessa[81]. Ma gli YHCHI si trovano già all’interno del sistema arte così come all’interno dell’istituzione museo, non solo alla Tate ma anche al Centre Pompidou di Paris, al Samsung Museum di Seoul e al MEIAC di Madrid, dove sono presenti anche con delle istallazioni nello spazio reale.

Alla domanda su cosa significa per un’istituzione possedere un lavoro Web Art, essi rispondono:

 

Web art is bought and sold like any other art form. An art institution that acquires our work owns a digital file and has the right to exhibit it in public, usually projected or on a plasma screen. A private collector can do the same thing in his/her home, over the couch in the living room, for instance[82].

 

Ma con la nota ironia, gli artisti propongono una critica sottile a tutto il sistema dell’arte, sottolineandone le contraddizioni, l’impossibilità effettiva di giudicare, definire, legittimare l’arte stessa come qualcosa di realmente utile o valutabile con metodi obiettivi.

Riecheggiano alcuni temi del dibattito sull’arte degli ultimi decenni.

Semplicemente, «Art is futile»[83].

 

Golan Levin, The Dumpster, 2005.

Con The Dumpster[84], di Golan Levin, ci inoltriamo in uno dei tanti temi cari alla Net.art, cioè il flusso di dati affidati al networking: la vita sentimentale finita male di teen-ager americani, postata su blog[85] disseminati nel cyberspazio durante tutto il 2005, è stata ordinata all’interno di un database, la cui interfaccia grafica rende le varie storie personali fruibili e navigabili.

Lev Manovich ha evidenziato la caratteristica del software The Dupster di essere «multi dimensionale»[86]: il mouse si muove sulla superficie dell’interfaccia, evidenziando i post sottoforma di pallini fluttuanti sul quadrante centrale. Sulle assi verticale e orizzontale è possibile invece consultare i testi raccolti secondo criteri di tempo, di spazio, di relazione e di altri elementi distintivi del dato specifico preso in considerazione.

In ogni caso il livello di interazione con l’opera da parte del fruitore è limitato a quello che può essere l’utilizzo di un software di archiviazione dati.

La novità di fatto sta nell’interfaccia grafica dell’applicazione e probabilmente nel coinvolgimento emotivo di chi partecipa a questa fotografia di gruppo, nella quale l’applicazione informatica «provides a window into the emotional experiences of a real individual, and the reader is involved in that individual’s heartbreak»[87].

Levin si dichiara assolutamente attratto dalla visualizzazione dei dati e dal loro uso, nella loro maggiore o minore utilità, dichiarando che «The discipline of information visualization has emerged as an important hybrid of graphics, scientific communication, database engineering, and human-computer interaction»[88].

Siti come Myspace, Twitter, Facebook, Flickr, la possibilità di creare vari blog, funzionano come catalizzatori della personalità dell’individuo in rete, dove in uno spazio assolutamente virtuale la persona può assumere di fatto concretezza nel momento in cui vi riversa i propri pensieri, aspirazioni, sentimenti, idee, contenuti dal valore personale. Lev Manovich ricorda a proposito l’espressione user-generated content, entrato ormai in uso mainstreaming, per indicare proprio i contenuti creati e pubblicati dagli utenti su Internet[89]. Secondo Manovich si tratta di una nuova forma di ritrattistica degli individui, della folla, dalla quale emergono finalmente relazioni, differenze, caratteristiche del singolo; superando quello che forse è stato da sempre un limite tecnico dell’arte rappresentativa: il computer e la potenza del software oggi rendono possibile un’opera che può essere definita di «social data browsing»[90].

 

MW2MW, Noplace, 2008.

Commissionato dalla Tate nel 2008 e curato da Kelli Dipple, responsabile della sezione Intermedia Art, Noplace[91] è un progetto prettamente Net.art che vede protagoniste le risorse audio-video del web all’interno di composizioni filmiche, aventi come sfondo i concetti di paradiso e utopia. Gli autori del progetto sono Marek Walczak e Martin Wattenberg[92].

Il progetto Noplace parte dall’idea di Internet come spazio di condivisione non solo di esperienze, ma anche di risorse multimediali (audio e video) che le rappresentano; e si è concretizzato in un’installazione immersiva multisensoriale[93].

Il funzionamento tecnico di Noplace, con la rete come medium, è spiegato così sul sito web del progetto:

 

Live feeds are taken from the internet using the RSS protocol. Each image and sound has its text-tags stored in the database. The Tag Sequencer finds relationships between these tags and streams these to the projectors. Each projector has a specific semantic cluster, each representing a particular concept of paradise. The tag sequencer not only finds narrative threads within each cluster, but also finds parallel narratives within different projections, so synchronizing divergent utopias and allowing for a reading across human wishes and desires[94].

 

Il protocollo RSS[95] è il formato più diffuso per la distribuzione dei contenuti web, che li omologa in un formato unico e sempre leggibile.

I feed invece rappresentano un’applicazione grazie alla quale è possibile ricevere aggiornamenti di dati in formato RSS: ad esempio riguardanti i contenuti di un sito web, consultabili senza dover necessariamente visitare ogni volta il sito in questione.

Raccolti dunque gli archivi di risorse web corrispondenti a certe idee di paradiso, raggruppati in cluster (gruppi) con tag[96] memorizzate ad essi associati, vengono collegati ad un proiettore. Il sequencer tag, una sorta di lettore di tag, rileva i significati di ogni contenuto web del cluster, ma anche fra i diversi gruppi, tessendo una narrazione sincronizzata fra le diverse utopie. Allo stato attuale, dalla sezione Intermedia Art del sito web Tate, è possibile lanciare il sito di Noplace dal link apposito. Il sito web http://noplace.mw2mw.com/tate/   è ormai una sorta di archivio delle esperienze degli utenti del progetto, dal momento che esso si è concluso ormai da qualche tempo. In ogni caso, questi artefatti collaborativi sono stati protetti dalla licenza Creative Commons, così da poter essere utilizzati da Noplace per creare nuove opere.

È chiara l’esperienza dell’ esteriorizzazione in rete di contenuti reali e  immaginari quali suoni e immagini (ne è un esempio il famoso sito web YouTube), i quali vanno a comporre in Internet una sorta di archivio pubblico, diventato «an essential form of aggregated cultural memory»[97].

Noplace è quindi un progetto che sottolinea il valore della rete come spazio di condivisione culturale, una terra franca in cui si radunano istanze, idee, desideri di moltissimi individui in tutto il mondo. Internet si fa specchio e deposito della memoria culturale condivisa, disponibile attraverso tecnologie che consentono di condividere questo archivio sconfinato di suoni, parole e immagini.

Un progetto dal sapore poetico, che fa riflettere sui concetti di utopia, di spazi inesistenti, al confine fra desideri reali e forme digitali. Tuttavia essi fanno riflettere anche sui limiti del reale e dell’utopia, dal momento che «digital media, artefacts inscribed with material representations of digital data, may exist but the digital itself does not exist»[98]. Così i media digitali si fanno portatori di speranze condivise, creatori di luoghi irreali dove rifugiarsi: afferma Charlie Gere «is it any wonder that more of us are retreating to the solitude of the digital desert of the Web»[99].


[1]  Relatrice prof. Francesca Gallo, correlatrice prof. Silvia Bordini, cattedra di Storia delle Tecniche Artistiche, A. A. 2010/2011.

[2]  Per approfondimenti sulla bibliografia Net.art e new media art cfr. L. Manovich, The language of new media, MIT Press, Cambridge, Massachusetts / London, England 2001; T. Tozzi, A. Di Corinto, Hacktivism. La libertà nelle maglie della Rete, Manifestolibri, Roma 2002; C. Paul, Digital art, Thames & Hudson, London 2003; S. Bordini, Arte elettronica, Giunti, Firenze 2004; R. Greene, Internet art, Thames & Hudson, London 2004; D. Quaranta, Net art 1994-1998: la vicenda di Ada’web, Vita e Pensiero, Milano 2004; M. Deseriis, NET.art: l’arte della connessione, Shake, Milano 2008. Per la sitografia e le riviste online cfr. http://www.neural.it/, http://www.nettime.org/, http://www.thething.it/, http://rhizome.org/, http://www.easylife.org/ , http://www.irational.org/, http://www.leonardo.info/.

[3]  http://www.tate.org.uk, gennaio 2012.

[4]  Il materiale scientifico pubblicato on-line ha coinvolto anche archivi di mailing list, siti web di artisti, critici e curatori, importanti piattaforme di riferimento sulla Net.art e risorse multimediali digitali, anche su CD-rom. Tuttavia, non è venuta meno la ricerca off-line tradizionale, grazie al supporto di una bibliografia dedicata, con pubblicazioni sia in italiano che in inglese. Internet è stato anche il medium che ha reso possibile raggiungere artisti e curatori, grazie ad un atteggiamento di apertura e condivisione che ha permesso di realizzare incontri e conversazioni, dal vivo e per via telematica.

[5]  http://www.tate.org.uk/intermediaart, gennaio 2012.

[6]  N. Bookchin, A. Shulgin, Introduzione alla Net.Art, 1999, www.easylife.org/netart, gennaio 2012.

[7]  Ibid.

[8]  Ibid.

[9]  Ibid.

[10] Ibid.

[11] Ibid.

[12] Ibid.

[13] Ibid

[14]    R. Greene, Internet Art, Thames & Hudson, London 2004, p. 18.

[15]    R. Greene, Internet…, 2004, p. 18.

[16]    Ibid.

[17] In Italia si segnalano gli studi di Domenico Quaranta che, iniziati nel 2004 e dedicati inizialmente alla Net.art come movimento d’avanguardia fino alla sua fase postmediale, si sono tradotti nell’istituzione del corso di Net.art all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano nell’A.A. 2005-2006.

[18] M. Fuller, Art meet Net, Net meet art, 2000, http://www2.tate.org.uk/intermediaart/entry15618.shtm, gennaio 2012.

[19]    E. G. Rossi, ArcheoNet. Viaggio nella storia della net/web art e suo ingresso negli spazi dei musei tradizionali, Lalli, Poggibonsi 2003, p. 36.

[20] M. Fuller, Art…, 2000.

[21]    Ibid.

[22]    C. Gere, Network Art and the Networked Gallery, 2006, http://www2.tate.org.uk/intermediaart/entry15617.shtm, gennaio 2012.

[23]    C. Gere, Network…, 2006.

[24] http://www.tate.org.uk/.

[25] C. Gere, Network…, 2006.  

[26]    http://www2.tate.org.uk/intermediaart/ .

[27]    http://www2.tate.org.uk/intermediaart/about/.

[28] Ibid.

[29], Tate Report 2002-2004 http://www.tate.org.uk/about/tatereport/2004/downloads/tate_report_2002_2004.pdf , gennaio 2012.

[30]    Ibid.

[31] R. Greene, Internet…, 2004.

[32]    M. Papa, Per una teoria del restauro dell’arte contemporanea, “Exibart.studi”, 15 giugno 2007, http://www.exibart.com/Ripostiglio/oggetti/pdf/52445.pdf, gennaio 2012.

[33] Ibid.

[34]    S. Cook, B. Graham, V. Gfader and A. Lapp (a cura di), A brief history of working with new media art, conversations with artists, The Green Box – Kunst Editionen, Berlin 2010, p. 36.

[35] Il browser di navigazione Internet, ad esempio, conserva in questa memoria temporanea e nascosta i dati, copiandoli, in modo da renderli disponibili a richiesta dell’utente o allo scopo di caricare velocemente le pagine web consultate. I dati accumulati quindi non sono unici, ma riproducibili e manipolabili off-line, oltre la matrice originaria che li ha generati.

[36] R. Greene, Internet…, 2004.

[37] Per Dotcom si intendono tutte quelle società e aziende che operano ed erogano i loro servizi tramite siti Internet. Molte di esse nacquero in seguito al grande ottimismo generato dalla New-economy, nella seconda metà degli anni Novanta.

[38] R. Greene, Internet…, 2004.

[39] S. Cook et al. (a cura di), A brief history…, 2010.

[40] S. Bordini, Arte elettronica, Giunti, Firenze 2004, p. 74.

[41] S. Cook et al. (a cura di), A brief history…, 2010, p. 55.

[42]    Basti pensare alla formazione di alcuni artisti, come ad esempio quella di Heath Bunting, avvenuta in ambito hacker/attivista e cyberpunk.

[43] http://www.tate.org.uk/netart/mongrel/home/default.htm, 2000, gennaio 2012. 

[44] Il cui significato è indicativamente bastardo, meticcio. Collettivo composto dalle varie pratiche new media di Richard-Pierre-Davis, Mervin Jarman e Matsuko Yokokoji, ora frammentatosi, formato all’ARTEC (Arts Technology Centre) di Londra intorno al 1995-1997. Graham Harwood e Matsuko Yokokoji non lavorano più sotto il nome Mongrel dal 2008: oggi operano come YoHa. http://www.mongrel.org.uk/.

[45] http://digitalarts.lcc.gatech.edu/unesco/internet/artists/int_a_gharwood.html, gennaio 2012.

[46]    Il collettivo Mongrel giunge a lavori come Rehearsal of Memory, 1995, http://mongrel.org.uk/rehearsal, gennaio 2012. Si trattava di un’installazione, ora disponibile su CD-rom, all’interno di un ospedale psichiatrico, che consentiva di navigare su un collage di immagini interattivo di corpi di pazienti. Il collage è quindi assimilato a un’interfaccia per la navigazione: i volti diventano storie al confine fra la follia riconosciuta e l’ambigua inquietante normalità nella società,  in seguito all’intervento e all’applicazione della tecnologia informatica. Il progetto fu realizzato grazie al contributo dell’ARTEC, di Moviola e del The North West Arts Board Training Cash, organizzazioni e istituti per il finanziamento e la promozione di progetti artistici e arti digitali. Cfr. M. Deseriis, NET.art…, 2008; R. Greene, Internet…, 2004. 

[47] Intervista di chi scrive a Graham Harwood, avvenuta via e-mail il giorno 15 Dicembre 2010. 

[48] Linguaggio di programmazione e scrittura di siti web che non prevede la possibilità dell’utente di modificare o interagire con i contenuti proposti. I siti web in linguaggio HTML sono detti statici.

[49] La pratica del dirottamento digitale consiste in un’operazione di sabotaggio e critica del sistema mediatico, con valore simbolico, tipica della Net.art della fine degli anni Novanta. Nello scenario digitale rappresenta la capacità, attraverso la manipolazione dei sistemi di filtraggio telematici (ad esempio i metatag dei motori di ricerca) o il controllo sulla navigazione Internet, di porre o dirottare inaspettatamente l’attenzione dell’utente su questioni e critiche diverse. In questo modo si sovvertono i canali di traffico e di informazione della rete, evidenziando la sua enorme capacità di essere canale per informazioni polarizzate e tutt’altro che neutre.

[50]    Formatosi negli anni Ottanta in ambito hacker/attivista e diventato ben presto uno dei protagonisti della prima Net.art, Bunting ha creato organizzazioni basate sulla telecomunicazione come Cyber Cafè, Advertising Art e il più famoso Irational.org, le cui prerogative riguardavano la capacità dei nuovi media di comunicare, fare rete e condividere. Cfr. Sarah Cook, Beryl Graham, Verina Gfader and Axel Lapp (a cura di), A brief history…, 2010; R. Greene, Web Work: a history of internet art, ArtForum. FindArticles.com, maggio 2000, http://findarticles.com/p/articles/mi_m0268/is_9_38/ai_65649375/?tag=content;col1, gennaio 2012; www.irational.org, gennaio 2012.

[51] M. Deseriis, NET.art…, 2008.

[52]    Ibid.; p. 199.

[53]    Il client di una connessione Internet non è altro che il programma software o l’hardware che accede ai servizi e alle risorse offerti da un determinato server. Nel caso specifico quindi si tratta del computer cliente (quindi il fruitore dell’opera) che desidera accedere a BorderXing Guide, nient’altro che un sito web dai contenuti particolari.

[54] www.irational.org/borderxing.

[55] V. Tanni, ART-WARE. Utopie della Net art, “Flash Art Italia”, n. 238, a. 2003, http://www.epidemic.ws/1_press/Flash%20Art.htm, gennaio 2012.

[56]    L. Manovich, Software takes command, Olivares, Milano 2008.

[57]    L. Manovich, Software takes…, p. 85.

[58]    M. Deseriis, NET.art…, 2008.

[59] Ibid.

[60] Intervista di Jemima Rellie a Susan Collins, 20 febbraio 2004, http://www.dshed.net/sites/digest/04/content/week2/tate_in_space.html, gennaio 2012.

[62] http://www.agoraxchange.net, opera creata in collaborazione con Jaqueline Stevens, professore Associato al Laboratorio di Gioco, Cultura e Tecnologia dell’Università della California di Irvine.

[63] Intuitivamente, un gioco multi-player è quello a cui possono partecipare più giocatori contemporaneamente.

[64] S. Cook et al. (a cura di), A brief history…, 2010, p. 34.

[65] Ibid.

[66]    http://www.agoraxchange.org/index.php?page=218, 2004.

[67] http://www.agoraxchange.net/, 2008. Il termine Beta è spesso usato per identificare la versione aggiornata di un software. Entrambi i siti web del gioco sono costruiti in PHP, un linguaggio di programmazione molto diffuso per pagine web dinamiche. Il PHP è differente dal linguaggio HTML (cosiddetto statico), in quanto consente l’interazione con l’utente, che può contribuire ai contenuti del sito modificandoli. Su questo tipo di programmazione si basano siti web come il noto Wikipedia. 

[68] L’elemento video-ludico è oggetto di ricerca da parte di artisti e studiosi: spesso si ricreano storie di cronaca e performance sinestetiche all’interno delle ambientazioni virtuali dei videogiochi. Cfr. M. Bittanti, D. Quaranta (a cura di),  Gamescenes: art in the age of videogames, Johan & Levi, Milano 2006.

[69] http://www.agoraxchange.net/faq.

[70]   http://www.agoraxchange.net.

[71]    Collettivo di artisti con sede a Seoul, Corea del Sud, composto da Marc Voge (U.S.A.) and Young-hae Chang (Corea). Una vera e propria azienda, una compagnia come ce ne sono diverse nell’industrializzata Corea, fondata nel 1997 e affacciatasi al mercato Net.art, definito dagli artisti stessi un buon mercato economico, nel quale “you don’t need a studio for all your unsold works”. Cfr. Hyun-Joo Yoo, Intercultural medium literature digital. Interview with YOUNG-HAE CHANG HEAVY INDUSTRIES, febbraio 2005, http://dichtung-digital.mewi.unibas.ch/2005/2/Yoo/index-engl.htm, gennaio 2012.

[72]    http://www.tate.org.uk/netart/artofsleep/theartofsleep.htm.

[73]    Si veda per esempio l’opera Net.art di Olia Lialina, My Boyfriend Came Back From the War, 1996, http://www.teleportacia.org/war/, gennaio 2012. Qui i collegamenti ipertestuali (hyperlinks) davano luogo ad una narrazione ogni volta diversa per l’assemblaggio sempre nuovo di proposizioni.

[74]    Flash, un software lanciato dalla casa produttrice Adobe, permette di creare animazioni complesse e multimediali. All’interno di esse, infatti, è possibile inserire forme vettoriali, testi statici e dinamici, immagini, audio e video nei diversi formati e altre animazioni create con Flash. Inoltre si possono aggiungere ulteriori animazioni interattive, grazie alla presenza di un linguaggio di scripting interno. Tramite questo linguaggio, potenziato nel tempo con ulteriori funzioni, è possibile oggi  creare menù, sistemi di navigazione, GUI, siti web completi e giochi anche complessi.

[75] M. Tribe, The Ornitology of Net art, 2006, http://www2.tate.org.uk/intermediaart/entry15274.shtm, gennaio 2012.

[76] http://dichtung-digital.mewi.unibas.ch/2005/2/Yoo/index-engl.htm, gennaio 2012. 

[77] M. Tribe, The Ornitology…, 2006.

[78] Ibid.

[79] Intervista di Josè Roca a YOUNG HAE-CHANG HEAVY INDUSTRIES, 23 settembre 2009, http://www.philagrafika2010.org/news/interviewyoung-hae-chang-heavy-industries, gennaio 2012.

[80]    R. Greene, Internet…, 2004.

[81] “[…]My discovery is a poignant, evil thing. […] This is what I suddenly realize, and I lie awake, unable to sleep. […] Everything is unnecessary”. The Art of Sleep, http://www.tate.org.uk/netart/artofsleep/theartofsleep.htm.

[82] Intervista di Josè Roca a YOUNG HAE-CHANG HEAVY INDUSTRIES, 23 settembre 2009, http://www.philagrafika2010.org/news/interviewyoung-hae-chang-heavy-industries, gennaio 2012.

[83] The Art of Sleep, http://www.tate.org.uk/netart/artofsleep/theartofsleep.htm.

[84]    http://www2.tate.org.uk/netart/bvs/thedumpster.htm, 2006. Realizzata da Golan Levin, artista digitale, insieme con Kamal Nigam e Jonathan Feinberg, ricercatori operanti nel settore delle tecnologie digitali e informatiche. L’opera è stata commissionata in collaborazione con l’Artport, il portale Net.Art e arte digitale del Whitney Museum di New York, http://artport.whitney.org.

 

[85] Nel gergo di Internet, ormai diventato neologismo, postare è l’atto di pubblicare il post, un articolo o messaggio testuale lasciato generalmente su forum, blog, bacheche e quant’altro rappresenti uno spazio virtuale pubblico. Il blog è un termine coniato dall’abbreviazione di web-log, diario in rete. Si tratta cioè di un sito nel quale il gestore, detto blogger, posta i propri messaggi, pensieri, opinioni e così via in forma di diario, col la possibilità di aggiungere contenuti multimediali vari.

[86] L. Manovich, Social Data Browsing, 2006, www.tate.org.uk/intermediaart/entry15385, gennaio 2012.

[87]   Ibid.

[88] The Dumpster, http://www2.tate.org.uk/netart/bvs/thedumpster.htm, gennaio 2012. 

[89] L. Manovich, Software takes…, 2008.

[90] http://www2.tate.org.uk/intermediaart/entry15484.shtm, gennaio 2012.

[91] http://noplace.mw2mw.com, gennaio 2012.

[92] Insieme a Jonathan Feinberg, Rory Solomon e Johanna Kindvall. Il duo principale degli MW2MW, è composto da Walczak, un architetto che si cimenta in installazioni che sottolineano le interazioni fra utente e interfaccia; mentre Wattenberg nasce come artista new media, nonché ricercatore e fondatore del laboratorio di comunicazione visuale della IBM.

[93] L’installazione Noplace è stata esposta in due occasioni. La prima dal 20 ottobre al 2 dicembre 2007 al Media Art Institute dei Paesi Bassi con la prima versione del progetto durante il Video Vortex. La seconda ha avuto luogo al Synthetic Times dal 9 Giugno al 3 Luglio 2008 al China National Art Museum: un’installazione realizzata grazie al sostegno di Tate Online e dell’organizzazione Creative Capital,  http://creative-capital.org/.

[94] http://noplace.mw2mw.com/how/, gennaio 2012.

[95] Acronimo di Really Simple Syndication.

[96] Per tag si intende generalmente una sorta di marcatore, o parola chiave, che associato ad un contenuto web consente di indicizzarlo nei motori di ricerca. Similmente, il tag HTML è un metodo per ordinare gerarchicamente i contenuti di un documento scritto in linguaggio HTML.

[97]    http://www2.tate.org.uk/intermediaart/noplace.shtm. Cfr. F. Gallo, Dalle reti locali anni ’80 al Web 2.0: le ricerche degli artisti, “Kunstgeschichte. Open Peer Reviewed Journal”, 2011, http://www.kunstgeschichte-ejournal.net/158/1/Francesca_Gallo_Artistic_Research_from_local_Networks_in_eighties_to_the_web.pdf, gennaio 2012.

[98] C. Gere, Welcome to the desert of the digital, settembre 2008,  http://www2.tate.org.uk/intermediaart/desert_of_the_digital.shtm, gennaio 2012.

[99] Ibid.



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Temi di Critica - numero 5

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