teCLa :: Rivista #5

in questo numero contributi di Carmelo Bajamonte, Eleonora Charans, Francesca Gallo, Giuseppe Giugno, Michela Ruggeri, Vincenzo Scuderi.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Seicento ritrovato. Tre tele siciliane (quasi) inedite di Vincenzo Scuderi

 

Scrivere della pittura siciliana del XVII secolo, ove non si sia già fatta ampia luce sulle vicende della cultura figurativa del Siglo de oro isolano, comporta inevitabilmente fare i conti con una larga divaricazione tra due mondi diversissimi: da un lato la grande, e per molti versi irripetibile, esperienza di Pietro Novelli che rappresentò la svolta rispetto agli esiti di un tardo Manierismo solo parzialmente innovato dalla non lontana parentesi di Filippo Paladini e dai testi pittorici di Michelangelo Merisi; dall’altro la schiera di epigoni più o meno tributari del Monrealese, che – talora in virtù delle loro origini “nordiche” – tentarono una mediazione tra il ricco eclettismo del maestro e i retaggi della loro cultura d’origine. Si trattò in qualche caso di artisti estremamente dotati dal punto di vista tecnico e inventivo (viene in mente il luminismo neocaravaggesco di Matthias Stom[1], che tuttavia ben poco seguito attrasse fra gli artisti locali), molto attenti al gusto della committenza laica ed ecclesiastica; in qualche altro di pittori indubitabilmente “secondari” (o addirittura in una posizione di “classifica” ancor più bassa), la cui produzione – tuttavia – dà conto di un panorama in ogni caso multiforme.

In questo intervento presenterò tre opere sin qui abbastanza trascurate dalla storiografia artistica le quali, mi sembra, presentano però i tratti del più grande interesse a ricostruire il retroterra pittorico siciliano del Seicento. Mi riferisco a un gruppo di dipinti cronologicamente omogenei (appartengono tutti alla prima metà del XVII secolo), certo non qualificabili come “capolavori”, ma che pure val la pena di conoscere o di riscoprire poiché – sconosciute o erratamente attribuite – s’inseriscono esattamente nel milieu cui accennavo: si tratta di una Pentecoste (1624) custodita presso la Basilica di San Francesco d’Assisi a Palermo, opera inedita di un quasi ignoto Giuseppe Schettino; di una Immacolata (1634) conservata nel Seminario Vescovile di Trapani, da assegnare a nostro avviso al minnitesco siracusano Giuseppe Reati; e di una Madonna del Rosario (1647), nella chiesa della Badia Nuova a Trapani, giustamente attribuita (ma solo di passaggio) al fiammingo Geronimo Gerardi, per analogia con altre opere del pittore.
Qui darò conto, ovviamente con brevità, delle ragioni che mi inducono a formulare queste attribuzioni.

La data della Pentecoste[2] di Giuseppe Schettino si desume dal relativo contratto stipulato dal pittore con i frati francescani, già citato in transunto da Giovanni Mendola nel 1999 [3]. Tale contratto riguardava anche una Resurrezione, spazzata via dalle bombe del 1943; il tutto, curiosamente – ma eravamo già in tempi di pestilenza – solo in cambio di “vitto e alloggio” per il pittore e un suo famulo, per tutta la durata del lavoro pittorico. Premesso ancora che delle opere anzidette si trovano già sparute citazioni nell’Otto e Novecento[4], entriamo nel merito della raffigurazione. Che colpisce a prima vista – al di là delle disastrose condizioni di tutta la superficie dipinta –, per l’affollata rappresentazione dell’ambiente del Cenacolo mariano, al centro del quale spicca l’imponente figura della Vergine a braccia aperte tra apostoli e discepoli che coprono l’intero spazio di primo piano. Nel secondo s’intravedono monumentali architetture di gusto classico, che terminano sul fondo con un’alta esedra illuminata da una luce ranciata, immediato richiamo al più vivo arancione dei manti degli apostoli sul proscenio. Pur nelle tristissime condizioni dell’intera superficie pittorica (anche per effetto di un maldestro restauro “di ricostruzione” del dopoguerra), l’immagine della Madonna ha ancora un che di nobile e di elegante: quasi miracolosamente illesa (da quanto sembra) nel bianco collo e nel tenero volto.
Quattro apostoli di spalle, dagli scultorei mantelli rosso-arancione intrisi di luce, formano come una conca nel piano inferiore della tela, che poi si colma con l’affollata assemblea attorno alla Vergine nella zona centrale; purtroppo di assai difficile lettura. Composizione a parte, tre sono gli aspetti preminenti del linguaggio formale che sembrano caratterizzare interessi, cultura e gusto del nostro sacerdote-pittore: la vivezza e il cangiantismo cromatico, la peculiare tipologia della Vergine, il naturalismo luministico attraverso cui vuol renderci le figure popolane di apostoli e discepoli. Sono tutti aspetti, se non andiamo errati, che ci inducono a collocare il pittore nell’area della produzione bazzanesca e alviniana; a quest’ultima soprattutto, con riferimento più diretto alla Allegoria dell’Immacolata Concezione (1624) in Santa Maria la Nuova a Palermo di Pietro Alvino, figlio di Giuseppe, il cui calzante confronto ci viene amichevolmente suggerito da Vincenzo Abbate[5]; nel rammarico che le ripetute forti manomissioni delle figure non ci consentano di risalire in maniera più sicura a quel soffio di intenso naturalismo e luminismo, forse di radice caravaggesca o di contagio novellesco, affiorante, come già accennato, nei volti degli apostoli. Resta solo da auspicare vivamente, anche se forse, utopisticamente, un nuovo e coraggioso restauro, che possa consentire un più sicuro riconoscimento di forme e valori originali e residui della tela stessa.

L’Immacolata con figura di committente[6] di Giuseppe Reati (?,1634), sebbene di un decennio successiva, appartiene a un Manierismo diverso e ben più remoto rispetto a quello che esprime la tela dello Schettino. L’arcaismo dell’impostazione (l’icona della Vergine con i simboli lauretani in altrettanti riquadri e la figura del committente inginocchiato in basso) richiama a prototipi addirittura quattrocenteschi (viene in mente la Madonna del Carmelo di Tomaso de Vigilia nella palermitana chiesa del Carmine Maggiore, datata 1492), evidentemente mai tramontati nell’ambito della pittura devozionale del XVII secolo. Unica concessione al “verosimile” il ritratto del committente chiaramente identificato dalla dedica entro lo scudo in primo piano: “Fra Nicola Cavarretta Priore di Venetia 1634”; frate e priore dell’Ordine di Malta, ovviamente, come si evince dalla bianca croce a otto punte ostentata sul mantello[7].

Nessuno ci ha saputo dire come e quando la tela sia arrivata nella sede attuale; si può solo immaginare, credibilmente, che essa abbia avuto come sede originaria una cappella privata della nobile famiglia del committente, in un palazzo della stessa a Trapani o a Palermo[8]. L’opera è stata resa nota nel 2004, ma con l’attribuzione difficilmente sostenibile a due mani diverse che avrebbero operato a distanza di oltre un trentennio tra di loro[9]. Analizzando, tuttavia, i modi figurativi delle varie parti del dipinto appare evidente che non due, ma tre mani addirittura possono portare ad autori diversi sebbene comunque nell’ambito della stessa bottega e dello stesso momento esecutivo, testimoniato dalla piena omogeneità della superficie pittorica. Gli accennati diversi modi figurativi riguardano, chiaramente, la figura centrale della Vergine, i quadretti degli stilizzati simboli lauretani attorno a essa e la rude figura del committente-devoto inginocchiato in basso. Una preziosa notizia storiografica relativa al pittore per cui noi propendiamo ci aiuterà a capire da dove provengano queste differenze; ma vediamo, intanto, in che cosa esse realmente consistano. È evidente, nella pur monumentale e quasi espansa figura della Vergine avvolta nel manto verdone a larghe pieghe[10], il permanere dell’iconismo controriformato, addirittura accentuato, in questo caso, dalla grande mandorla ovale dorata in cui la figura è racchiusa e isolata, in una sua dimensione sacrale e “senza tempo”[11]. Né vale a rompere del tutto tale atmosfera un più moderno effetto di luce naturale, tenera e sfumata, sul volto aggraziato, unico e modesto segno di nuova sensibilità umana e culturale espresso dal pittore.

Di ben diversa cultura manieristica, tendente quasi al geometrico e all’astratto, appaiono gli stilizzati quadretti con i simboli delle litanie lungo il perimetro della tela; anche se lo stesso pittore sa applicarsi, in certe raffigurazioni di fiori e piante, in una ricerca quasi fiamminga di verità naturale. L’unica parte del dipinto che può dirsi appieno “moderna” e consona alla più diffusa cultura naturalistica del tempo è quella che ci presenta, pur sommariamente delineata, la figura del committente inginocchiato, dal volto rossastro, marcato e rugoso. Non è difficile trovare la spiegazione di tale “fattura a più mani” coniugando tre dati di riferimento, diretti o indiretti e ancorché eterogenei.

Eccoli, schematicamente: il linguaggio complessivo della pittura che – come mi suggeriscono amici conoscitori dell’area della Sicilia orientale – indirizza chiaramente verso la bottega minnitesca, di cui attivamente faceva parte Giuseppe Reati; l’autore più probabile, a nostro avviso, di questa tela; un dato documentario della biografia del committente, che sino al 1622 era Referendario presso la Commenda gerosolomitana di San Giovanni a Caltagirone[12], da dove avrà potuto apprezzare l’anzidetta bottega minnitesca, ricordandosene più tardi quando da Venezia, forse all’apice della sua carriera, ordinava il dipinto, devozionale e autocelebrativo al tempo stesso; terzo e ultimo (ma non meno significativo) dato, un cenno storiografico di Luigi Sarullo[13] secondo il quale il Reati teneva a bottega ben sedici allievi, ovviamente con talenti e compiti diversi.

Non ci resta, credo, che ricercare ogni riscontro possibile tra l’opera di cui ci occupiamo e i dipinti di più sicura e accreditata attribuzione ai citati pittori siracusani, da parte della critica degli ultimi decenni (Campagna Cicala, Barbera, Spagnolo, Vella…).

Per brevità, ci limitiamo a citare qui alcune morfo-tipologie evidenti nella tela trapanese, e nella figura della Vergine in particolare, ampiamente riscontrabili in alcune opere abbastanza affini di Mario Minniti e di Giuseppe Reati custodite in diversi luoghi della Sicilia orientale. Figura e posa, anzitutto, del personaggio principale, la Madonna appunto; colore rosso acceso, piegature rigide e fitte con alta accollatura della veste; lunghi capelli sciolti, volto aggraziato e modellato (in questo caso più che in altri) dallo sfumare della luce; mani affusolate ma anche un po’ legnose… Tutto, anche se variamente, riscontrabile dalle due Immacolate del Minniti del Museo di Messina ma, ancor più, nelle tele del Reati: l’Immacolata di San Filippo Neri a Siracusa, il Miracolo di San Domenico a Soriano a Modica, la Madonna del Carmine con i Santi Agata e Carlo Borromeo di Noto[14]. Tutto questo, peraltro, a prescindere dai significati linguistici da connettere alle differenze di tempi esecutivi, cui non possiamo dedicarci se non per sottolineare che la nostra tela è datata, come abbiamo visto, al 1634 mentre quelle già citate dello stesso Reati si collocano, com’è stato puntualmente notato[15], tra il ’38 ed il ’42. Altri potrà indagare, eventualmente, con migliori letture degli aspetti e dei linguaggi, rispetto a questi spunti.

 

L’ultimo dei dipinti che qui presentiamo, la Madonna del Rosario con i Santi Domenico e Caterina da Siena[16] di Geronimo Gerardi[17] (1647), appartiene invece alla fase più aggiornata della pittura siciliana del Seicento, quella per intenderci immediatamente contigua alla cerchia di Pietro Novelli.
Questa bella e colorata tela posta sull’altare maggiore della chiesa ex-domenicana al centro di Trapani, a differenza delle precedenti non è né inedita né misconosciuta, ma semplicemente e marginalmente nota agli specialisti che, di passaggio, l’hanno citata per analogia con altre tele (a Palermo, Cefalù, etc.) dello stesso pittore[18]. Ma essa merita certamente, per i motivi che vedremo, una più specifica attenzione. Ricordato, anzitutto, che la sua datazione – 1647, dipinta in basso sul dorso del libro adagiato sul manto della Santa Caterina – era stata già divulgata dagli eruditi trapanesi dell’Ottocento che avevano concordemente ammirato la pittura «d’inavanzabile pennello fiammingo»[19] e senza indugiare sulla descrizione,  rileviamo subito che tra i valori formali che la caratterizzano spicca soprattutto la componente cromatica; per i bianchi e neri toccati dalla luce dei sài monacali ma, ancor più, per l’azzurro e il rosso immersi nella luce del manto spazioso e della veste della Vergine.

Un aspetto, poi, che distingue questa tela dalle consorelle palermitana e cefaludese già studiate, è l’aggiunta nella parte superiore della mossa e colorata ghirlanda (quasi di aerei palloncini) con episodi della vita di Cristo e di Maria. Ma, al di là delle pur strette affinità con le tele anzidette quanto alla composizione piramidale delle tre figure sacre che incarnano i rispettivi soggetti, è quell’animato coronamento che lega piuttosto questa tela domenicana a un’altra pittura trapanese dello stesso Gerardi, antecedente di un decennio e non meno caratterizzata da interessi cromatico-spaziali: la grande Immacolata Concezione che i Gesuiti nel 1636 avevano collocato sull’altare della loro Chiesa del Collegio, distante da quella domenicana solo qualche centinaio di metri[20].

L’accennata ricerca di “movimento colorato” come potremmo definirlo, qui rappresentata dall’arco di medaglioni collegati da serti floreali nella parte alta del dipinto, poteva già vedersi, infatti – e anche assai più ricca – nella tela dell’Immacolata, nell’ampia e festosa danza dei floridi puttini rubensiani che si svolgeva tutt’attorno all’alta figura della Vergine, emergente in un azzurro ovale di cielo. La «squillante ricchezza cromatica» che – utilizzo le parole di Vincenzo Abbate[21] – caratterizza la pittura del Gerardi, qui emerge in tutta la sua fascinosa evidenza.

Sempre sul filo dell’incidenza stilistica dei valori di colore e luce, ma anche di spazio e movimento nel linguaggio del Gerardi di questo tardo tempo trapanese, ritengo sia pure da richiamare la grande tela carmelitana con la Sacra Famiglia con i Santi Gioacchino e Anna, recentemente attribuitagli da Giovanni Mendola e, quasi sicuramente, di questi stessi anni quaranta[22].

Al tirare allora delle somme, ed essendo stato scritto che «le opere del Gerardi presentano caratteri più spiccatamente naturalistici in cui non risultano mai troppo accentuati i toni cromatici, rimanendo evidenti piuttosto contrastanti valori di luce-ombra»[23], non sembra di assistere, con queste ultime tele del fiammingo proprio a un orientamento opposto, per il quale proprio il colore – non senza apporti di luce, spazio e movimento – sembra interessare maggiormente al pittore e alla sua committenza?

E in tal caso, a che cosa attribuire questa tarda evoluzione stilistico nella produzione del pittore? A suoi autonomi e nuovi orientamenti di cultura figurativa? o piuttosto (se raffrontata, ad esempio, alla drammaticità del contemporaneo Novelli di San Matteo a Palermo) a prevalenti interessi ideologico-estetici della committenza religiosa locale? Lascio ad altri studiosi aperto il quesito


[1]              Per il soggiorno siciliano di Matthias Stom, mi permetto di rinviare a V. Scuderi, Caravaggeschi nordici (e di «nazioni italiane») operanti in Sicilia. La posizione di Pietro Novelli, in Caravaggio in Sicilia: il suo tempo, il suo influsso, catalogo della mostra, Sellerio, Palermo 1984, pp. 183-224; cfr. inoltre A. Zalapì, Il soggiorno siciliano di Matthias Stom tra neostoicismo e «dissenso». Nuove acquisizioni documentarie sull’ambiente artistico straniero a Palermo, in Porto di mare. Pittori e pittura a Palermo, 1570-1670, catalogo della mostra a cura di V. Abbate et al., Electa, Napoli 1999, pp. 147-157; A. Zalapì, Matthias Stom. Un caravaggesco nella collezione Villafranca di Palermo, Museo Diocesano di Palermo, Palermo 2010.

[2]               Si tratta di un olio su tela, cm 350 x 280, custodito nella parete destra presbiterio della Basilica di San Francesco di Assisi a Palermo.

[3]              Prima del 1999, quando Giovanni Mendola (Dallo Zoppo di Ganci a Pietro Novelli. Nuove acquisizioni documentarie, in Porto di mare…, cit., pp. 57-87, a p. 73) citava il contratto con i Francescani, un altro contratto del 1632 era emerso a Trapani. Da esso risulta che Schettino si impegnava con i Carmelitani a dipingere nella cappella della Madonna una serie di riquadri entro un apparato di stucchi di Giuseppe Ferraro: tutto, oggi, perduto (cfr. G. Bongiovanni, Vicende della Cappella della Madonna, in M. C. Di Natale, V. Abbate (a cura di), Il Tesoro nascosto: gioie e argenti per la Madonna di Trapani, Novecento, Palermo, 1995, pp. 67-75, a p. 75). Da aggiungere, infine, che Giuseppe Schettino, prima di impegnarsi con i Francescani di Palermo per la Pentecoste e per la Resurrezione, doveva aver lavorato all’interno del Convento: nel contratto per le tele si parla infatti anche della eventuale ripresa di affreschi nel chiostro, oggi scomparsi.

[4]              Cfr. G. Palermo, Guida per Palermo e suoi dintorni (ed. a cura di G. Di Marzo Ferro), Palermo 1858, p. 238; e F. Rotolo, La Basilica di San Francesco di Assisi, Palermo, 1952, p. 120. Impossibile verificare, oggi, quanto il Palermo affermava circa una data “1618” dipinta su di un libro in mano ad un apostolo. Nella nuova edizione del suo volume (La Basilica di San Francesco d’Assisi e le sue cappelle. Un monumento unico nella Palermo medievale, Provincia di Sicilia dei Frati Minori Conventuali Ss. Agata e Lucia, Palermo 2010, p. 328), padre Rotolo afferma che la tela fu restaurata nel 1970 dal pittore napoletano Stefano Macario.

[5]              La tela di Pietro Alvino di Santa Maria La Nuova è stata pubblicata da T. Viscuso, Per la pittura in Sicilia occidentale nei primi del Seicento, in Contributi alla storia della cultura figurativa della Sicilia occidentale tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo. Palermo, 1985, p. 28; cfr. anche G. Mendola, Dallo Zoppo di Gangi…, cit., pp. 62-63.

[6]              Si tratta di una tela, cm 281 x 203, custodita presso il Seminario vescovile di Trapani.

[7]              Sulla nobile famiglia trapanese dei Cavarretta, vedi G. M. Di Ferro, Biografia degli uomini illustri trapanesi, Trapani 1830, tomo III, p. 68 e segg.

[8]              Si conosce il palazzo privato della famiglia a Trapani, mentre se ne può anche ipotizzare uno a Palermo, dove Nicola Cavarretta disponeva di “soggiogazioni” da cui attingeva ampiamente i fondi per armare, ogni cinque anni, una galera per i Cavalieri di Malta. Cfr. L. Buono e G. Pace Gravina, (a cura di), La Sicilia dei Cavalieri. Le istituzioni dell’Ordine di Malta in età moderna (1530-1826), Fondazione Donna Maria Marullo di Condojanni, Roma 2003, p. 133, n. 7.

[9]               M. Vitella, Su alcune immagini dell’Immacolata Concezione nel trapanese, in L’Immacolata nell’arte in Sicilia, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale e M. Vitella, Palermo 2004, p. 134.

[10]            In cui soprattutto sono evidenti ampi e non proprio felici rifacimenti di un restauro attuato un decennio addietro.

[11]            Uso qui, ovviamente, la formula di Federico Zeri a proposito della pittura di Scipione Pulzone, che costituisce il titolo di uno dei suoi studi più fortunati, Pittura e Controriforma. L’“arte senza tempo di Scipione da Gaeta”, Neri Pozza, Vicenza 1997 (prima ed. Einaudi, Torino 1957).

[12]            L. Buono e G. Pace Gravina, (a cura di), La Sicilia dei Cavalieri…, cit., p. 133.

[13]            L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani, vol. II – Pittura, Novecento, Palermo 1993, ad vocem “Reati, Giuseppe” a cura di C. Di Giacomo, p. 447.

[14]            Per un confronto alle opere anzidette, rimando a AA.VV, Mario Minniti, l’eredità di Caravaggio a Siracusa, Electa Napoli 2004, passim; Opere d’arte restaurate nelle province di Siracusa e Ragusa, 1990-92, Palermo 1994, passim.

[15]            D. Spagnolo, schede 4-4 a/d, in Opere d’arte restaurate nelle province di Siracusa e Ragusa, II (1989), pp. 30 e ss.

[16]            Si tratta di un olio su tela, cm 420 x 253, custodito a Trapani presso la Chiesa della Badia Nuova.

[17]            Per Geronimo Gerardi (Anversa, 1595 ca.-Trapani, 1648), cfr. la scheda biografica a cura di G. Mendola, in Porto di mare…, cit., p. 273; cfr. inoltre gli studi di T. Viscuso, Pittori fiamminghi nella Sicilia occidentale al tempo di Pietro Novelli. Nuove acquisizioni documentarie, in Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra, Flaccovio, Palermo 1990, pp. 101-114; di G. Mendola, Un approdo sicuro. Nuovi documenti per Van Dyck e Gerardi a Palermo, in Porto di mare…, cit., pp. 88-105; e di
V. Abbate, Un’aggiunta a Geronimo Gerardi e qualche precisazione a margine del suo soggiorno siciliano, in Interventi sulla «questione meridionale». Saggi di Storia dell’arte, a cura del Centro di studi sulla civiltà artistica dell’Italia Meridionale «Giovanni Previtali», Donzelli, Roma 2005, pp. 223-228; N. Gozzano, Mercanti fiamminghi in Italia nel Seicento: agenti, artisti, consoli, “Bollettino Telematico dell’Arte”, n. 595, 22 Febbraio 2011, on line su http://www.bta.it/txt/a0/05/bta00595.html (visitato il 12 marzo 2012).

[18]            S. Grasso, Dipinti inediti di G. Lo Verde, in “BCA Sicilia”, a. IV, nn. 1-4, 1983, pp. 107-122; e G. Mendola, La Madonna del Rosario con i Santi Domenico e Giacinto, scheda n. 33, in Porto di mare…, cit., pp. 238-239.

[19]            G. M. Di Ferro, Guida per gli stranieri in Trapani, presso Manone e Solina, Trapani 1825, p. 36; e F. Mondello, Breve guida artistica di Trapani, Trapani, 1883, p. 82.

[20]            M. P. Demma, Scheda n. 5, in Opere d’arte restaurate, 1987-1996, Trapani 1998, p. 35.

[21]            V. Abbate, Un’aggiunta a Geronimo Gerardi…, cit., p. 225.

[22]            Ringrazio ancora Giovanni Mendola per la comunicazione verbale su questa attribuzione, come ho già avuto modo di fare in V. Scuderi, La Madonna di Trapani e il suo Santuario, Edizioni del santuario della Madonna di Trapani, ivi 2011, p. 93.

[23]            T. Viscuso, Pittori fiamminghi nella Sicilia occidentale…, cit., p. 106.



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Temi di Critica - numero 5

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