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in questo numero contributi di Diana Malignaggi, Roberta Cinà, Ivan Arlotta, Roberto Lai, Raffaella Picello, Francesco Paolo Campione.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Mimì Quilici Buzzacchi a Ferrara tra arte e critica 1921-1942 di Raffella Picello

Affrontare uno studio monografico sulla vicenda artistica di Mimì Quilici Buzzacchi1 – in particolare, dopo le mostre allestite a Palazzo dei Diamanti e a Palazzo Massari rispettivamente nel 1972 e nel 1999 – acquisisce un senso se la si contestualizza in rapporto al tessuto socio-culturale della città che assistette al suo evolversi stilistico.
Il periodo è quello compreso tra il principiare degli anni Venti, segnato dal susseguirsi delle esposizioni ferraresi inaugurate per iniziativa della Società Promotrice di Belle Arti “Benvenuto Tisi” a partire dal 19202, e l’epilogo della avventura coloniale tripolina guidata da Italo Balbo, coincidente con gli anni conclusivi del secondo conflitto mondiale.
Ferrara comincia, seppure con ritmi rallentati, a risvegliarsi dal torpore accademico che l’ha avviluppata per tutto il secolo precedente, dopo essere tornata alla ribalta della scena artistica nazionale grazie alla ritrattistica di Giovanni Boldini e alla versione simbolico-onirica del divisionismo elaborata da Gaetano Previati.
Nel 1911 il Teatro Bonacossi ospita una delle prime serate futuriste alla quale presenziano Marinetti, Boccioni, Carrà, Lucini e Russolo; a distanza di qualche anno, Giorgio de Chirico e Carlo Carrà danno luogo – confrontandosi con il ferrarese Filippo de Pisis – alla corrente metafisica, mentre all’alba degli anni Venti il pittore Achille Funi avvia un duplice dialogo con la pittura dello stesso de Chirico e le pulsioni ‘neoclassiche’ insite al Novecento Italiano patrocinato da Margherita Sarfatti3. Proprio Funi esporta in città, tra il 1934 e il 1938, il recupero sironiano della pittura murale4, non esente da rimandi archeologici di derivazione romana, negli affreschi raffiguranti il Mito di Ferrara nella Sala della Consulta del palazzo comunale.
Nel pieno fervore espansionista alimentato dal regime e concretizzatosi nel trasferimento in Libia di un gruppo di artisti ferraresi guidati dallo stesso Funi5, a cui si unirà temporaneamente anche Mimì Quilici Buzzacchi, nel 1936 giunge poi a Ferrara in veste di collaboratore del “Corriere Padano” Carlo Belli, teorico dell’arte astratta.
Malgrado l’humus critico cittadino del tempo si dimostri, a dispetto dell’entusiasmo mostrato da alcuni artisti ferraresi, sostanzialmente avverso o poco più che indifferente alle innovazioni strutturali e compositive introdotte dal futurismo, piuttosto frequenti sono le partecipazioni dei futuristi a mostre cittadine e i contatti allacciati con poeti, pittori e intellettuali ferraresi. Basti ricordare la decorazione affidata a Tato di alcune sale della redazione del quotidiano “Corriere Padano”, fondato da Italo Balbo, la quale segnò una tappa di non poco conto nella storia delle arti figurative della prima metà del secolo a Ferrara.
 I cataloghi e le cronache redatte dai contemporanei e, fin qui, gli studi incentrati sulla produzione artistica di questi decenni densi di nuove istanze, contaminazioni, ma anche persistenze radicate nella tradizione locale, recano menzione di numerose esponenti femminili, il cui percorso risulta assai frammentario e che la Biennale Donna del 19906 ha soltanto parzialmente disvelato. Di fatto, ancora lacunosa e in attesa di approfondimento si presenta la storiografia pubblicata riguardo al contributo del contingente femminile attivo nel periodo di riferimento.
Accanto alla più studiata Adriana Bisi Fabbri, la quale però svolse larga parte della propria attività a Milano, sono soprattutto gli apporti di Mimì Quilici Buzzacchi e poi di Nives Comas Casati e Felicita Frai a contribuire al determinarsi della fisionomia delle arti a Ferrara al femminile.
In particolare, la Quilici, pur perseguendo un percorso espressivo coerente nella sua evoluzione stilistica, recepisce e talora accoglie nelle proprie opere le suggestioni provenienti dalle diverse correnti che intersecano l’ambiente plurivalente ferrarese in cui ella opera. Ne scaturisce una sapiente codifica in strutture linguistiche mai attirate dalle secche di sterili riscritture e neppure subordinate a un ruolo ancillare nei confronti dei termini assunti a confronto, semmai innervate da un salutare estraniamento che ne autorizza un punto di vista indiscutibilmente privilegiato.
La vicenda biografica di Mimì Quilici Buzzacchi ha inizio nel 1903 a Medole, piccolissimo centro incastonato nel territorio mantovano da cui proviene quando, a partire dal 1920, la sua famiglia si trasferisce a Ferrara. L’apprendistato, avviato sotto la guida del pittore Edgardo Rossaro, prosegue su binari solitari alimentati dall’assiduo studio della storia dell’arte e in misura via via più preponderante dei contemporanei, rivolgendo attenzione anche alle personalità più innovatrici della pittura europea.
L’esordio ferrarese avviene proprio nel 1920 con la partecipazione alla I Esposizione d’Arte Ferrarese, alla quale presenzierà la commissione composta da Ugo Ojetti, Domenico Trentacoste ed Ettore Ferrari, giunta da Roma per l’acquisto di due opere di Arrigo Minerbi e Ugo Martelli da destinare alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Malgrado l’assenza di opere di Boldini e Funi, la manifestazione offre ai visitatori un’ampia ricognizione dell’arte locale, comprese parecchie opere fondamentali del catalogo di numerosi artisti anche prossimi al Futurismo, come le sculture di Roberto Melli e il corpus quasi completo delle opere di Aroldo Bonzagni.
Appartengono a questa fase il dipinto Paesaggio ferrarese e un intero nucleo di emozioni paesaggistiche ispirate al territorio padano. Semplice e densa di intonazioni espressive appare la struttura compositiva delle prove iniziali; per contro, la produzione grafica risalente al 1923, contraddistinta, come nota Ada Fiorillo7, dall’impiego della matita litografica dal tratto pieno e oleoso, denota l’affiorare di una suggestione metafisica facilitata dalla saldatura con la natura insita alla “città del silenzio”.
Ma già a decorrere da talune vedute dedicate a Cesenatico, con le quiete paranze ormeggiate, il registro compositivo e strutturale acquisisce maggiore complessità e saldezza. Alla sospensione metafisica si affianca ora sulle tele della Buzzacchi una sintassi declinata secondo presupposti di partecipato lirismo e rigore di impianto.
È a partire dalla Mostra d’Arte Ferrarese-Emiliana del 1925, ove espone tra le altre Interno di Casa Ariosto e una veduta di S. Benedetto, che Mimì inizia a rappresentare una presenza costante alle principali esposizioni ferraresi nella duplice veste di pittrice e autrice di opere grafiche e incisioni. Si colloca in questo periodo un dipinto essenziale come Il canale in giallo.
La composizione, raffigurante un gruppo di imbarcazioni ormeggiate e, pertanto, una situazione statica, appare scandita dalle vele variopinte dei natanti. La selezione cromatica impostata su colori caldi e accesi interviene a movimentare con serena allegria l’atmosfera di meridiano riposo, anche in forza delle pannellate dense d’impasto che rimandano a precedenti fauves, chiamati in causa dal titolo stesso. Eppure, è lecito ritenere che il modello di partenza sia da ricercare nelle Fiamme nel Mediterraneo (1914) di Aroldo Bonzagni, ancora impregnate di divisionismo crepuscolare, ma già partecipi del clima boccioniano dei primi manifesti che la pittrice aveva avuto modo di ammirare in reiterate occasioni, anche anteriormente alla mostradel 1920. L’orchestrazione della veduta pare sul punto di riorganizzarsi attraverso un processo di geometrizzazione, più evidente nel quasi coevo Vele in canale, eseguito nel luglio dello stesso anno. Singolare appare, inoltre, la prossimità della tavola al dipinto Vele romagnole, datato 1928,del futurista imolese Mario Guido Dal Monte, il quale avrebbe scelto proprio Ferrara per allestire la sua 40ª mostra personale nel 1931. Restano ancora da convalidare eventuali occasioni di confronto tra i due artisti anteriori al 1928, tuttavia opere della Buzzacchi circoleranno in Romagna contestualmente alla collaborazione avviata con la rivista “La Piè” nel biennio 1927-‘28.
Maggiormente attirata dalle opportunità di modulazione cromatica, disciplinata da uno spirito di sintesi ed equilibrio compositivo offerto da paesaggi e vedute, di quanto non lo fosse dai ribaltamenti prospettici e dalla frantumazione dinamica dei piani propugnata dall’avanguardia marinettiana, la Quilici espone sovente accanto ai giovani assetati di novità.
La critica la include tra gli artisti emergenti più promettenti e Filippo de Pisis le dedica un articolo pubblicato sul “Corriere Padano” nel quale mette in luce la genuinità di ispirazione e la facilità d’esecuzione della coeva produzione della pittrice personalizzate da un raffinato senso del colore:

[…] Il carattere più vero del temperamento genuino del resto è la spontaneità e Mimì Buzzacchi dipinge come sorride e come si muove senza alcuno sforzo voglio dire, ed è per di più autodidatta […] Le assicelle dipinte dalla nostra giovane artista non sono ancora pittura ma pur nella loro semplicità denotano un senso fine del colore e una felice interpretazione delle masse, luci ed ombre facilmente sfruttate in forme scheletriche a produrre effetti decorativi. Si tratta infatti, quasi sempre, di pittura a tre o quattro colori spalmati entro colori precisi8.

A tale propensione si aggiunge, nella produzione dell’anno seguente, la riflessione sulla proposta novecentista, ormai tuttavia ufficialmente giunta a conclusione, di Margherita Sarfatti, della quale segue la conferenza tenuta presso il Teatro Ristori di Ferrara nel gennaio dell’anno successivo.
Lo dimostra l’Autoritratto coevo al nucleo di opere presentate dalla Buzzacchi alla Mostra Regionale d’Arte promossa dalla Società Promotrice di Belle Arti “Benvenuto Tisi” e allestita al Castello Estense nell’autunno del 19269.
L’artista si ritrae a mezzo busto vista di tre quarti, affiancata nella porzione destra dal telaio del cavalletto visto dal retro, mentre nessun’altra indicazione oggettuale interviene ad aggiungere ulteriori indicazioni spazio-temporali.
Com’è noto, oltre a Giorgio de Chirico, artefice della pittura metafisica nel capoluogo emiliano, a Ferrara la corrente novecentista poteva trovare un utile termine di confronto nella pittura di Achille Funi, puntualmente divulgata sulla stampa periodica o esposta alle mostre indette dapprima dalla “Benvenuto Tisi” e, in seguito, dal Sindacato Fascista delle Belle Arti.
Nella fattispecie, nel 1924 Funi consegnava l’Autoritratto del Museo Cantonale d’Arte di Lugano, perfettamente in linea con i postulati novecentisti coevi, allusivi al ritorno al mestiere qui veicolati dal torso marmoreo riconducibile a prototipi classici richiamato, sul lato opposto, dal plinto di colonna, nonché dalla matita esibita nella mano sinistra a sottolineare la preponderanza del disegno nella concezione dell’opera. Con ciò Funi evidenziava il rinnovato interesse per il “mestiere”, recuperato attraverso modalità affini a quelle in auge nelle botteghe medievali, che in altri esempi coevi si esplicita visualizzando nei dipinti la tavolozza, il pennello, la matita, la squadra, o la statua antica su cui l’artista si esercita.
Le rinnovate istanze della consapevolezza tecnica, dell’abilità artigianale, conseguita anche mediante la pratica della copia, per gli esponenti di Novecento assume la valenza di opposizione poetica all’esaltazione dell’espressività individuale traguardata dalle avanguardie.
Di certo, la Buzzacchi respira questo clima di tensione classicista attraverso i canali già citati oltre che tramite l’esperienza presso l’atelier del pittore romano Carlo Socrate, rappresentante con Riccardo Francalancia, Antonio Donghi, Ferruccio Ferrazzi e Francesco Trombadori della “prima scuola romana” improntata alla ricerca di un corrispettivo pittorico denso di suggestioni emotive da contrapporre alla restituzione mimetica del reale.
La giovane pittrice pare qui voler consegnare una dichiarazione di poetica, riallacciandosi al paradigma rappresentativo degli autoritratti funiani, di cui riprende lo sguardo consapevole fisso negli occhi dello spettatore che racchiude la consapevolezza dell’importanza del proprio lavoro pur senza emulare l’autoproclamazione di superiorità intellettuale che affiora in Funi e dilaga in de Chirico. La padronanza tecnica rivela, da parte dell’artista, una rinnovata attenzione per la definizione lineare delle superfici e la volontà di sfrondare classicisticamente la visione da forme superflue, pur nella densità dell’impasto pittorico abbastanza estranea alle formulazioni di levigato nitore caratteristiche della ritrattistica funiana dei primi anni Venti.
Presto, pur se è l’unica rappresentante assieme ad Amedeo Angilella dei giovani ferraresi alla Mostra Regionale d’Arte, allestita al Castello Estense nel 192610, la Mostra d’Arte Ferrarese organizzata in concomitanza con laSettimana Ferraresedel192811 le consentirà di affiancare Adriana Bisi Fabbri, Bonzagni, Funi, Severo Pozzati e Tato Sansoni, col quale ha dimestichezza almeno dal 1927 per via della decorazione della sede del “Corriere Padano” di cui anch’ella diviene collaboratrice. In occasione del trasferimento della redazione nella nuova sede di viale Cavour, il futurista bolognese, non solo aveva provveduto a decorare il salone della redazione, ma vi aveva allestito una mostra personale. Ad applaudirlo erano giunti, assieme a Filippo Tommaso Marinetti, i futuristi Caviglioni, Albert e Mario Guido del Monte.
Anche l’assiduità del marito, il giornalista direttore del “Corriere Padano” Nello Quilici, con Marinetti, più volte presente in città, lascerà un ricordo indelebile nella memoria di Mimì, partecipe del dolore di Benedetta Cappa all’indomani della dipartita del capofila futurista12.
A partire dal 1927 l’attività incisoria di Mimì Buzzacchi viene parzialmente assorbita dal portfolio di xilografie Dove si dice qualcosa di Ferrara, a cui fa seguito una seconda serie recante il medesimo titolo realizzata l’anno successivo.
Alla città di adozione sono altresì ispirate le incisioni, fornite sempre dal 1928 e destinate alla rivista “Il Diamante”, tribuna di divulgazione e critica delle iniziative culturali, letterarie e artistiche ferraresi sotto il controllo del Sindacato Fascista Artisti e Professionisti diretta da Guido Angelo Facchini.
Se la produzione grafica coeva induce a rilevare nei disegni il passaggio da una sintassi tesa a conferire, come nota Ada P. Fiorillo13, evidenza volumetrica alle testimonianze architettoniche della città antica, a una modulazione del segno grafico via via più insistentemente lineare e risolta sul piano nel perseguire una personale cifra di sintesi emotiva, la Chiesa di San Benedetto si pone ancora quale trait d’union tra entrambe le ricerche.
Con particolare intensità in questo torno d’anni Mimì si pone quale animatrice del milieu artistico e culturale ferrarese, che annovera in prima istanza gli artisti che frequentano il cenacolo avviato dal futuro marito, il giornalista Nello Quilici sposato nel 1929, tra cui Achille Funi, Galileo Cattabriga e Corrado Padovani, frequentazione che le confermerà l’assunto del recupero della tradizione in chiave moderna propugnati da Margherita Sarfatti. I lavori di questo periodo si caratterizzano per i rimandi a un primitivismo di sapore giottesco, cui la solennità del taglio conferisce un velo di sospensione metafisica.
Per la redazione del “Corriere Padano”, sempre dal 1929, l’artista diviene responsabile della "Pagina dell'arte", firmando recensioni e coordinando critici di grande calibro, tra i quali Corrado Padovani, il pittore futurista Italo Cinti e Carlo Belli, autore di Kn, caposaldo teorico dell’astrattismo italiano.
In occasione della III Mostra d’Arte Moderna del 1933, evento incluso nelle celebrazioni del Centenario Ariostesco, nelle sale di palazzo S. Anna sono ospitate anche la Mostra retrospettiva d’arte emiliana, in omaggio aGiovanni Muzzioli, Gaetano Chierici, Alberto Pisa, Giuseppe Mentessi, Aroldo Bonzagni e Ugo Martelli e la Mostra d’Arte Moderna. L’allestimento era stato ideato da Giorgio Gandini, il quale aveva ripartito la seconda sala mediante tramezze, fatto dipingere di color avorio le pareti così da interrompere la monotonia del rosso intenso degli stipiti e organizzato l’illuminazione dall’alto degli ambienti. A Funi e a de Pisis sono dedicate due personali a dimostrazione del riconoscimento della prominenza dei due artisti ferraresi nel rinnovamento e nella sprovincializzazione della pittura ferrarese e italiana.
Non ci dilungheremo sul nutrito elenco degli artisti invitati a esporre, per puntualizzare invece la presenza, tra gli altri, del dipinto Il decennale dell’Armata Azzurra di Mimì Quilici, composizione di impianto complesso in cui sono raffigurati Mussolini e Balbo e il ritorno in città delle opere futuriste di Tato a sei anni dalla decorazione del “Corriere Padano”: Marina piccola di Capri, La Coppa Schneider, Derapata, Dinamismo aereo, La Madonna di San Luca e Fare la foglia.
Nel Decennale, opera ora non più rintracciabile, ma pubblicata su la “Rivista” da Corrado Padovani qualche mese più avanti a corredo del suo dettagliato excursus sulla rassegna14, la pittrice rende un palese tributo ai cerimoniali ideologici del regime. In posizione elevata sul lato destro del dipinto, le figure incombenti di Mussolini e Balbo in uniforme salutano la marcia rigorosamente ordinata, che procede lungo un ampio viale al cospetto di una folla festante e numerosissima. Sullo sfondo sono riconoscibili, tra gli altri, la cupola della basilica di San Pietro e il complesso monumentale del Vittoriano, verso il quale si dirige la parata. La parte sinistra del quadro, invece, è sinistramente dominata da un imponente edificio di età imperiale dalla configurazione talora spigolosa, talora squadrata evocatrice di edifici novecentisti. Così come l’intera raffigurazione appare scandita da un ordine geometrico, metafora della saldezza (e anche dell’autoritarismo) del regime, il tono della composizione è maestoso e nel contempo immobile, quasi raggelato, essenziale nel veicolare la solennità monumentale della coeva pittura murale interprete della civiltà fascista.
Pur essendo inserita nell’entourage intellettuale cittadino facente capo alla personalità di Balbo, fortemente orientato in questi e negli anni a venire verso una produzione figurativa informata alla retorica esaltatrice dei capisaldi del PNF, va pur notato come nel catalogo della pittrice il soggetto encomiastico rappresenti una deviazione momentanea, quasi sempre risolta con intimo trasporto così da volgerlo in saggio poetico.
Quasi immediato è il riverberarsi di tale esperienza nell’attività grafica: a documentare questa fase sono le copertine realizzate per la “Rivista di Ferrara”, diretta da Nello Quilici con il contributo di Giuseppe Ravegnani, Mario Calura, Corrado Padovani, Gualtiero Medri, Giovanni Titta Rosa e degli interventi di Ugo Ojetti e Vittorio Cini, tra gli altri.
A partire dal gennaio del 1933 fino al dicembre del 1935 la “Rivista di Ferrara”, periodico di divulgazione culturale dalla forte connotazione politica in quanto emanazione del gruppo dirigente fascista, orienta il gusto e consacra le iniziative portatrici di lustro avvicendatesi nel panorama ferrarese. Organo ufficiale del Comune, la pubblicazione privilegia contenuti di argomento storico, culturale e artistico, conferendo particolare risalto alle iniziative politiche del partito, dalle gesta aviatorie di Balbo alle vittorie sportive degli atleti ferraresi o, ancora, a tradizioni radicate nella storia locale come il Palio di San Giorgio o estemporanee come l’Ottava d’Oro e il Centenario della Cattedrale. Un ruolo di primo piano è riservato alle manifestazioni artistiche patrocinate dal Sindacato Fascista di Belle Arti, quali la Mostra del Rinascimento ferrarese del 1933 e la connessa Mostra Regionale d’Arte Moderna, e così pure alla partecipazione a esposizioni prestigiose come biennali, triennali e quadriennali o al conseguimento di riconoscimenti da parte degli artisti ferraresi più celebri o inquadrati.
Come per le edizioni de “Il Diamante”, organo ufficiale del Comitato Professionisti e Artisti, edito nel triennio 1928-1930, alla Quilici vengono commissionate le xilografie a colori destinate alle copertine della rivista. Sul piano formale, è possibile distinguere un primo momento, situabile tra il gennaio e il novembre del 1933 con un ulteriore episodio nel luglio del 1934, in cui la pittrice si confronta con stilemi e impianti compositivi ispirati dall’avanguardia futurista. Qui l’artista mette in gioco audaci sintesi di scorci urbani colti da una prospettiva aerea, pervase da dinamismo pluridirezionale, oppure convoglianti formulazioni mutuate dalla lezione di Depero e di Tato Sansoni.
Così, nel recuperare il colore antinaturalistico e la solida imponenza della Torre della Vittoria nel manifesto della Settimana ferrarese realizzato da Mario Capuzzo per l’inaugurazione del 1928, nella copertina del gennaio 1933 la Quilici trasforma il Castello Estense, simbolo assoluto della Ferrara rinascimentale nella sintetica icona della città moderna eletta a luogo permeabile alle sollecitazioni delle tendenze più innovative. Il colore acceso del Castello del tutto simile alle tinte usate nei cartelloni pubblicitari da Fortunato Depero in contrasto con il bianco delle balaustre, la compattezza geometrica delle torri e degli avancorpi, che giganteggiano grazie alla veduta da sotto in su coinvolgendo l’osservatore, sono indizi di un vitale linguaggio grafico innegabilmente aggiornato sull’avanguardia italiana. I pochi elementi descrittivi e l’estrema sintesi plastica si uniscono alla qualità architettonica dei caratteri tipografici dispiegando un’immagine di impatto immediato sullo spettatore.
Altrove, intuendo la modernità della residenza progettata da Biagio Rossetti verso il decennio conclusivo del Quattrocento, tale da renderla paragonabile a un’immensa scultura per l’aggetto delle circa 12.000 bugne di foggia piramidale e la loro capacità di catturare la luce rivestendosi di spettacolari effetti chiaroscurali, Mimì Quilici Buzzacchi ne sfrutta al massimo grado in questa incisione l’intelaiatura geometrica. L’autrice ne estrapola uno dei dettagli maggiormente significativi, quello dello spigolo rivolto verso il quadrivio degli Angeli – ove l’omonimo rettifilo interseca l’antico viale dei Prioni – enfatizzato dalla balconata d’angolo sorretta dalla parasta ornata a candelabre, caratteristica della poetica rossettiana. Il tutto è però spogliato di ogni sovrastruttura decorativa e passato al vaglio di una visione quasi ingegneristica nella quale a prevalere sono i requisiti di linearità, solidità tridimensionale e verticalità, qualificando l’incisione come il saggio più prossimo alle tendenze astratte emergenti in Europa.
Dal 1 luglio al 12 agosto del 1933 Italo Balbo guida la trasvolata di 25 idrovolanti S.55X decollati da Orbetello e diretti verso il Canada con destinazione finale negli Stati Uniti. In contemporanea con la partenza della squadriglia, Nello Quilici dedica l’articolo di apertura dell’edizione di luglio al Maresciallo dell’aria di cui Mimì illustra la copertina. Un idrovolante, delineato con tratti stilizzati e geometrici, di sapore art decò campeggia stagliandosi contro lo sfondo nero evocatore del cielo notturno nell’atto di sorvolare una distesa marina suggerita dalla superficie semicircolare di colore turchese. La forma emisferica viene riecheggiata sia dalle rigorose bianche di diverso spessore poste in sequenza decrescente che la circondano, sia dai fasci luminosi emessi dal velivolo e diretti verso l’alto.
Di nuovo alle prese con la tematica aerea, nella copertina del luglio 1934 la pittrice trova ora spunti di allegra vitalità inventiva intonati a prototipi futuristi. Mimì sembra, difatti, attingere ancora una volta all’immediatezza giocosa di Depero e dissemina la sua squadriglia aerea, schematizzata fino a rassomigliare a giocattoli plastificati, in un cielo evocato da un intenso colore blu avio. I velivoli seguono percorsi pluridirezionali, attirando l’osservatore in un vortice di prospettive multiple dinamizzate – come mai prima d’ora nella Quilici – dai vettori segnaletici dell’aeroscalo convertiti in formidabili linee-forza.
Rispetto alle copertine eseguite durante il 1933, e alle incisioni di sapore più antico consegnate per le uscite del 1934, si delinea invece nella serie prodotta nel 1935 – con convergenze più o meno evidenti – la volontà di misurarsi con taluni fondamenti linguistici di ascendenza metafisica. Troppo giovane per aver seguito nella sua genesi la pittura metafisica all’epoca del soggiorno ferrarese di Carrà e de Chirico tra il 1916 e il 1917, Mimì Quilici ripercorre le vie della sua città e alcuni scorci propizi del territorio, ove l’estraniamento che pervade le piazze dechirichiane evoca il genius loci della “città del silenzio”.
Non si dispone di evidenze documentarie attestanti una frequentazione con il “pictor classicus”, anche mediata dai rapporti con Achille Funi o de Pisis, tuttavia è indubbio il ricorrere di una riflessione sulla produzione metafisica che si estende oltre i riscontri palmari delle vedute urbane riprodotte in questa sede. Ad essa vanno ricondotti gli espedienti compositivi che ritraggono alcune emergenze monumentali ferraresi ricreate dalla Quilici: in primo luogo, la spaesante spazialità deserta che serve ad amplificare l’incombere dei brani architettonici, come avviene nell’incisione con San Domenico e ne La Prospettiva della Giovecca, la cui inquadratura oltremodo ravvicinata ne accresce il giganteggiare.
Si assiste all’elaborazione di uno spazio di taglio scenico-architettonico, geometricamente ripartito, fondato su precisi assunti prospettici, i quali però talora risultano instabili e portati al paradosso, talora suscitano l’impressione di doversi ribaltare verso lo spettatore, oppure rivelano una tensione irrisolta. Marginale appare, invece, il gioco delle ombre portate delle piazze dechirichiane, compensato nella Quilici da una imprevista sovraesposizione luministica tale da rievocare il fulgore della luce artificiale e dalla scelta dei neri, dei verdi e degli azzurri – questi ultimi virati su toni algidi e anonimi – riservati agli sfondi. Così la dimensione temporale è interrotta, l’azione è sospesa in una congiuntura tra passato e presente, che per la Ferrara dei Trenta significa il rimando alle glorie rinascimentali.
Insieme a Corrado Padovani – egli pure attento osservatore degli sviluppi del futurismo e di concerto con il quale e con Gandini e Gaetano Sgarbi la pittrice dà vita al Gruppo Padano – Mimì Quilici è invitata alla IV Mostra Sindacale della Benvenuto Tisi al Palazzo della Borsa e, più avanti alla Mostra di Artisti Ferraresi nell’ambito della V Settimana Cesenate del 1937. A caratterizzare la produzione di buona parte del decennio è una duplice propensione per gli esiti piacevolmente narrativi del gusto neoaccademico verificato presso l’atelier dell’artista romano Carlo Socrate – peraltro non insensibile al neoclassicismo aulico di De Carolis –, e per il clima di purismo arcaizzante novecentista.
Nel triennio compreso tra il 1934 e il 1937 Achille Funi affronta la decorazione della Sala della Consulta su incarico del Municipio di Ferrara, destinata a concretizzarsi in un ciclo di affreschi definito dal loro stesso artefice Mito di Ferrara. Cofirmatario del Manifesto della pittura murale concepito da Mario Sironi nel 1933, Funi è reduce dalle esperienze compiute in tale ambito alla Triennale di Milano e alla Mostra della Rivoluzione Fascista. Amico intimo di Nello e Mimì, l’artista era in quel periodo frequentatore assiduo del Villino Quilici di viale Cavour, all’interno del quale ricava uno studio dove conserva diversi cartoni preparatori delle sue pitture murali.
In città è più che mai vivo il clima di esaltazione del passato estense precorritore dei fasti presenti raggiunti grazie all’azione del regime fascista, giunto all’apice con le manifestazioni del Centenario Ariostesco durante l’anno appena trascorso. Dunque, mentre Italo Balbo, principale fautore del progetto di ripristino delle glorie passate cittadine, si accinge a partire alla volta della Libia, Funi avvia la lungimirante impresa pittorica intesa quale ideale coronamento della recente opera di mitizzazione della storia di Ferrara. Ecco allora affiorare dalle pareti della Sala i corpi statuari delle divinità classiche Mercurio, Apollo, Ercole e Marte, seguite dalla leggenda di San Giorgio e il drago. Al piano encomiastico sotteso agli affreschi è indissolubilmente legata la trasposizione degli episodi salienti tratti dai poemi epici dell’Ariosto e del Tasso, entrambi pervasi da tributi dinastici alla Signoria degli Este e rimandi alla realtà contemporanea. Il volo di Astolfo sull’Ippogrifo era stato al centro della conferenza di Balbo in occasione dell’Ottava d’Oro e ne richiamava la vocazione aviatoria; i crociati guidati da Goffredo di Buglione citati dalla Gerusalemme Liberata recano i ritratti di Nello Quilici, Alberto Boari e altri esponenti del gruppo dirigente cittadino, tra i quali Corrado Padovani e l’ingegnere Girolamo Savonuzzi.
Dimostrando un’inusitata preveggenza, già nel 1933 la Quilici aveva commentato recensendo la partecipazione di Funi alla III Mostra Sindacale: «Nei motivi leggendari della storia ferrarese Funi sa di ritrovare i soggetti da lui preferiti e già s’appassiona e vede rivivere in toni verdazzurri quelle leggende che da Fetonte sulle rive del Po, arriveranno ai moderni angeli d’acciaio sorvolatori dell’Oceano»15. La lezione consegnata agli artisti ferraresi da questa impresa decorativa, in cui i rimandi ai capolavori dei maestri dell’officina ferrarese vengono innestati su riferimenti metafisici, risiede soprattutto nella ricerca del giusto anello di congiunzione fra tradizione figurativa e innovazione contemporanea, di cui peraltro si era fatta portavoce Margherita Sarfatti nel decennio precedente.
La presenza dell’artista a esposizioni di caratura nazionale e internazionale è ora incalzante: dal 1928 è impegnata alla Biennale veneziana; a partire dal 1931 è invitata ad esporre alla Quadriennale di Roma; nel 1935 viene selezionata per l’Esposizione Internazionale di Bruxelles e, due anni più tardi, consegue la medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale di Parigi.
In questo torno d’anni Mimì attende a una serie di vedute panoramiche contrassegnate da un impulso emotivo pronto a intensificare la contemplazione lucida e sintetica dell’oggetto della visione. Vi si annoverano il San Giorgio del 1932, santo patrono della città e dal rinascimento assurto a simbolo del risanamento delle distese palustri, dominatore della vasta piazza sulla quale aleggia un’aura dechirichiana. Un radicale azzeramento delle coordinate temporali pervade la più tarda xilografia Leggenda ferrarese del 1943, sorta di saggio di tagliente archeologismo architettonico di sapore ancora metafisico, su cui incombe un cielo plumbeo carico di presagi.
La veemenza declamatoria del personaggio, esponente di spicco della Libera Università – tempio degli studi corporativi –, emerge nel Ritratto dell’avvocato Massimo Fovel (1935) di proprietà delle Gallerie di Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, resa drammatica dalla secchezza dell’incarnato dell’effigiato, i cui precedenti si rintracciano facilmente nelle figure quattrocentesche come scolpite nel bronzo del Tura e di de’ Roberti. L’interno di aula giudiziaria che funge da sfondo, risente nell’austera e sfalsata geometria dell’impianto della frantumazione di piani compenetrati propria al cubismo nella fase analitica.
Nel frattempo, il governatore della Libia e sodale dei Quilici Italo Balbo convoca a Tripoli una schiera di artisti ferraresi allo scopo di conferire un volto neorinascimentale in soluzione di continuità con quello del capoluogo estense alla città, ai villaggi e ai monumenti di nuova costruzione: i pittori Achille Funi, Nives Comas Casati, Tato, Corrado Padovani, Galileo Cattabriga, Felicita Frai, Eraldo Mori, gli ingegneri Giorgio Gandini e Giulio Gatti Casazza, gli scultori Enzo Nenci e Guglielmo Ottavi.
In Libia la Quilici, dove si è recata nel 1938 su indicazione di Funi, affresca la cappella delle SS. Felicita e Perpetua nella chiesa del Villaggio Corradini. Non sussistono della decorazione della chiesa se non una esigua documentazione fotografica del cantiere di lavoro e uno studio preparatorio, ora conservato presso la Wolfsoniana di Genova.
L’iconografia dello studio preparatorio si caratterizza per l’impaginatura fortemente teatrale della scena sacra, come se essa si svolgesse su un proscenio. La composizione è simmetricamente imperniata sul gruppo centrale delle due sante verso le quali sono rivolti due gruppi di figure laterali; ai margini fungono rispettivamente da quinte, sulla destra, le vestigia del colonnato di un edificio classico e, a sinistra, la fiancata di un edificio marmoreo e una struttura ad arco in terracotta. I rimandi alla romanità classica sono rafforzati dalle tuniche dei vessilliferi raffigurati a sinistra – evidente citazione in chiave “archeologica” dei vessilliferi della parete nord del Salone dei Mesi di Schifanoia – e dal gruppo di destra tra cui spicca il personaggio togato colto nell’atto di effettuare il saluto romano.
L’affresco partecipa del fervore sorto attorno al ripristino della decorazione parietale all’indomani della pubblicazione del Manifesto della pittura murale, lanciato da Mario Sironi e sottoscritto nel 1933 proprio da Funi, assieme a Carrà e Massimo Campigli, e apparso sotto forma di articolo firmato da Sironi in una prima formulazione sul “Corriere Padano” nel maggio del 1932.
Del pari, Mimì Quilici sembra avere recepito il messaggio reso tangibile nella produzione murale funiana, inoltrandosi nello «studio ampio, energico della forma»16. Ad esso concorre poi l’interesse per l’arte romana, alla quale si riallaccia lo schema compositivo contente figure o scene inserite in scenari prospettici, come in questo caso, sulla scorta della decorazione parietale del “secondo stile” pompeiano. In parallelo alla traduzione di modelli e testi latini in molteplici opere, la pittrice può seguire il dibattito culturale in auge a Ferrara, come nei centri più attivi della penisola, riguardo al legame intercorrente tra arte fascista e romanità, di cui si fa portavoce il pittore e critico Corrado Padovani sulle pagine del “Corriere Padano”:

Nelle arti plastiche, il fascino della romanità, la sua giovinezza eterna sta nel rendere armonioso, nel vestire di robuste grazie tutto quello che tocca. Vincitrice o saccheggiata Roma finisce col passare su tutte le civiltà, a dispetto del verso di Orazio, assimilandone l’arte, mescolandola alle forme antecedenti, senza rinunciare al suo passato, ne fa rifiorire le bellezze senza spezzature, senza discordanze, sempre attuale e sempre rinnovantesi. Con atto volontario imprime il suo suggello nella materia informe, le infonde la sua ricchezza di vita; la sua complessa armonia si origina da un succedersi di contraddizioni, dal perpetuarsi di distinti e di opposti […] Quella voce stava già nel cuore del Duce. Tra le rudi fatiche della ricostruzione aveva sentito fin da principio quel palpito sereno e fecondo che l’anima del nostro popolo ha espresso nelle tre arti, aveva riconosciuto nella nostra millenaria civiltà e l’arte formano un tutto indivisibile17.

Evidentemente l’artista raccoglie – se non altro in virtù dell’appartenenza a un entourage caratterizzato dalla vocazione dei suoi dirigenti – tali indicazioni propagandistiche, culminanti nel saluto romano del console rivolto all’osservatore nel presente bozzetto, senza tuttavia cedere alle piaggerie della retorica di regime, ma volgendole in pretesto per progredire in un percorso sempre incline a oltrepassare formule esauste.
Produce in parallelo un nucleo di incisioni in cui raffigura luoghi immersi in un silenzio metafisico, Leptis Magna, Tagiura, Gadames, Derna, di cui è esempio la copertina della rivista “Libia” – periodico di punta del cotè balbiano affidato a Pio Gardenghi e Aroldo Canella – del marzo di quell’anno.
Come a Ferrara Balbo aveva voluto un organo ufficiale di orientamento della vita intellettuale dando vita al “Corriere Padano”, così nel forzato esilio a Tripoli fonda la rivista “Libia”, tribuna propagandistica delle realizzazioni balbiane. Ad Achille Funi, Felicita Frai e Mimì Quilici Buzzacchi, sono assegnate alcune copertine del periodico.
Di Mimì, al seguito di Nello nei ripetuti sopralluoghi africani, viene di fatto riprodotto l’olio Notturno a Gadames, appartenente alla serie incentrata sul paesaggio libico poi esposta al Ridotto del Teatro Comunale di Ferrara nella personale del 1938.
Il raggruppamento di abitazioni è reso imponente dal punto di vista estremamente ravvicinato e posto quasi a livello del terreno. Le costruzioni sono risolte in ampie porzioni geometriche, di cui il riverbero della torrida luce solare a contrasto con un cielo livido contribuisce ad accrescere il grado di sinteticità. Accanto alla solennità immota e immersa in uno stupefatto silenzio, ancora di stampo metafisico, si osserva una tensione antifigurativa in sintonia con gli sviluppi della pittura astratta in Italia, alla quale la stessa redazione della terza pagina del “Corriere Padano” aveva riservato un anno prima ampio risalto includendo anche interventi di Carlo Belli e Osvaldo Licini18.
Nel medesimo anno, il corpus di opere realizzate durante il soggiorno tripolino viene ospitato in una personale nel Ridotto del Teatro Comunale a Ferrara e, successivamente a Genova.
Se Aroldo Canella, trattando a proposito delle caratteristiche del paesaggio libico recepite dalle arti e dalla letteratura, proclama: «esiste una Libia ellenica con paesaggi omerici, esiste una Libia romana, ve n’è una fascista, altrettanto ispiratrice e del tutto nuova», Giuseppe Ravegnani, responsabile della terza pagina del Padano, evidenzia il temperamento interiore di quei dipinti non accomunabile all’arte coloniale nell’accezione documentaria del termine: «…di fronte a una realtà quanto mai caratterizzata, la liberazione dell’artista da codesta realtà, e l’intimo rivivere di essa, si dimostrano spesso mete e qualità irraggiunte, e danno di quello stile, che è il timbro umano di ogni pittura, qualora si asserisca che il pittore non cose dipinge, ma idee»19.
E il non meglio identificato Pigico, sulla medesima testata, individua l’essenza della produzione africana dell’artista nella capacità di cogliere la magia sospesa di certe vedute: «Il senso di mistero che per noi europei forma tutto il fascino segreto e prepotente del Continente Nero, ed è definito non senza efficacia il «mal d’Africa» è colto dalla pittrice in ogni dove della Libia. Guardate la «Casa delle Muse» a Cirene: quattro statue acefale, avanzo glorioso della civiltà romana in Africa, rese come viventi sotto un cielo livido e corrucciato, in una atmosfera metafisica impressionante e allucinante: potentissima»20.
Il prezioso contributo apportato da Mimì Quilici Buzzacchi alla produzione artistica ferrarese del novecento conosce una brusca battuta d’arresto quando, il 28 giugno 1940, l’aereo a bordo del quale si trovano Balbo e il marito Nello viene abbattuto dalla contraerea italiana impegnata a contrastare l’offensiva britannica nel cielo di Tobruk. Dopo un temporaneo trasferimento a Bergamo nel 1942 per evitare le incursioni belliche, il percorso della pittrice proseguirà per oltre quattro decenni nella capitale con rinnovato vigore e volontà di sperimentare anche le matrici surrealiste e informali nell’ottica di un aggiornamento perseguito con vigile costanza.

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1 Nella ricostruzione della produzione artistica si è fatto riferimento alla seguente bibliografia sulla pittrice: Mimi Quilici Buzzacchi, catalogo della mostra, Castello Estense, 20 settembre 1 novembre 1981, Cento 1981; R. Farina, Dizionario biografico delle donne lombarde: 568-1968, Baldini Castoldi Dalai, Milano 1995; Mimì Quilici Buzzacchi, catalogo della mostra, a cura di E. Landini Torelli, Palazzo Massari, Ferrara, 20 dicembre 1998-21 febbraio 1999, SATE, Ferrara 1998; P. Cortese, M. Lisanti (a cura di), Donne d’arte. Pittura a Roma da Antonietta Raphaël Mafai a Giosetta Fioroni, catalogo della mostra, Galleria Cortese & Lisanti, Roma 2006; A. P. Fiorillo (a cura di), Mimì Quilici Buzzacchi. Disegni ferraresi 1923-1963 nella raccolta dell'Università di Ferrara, Ferrara 2006; Tra Oriente e Occidente. Stampe italiane della prima metà del ‘900, catalogo della mostra, a cura di A. Moltedo, Istituto Nazionale per la Grafica, Roma, 15 dicembre 2006 – 18 febbraio 2007, Roma 2006; Visioni d’Italia, catalogo della mostra, Mantova, 28 gennaio - 9 febbraio 2012, Mantova 2012.

2 I Esposizione d’Arte Ferrarese Promossa dalla Società “Benvenuto Tisi da Garofalo”, Primavera 1920, Ferrara 1920.

3 Per un approfondimento del concetto di “classico” e al recupero della tradizione nella pittura avviato dal Novecento Italiano si rinvia agli studi più recenti: L'idea del classico: 1916-1932: temi classici nell'arte italiana degli anni Venti, catalogo della mostra, Palazzo Reale, Milano, 8 ottobre – 31 dicembre 1992, Fabbri, Milano 1992; F. Pirani (a cura di), Il futuro alle spalle. Italia Francia, l’arte tra le due guerre, De Luca, Roma 1998; E. Pontiggia, Il Ritorno all'ordine, Abscondita, Milano 2005; R. Barilli, Il ritorno alle origini, in L'arte contemporanea: da Cezanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano 2005; Capolavori del Novecento Italiano dalla collezione Gian Ferrari al FAI, catalogo della mostra, Villa Panza, Varese, ottobre 2006 – 18 febbraio 2007, Skira, Milano 2006; S. Vacanti, Giorgio de Chirico e il “ritorno al mestiere”. L’importanza della formazione artistica tra Atene e Monaco, in “Metafisica. Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 5-6, Le Lettere, Firenze 2006, pp. 404-432; The Artistic Culture Between the Wars 1920-1945, Skira, Milano 2006; F. Poli (a cura di), Ritorno all'ordine, in Arte moderna: dal postimpressionismo all'informale, Electa, Milano, 2007; E. Pontiggia, Modernità e classicità: il ritorno all'ordine in Europa, dal primo dopoguerra agli anni trenta, Bruno Mondadori, Milano 2008; de Chirico e il museo, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, catalogo della mostra, a cura di M. Ursino, 20 novembre 2008 – 25 gennaio 2009, Electa, Roma 2008; de Chirico e la suggestione del classico, Scuderie del Castello, Pavia, 6 marzo 2 giugno 2010, Milan, 2010;Nove100. Arte, fotografia, architettura, moda, design,catalogo della mostra, a cura di A. C. Quintavalle, G. Bianchino, Parma, Palazzo del Governatore, 16 gennaio – 16 maggio 2010, Skira, Milano 2010; Novecento. Tensioni e figura, catalogo della mostra, a cura di F. Migliorati, Galleria Comunale di Arte Contemporanea, Arezzo, 4 marzo 1 maggio 2012, Forma Edizioni, Arezzo 2012.

4 Sull’adesione di Achille Funi al muralismo degli anni Trenta esistono numerosi studi, tra cui si segnalano: S. Weber, Achille Funi e la pittura murale tra le due guerre, SPES, Firenze 1989; R. Bossaglia, N. Colombo, R. De Grada, Achille Funi, Vangelista Editore, Milano 1992; N. Colombo, Achille Funi. Catalogo ragionato dei cartoni e dei dipinti, Leonardo Arte, Milano 1996; Muri ai pittori. Pittura murale e decorazione in Italia 1930-50, cat. della mostra, a cura di V. Fagone, G. Ginex, T. Sparagni, Palazzo della Permanente, Milano, 16 ottobre 1999-3 gennaio 2000, Mazzotta, Milano 1999; N. Colombo (a cura di), Achille Funi (1890-1972). Mitologie del quotidiano, cat. della mostra, Palazzo della Permanente, Milano, 27 gennaio – 22 febbraio 2009, Giorgio Mondadori, Milano 2009.

5 Le vicende del trasferimento degli artisti ferraresi, tra cui figuravano anche Corrado Padovani, Nives Comas Casati e Giorgio Gandini, sono delineate nell’articolo di L. Scardino, L'officina ferrarese in Libia: Funi e gli altri, in Architettura italiana d'oltremare 1870-1940, a cura di G. Gresleri, P. G. Massaretti, S. Zagnoni, Marsilio, Venezia 1993, pp. 289-301.

6 IV Biennale Donna. Presenze femminili nella vita artistica a Ferrara tra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra, a cura di A. Fioravanti Baraldi, F. Mellone, Ferrara, 3 marzo – 29 aprile 1990, Liberty House, Ferrara 1990; S. Spinazzè, Donne e attività artistica durante il Ventennio, in L. Iamurri, S. Spinazzè (a cura di), L’Arte delle donne nell’Italia del Novecento, Meltemi Editore, Roma 2001; M. A. Trasforini (a cura di), Donne d’arte. Storia e generazioni, Meltemi Editore, Roma 2005.

7 A. P. Fiorillo (a cura di), Mimi Quilici Buzzacchi. Disegni ferraresi

8 F. de Pisis, Una giovane artista ferrarese, “Corriere Padano”, I, 25 dicembre 1925, p. 5.

9 Mostra d’Arte Ferrarese-Emiliana, Castello Estense, Ferrara, 7 giugno – 7 luglio, Ferrara 1925.

10 Ove è presente con gli oli Riposo di pescatori, L’ora deserta, Preludio, Paranze adriatiche, Casolare al Salviatino, Trasparenze di reti, Interno di cucina, Barche in riparazione, Al traghetto, Barche ormeggiate sul Po in piena, La facciata bianca e le xilografie Casa Romei, Particolare del Castello, Ferrara, Interno del Campanile di S. Francesco, Ferrara, Barconi allo squero, Case di pescatori, Motivo fiorentino, Silenzio mistico, Fiesole. Cfr.Mostra Regionale d’Arte, Castello Estense, Ferrara, 3 ottobre – 7 novembre, Ferrara 1926.

11 Mostra d’Arte Ferrarese. Settimana Ferrarese, Palazzo S. Anna, Ferrara, Ottobre-Novembre MCMXXVIII, Ferrara 1928.

12 Lettera inedita di M. Quilici a Benedetta Marinetti, 3 dicembre 1944, Beinecke Library, Yale University.

13 A. P. Fiorillo (a cura di), Mimì Quilici Buzzacchi. Disegni ferraresi

14 C. Padovani, La III esposizione del Sindacato d’Emilia e Romagna a Sant’Anna. La pittura e la scultura emiliana del ‘900, “Rivista di Ferrara”, a. I, n. 7, luglio 1933, pp. 8-18.

15 M. Quilici Buzzacchi, Achille Funi, in “Rivista di Ferrara”, a. I, n. 7, luglio 1933, pp. 19-22.

16 A. Funi, “Colonna”, a. II, n. 4, aprile 1934.

17 C. Padovani, 1919-1933. L’Arte Fascista. Le arti plastiche del Novecento fascista, “Corriere Padano”, 28 marzo 1933, p. 3.

18 La pagina dell’arte. La pittura astratta, “Corriere Padano”, a. XII, 9 ottobre 1937, p. 3.

19 G. Ravegnani, La Mostra del Paesaggio Libico di Mimì Quilici Buzzacchi, “Corriere Padano”, a. XIII, 26 maggio 1938, p. 5.

20 Pigico, Cronache di una Mostra. Il palmeto dei Sabrì, “Corriere Padano”, a. XIII, 8 giugno 1938, p. 5.

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Temi di Critica - numero 6

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