teCLa :: Rivista #7

in questo numero contributi di Giacomo Pace Gravina, Giuseppe Giugno, Claudia Caruso, Valentina Raimondo, Giuseppe Cipolla, Simone Ferrari.

codice DOI:10.4413/FERRARI - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Il giovane Dürer: riflessioni in margine ad una mostra di Simone Ferrari

Fra gli eventi artistici del 2012 occupa un posto di primo piano la mostra dedicata al giovane Dürer a Norimberga, città natale del maestro (1471)[1]. Il denso e ponderoso catalogo [fig. 1] certifica la periodizzazione scelta, che va dagli esordi (circa 1490) fino ai primi anni del Cinquecento e si arresta prima del secondo soggiorno veneziano (dal 1505). Va da sé che il titolo scelto vale come pura indicazione preliminare ad uso del pubblico, che non deve attendersi una monografica completa, relativa all’intero percorso artistico. In una più specifica accezione storiografica, invece, il momento analizzato va scandito in molteplici tappe, quantomeno le seguenti: formazione; primi viaggi di istruzione; primo viaggio in Italia; L’Apocalisse (1498); il periodo del clamoroso successo in patria (circa 1500); i capolavori del primo lustro del ’500.

Da diversi punti di vista, la rassegna si dimostra erede della migliore tradizione storiografica tedesca: i collegamenti ideali con le passate esibizioni cittadine (fondamentale quella del 1971), opportunamente richiamati in limine, emergono nella struttura complessiva e nell’approccio metodologico. Fra i maggiori meriti, vi è senz’altro la volontà di delineare in modo approfondito il contesto produttivo tedesco, inteso come articolata intersezione fra elementi artistici, economici, sociali, intellettuali e nelle sue connessioni con la committenza. Punto di partenza è quindi una capillare ricognizione dei materiali dell’epoca, fonti e documenti, testimonianze a stampa e manoscritte. In questo senso, il collegamento con la mostra del 1971, che meritoriamente riportava in catalogo brani preziosi dei primi del Cinquecento, risulta trasparente[2].

Ed è proprio questo approccio culturale ad ampio spettro, supportato da numerose prove, che individua la lettura cinquecentesca di Dürer come paladino della nazione tedesca. Questa declinazione encomiastica fa parte di un progetto complessivo di più ampia portata, che trova il suo momento di sintesi nei Quatuor libri amorum (Norimberga, 1502) di Conrad Celtis [fig. 2]. L’autore, stimato ed acclamato umanista, già incoronato come “poeta laureato” nel 1487, realizza con quest’opera non un semplice, ancorché raffinato, manifesto dell’umanesimo nordico; supportato dall’imperatore Massimiliano, che copre gli elevati costi di stampa, propone un modello di “Germania illustrata” secondo una precisa missione nazionalistica. L’interesse geografico per il territorio (legato ad una specifica valenza ideologica) viene letto, dagli autori della mostra, in parallelo alle ricerche naturalistiche condotte da Dürer (circa 1495-96); i suoi precoci studi di paesaggio sono accostati al progetto di Celtis, all’interno di una possibile, comune collaborazione per la definizione geografica dei confini dell’impero[3]. L’umanista non si sarebbe limitato a coinvolgere il più giovane artista nella “missione”; rappresenta in un certo senso il suo pigmalione, ne profila una dimensione mitica. Un manoscritto custodito a Kassel (scoperto nel 1965) e opportunamente riprodotto a colori (p. 282, cat. 13), contiene infatti quattro suoi epigrammi encomiastici su Dürer (circa 1500). L’umanista utilizza i topoi della letteratura artistica rinascimentale: il paragone con Fidia ed Apelle; il confronto con gli altri contemporanei (con una originale declinazione geografica, che spazia dall’Ungheria alla Polonia, dalla Francia alla Spagna); l’abilità nell’imitare i fenomeni naturali (secondo gli usuali archetipi pliniani). Questi elogi, che fanno di lui il più grande artista (degno degli antichi e superiore a tutti i contemporanei europei), sono alla base del “mito” e di una più complessiva esaltazione del paese che gli ha dato i natali.

Il processo di “divinizzazione” conosce un’ulteriore svolta grazie agli Epithoma di Jakob Wimpfeling, pubblicati a Strasburgo nel 1505 e forse legati alla conoscenza del modello proposto da Celtis in forma manoscritta. Il panegirico prosegue infatti nella stessa direzione: Dürer, novello Apelle e Parrasio, è posto degnamente nell’Olimpo del Rinascimento (unico tedesco ammesso); trasfigurato definitivamente in eroe artistico germanico, assurge a simbolo di identità nazionale [fig. 3]. In conclusione, secondo Anja Grebe, l’elevazione del maestro ad uno statuto disciplinare fino ad ora sconosciuto lo identifica come artista nazionale del popolo tedesco (degno di essere anche chiamato “nuovo Alberto Magno”); questa percezione è funzionale al nuovo concetto di nazione, in senso storico, geografico, artistico. La dimensione umanistica, potremmo concludere, sussume le diverse declinazioni all’interno di un discorso “patriottico” (naturalmente nei termini appena accennati).

Questa lunga digressione, da cui ho deciso di partire, afferisce certo ad uno dei punti focali della mostra, ma non solo. Grazie allo studio accurato delle testimonianze antiche, viene infatti riproposto un tema storiografico nodale (non privo di tensioni e difficoltà), secondo quanto discusso autorevolmente da Hans Belting[4]: la definizione di un modello artistico tedesco all’interno del Rinascimento. Un assunto che lo studioso analizza con acribia, partendo dai contributi più noti ed autorevoli (Wölfflin, Pinder, Panofsky, ecc.), rispetto al quale la mostra fornisce linfa vitale e nuovo materiale di discussione.

Come dicevo, uno degli ambiti privilegiati della rassegna consiste nella ricostruzione filologica del contesto culturale. Oltre che nelle opere già citate, il tema della precoce ricezione letteraria del maestro si lega alla rappresentazione allegorica della Philosophia, xilografia di Dürer per i Quatuor libri amorum di Celtis, interpretata come momento culminante della collaborazione fra pittore ed umanista. L’elogio di una formazione filosofica e retorica (Bildung), sostenuto da Celtis sulla scia di noti precetti ciceroniani, si estende ad una nuova funzione attribuita all’artista, non più artigiano ma assurto al ruolo di pittore/filosofo, consapevole protagonista di un rinnovamento che coinvolge il processo educativo nel suo complesso.

Fondamentale risulta infine la presenza in mostra (cat. 16) del Libellus de laudibus Germaniæ di Christoph Scheurl, nella sua seconda versione tedesca del 1508 (la prima è invece quella bolognese del 1505). Il testo, oggetto di recenti ed approfondite indagini storiografiche[5], si inserisce nel filone encomiastico dell’artista, protagonista di un nuovo rinascimento pittorico, Apelle tedesco riconosciuto ovunque ed acclamato persino dai talora “spocchiosi” colleghi italiani[6].

L’analisi delle fonti dell’epoca si intreccia con altri temi strutturali: il problema della formazione, i giovanili viaggi di istruzione, la dinamica delle opere e le relative interferenze stilistiche. All’interno di un quadro complesso ed articolato, troviamo interessanti suggestioni su fenomeni all’apparenza “minori” (in quanto meno indagati dalla storiografia), in realtà di grande significato: il rapporto con la scultura; l’interferenza con la tradizione figurativa precedente (non solo Schongauer); il rapporto fra disegni e vetrate; l’origine dell’interesse per la xilografia come medium espressivo. Inoltre, ricorre nel catalogo una specifica attenzione per l’iconografia delle immagini (non solo nella sfera del senso, ma anche in termini di ricezione e di possibili modelli commerciali di facile spendibilità). Per quanto riguarda gli esordi, di sicuro interesse ma ancora controverso risulta il tema della produzione libraria nei primi anni ’90 del Quattrocento: le opere messe in campo, assai note e disputate, sono ad esempio le Commedie di Terenzio (Basilea, ca. 1492-93) e La Nave dei folli di Sebastian Brandt (Basilea, 1494), per le quali si propone il nome del grande tedesco [fig. 4]; la questione riguarda l’interpretazione che si dà dell’artista intorno a questi anni e la possibilità di una attribuzione alternativa (anche in rapporto al grado di tenuta qualitativa riscontrato). Ulteriori difficoltà riguardano la creazione di una serie plausibile fra queste prove ed il successivo, incontestabile capolavoro (L’Apocalisse, 1498)[7]. Fra le ipotesi avanzate, mi pare comunque percorribile e condivisibile quella del S. Gerolamo, frontespizio delle Epistulae (Basilea 1492, cat. 112), ricondotto opportunamente al suo corpus.

Da un punto di vista complessivo, se la definizione del contesto risulta adeguata e ben argomentata, l’analisi del “campo”, inteso come momento di intersezione stilistica e di accertata gravitazione culturale[8], consente alcune precisazioni, specialmente circa il rapporto con l’Italia. Nella sezione relativa alle “Madonne”, il quadro di Coburg (cat. 55) è difficilmente valutabile per il cattivo stato di conservazione. La Madonna Haller (Washington, cat. 53) risulta intrisa di umori antonelleschi (più che belliniani), mentre la Madonna di Bagnacavallo (cat. 54) viene tolta dal corpus dell’artista e, poco plausibilmente, assegnata ad anonimo della Germania meridionale o ad artista del Nord Italia (p. 236, fig. 1)[9]. Mi preme ribadire l’assoluta centralità del dipinto all’interno del catalogo del grande maestro, in virtù di un’altissima tenuta qualitativa. Anche la datazione proposta, intorno al 1490, mi pare troppo precoce; il movimento e la definizione della gambe del bimbo mi sembrano riflettere idee di Leonardo (dalla Madonna Benois alla Vergine delle Rocce), un artista che, come ipotizzato, influenza sensibilmente il tedesco per un lungo periodo (e che può avere conosciuto durante un soggiorno milanese intorno al 1495)[10]. Ne deriva una datazione successiva al primo viaggio italiano (circa 1498), come mi conferma anche Elisabetta Fadda. Le relazioni con il maestro toscano toccano altre opere presenti in mostra: ad esempio l’acquarello con le Tre vedute di un elmo (conservato a Parigi), siglato e datato 1514 (ma datato in mostra al 1500 ca., cat. 185), che propone lo stesso celebre tema del Triplo ritratto di Leonardo alla Biblioteca Reale di Torino[11]. Infine, anche il rapporto con la natura rivela affinità e contiguità, sia a livello teorico[12] sia per possibili confronti figurativi[13]. Il precocissimo Paesaggio con la valle dell’Arno di Leonardo (1473), richiamato in catalogo da Daniel Hess (p. 125), propone una direzione di ricerca in cui gli esiti del maestro tedesco e di quello italiano sono difficilmente calibrabili in termini di dare e avere, ma vanno comunque nella stessa direzione: quella dell’acquarello con Cava di Dürer (cat. 90, circa 1495-1500), con una proposta di datazione che si legge in stretta sequenza con la decorazione di Leonardo nella Sala delle Asse presso il Castello Sforzesco di Milano[14].

Un altro tema che forse avrebbe meritato più spazio riguarda i rapporti con il veneziano Jacopo de’ Barbari, additato da Dürer come suo maestro e successivamente ripudiato e denigrato, per poi essere ricercato con insistenza ancora nel 1521[15]; il suo catalogo pittorico, dopo le giovanili esperienze veneziane, si arricchisce in questi ultimi anni di un nuovo numero di grande interesse, un Ritratto virile collocabile durante il fruttuoso soggiorno tedesco, ai primi del ’500[16]. Per quanto riguarda poi la Veduta di Venezia (1500, cat. 93), significativamente già attribuita a Dürer, Jacopo propone una mappatura geografica cittadina a volo d’uccello di cui la Nemesis, di poco successiva (circa 1501, cat. 153) serba una possibile traccia. Assai significativa è inoltre la presenza in mostra della Coppia disuguale di amanti di Jacopo de’ Barbari (Philadelphia, 1503, cat. 52), felice combinazione fra un tema tipicamente nordico (dal “Maestro del libro della casa” a Cranach) e ricordi stilistici veneziani (nel verde dell’abito della fanciulla). Ai modelli del maestro tedesco-veneziano (Jakob Walch de’ Barbari) si rifà programmaticamente Hans Baldung Grien, come conferma un dipinto con Lucrezia comparso in una recente asta di Christie’s[17]: l’espressione, l’inclinazione del capo, la definizione delle spalle, rimandano chiaramente ai prototipi eseguiti dal collega in terra tedesca a partire dal 1500 (si vedano le Santa Caterina e Santa Barbara a Dresda), o in molte sue incisioni. Impressionante risulta infine la tenda verde in alto a sinistra, similissima agli effetti della Coppia disuguale di amanti esposta a Norimberga


[1] The early Dürer, catalogo della mostra (Nuremberg, Germanisches Nationalmuseum, 24 maggio-2 settembre 2012), a cura di D. Hess, T. Eser, Germanisches Nationalmuseum-Thames & Hudson, Nuremberg-London and New York 2012.

[2] Albrecht Dürer 1471-1971, catalogo della mostra (Nuremberg, Germanisches Nationalmuseum, 21 maggio-1 agosto 1971), a cura di L. von Wilckens, Prestel, Munchen 1971.

[3] Il tema della geografia è assolutamente centrale nella cultura tedesca, specialmente a Norimberga; Nicolò Cusano, vi fece acquistare strumenti, astrolabi, manoscritti di astronomia; l’umanista, così come Hartmann Schedel, risulta un entusiasta cultore della scienza geografica e provvede ad ideare una pionieristica Carta dell’Europa Centrale (1491), già posseduta da Willibald Pirckheimer (ora a Londra, British Museum). Su questi temi si veda E. Filippi, Umanesimo e misura viva. Dürer fra Cusano e Alberti, Arsenale, Verona 2011, pp. 71-73. Come si nota facilmente dai nomi citati, questo ambiente rappresenta il fecondo retroterra culturale di Dürer e può avere inciso per certi aspetti anche su Jacopo de’ Barbari, precocemente in contatto con il mondo nordico (e certamente apprezzato da Schedel, che ne possiede alcune stampe) ed autore da lì a poco della celebre Veduta di Venezia (1500, Venezia, Museo Correr).

[4] H. Belting, I tedeschi e la loro arte. Un’eredità difficile, Il Castoro, Milano 2005, pp. 24-34.

[5] G.M. Fara, Sul secondo soggiorno di Albrecht Dürer in Italia e sulla sua amicizia con Giovanni Bellini, in “Prospettiva”, 85, 1997, pp. 91-96; E. Fadda, L’Apelle vagabondo e Agostino delle Prospettive. Riflessioni sul soggiorno di Dürer in Italia del 1506, in Crocevia e capitale della migrazione artistica. Forestieri a Bologna e bolognesi nel mondo (secoli XV-XVI), atti del Convegno internazionale di studi (Bologna, Palazzo Saraceni, 30 novembre-2 dicembre 2010), a cura di S. Frommel, Bononia University Press, Bologna 2010, pp. 119-132.

[6] Per i suoi rapporti conflittuali con i Veneziani, si veda A. Dürer, Lettere da Venezia, a cura di G.M. Fara, Electa, Milano 2007, pp. 15-16 e p. 32. Il nome di Dürer, ovviamente in termini positivi, compare in un’ulteriore opera di C. Scheurl, Vita Reverendi Patris Dni. Anthonii Kressen, Federicus Peypus, Nuremberg 1515, p. 9 e anche in P. Mela, Cosmographia, Johann Weissenburger, Nuremberg 1512, p. 93.

[7] Opportunamente, la Apocalisse è stata collocata fra le opere d’arte “imprescindibili”, come il Cenacolo di Leonardo; si veda, per questo acuto riferimento, E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer (1943), Feltrinelli, Milano 1979, p. 80.

[8] Su tale problema metodologico è intervenuto in più occasioni Bruno Toscano, con specifiche definizioni legate a problemi di geografica artistica e “attribuzione geostilistica”. Si veda, ad esempio, B. Toscano, Kulturgeschichte 1913: un modello italiano, in Gioacchino di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno (Palermo, 15-17 aprile 2003), a cura di S. La Barbera, Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria (Palermo) 2004, pp. 105-112.

[9] Sul dipinto, si veda anche la posizione di R. Sucksale, The early Dürer (review), in “The Burlington Magazine”, CLIV, agosto 2012, pp. 596-597

[10] Su questo tema, si veda S. Ferrari, Bramante, Leonardo e Dürer, in corso di stampa.

[11] Per la discussione sul noto disegno (che anche nel tratteggio sembra vicino allo stile di Dürer), si veda la recente scheda di Paola Salvi in Leonardo. Il genio, il mito, catalogo della mostra (Torino, Reggia di Venaria, 17 novembre 2011-29 gennaio 2012), sezione 1, a cura di C. Pedretti, P. Salvi, C. Vitulo, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale 2011, p. 100, n. 1.16.

[12] Si veda M. Pezza, Albrecht Dürer e la teoria delle proporzioni dei corpi umani. In appendice l’edizione del 1591, Gangemi, Roma 2007.

[13] K. Hermann Fiore, Leonardos Gewirrerlandschaft und Dürers Nemesis. Zu kosmographischen Vision der Landschaft um 1500, in Leonardo da Vinci. Natur im Űbergang. Beiträge zu Wissenschaft, Kunst und Technik, a cura di F. Fehrenbach, München, Fink 2002, pp. 327-345. I possibili confronti fra i due maestri sono di diverso tipo: si passa, ad esempio, dal tema del profilo perduto (si veda il disegno di Endres Dürer, siglato e datato 1514 all’Albertina di Vienna) alla gestualità: chiaramente leonardesca risulta la mano della Figura di uomo nudo (Brema, Kunsthalle, siglata e datata 1508), che riprende modelli quali il disegno con San Giovanni Battista (Londra, The Royal Collection, RL 12572). Il disegno di Brema fonde modelli leonardeschi con echi bramantiniani, come si evince dalla resa delle lumeggiature.

[14] Su questi ed altri temi, si veda P.C. Marani, Dürer, Leonardo e i pittori lombardi del Quattrocento, in Dürer e l’Italia, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 10 marzo-10 giugno 2007), a cura di K. Herrmann Fiore, Electa, Milano 2007, pp. 51-61. Lo studioso, giustamente, evoca il precedente intervento di R. Salvini, Paralipomena su Leonardo e Dürer, in Studies in Late Medieval and Renaissance Painting in Honor of Millard Meiss, a cura di I. Lavin, J. Plummer, vol. 1, New York University Press, New York 1977, pp. 377-391. Segnalo inoltre le pregnanti suggestioni (non sempre menzionate, come invece meriterebbero) di H. Focillon, Albrecht Dürer (1928), Abscondita, Milano 2004, pp. 42-43 e pp. 56-58.

[15] S. Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Bruno Mondadori, Milano 2006.

[16] Si veda la preziosa segnalazione di E.M. DAL POZZOLO, in “Studi Tizianeschi”, V, 2007, pp. 193-194

Fra gli eventi artistici del 2012 occupa un posto di primo piano la mostra dedicata al giovane Dürer a Norimberga, città natale del maestro (1471)[1]. Il denso e ponderoso catalogo [fig. 1] certifica la periodizzazione scelta, che va dagli esordi (circa 1490) fino ai primi anni del Cinquecento e si arresta prima del secondo soggiorno veneziano (dal 1505). Va da sé che il titolo scelto vale come pura indicazione preliminare ad uso del pubblico, che non deve attendersi una monografica completa, relativa all’intero percorso artistico. In una più specifica accezione storiografica, invece, il momento analizzato va scandito in molteplici tappe, quantomeno le seguenti: formazione; primi viaggi di istruzione; primo viaggio in Italia; L’Apocalisse (1498); il periodo del clamoroso successo in patria (circa 1500); i capolavori del primo lustro del ’500.

Da diversi punti di vista, la rassegna si dimostra erede della migliore tradizione storiografica tedesca: i collegamenti ideali con le passate esibizioni cittadine (fondamentale quella del 1971), opportunamente richiamati in limine, emergono nella struttura complessiva e nell’approccio metodologico. Fra i maggiori meriti, vi è senz’altro la volontà di delineare in modo approfondito il contesto produttivo tedesco, inteso come articolata intersezione fra elementi artistici, economici, sociali, intellettuali e nelle sue connessioni con la committenza. Punto di partenza è quindi una capillare ricognizione dei materiali dell’epoca, fonti e documenti, testimonianze a stampa e manoscritte. In questo senso, il collegamento con la mostra del 1971, che meritoriamente riportava in catalogo brani preziosi dei primi del Cinquecento, risulta trasparente[2].

Ed è proprio questo approccio culturale ad ampio spettro, supportato da numerose prove, che individua la lettura cinquecentesca di Dürer come paladino della nazione tedesca. Questa declinazione encomiastica fa parte di un progetto complessivo di più ampia portata, che trova il suo momento di sintesi nei Quatuor libri amorum (Norimberga, 1502) di Conrad Celtis [fig. 2]. L’autore, stimato ed acclamato umanista, già incoronato come “poeta laureato” nel 1487, realizza con quest’opera non un semplice, ancorché raffinato, manifesto dell’umanesimo nordico; supportato dall’imperatore Massimiliano, che copre gli elevati costi di stampa, propone un modello di “Germania illustrata” secondo una precisa missione nazionalistica. L’interesse geografico per il territorio (legato ad una specifica valenza ideologica) viene letto, dagli autori della mostra, in parallelo alle ricerche naturalistiche condotte da Dürer (circa 1495-96); i suoi precoci studi di paesaggio sono accostati al progetto di Celtis, all’interno di una possibile, comune collaborazione per la definizione geografica dei confini dell’impero[3]. L’umanista non si sarebbe limitato a coinvolgere il più giovane artista nella “missione”; rappresenta in un certo senso il suo pigmalione, ne profila una dimensione mitica. Un manoscritto custodito a Kassel (scoperto nel 1965) e opportunamente riprodotto a colori (p. 282, cat. 13), contiene infatti quattro suoi epigrammi encomiastici su Dürer (circa 1500). L’umanista utilizza i topoi della letteratura artistica rinascimentale: il paragone con Fidia ed Apelle; il confronto con gli altri contemporanei (con una originale declinazione geografica, che spazia dall’Ungheria alla Polonia, dalla Francia alla Spagna); l’abilità nell’imitare i fenomeni naturali (secondo gli usuali archetipi pliniani). Questi elogi, che fanno di lui il più grande artista (degno degli antichi e superiore a tutti i contemporanei europei), sono alla base del “mito” e di una più complessiva esaltazione del paese che gli ha dato i natali.

Il processo di “divinizzazione” conosce un’ulteriore svolta grazie agli Epithoma di Jakob Wimpfeling, pubblicati a Strasburgo nel 1505 e forse legati alla conoscenza del modello proposto da Celtis in forma manoscritta. Il panegirico prosegue infatti nella stessa direzione: Dürer, novello Apelle e Parrasio, è posto degnamente nell’Olimpo del Rinascimento (unico tedesco ammesso); trasfigurato definitivamente in eroe artistico germanico, assurge a simbolo di identità nazionale [fig. 3]. In conclusione, secondo Anja Grebe, l’elevazione del maestro ad uno statuto disciplinare fino ad ora sconosciuto lo identifica come artista nazionale del popolo tedesco (degno di essere anche chiamato “nuovo Alberto Magno”); questa percezione è funzionale al nuovo concetto di nazione, in senso storico, geografico, artistico. La dimensione umanistica, potremmo concludere, sussume le diverse declinazioni all’interno di un discorso “patriottico” (naturalmente nei termini appena accennati).

Questa lunga digressione, da cui ho deciso di partire, afferisce certo ad uno dei punti focali della mostra, ma non solo. Grazie allo studio accurato delle testimonianze antiche, viene infatti riproposto un tema storiografico nodale (non privo di tensioni e difficoltà), secondo quanto discusso autorevolmente da Hans Belting[4]: la definizione di un modello artistico tedesco all’interno del Rinascimento. Un assunto che lo studioso analizza con acribia, partendo dai contributi più noti ed autorevoli (Wölfflin, Pinder, Panofsky, ecc.), rispetto al quale la mostra fornisce linfa vitale e nuovo materiale di discussione.

Come dicevo, uno degli ambiti privilegiati della rassegna consiste nella ricostruzione filologica del contesto culturale. Oltre che nelle opere già citate, il tema della precoce ricezione letteraria del maestro si lega alla rappresentazione allegorica della Philosophia, xilografia di Dürer per i Quatuor libri amorum di Celtis, interpretata come momento culminante della collaborazione fra pittore ed umanista. L’elogio di una formazione filosofica e retorica (Bildung), sostenuto da Celtis sulla scia di noti precetti ciceroniani, si estende ad una nuova funzione attribuita all’artista, non più artigiano ma assurto al ruolo di pittore/filosofo, consapevole protagonista di un rinnovamento che coinvolge il processo educativo nel suo complesso.

Fondamentale risulta infine la presenza in mostra (cat. 16) del Libellus de laudibus Germaniæ di Christoph Scheurl, nella sua seconda versione tedesca del 1508 (la prima è invece quella bolognese del 1505). Il testo, oggetto di recenti ed approfondite indagini storiografiche[5], si inserisce nel filone encomiastico dell’artista, protagonista di un nuovo rinascimento pittorico, Apelle tedesco riconosciuto ovunque ed acclamato persino dai talora “spocchiosi” colleghi italiani[6].

L’analisi delle fonti dell’epoca si intreccia con altri temi strutturali: il problema della formazione, i giovanili viaggi di istruzione, la dinamica delle opere e le relative interferenze stilistiche. All’interno di un quadro complesso ed articolato, troviamo interessanti suggestioni su fenomeni all’apparenza “minori” (in quanto meno indagati dalla storiografia), in realtà di grande significato: il rapporto con la scultura; l’interferenza con la tradizione figurativa precedente (non solo Schongauer); il rapporto fra disegni e vetrate; l’origine dell’interesse per la xilografia come medium espressivo. Inoltre, ricorre nel catalogo una specifica attenzione per l’iconografia delle immagini (non solo nella sfera del senso, ma anche in termini di ricezione e di possibili modelli commerciali di facile spendibilità). Per quanto riguarda gli esordi, di sicuro interesse ma ancora controverso risulta il tema della produzione libraria nei primi anni ’90 del Quattrocento: le opere messe in campo, assai note e disputate, sono ad esempio le Commedie di Terenzio (Basilea, ca. 1492-93) e La Nave dei folli di Sebastian Brandt (Basilea, 1494), per le quali si propone il nome del grande tedesco [fig. 4]; la questione riguarda l’interpretazione che si dà dell’artista intorno a questi anni e la possibilità di una attribuzione alternativa (anche in rapporto al grado di tenuta qualitativa riscontrato). Ulteriori difficoltà riguardano la creazione di una serie plausibile fra queste prove ed il successivo, incontestabile capolavoro (L’Apocalisse, 1498)[7]. Fra le ipotesi avanzate, mi pare comunque percorribile e condivisibile quella del S. Gerolamo, frontespizio delle Epistulae (Basilea 1492, cat. 112), ricondotto opportunamente al suo corpus.

Da un punto di vista complessivo, se la definizione del contesto risulta adeguata e ben argomentata, l’analisi del “campo”, inteso come momento di intersezione stilistica e di accertata gravitazione culturale[8], consente alcune precisazioni, specialmente circa il rapporto con l’Italia. Nella sezione relativa alle “Madonne”, il quadro di Coburg (cat. 55) è difficilmente valutabile per il cattivo stato di conservazione. La Madonna Haller (Washington, cat. 53) risulta intrisa di umori antonelleschi (più che belliniani), mentre la Madonna di Bagnacavallo (cat. 54) viene tolta dal corpus dell’artista e, poco plausibilmente, assegnata ad anonimo della Germania meridionale o ad artista del Nord Italia (p. 236, fig. 1)[9]. Mi preme ribadire l’assoluta centralità del dipinto all’interno del catalogo del grande maestro, in virtù di un’altissima tenuta qualitativa. Anche la datazione proposta, intorno al 1490, mi pare troppo precoce; il movimento e la definizione della gambe del bimbo mi sembrano riflettere idee di Leonardo (dalla Madonna Benois alla Vergine delle Rocce), un artista che, come ipotizzato, influenza sensibilmente il tedesco per un lungo periodo (e che può avere conosciuto durante un soggiorno milanese intorno al 1495)[10]. Ne deriva una datazione successiva al primo viaggio italiano (circa 1498), come mi conferma anche Elisabetta Fadda. Le relazioni con il maestro toscano toccano altre opere presenti in mostra: ad esempio l’acquarello con le Tre vedute di un elmo (conservato a Parigi), siglato e datato 1514 (ma datato in mostra al 1500 ca., cat. 185), che propone lo stesso celebre tema del Triplo ritratto di Leonardo alla Biblioteca Reale di Torino[11]. Infine, anche il rapporto con la natura rivela affinità e contiguità, sia a livello teorico[12] sia per possibili confronti figurativi[13]. Il precocissimo Paesaggio con la valle dell’Arno di Leonardo (1473), richiamato in catalogo da Daniel Hess (p. 125), propone una direzione di ricerca in cui gli esiti del maestro tedesco e di quello italiano sono difficilmente calibrabili in termini di dare e avere, ma vanno comunque nella stessa direzione: quella dell’acquarello con Cava di Dürer (cat. 90, circa 1495-1500), con una proposta di datazione che si legge in stretta sequenza con la decorazione di Leonardo nella Sala delle Asse presso il Castello Sforzesco di Milano[14].

Un altro tema che forse avrebbe meritato più spazio riguarda i rapporti con il veneziano Jacopo de’ Barbari, additato da Dürer come suo maestro e successivamente ripudiato e denigrato, per poi essere ricercato con insistenza ancora nel 1521[15]; il suo catalogo pittorico, dopo le giovanili esperienze veneziane, si arricchisce in questi ultimi anni di un nuovo numero di grande interesse, un Ritratto virile collocabile durante il fruttuoso soggiorno tedesco, ai primi del ’500[16]. Per quanto riguarda poi la Veduta di Venezia (1500, cat. 93), significativamente già attribuita a Dürer, Jacopo propone una mappatura geografica cittadina a volo d’uccello di cui la Nemesis, di poco successiva (circa 1501, cat. 153) serba una possibile traccia. Assai significativa è inoltre la presenza in mostra della Coppia disuguale di amanti di Jacopo de’ Barbari (Philadelphia, 1503, cat. 52), felice combinazione fra un tema tipicamente nordico (dal “Maestro del libro della casa” a Cranach) e ricordi stilistici veneziani (nel verde dell’abito della fanciulla). Ai modelli del maestro tedesco-veneziano (Jakob Walch de’ Barbari) si rifà programmaticamente Hans Baldung Grien, come conferma un dipinto con Lucrezia comparso in una recente asta di Christie’s[17]: l’espressione, l’inclinazione del capo, la definizione delle spalle, rimandano chiaramente ai prototipi eseguiti dal collega in terra tedesca a partire dal 1500 (si vedano le Santa Caterina e Santa Barbara a Dresda), o in molte sue incisioni. Impressionante risulta infine la tenda verde in alto a sinistra, similissima agli effetti della Coppia disuguale di amanti esposta a Norimberga


[1] The early Dürer, catalogo della mostra (Nuremberg, Germanisches Nationalmuseum, 24 maggio-2 settembre 2012), a cura di D. Hess, T. Eser, Germanisches Nationalmuseum-Thames & Hudson, Nuremberg-London and New York 2012.

[2] Albrecht Dürer 1471-1971, catalogo della mostra (Nuremberg, Germanisches Nationalmuseum, 21 maggio-1 agosto 1971), a cura di L. von Wilckens, Prestel, Munchen 1971.

[3] Il tema della geografia è assolutamente centrale nella cultura tedesca, specialmente a Norimberga; Nicolò Cusano, vi fece acquistare strumenti, astrolabi, manoscritti di astronomia; l’umanista, così come Hartmann Schedel, risulta un entusiasta cultore della scienza geografica e provvede ad ideare una pionieristica Carta dell’Europa Centrale (1491), già posseduta da Willibald Pirckheimer (ora a Londra, British Museum). Su questi temi si veda E. Filippi, Umanesimo e misura viva. Dürer fra Cusano e Alberti, Arsenale, Verona 2011, pp. 71-73. Come si nota facilmente dai nomi citati, questo ambiente rappresenta il fecondo retroterra culturale di Dürer e può avere inciso per certi aspetti anche su Jacopo de’ Barbari, precocemente in contatto con il mondo nordico (e certamente apprezzato da Schedel, che ne possiede alcune stampe) ed autore da lì a poco della celebre Veduta di Venezia (1500, Venezia, Museo Correr).

[4] H. Belting, I tedeschi e la loro arte. Un’eredità difficile, Il Castoro, Milano 2005, pp. 24-34.

[5] G.M. Fara, Sul secondo soggiorno di Albrecht Dürer in Italia e sulla sua amicizia con Giovanni Bellini, in “Prospettiva”, 85, 1997, pp. 91-96; E. Fadda, L’Apelle vagabondo e Agostino delle Prospettive. Riflessioni sul soggiorno di Dürer in Italia del 1506, in Crocevia e capitale della migrazione artistica. Forestieri a Bologna e bolognesi nel mondo (secoli XV-XVI), atti del Convegno internazionale di studi (Bologna, Palazzo Saraceni, 30 novembre-2 dicembre 2010), a cura di S. Frommel, Bononia University Press, Bologna 2010, pp. 119-132.

[6] Per i suoi rapporti conflittuali con i Veneziani, si veda A. Dürer, Lettere da Venezia, a cura di G.M. Fara, Electa, Milano 2007, pp. 15-16 e p. 32. Il nome di Dürer, ovviamente in termini positivi, compare in un’ulteriore opera di C. Scheurl, Vita Reverendi Patris Dni. Anthonii Kressen, Federicus Peypus, Nuremberg 1515, p. 9 e anche in P. Mela, Cosmographia, Johann Weissenburger, Nuremberg 1512, p. 93.

[7] Opportunamente, la Apocalisse è stata collocata fra le opere d’arte “imprescindibili”, come il Cenacolo di Leonardo; si veda, per questo acuto riferimento, E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer (1943), Feltrinelli, Milano 1979, p. 80.

[8] Su tale problema metodologico è intervenuto in più occasioni Bruno Toscano, con specifiche definizioni legate a problemi di geografica artistica e “attribuzione geostilistica”. Si veda, ad esempio, B. Toscano, Kulturgeschichte 1913: un modello italiano, in Gioacchino di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno (Palermo, 15-17 aprile 2003), a cura di S. La Barbera, Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria (Palermo) 2004, pp. 105-112.

[9] Sul dipinto, si veda anche la posizione di R. Sucksale, The early Dürer (review), in “The Burlington Magazine”, CLIV, agosto 2012, pp. 596-597

[10] Su questo tema, si veda S. Ferrari, Bramante, Leonardo e Dürer, in corso di stampa.

[11] Per la discussione sul noto disegno (che anche nel tratteggio sembra vicino allo stile di Dürer), si veda la recente scheda di Paola Salvi in Leonardo. Il genio, il mito, catalogo della mostra (Torino, Reggia di Venaria, 17 novembre 2011-29 gennaio 2012), sezione 1, a cura di C. Pedretti, P. Salvi, C. Vitulo, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale 2011, p. 100, n. 1.16.

[12] Si veda M. Pezza, Albrecht Dürer e la teoria delle proporzioni dei corpi umani. In appendice l’edizione del 1591, Gangemi, Roma 2007.

[13] K. Hermann Fiore, Leonardos Gewirrerlandschaft und Dürers Nemesis. Zu kosmographischen Vision der Landschaft um 1500, in Leonardo da Vinci. Natur im Űbergang. Beiträge zu Wissenschaft, Kunst und Technik, a cura di F. Fehrenbach, München, Fink 2002, pp. 327-345. I possibili confronti fra i due maestri sono di diverso tipo: si passa, ad esempio, dal tema del profilo perduto (si veda il disegno di Endres Dürer, siglato e datato 1514 all’Albertina di Vienna) alla gestualità: chiaramente leonardesca risulta la mano della Figura di uomo nudo (Brema, Kunsthalle, siglata e datata 1508), che riprende modelli quali il disegno con San Giovanni Battista (Londra, The Royal Collection, RL 12572). Il disegno di Brema fonde modelli leonardeschi con echi bramantiniani, come si evince dalla resa delle lumeggiature.

[14] Su questi ed altri temi, si veda P.C. Marani, Dürer, Leonardo e i pittori lombardi del Quattrocento, in Dürer e l’Italia, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 10 marzo-10 giugno 2007), a cura di K. Herrmann Fiore, Electa, Milano 2007, pp. 51-61. Lo studioso, giustamente, evoca il precedente intervento di R. Salvini, Paralipomena su Leonardo e Dürer, in Studies in Late Medieval and Renaissance Painting in Honor of Millard Meiss, a cura di I. Lavin, J. Plummer, vol. 1, New York University Press, New York 1977, pp. 377-391. Segnalo inoltre le pregnanti suggestioni (non sempre menzionate, come invece meriterebbero) di H. Focillon, Albrecht Dürer (1928), Abscondita, Milano 2004, pp. 42-43 e pp. 56-58.

[15] S. Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Bruno Mondadori, Milano 2006.

[16] Si veda la preziosa segnalazione di E.M. Dal Pozzolo, in “Studi Tizianeschi”, V, 2007, pp. 193-194.

[17] Renaissance, 30 gennaio 2013, New York, Sale 2673, p. 45, nr. 111.

n “Studi Tizianeschi”, V, 2007, pp. 193-194.

[17] Renaissance, 30 gennaio 2013, New York, Sale 2673, p. 45, nr. 111.

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Temi di Critica - numero 7

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