teCLa :: Rivista #7

in questo numero contributi di Giacomo Pace Gravina, Giuseppe Giugno, Claudia Caruso, Valentina Raimondo, Giuseppe Cipolla, Simone Ferrari.

codice DOI:10.4413/PACEGRAVINA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Il Trono della Grazia Interlandi: una tavola di Vrancke van der Stockt a Caltagirone di Giacomo Pace Gravina

Uno dei dipinti più enigmatici ed affascinanti presenti in Sicilia è certamente una tavola fiamminga della chiesa di S. Giorgio di Caltagirone, indicata come Il mistero della Trinità (fig. 1) e attribuita comunemente dalla storiografia locale a Roger van der Weyden[1]. Il dipinto è pervenuto alla chiesa parrocchiale grazie alla baronessa Agata Interlandi di Favarotta: un codicillo al suo testamento del 1777 disponeva che alla morte della nobildonna – poi avvenuta nel 1783 – il quadro venisse custodito nell’edificio sacro per essere esposto alla pietà dei fedeli[2].

Si tratta di un olio su tavola, il cui supporto è costituito da quattro assi. Il dipinto fino a poco tempo addietro era incastrato entro un tabernacolo marmoreo eretto su uno degli altari nel 1908 dagli amministratori della Fidecommissaria Interlandi, fondata dalla baronessa a fini di beneficenza[3].

Il quadro rappresenta in effetti una particolare raffigurazione della Trinità, quella meglio nota come Trono della Grazia (Gnadenstuhl, Trône de Grâce, Throne of Grace; cfr. Ebrei, 4, 16), ove siede Dio padre che sorregge il Cristo morto, con la colomba dello Spirito Santo tra i volti del Padre e del Figlio. Inoltre nel registro inferiore figurano lo Svenimento della Vergine addolorata sorretta da S. Giovanni evangelista – nel ruolo consueto di intercessori – e la Maddalena. Un registro intermedio è riferibile all’iconografia del giudizio universale: il globo su cui poggiano i piedi del Cristo, la nube rossa che separa il piano umano da quello divino, i due angeli che reggono uno il manto del Padre e l’altro un lembo del baldacchino che sovrasta il trono: Raffaele con il giglio che simboleggia la purezza degli eletti e la misericordia, alla destra della Trinità, Gabriele con la spada, che rappresenta la giustizia divina, alla sinistra del trono, in corrispondenza delle analoghe scene riferibili al Giudizio, dove i due angeli sono comunemente rappresentati il primo nell’atto di indicare la strada del paradiso, il secondo nel respingere i dannati all’inferno. Anche il fondale del dipinto segue i tre registri: quello superiore è oscuro, l’intermedio è rappresentato dalla nube rossa, l’inferiore presenta un fondo oro con in basso la superficie terrestre su cui poggiano i piedi della Madonna, di S. Giovanni e della Maddalena.

 

Un’attribuzione confermata

 

Il dipinto rappresenta la contaminazione di alcuni temi spesso presenti nella pittura fiamminga del Quattrocento. Si tratta, per quel che riguarda il Trono della Grazia, di una iconografia ricorrente, a partire da quel Maestro di Flemalle che Georges Hulin de Loo ha riconosciuto in Robert Campin, che possiamo ritenere uno dei precursori. Proprio Campin infatti ha dipinto più volte lo stesso soggetto: in una tavola oggi al Museo di Leningrado, che ha notevoli consonanze con il dipinto siciliano, e in un’altra versione in grisaille. Dopo Campin numerosi altri maestri si sono cimentati sullo stesso tema.

Riguardo all’autore del dipinto di Caltagirone la storiografia più accorta ha avanzato da tempo l’ipotesi che si tratti dello stesso che ha dipinto il Giudizio universale dell’Ayuntamento di Valencia (fig. 2) e il Trittico della Redenzione del Museo del Prado (fig. 3), artista che sempre Hulin de Loo ha identificato con il pittore fiammingo Vrancke van der Stockt. Questi, figlio del pittore Jan, nato probabilmente a Bruxelles prima del 1420, nel 1445 eredita la bottega del padre, divenendo maestro della gilda di San Luca di Bruxelles. Con molta probabilità fu amico e forse anche allievo di Rogier van der Weyden; alla morte di questi, avvenuta nel 1464, gli subentrò nella carica di pittore ufficiale della città di Bruxelles. Nel 1468 Stockt lavorò a Bruges – era tra i pittori meglio pagati – alle decorazioni per le nozze di Margherita di York e Carlo il Grosso[4]. Il pittore morì nel 1495[5].

Già nel 1968 Giovanni Carandente, dopo un accurato studio della tavola e dei suoi temi iconografici, proponeva di ascrivere il dipinto di Caltagirone al pittore identificato da Hulin de Loo, appunto il presunto van der Stockt[6]. Sulle orme di Carandente si sono mossi i successivi studiosi che hanno confermato l’attribuzione al “Maestro della Redenzione del Prado”: così Anna Barricelli[7] e Licia Ragghianti Collobi[8]. D’altro canto il dipinto siciliano è naturalmente divenuto oggetto di studio e di comparazione per la ricostruzione dell’opera pittorica del maestro fiammingo: così viene citato ad es. da Micheline Comblen-Sonckes[9] e da Elisa Bermejo Martinez[10].

L’attribuzione a Vrancke van der Stockt mi convince appieno, e ritengo si possa rafforzare grazie alle ulteriori acquisizioni riguardanti il pittore fiammingo. Infatti tra i dipinti certamente riconosciuti come opera di Vrancke ve n’è uno conservato al Museum Mayer van den Bergh di Anversa: un olio su tavola raffigurante il Compianto sul Cristo morto (Lamentation), proveniente dalla collezione Bligny di Parigi, su cui si era già soffermata l’attenzione di Carandente (fig. 4)[11]. La narrazione si svolge su due piani: nel primo San Giovanni Evangelista e la Madonna sorreggono il corpo esanime del Cristo appena deposto dalla Croce, di cui si intravede sul fondo il palo verticale. In secondo piano le tre Marie: la prima da sinistra, Maria di Cleofa, piangente, che regge un’ampolla con olii profumati, la seconda, Maria Salome, raffigurata in atto di lamentarsi a braccia aperte, infine la Maddalena contrita a mani giunte. Proprio la Maria Salome (fig. 5) ha un viso senza dubbio della stessa mano che ha dipinto il volto della Vergine della tavola Interlandi (fig. 6). Altre forti analogie si riscontrano nella Deposizione dalla Croce custodita alle Bayerische Staatsgemäldesammlungen di München[12]: anche qui il San Giovanni presenta forti somiglianze con quello di Caltagirone; la Madonna ha una posa simile – specie le mani –, ed è stavolta il viso della Maddalena a riprodurre le esatte fattezze della Vergine calatina (fig. 7): con ogni probabilità la modella utilizzata dal maestro fiammingo è stata la medesima per la Maria di Caltagirone, la Maddalena della Deposizione di München e la Maria Salome del Compianto di Anversa: una giovane donna con una distanza interpupillare particolarmente accentuata.

Tale ultimo dipinto presenta notevolissime analogie con il Trono della Grazia di San Giorgio, già parzialmente rilevate da Giovanni Carandente. Anzitutto la figura di S. Giovanni, e particolarmente il suo viso (figg. 8-9), che esprime pienamente il dolore, con occhi gonfi e atteggiamento lamentoso, lontano dalle corrispondenti figure dipinte dagli altri maestri fiamminghi, e soprattutto dall’espressione virile dei S. Giovanni di van der Weyden. Gli elementi di consonanza tra la Madonna di S. Giorgio e i personaggi femminili della tavola di Anversa sono ancora maggiori: il suo viso è molto somigliante a quello di Maria Salome; il panneggio del manto è assai vicino a quello di Maria di Cleofa, il colore bleu della veste di questa è lo stesso della Madonna di Caltagirone. Anche il fondo del quadro olandese è dorato, con in primo piano la nuda terra, qui con la corona di spine e il teschio di Adamo, ove crescono piccole piante ed erbe del tutto simili a quelle che si vedono ai piedi della Madonna e della Maddalena nel quadro siciliano. Se poi, sulla intuizione di Hulin de Loo, riconosciamo nel Giudizio dell’Ayuntamiento di Valencia[13] un’altra opera di van der Stockt, le analogie diventano ancora più impressionanti: come la fibbia trilobata che chiude il mantello dell’arcangelo Michele di Valencia, uguale a quella sul petto del Dio padre di Caltagirone[14]; o il globo su cui poggiano i piedi del Cristo, in ambedue i dipinti di un colore bleu trasparente, con due pennellate bianche che donano luce alla sfera, circondata da una fascia dorata (figg. 10-11). Su uno dei portelli del Giudizio Universale di Valencia, oggi in una collezione privata di Madrid, è inoltre raffigurato un angelo con una spada identica a quella della tavola calatina (figg. 12-13). Altro dipinto utile a tal fine è la Presentazione della Vergine al Tempio custodito all’Escorial, e che si può ammirare accanto alla porta della camera da letto di re Filippo II – che evidentemente non disdegnava affatto le opere di Vrancke van der Stockt –. Proprio questa tavola rappresenta un importante ‘ponte’ per l’attribuzione, perché, come ricorda la Bermejo Martinez, è stata collegata da Friedländer «con el llamado Retablo de Cambrai del Prado» e da «Carandente con el Trono de la Gracia, que atribuye a Van der Stockt en Caltagirone (Sicilia)»[15]. Ulteriori elementi per l’attribuzione del Trono della Grazia calatino a van der Stockt provengono dalla Trinità custodita al Museo Arqueológico Nacional di Madrid (fig. 14), attribuita dalla studiosa iberica al pittore fiammingo[16]. Si tratta in effetti di un Trono della Grazia, giustamente messo in relazione con le opere di Campin. Probabilmente costituiva uno sportello di un dittico: secondo la Bermejo Martinez l’altra tavola sarebbe quella raffigurante – non a caso – la «Virgen desfallecida en brazos de San Juan» del Museo di Oldenburg. La colomba dello Spirito santo della tavola di Caltagirone ha notevolissime assonanze con quella madrilena: le ali spiegate in volo sono assolutamente corrispondenti. La storica dell’arte attribuisce l’opera a van der Stockt anche grazie ad un dettaglio tipico delle opere del pittore di Bruxelles: «la singular forma che tiene el artista de tratar el espacio que queda entra la nariz y el labio superior, que forma una especie de ligero abultamiento en el centro como puede apreciarse, muy claramente, en el rostro del Cristo»[17]. Il volto del Cristo di Caltagirone presenta la stessa particolarità, proprio quel «leggero avvallamento» tra narice e labbro superiore rilevato con tanta finezza dalla Bermejo. Importanti elementi comparativi provengono inoltre dal confronto con un’altra opera di van der Stockt: il cartone preparatorio di un piviale tessuto a Tournai nella seconda metà del Quattrocento e raffigurante il Trono della Grazia su una nube in tutto simile a quella di Caltagirone insieme al Mistero dell’Eucarestia (fig. 15), nel quale Luigi Belvedere ha riconosciuto la medesima costruzione ‘pittorica’ del Trono della Grazia Interlandi[18].

Riguardo alla datazione della tavola sarei propenso a considerarla frutto della maturità del pittore, ricca di opere di impianto più denso di simboli e meno descrittivo. Un elemento utile in tal senso è secondo me la corona che cinge il capo del Dio padre in trono: non una tiara, come da qualcuno sostenuto, ma una raffigurazione particolareggiata della corona imperiale, quella ritenuta nel medioevo la corona di Carlo Magno (fig. 16). In effetti alcuni Troni della Grazia, tra cui quello di Caltagirone, databili tra fine Quattrocento e prima metà del Cinquecento, raffigurano Dio padre con tale corona: ancora nelle opere attribuite a Robert Campin la corona è coperta, mentre gli autori successivi la raffigurano realisticamente, aperta con archetti che sorreggono la croce sovrastante. Come conobbe van der Stockt le reali fattezze della corona imperiale? In effetti i ritratti di Federico III e di suo figlio Massimiliano I d’Asburgo raffigurano i sovrani con la cosiddetta corona di Carlo Magno; e tale particolare si ricollega a un particolare momento storico, che vede le Fiandre sfuggire all’area di influenza del re di Francia per entrare nell’orbita dell’impero: questi mutamenti politici si rafforzano grazie alle nozze tra Massimiliano I e Maria di Borgogna, avvenute nel 1477. Secondo la Cronaca di Jean Molinet quando Federico e Massimiliano, insieme al giovane Filippo il Bello, entrarono a Bruxelles nel 1486, gli abitanti della città affermarono commossi: «Veéz-ci figure de la Trinité, le Pére, le Fils et Sancte esprit»[19]. Un’immagine troppo potente per non colpire gli astanti, una Trinità imperiale! Il quadro potrebbe quindi essere stato dipinto tra il 1486 e il 1495. Significativamente la Trinità di Madrid invece raffigura ancora Dio padre con una corona coperta, nello stile di Campin, dettaglio spiegabile considerando questo dipinto anteriore a tale data.

Credo quindi che l’attribuzione della tavola calatina al pennello di van der Stockt operata da Carandente sia da confermare appieno, senza più attardarsi a considerare il dipinto opera di van der Weyden – come ho già avuto modo di affermare in una conferenza del 5 novembre 2011 –[20]. Peraltro la storiografia ha riconosciuto nel corpus di van der Stockt l’uso di stili e motivi tipici di Roger van der Weyden, di cui Stockt fu seguace e il principale diffusore dell’opera: tanto che la sorte del Trono della Grazia di Caltagirone, cioè l’essere stato attribuito a lungo a Roger, è stata comune ad altre tavole di Vrancke, come ad esempio il Retablo di Cambrai, anch’esso assegnato al maestro e non all’allievo, o, più di recente, il Retablo di Ambierle[21]. Peraltro le opere di van der Stockt si distinguono da quelle di van der Weyden per la predilezione del primo per i dettagli narrativi e per un pathos meno accentuato: la drammatizzazione dei dipinti di Weyden diventa di maniera nel successore[22].

 

Dalle Fiandre alla Sicilia

 

Dobbiamo adesso rivolgere la nostra attenzione al problema storico dell’arrivo della tavola fiamminga a Caltagirone. Da più di un secolo ci si interroga su questo tema, senza venirne a capo; si è avanzata l’ipotesi più comune, cioè che il quadro costituisse una sorta di controprestazione per uno dei frequenti invii di grano siciliano in Fiandra; fino a scomodare donna Giovanna d’Austria, figlia dell’eroe di Lepanto don Juan, che avrebbe ipoteticamente ricevuto il dipinto dalla zia Margherita, figlia di Carlo V e governatrice dei Paesi Bassi: Giovanna, di passaggio a Caltagirone nel 1604, avrebbe in qualche modo lasciato il quadro nella città erea[23].

Ma lasciamo da parte le mere ipotesi e cerchiamo di seguire i sentieri della storia. Partiamo dall’unico dato certo finora a nostra disposizione: il quadro venne legato alla chiesa di S. Giorgio di Caltagirone grazie alle disposizioni testamentarie della baronessa di Favarotta, Agata Interlandi Lorefice, in un codicillo rogato dal notaro Avila nel 1777; il dipinto venne effettivamente trasportato nell’edificio sacro probabilmente alla morte della nobildonna, avvenuta nel 1783. Da allora il Trono della Grazia è rimasto sempre a San Giorgio fino a tempi recentissimi[24].

Il contesto temporale entro cui muoverci, quindi, spazia dalla metà del Quattrocento, epoca in cui era attivo il maestro fiammingo, e il 1777, data in cui il dipinto è certamente in possesso di Agata.

Le vie della storia sono spesso più semplici di quanto comunemente non si creda: il quadro è probabilmente appartenuto alla famiglia Interlandi da generazioni. Agata deve avere ereditato il dipinto dal padre Pietro Angelo Interlandi e Santapau, figlio di Camilla Felice Santapau, appartenente alla potente famiglia dei feudatari di Licodia: casata che aveva frequentato per diversi motivi i Paesi Bassi all’epoca di Carlo V. Questa costituisce la prima possibilità da prendere in considerazione: un esponente di casa Santapau potrebbe aver acquistato la tavola Interlandi proprio in Fiandra durante il sec. XVI.

Un’altra pista risale ancora, agli antenati più remoti di donna Agata, fino a Pietro Interlandi, morto nel 1554 e sepolto entro un elegante monumento marmoreo nella chiesa del Carmine di Licodia. Pietro era figlio di Antonia Ottolini, appartenente ad una antica e illustre casata di mercanti originaria di Lucca[25]. Quella degli Ottolini rappresenta un’altra via tramite cui il quadro può essere giunto in Sicilia: i nobili-mercanti di Lucca erano da tempo presenti nelle piazze commerciali dei Paesi Bassi, ed avevano gusti certo raffinati: basti pensare al mirabile ritratto dei coniugi Arnolfini, di Jan van Eyck.

Ma probabilmente la storia segue strade ancora più lineari. Gli stessi antichi alberi genealogici dell’archivio Interlandi di Favarotta[26] narrano che la famiglia, giungendo in Sicilia dal regno di Napoli, mutò cognome: quello originario era Terlandi. Un cognome davvero singolare, che evoca sonorità del Nord Europa, der land, la terra… esiste un’altra tradizione, secondo cui il nome originale degli Interlandi era ancora diverso: Clingeland o Kinkerland, e che ricorda la loro presenza in un centro sempre vicino a Caltagirone, Vizzini[27]. Le nebbie del passato iniziano a diradarsi: gli stessi Interlandi dovevano essere originari delle Fiandre. Probabilmente ricchi mercanti, cattolici quando iniziava il fermento della protesta religiosa, attivi e presenti – insieme agli Ottolini – a Vizzini, Licodia, Militello, dopo – forse – un soggiorno nel regno di Napoli. Una famiglia mercantile poteva certo considerarsi parte di una élite nel Quattrocento, ma alla metà del Cinquecento la prospettiva aristocratica muta rapidamente. Il secolo di ferro è caratterizzato da un fenomeno di rifeudalizzazione e di verticizzazione degli ordinamenti in chiave nobiliare. Anche la Sicilia non sfugge a questo trend europeo: gli aristocratici aspirano al monopolio delle cariche pubbliche, chiudono l’accesso agli ordini cavallereschi, ai gradi militari. Requisito necessario per far parte della nobiltà diviene ben presto non avere antenati che abbiano esercitato arti vili e meccaniche, come artigiani, mercanti, cambiavalute, persino notai[28]. È così che tra il sec. XVI e il XVII i baroni Interlandi devono ‘travestire’ gli antichi mercanti fiamminghi Clingeland/Klinkerland cercando di far dimenticare la loro estrazione e il ‘peccato originale’, la mercatura.

Tentiamo allora di risalire ancora verso la vera patria degli Interlandi. Il cognome Klinkerland-Clingeland è un nome composto, il suffisso –land indica la terra, la provenienza. Quindi una famiglia originaria di un luogo che si chiamava Clinge o Klinge. Una cittadina di tale nome esiste davvero, nei pressi della città fortificata di Hulst, e dal 1815 è attraversata dal confine tra Belgio e Olanda – quindi divisa in due comunità, Clinge/de Klinge –, in posizione mediana tra Bruxelles, Anversa, Bruges. Proprio nel nome della cittadina si nasconde la soluzione del nostro mistero. Infatti il significato della parola Clinge/Klinge in olandese è proprio ‘spada’: lo stemma degli Interlandi/Clingeland di Caltagirone è quindi in effetti un’arma parlante, cioè un’insegna che rappresenta anche visivamente il nome e le virtù del casato: «palato d’oro e di rosso, alla spada d’argento manicata d’oro posta in banda» (fig. 17). La spada ricordava il centro da cui aveva avuto origine il nome, Clinge, cittadina che ancora oggi inalbera come stemma proprio una spada posta di traverso in campo rosso (fig. 18), assolutamente uguale a quella degli Interlandi, tranne per il particolare dei tre pali che attraversano perpendicolarmente lo scudo calatino, ad indicare una distinzione, un ramo diverso del casato originario, pali forse aggiunti dal ramo siciliano, che nell’Isola dovette abbandonare l’originario cognome – van Clingelandt, cioè colui che viene dalla terra di Clinge – per la forma siciliana/italiana Interlandi, più comprensibile nelle cittadine ove il casato aveva costruito la sua nuova fortuna. Quando i Clingeland giunsero in Sicilia dovettero recare insieme agli oggetti più cari anche il Trono della grazia dipinto da van der Stockt, e lo custodirono nelle loro dimore fino al 1783, allorché, alla morte dell’ultima erede del casato, la tavola venne trasportata nella chiesa di S. Giorgio. La Trinità calatina è infatti una tipica opera devozionale dipinta per il culto privato.

Una storia antica, che illumina meglio i contorni di un quadro oggi ancor più prezioso: possiamo infatti finalmente collocarlo in un tempo e in un ambiente fondamentali per la storia dell’arte, come la Bruxelles del secolo XV, e attribuirlo con ragionevole certezza al pennello di un famoso pittore, Vrancke van der Stockt. Il Trono della Grazia di S. Giorgio incarna bene lo spirito dell’Autunno del Medioevo del grande Huizinga[29]: non «annuncio del rinascimento, bensì… tramonto del medioevo, la civiltà medievale nel suo ultimo respiro, come un albero dai frutti troppo maturi, completamente cresciuto e sviluppato. Nello scrivere questo libro lo sguardo si è ritrovato immerso nella profondità di un cielo serale, di un cielo rosso di sangue, pesante, un cielo di piombo, pieno di un ingannevole chiarore di rame»: proprio l’atmosfera che pervade la tavola calatina


[1] Cfr. S. Leonardi, Cenni su la Caltagirone sacra, F. Napoli, Caltagirone 1892, p. 32; V. Dicara, La Tavola della Trinità attribuita a Rogier van der Weyden, in Per omnia saecula saeculorum. Tertio millennio adveniente. Capolavori siciliani di arte sacra, a cura di V. Valenti, Diocesi di Caltagirone, Caltagirone 2001, pp. 127 sgg.; G. Federico, Il mistero dell’amore del Padre – Lettura iconografica della tavola della Trinità, ivi, pp. 131 sgg. Voglio qui ricordare il compianto parroco di S. Giorgio, Padre Vacirca, per avermi consentito uno studio accurato del dipinto e averne autorizzato la riproduzione.

[2] Archivio di Stato di Catania, sez. di Caltagirone, not. Ignazio Avila, vol. 67/4428, fol. 60r sgg.: «Di più lego alla venerabile parochiale basilica chiesa di San Giorgio il quadro della Santissima Trinità per esporsi alla pubblica venerazione, con farsi prima dagli illustrissimi fidecommissarii pulire da persona prattica la pittura, e cornice, e nobilitarlo con un cristallo innanzi. Voglio, ordino et comando, che in ogn’anno li sudetti miei fidecommissarii, e loro successori in tal carica, facciano celebrare la festa della SS.ma Trinità nella venerabile chiesa…».

[3] Sul tabernacolo, oltre allo stemma Interlandi (ma si tratta di un’insegna appartenente al ramo dei principi di Bellaprima, e diversa da quella utilizzata dai Favarotta) è incisa un’iscrizione commemorativa. Ringrazio il fidecommissario Massimo Porta per avere agevolato la consultazione dell’archivio dell’istituzione.

[4] Sulle nozze cfr. J. Huizinga, Herfsttij der Middeleeuwen. Studie over levens – en gedachten vormen der veertendie en vijftiende eeuw in Frankrijk en de Nederlanden, Leiden 1919, trad. it. L’autunno del medioevo. Studio sulle forme di vita e di pensiero del quattordicesimo e quindicesimo secolo in Francia e nel Paesi Bassi: ho consultato l’ed. Newton, Roma 2011, con intr. di L. Gatto, trad. di F. Paris, p. 273.

[5] Sull’artista cfr. E. Bermejo Martinez, La pintura de los primitivos flamencos in España, Consejo superior de investigaciones cientificas, Instituto «Diego Velasquez», Madrid 1980, p. 139; J. Turner, The Dictionary of Art, vol. XXIX, ad vocem a cura di C. Périer-D' Ieteren, McMillan, London and New York, 1996, pp. 691-693. La bibliografia su van der Stockt è ormai cospicua: gli ultimi contributi in D. Deneffe, B. Fransen, V. Henderiks, H. Mund, Early netherlandish painting. A bibliography (1999-2009), Contributions to the Study of the Flemish Primitives, 11, Centre for the Study of the Flemish Primitives, Brussel 2011, pp. 186 sgg., e letteratura ivi citata.

[6] G. Carandente, Collections d’Italie, I. Sicile. Les Primitifs Flamands, II, Répertoire des peintures flamandes du Quinzième siècle, 3, Centre national de recherches «Primitifs flamands», Bruxelles 1968, pp. 7 sgg. Carandente ritornò sull’attribuzione più tardi, confermandola. Cfr. G. Carandente, G. Voza, Arte in Sicilia, Electa, Milano 1974, p. 234.

[7] A. Barricelli, La pittura in Sicilia dalla fine del Quattrocento alla controriforma, in Storia della Sicilia, vol. X, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Palermo 1981, p. 36.

[8] L. Ragghianti Collobi, Dipinti fiamminghi in Italia 1420-1570: catalogo, Calderini, Bologna 1990, p. 19.

[9] M. Comblen-Sonkes, The Collegiate Church of Saint Peter, Louvain, Brepols, Brussels 1996.

[10] Bermejo Martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, pp. 137 ss.

[11] Cfr. il database dell’opera di van der Stockt disponibile presso l’Institut royal du Patrimoine artistique del Belgio, con sede a Bruxelles, al n. 90537 (www.kikirpa.be).

[12] Ivi, n. 40004438.

[13] Ivi, n. 40001709. Sull’opera cfr. Bermejo Martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, 141-142.

[14] Ringrazio Luigi Belvedere, che ha stimolato le autorità competenti con forte impegno per un corretto restauro del Trono della Grazia Interlandi, per avermi comunicato questo dato e per le stimolanti discussioni sull’opera di van der Stockt.

[15] Carandente, Collections d’Italie, I. Sicile…, p. 7 n. 1; Bermejo Martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, p. 143.

[16] Tavola di cm 56 x 39, inv. n. 51.916, su cui Bermejo Martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, pp. 146-147.

[17] Ivi, p. 147.

[18] Cfr. supra, nota 14. Il piviale è custodito a Bern, Historisches Museum, Inv. n. 308; v. anche Carandente, Collections d’Italie, I. Sicile…, p. 8.

[19] Chroniques, III, p. 99, cit. da Huizinga, Herfsttij der Middeleeuwen…, p. 184.

[20] Tenuta nel Palazzo municipale di Caltagirone; cfr. M. Messineo, La tavola attribuita a van der Stockt, in La Sicilia, 9 novembre 2011, p. 41; A. Navanzino, Quella misteriosa tavola a San Giorgio. Il Trono della Grazia, in L’Obiettivo, 23 novembre 2011, p. 12.

[21] Sul quale M.R. de Vrij, Vrancke van der Stockt en het retabel van Ambierle, in “Koninklijk Museum voor Schone Kunsten”, 1998, p. 209-231.

[22] Bermejo Martinez, La pintura de los primitivos flamencos…, pp. 139.

[23] Tale ipotesi è stata avanzata da Dicara, La tavola della Trinità attribuita a Rogier van der Weyden…, p. 127.

[24] Il dipinto è attualmente esposto nel Museo diocesano di Caltagirone, all’interno del convento di S. Francesco d’Assisi.

[25] F. Mugnos, Teatro genologico delle famiglie nobili titolate feudatarie ed antiche nobili del fidelissimo Regno di Sicilia, viventi ed estinte, D’Anselmo, Palermo 1655, III, pp. 67 sgg.

[26] Cfr. Caltagirone, Archivio della Fideicommissaria Interlandi, vol. Assetto generale…, 1742.

[27] Cfr. ad es. Archivio di Stato di Catania, sez. di Caltagirone, notarile di Vizzini, not. Giacomo Fischetti, reg. 121, fol. 219v, 24 luglio 1566, ind. IX. Don Giovanni Tiralosi, colto ecclesiastico di Vizzini, al tempo in cui resse la parrocchia Matrice di quella città – durante gli anni settanta del Novecento, e quindi in periodo non sospetto riguardo alla attribuzione della tavola fiamminga – reperì nell’archivio parrocchiale un documento attestante che il vero capostipite del casato era una dama, donna Diana Clingeland o Klinkerland, i cui discendenti avrebbero adottato il cognome materno, trattandosi di famiglia illustre e cospicua, e ‘italianizzato’ il nome in Interlandi. Tale documento purtroppo, nonostante le mie accurate ricerche, si è rivelato introvabile.

[28] Sulle aristocrazie di questa parte di Sicilia cfr. G. Pace, Il governo dei gentiluomini. Ceti dirigenti e magistrature a Caltagirone tra medioevo ed età moderna, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1996, e letteratura ivi citata.

[29] Huizinga, Herfsttij der Middeleeuwen…, p. 23.

 

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Temi di Critica - numero 7

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