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in questo numero contributi di Stefano Colonna, Antonio Cuccia, Francesco Paolo Campione, Maria Chiara Bennici, Elvira D'Amico.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

La ricognizione siciliana di Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni di Maria Chiara Bennici

Il presente articolo nasce dalla volontà di rendere noti, anche se solo parzialmente, i risultati delle ricerche condotte da chi scrive qualche anno fa e sistematizzate nella tesi di laurea La ricognizione siciliana di Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni, [1] in corso di pubblicazione.

L’incarico governativo

La situazione dei beni artistici, negli anni post-unitari, come noto, richiedeva un intervento immediato: il rischio di una pericolosa e immediata dispersione delle opere d’arte verso musei e collezioni straniere, preoccupò fin da subito gli addetti ai lavori, i quali videro nella redazione di un inventario che censisse il patrimonio artistico italiano, l’unico strumento, benché non del tutto risolutivo, in grado di tenere a bada quella che poteva configurarsi come una vera e propria emorragia di capolavori italiani all’estero.
Il 7 agosto 1874 il Re Vittorio Emanuele II e il Ministro degli Interni Giovanni Cantelli firmano, pertanto, il Decreto Reale che incarica un Commissario Regio di «procedere sollecitamente alla formazione di un doppio catalogo a) delle opere di pittura delle scuole classiche, esistenti in tutto il Regno, sia di proprietà dello Stato sia di Corpi Morali e di privati espositori; b) delle opere di pittura che non sono in proprietà dello Stato e che sarebbero necessarie per completare la storia dell’arte italiana, rappresentata dalle varie scuole», con lo scopo specifico di «provvedere con sicurezza di criterio anco alla conservazione e al completamento di questa mobilissima parte del patrimonio nazionale».[2]
Il decreto si concludeva con la nomina ufficiale a Regio commissario di Giovanni Morelli, personalità che appariva di certo adatta a svolgere un compito tanto delicato, che richiedeva competenze storico-artistiche, capacità comparative ed analitiche ed anche conoscenze economiche, di cui aveva già dato prova negli anni precedenti, nel corso dell’espletamento dei numerosi incarichi governativi e ministeriali a lui affidati (ricordiamo, ad esempio, il noto Catalogo degli oggetti d’arte di proprietà ecclesiastica delle Marche e dell’Umbria, frutto del viaggio compiuto in compagnia di Giovan Battista Cavalcaselle dal maggio al luglio 1861 e pubblicato da Adolfo Venturi nel 1896,[3] o la sua nomina, nel 1864, a membro della commissione incaricata di occuparsi della legislazione per la conservazione delle opere d’arte, insieme a Massimo D’Azeglio e Giuseppe Mongeri). [4]

Rispondo immediatamente al dispaccio […] col quale V. E. (il ministro Giovanni Cantelli) mi fa l’onore di eleggermi Commissario Regio, con l’incarico di compilare due cataloghi […]. Nel mentre ringrazio vivamente V. E. Ill.ma della fiducia ch’Ella ripone in me, ho l’onore di dichiararLe che assumo con grato animo l’incarico da V. E. affidatomi.[5]

Con questa entusiastica risposta Giovanni Morelli dichiara la sua piena disponibilità ad affrontare l’incarico, e fin da subito, certo di non volere con sé il «pazzo Cavalcaselle, per sopportare il quale ci vuole una pazienza di Giobbe»,[6] propose ed ottenne che ad accompagnarlo fosse il suo giovane allievo, Gustavo Frizzoni,[7] il quale era legato al Senatore, oltre che da vincoli di amicizia (i due nello stesso anno vanno anche a vivere nel medesimo stabile in via Pontaccio 14), anche da un’assoluta devozione e rispetto per quello che continuerà a definire suo «maestro», e del quale «deve considerarsi il continuatore diretto» e «prosecutore autorevole e personale»,[8] o per usare le parole meno elogiative di Adolfo Venturi, «portabandiera» e «fido Acate di Giovanni Morelli».[9]
Questa grande impresa non fu mai completata. Il governo infatti cadde pochi mesi dopo, e già nel novembre dello stesso anno furono indette nuove elezioni; scrive infatti Marisa Dalai Emiliani che «fu dunque durante la pausa estiva di un governo ad interim che Morelli ottenne dai suoi referenti politici personali l’incarico, e il relativo finanziamento, per redigere il catalogo della pittura nazionale: con quale esito è impossibile dire, poiché non risulta che il previsto doppio catalogo sia mai stato consegnato alle autorità competenti».[10]
L’esito di questo paziente e faticoso lavoro, come già noto, è stato riconosciuto da Alessandro Rovetta, nel faldone, conservato nella Biblioteca Ambrosiana, intitolato genericamente Frizzoni da Maurizio Cogliati, ordinatore dei fondi manoscritti dell’Ambrosiana. L’arco cronologico di riferimento, la coerenza e l’omogeneità di questo resoconto topografico, le scelte metodologiche e strutturali utilizzate nella stesura dei fogli manoscritti sono tali da indurre Alessandro Rovetta a dichiarare che: «l’ipotesi che mi pare possibile avanzare, almeno per buona parte del materiale del faldone, è che ci troviamo di fronte a quella che potremmo definire la versione, se non la copia, frizzoniana del “doppio catalogo” intrapreso da Giovanni Morelli nel 1874».[11]
Sappiamo, infatti, che nonostante sia venuto meno l’incarico ministeriale, Morelli e Frizzoni, almeno per i due anni successivi, passarono in rassegna l’intero territorio nazionale. Tramite le lettere inviate dai due studiosi ad amici e famigliari, infatti, è possibile, in alcuni casi fissare la data dei vari spostamenti; e così ricostruiamo che tra l’agosto e il settembre del 1874 furono a Treviso, Belluno, Padova, Valsesia, nel 1875 a Ravenna, Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, nel febbraio del 1876, furono certamente a Napoli (si conserva infatti una lettera inviata da Frizzoni alla madre, datata 18 febbraio 1876),[12] dove tornano ancora nell’aprile dell’anno successivo, come documentato dalla lettera che il senatore invia da Roma a Niccolò Antinori (datata 3 Aprile 1877),[13] un arco di tempo più vasto, invece, è quello proposto da Federico Pecchenini per la ricognizione in area veneta, dal 1875 al 1879.[14]

Struttura del manoscritto

Il faldone (S. 161 inf.) si compone di 33 fascicoli,[15] di cui i primi 28, ordinati alfabeticamente, per centri e province, conservano il puntuale resoconto, in cui vengono annotate le principali presenze pittoriche e, più raramente, anche i dipinti murali e le sculture più significative, registrandole indicando fin da subito la collocazione (località, luoghi monumentali o museali, ma anche collezioni private); inoltre di ognuna di essa vengono riportati dati relativi alla descrizione iconografica, l’attribuzione tradizionalmente proposta, e la loro eventuale controproposta, lo stato di conservazione, e, in alcuni casi, non mancano attente stime finanziarie accompagnate talvolta dalla proposta di acquisizione da parte dello Stato.
Ogni foglio si presenta diviso in due colonne; a sinistra troviamo i dati iconografici e conservativi, e talvolta anche il nome dell’autore sottolineato, più spesso questo è riportato, isolato, nella colonna di destra. I dati economici e l’eventuale proposta di acquisto, invece, sono collocati sempre sulla colonna sinistra, ma leggermente distanziati dalla descrizione.
Va aggiunto inoltre, seguendo l’analisi di Alessandro Rovetta, che «il materiale conservato all’Ambrosiana sembra corrispondere a una fase di lavoro avanzata, probabilmente attuata su appunti presi in loco»,[16] infatti, accanto a fogli autografi di Frizzoni, vi sono altri che si configurano come trascrizioni di altri copisti (Rovetta ipotizza che questo possa essere dovuto alla volontà di Frizzoni di mettere ordine in questo materiale, esistendo anche una nota spese per il copista; altra possibilità, dichiarata però meno probabile, è che invece l’iniziativa sia stata presa da un altro ordinatore venuto in possesso del materiale prima del passaggio in Ambrosiana o all’interno della biblioteca stessa);[17] si distinguono ad esempio il fascicolo 3 sulla provincia di Bologna, per essere una bella copia e una delle meglio conservate, o quello di Pistoia, anche questa una buona copia, che sembra però, presentare una calligrafia diversa rispetto alle altre, o i fascicoli di Verona e Novara, che presentano una scrittura irregolare, con correzioni e cancellature.
Ultimo aspetto da sottolineare è il profondo rispetto e l’alta fedeltà dimostrata da Frizzoni nei confronti del maestro; non solo mancano correzioni, revisioni o rettifiche alle notazioni ivi contenute, ma spesso nei testi e articoli pubblicati (anche dopo la morte di Morelli), lo studioso bergamasco non mancherà di richiamarsi a quanto riportato nel manoscritto ambrosiano, ascrivendolo per intero al Morelli (il caso siciliano è emblematico anche in tal senso).

I fascicoli siciliani: 11. Messina; 16. Palermo; 25. Siracusa e Catania

I fascicoli dedicati alla ricognizione siciliana presentano le medesime caratteristiche di impaginazione e strutturazione della pagina che abbiamo indicato come proprie dell’intero faldone.
Ogni foglio, infatti, risulta strutturato in due colonne; di ogni opera, registrata sulla base della collocazione, viene fornita una descrizione (più o meno puntuale a seconda dei casi), viene indicata e molto spesso discussa e rifiutata l’attribuzione tradizionale, ne viene analizzato puntualmente, e il più delle volte in termini negativi, lo stato di conservazione; non manca poi, in pochi casi (i più significativi), una stima finanziaria dell’opera, mentre più frequente è la proposta di trasferire le opere nelle collezioni pubbliche locali, dai luoghi monumentali (chiese e conventi), per favorirne una migliore tutela e conservazione.
Altro aspetto che i fascicoli siciliani condividono con il resto del faldone è l’inevitabile decisione di concentrarsi sulle opere che rispondono a determinati parametri di importanza fondamentale per la ricostruzione della «scuola classica» siciliana, piuttosto che allargare il campo d’interesse in maniera indiscriminata su tutte le opere; aspetto questo che viene dichiarato fin da subito nel fascicolo messinese, dove si legge: «ci limiteremo a far cenno solo di alcuni (quadri) che hanno qualche importanza in relazione alla scuola di Antonello da Messina, o che hanno qualche merito artistico o importanza per la storia generale delle Belle Arti».
Vanno ricordate inoltre le caratteristiche precipue dei tre fascicoli siciliani, che li distinguono dal resto del faldone. Innanzitutto va rilevato come i fogli dedicati alla ricognizione siciliana, benché in essi si ritrova qualche cancellatura, qualche inserzione a matita, o qualche frase velocemente stilata e di difficile decifrazione, si presentano nel complesso come una bella copia. Si deve dunque escludere che essi siano appunti di prima mano, e, anzi si può sostenere che essi siano stati trascritti. Una simile considerazione induce inevitabilmente a porsi innanzi alla possibilità di correzioni o aggiunte successive alle prime osservazioni, ma, «si può credere che Frizzoni abbia voluto mantenere la versione originaria, forse proprio perché testimonianza diretta delle osservazioni di Morelli»,[18] e proprio il caso siciliano, come già detto, si configura come una conferma in tal senso.
Altro elemento che va considerato come specifico dei fascicoli siciliani è una maggiore attenzione alla scultura (non solo statuaria), rispetto a quanto accade per gli altri centri indagati. La motivazione di questa peculiarità siciliana ce la offre lo stesso Gustavo Frizzoni, nell’articolo pubblicato sulle colonne de “L’Illustrazione Italiana”, del 1884, dedicato appunto alla scultura siciliana dei secoli XV e XVI: «Se la pittura in detto periodo non è rappresentata da notevoli artisti in Sicilia, lo stesso non è da dirsi all’intutto della scultura. Di questa si può anzi sostenere che occupa un posto onorevole anche accanto agli avanzi magistrali dell’arte plastica che serviva di compimento agli edificii antichi delle colonie della Magna Grecia, tanto è il sentimento del bello e dell’elevato che ne emana», e poco dopo aggiunge che l’arte plastica siciliana dell’età rinascimentale appare «ricca di grazia e di soavità tale che s’accorda mirabilmente colla dolcezza del clima, col vago aspetto del paesaggio e colla limpidezza del cielo».[19]

Cronologia del viaggio in Sicilia

Risulta molto difficile individuare con precisione il lasso di tempo in cui fu compilato il regesto delle opere d’arte in Sicilia; difficoltà che è dovuta alla mancanza di dati estrinseci che permettono di individuare mesi ed anno della loro ricognizione, o significativi dati intrinseci.
L’unico riferimento che è stato possibile cogliere è il termine post quem da fissare nel 1875. Il 1875 è l’anno infatti della pubblicazione di Palermo. Il suo passato, il suo presente, i suoi monumenti, a cura di Isidoro La Lumia, in occasione del XII Congresso degli Scienziati Italiani; il testo è infatti puntualmente citato (caso unico per i fogli siciliani) in relazione alla tavola con la Madonna in adorazione del Bambino e San Giovannino di Lorenzo di Credi, da loro vista nella chiesa di Sant’Ignazio all’Olivella di Palermo, e ora nei depositi di Palazzo Abatellis. Nel manoscritto, infatti, oltre al riferimento a una «recente guida» si legge: «che altri ha stimato di Raffaello, altri più di recente ha attribuito a Lorenzo di Credi» (la sottolineatura è del testo) e non vi è dubbio che sia tratto dal testo di Isidoro La Lumia, dove troviamo le medesime parole.[20]
Inoltre il 1875 è anche l’anno di pubblicazione del testo di Antonino Salinas intitolato Breve Guida del Museo Nazionale di Palermo, da considerarsi vero e proprio catalogo delle opere conservate al Museo, e sicuro strumento di lavoro per Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni, come risulta evidente non solo dalle descrizioni e attribuzioni riportate e discusse nel manoscritto, che sono le stesse del testo di Salinas, ma anche dalla corretta citazione dei numeri di inventario, che ritroviamo appunto nel testo dell’allora direttore del Museo palermitano (si ricordi che nel fascicolo palermitano, nella parte dedicata appunto al Museo viene spesso citato un “catalogo”, che può essere identificato, senza esitazione con questo testo, a meno che non si voglia ipotizzare un riferimento a un inventario o catalogo diverso da cui dipendono entrambi gli scritti, ma di cui non si ha più traccia).
Ulteriore conferma per il 1875 come termine post quem, ci è fornita, da un interessante caso: quello del cosiddetto Polittico di San Guglielmo a Castelbuono. Questo “Pentittico”, infatti è conservato nella chiesa della Matrice vecchia di Castelbuono, eppure non è stato ancora chiarito se sia o no da considerare copia dell’originale; Antonio Mogavero Fina e Maria Andaloro sostengono che sia una copia dell’originale, precisando anche che è plausibile che quest’ultimo sia stato trafugato intorno al 1875 da un erede della famiglia dei marchesi Ventimiglia di Geraci e sostituito da una copia;[21] la data riportata dagli studiosi è interessante proprio perché l’opera, citata da Gioacchino Di Marzo, nel testo del 1862, e da Cavalcaselle nel 1871 nella chiesa della Badia di Santa Maria del Parto di Castelbuono,[22] viene vista da Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni “In casa del Principe Geraci”; ne risulta avallata la tesi dei due studiosi sopracitati, ma occorre precisare che per quanto interessante e stimolante risulti l’incrocio di questi dati, rimane pur sempre un’ipotesi che solo indagini scientifiche più approfondite consentirebbero di confermare o rigettare.[23]
I tentativi di trovare riferimenti interni al testo necessari a fissare il termine ante quem hanno riportato un esito negativo, unico dato certo è quello del 1880, anno della pubblicazione del testo morelliano dedicato alle opere di artisti italiani nelle gallerie di Monaco, Dresda e Berlino,[24] dove non mancano riferimenti puntuali alle opere, soprattutto di scuola antonelliana, da lui viste certamente in occasione del viaggio in Sicilia.
Impossibile restringere ulteriormente l’arco cronologico, anche se non mi pare ipotesi del tutto peregrina collocare la ricognizione siciliana a ridosso della loro presenza a Napoli; presenza questa documentata, come già ricordato da due lettere, la prima di Frizzoni alla madre nel febbraio 1876, la seconda di Morelli ad Antinori nell’aprile del 1877.

Strumenti di lavoro e fonti del viaggio

Anche in relazione alle fonti utilizzate da Gustavo Frizzoni e Giovanni Morelli nel corso della loro ricognizione siciliana non mancano dubbi e punti interrogativi. La ricerca condotta sul fondo librario di Morelli e di Frizzoni,[25] che entrambi, per lascito testamentario, legarono alla Biblioteca dell’Accademia di Brera non è stata utile a tale scopo. Infatti risultano totalmente assenti opere dedicate all’arte siciliana o scritti di autori siciliani che possono essere stati utilizzati come fonti necessarie alla “preparazione” del viaggio; invece nel fondo frizzoniano sono sì presenti articoli e volumi rivolti all’arte siciliana ma già primo-novecenteschi, (citiamo, a titolo d’esempio, l’articolo di Enrico Mauceri, pubblicato nelle colonne del “Bollettino d’arte” del 1908, Su alcuni dipinti del Museo Archeologico di Siracusa, e soprattutto i testi dedicati ad Antonello da Messina e alla sua scuola tra cui Gaetano La Corte Cailler, Antonello da Messina: studi e ricerche con documenti inediti, pubblicato a Messina nel 1903, o Antonello d’Antonio. Le sue opere e l’invenzione della pittura ad olio, di Agostino D’Amico del 1904), a cui si è certamente richiamato nella stesura dell’articolo pubblicato su “Rassegna d’arte” del 1909,[26] e testimonianza evidente della relazione e di una certa consuetudine dello studioso bergamasco con la Sicilia.[27]
L’assenza nella loro personale biblioteca di volumi dedicati all’arte siciliana, che, per anno di pubblicazione, possono essere stati utilizzati come strumenti per la preparazione del loro viaggio, non ne esclude tuttavia il ricorso. Anzi, appare inevitabile la lettura di testi, volumi e guide, dal momento che si muovevano in territori, se non del tutto vergini, ancora da scoprire e analizzare, non essendo il patrimonio artistico siciliano stato oggetto di valutazioni scientifiche e puntuali. Infatti non si possono considerare tali gli articoli e i volumi degli amatori e studiosi locali, a cui comunque certamente fecero ricorso, come facilmente si evince dalla lettura dei fogli siciliani in cui spesso ricorrono formule quali “attribuita a …”, o “opera grandemente lodata dagli scrittori siciliani …”, citati, il più delle volte, per rifiutarne criticamente attribuzioni o apprezzamenti. Tra questi vanno ricordati i due testi già ricordati in relazione alla cronologia del viaggio e cioè il testo di Isidoro La Lumia e la guida del Museo del Salinas, di cui non si vuole mettere in dubbio l’importanza e il valore culturale, ma che certamente non possono essere considerati testi di carattere scientifico, essendo il primo una guida di Palermo di carattere più generale, e il secondo un breve catalogo delle opere al Museo Nazionale, in cui proprio per il taglio dato al testo, mancano profonde riflessioni storico-artistiche. Va inoltre precisato che questi riferimenti a guide o scrittori locali, se sono frequenti per l’area di Messina e di Palermo, risultano assenti per Siracusa e Taormina, e ricorrono una sola volta per Catania (per la Deposizione del Museo, di cui si dice che essa è «citata dalle guide come opera originale di --- Michelangelo da Caravaggio --- mentre non è a nostro avviso se non --- una grossolana copia»). La spiegazione va individuata sia in un affondo critico dei due studiosi certamente minore rispetto agli altri due centri, dovuto ad una minoritaria concentrazione di opere d’arte, essendo centri più piccoli e più lontani dalle principali correnti artistiche che legano la Sicilia all’Italia e all’Europa, che ad una effettiva mancanza di guide, manuali per viaggiatori o repertori di autori locali pubblicati negli anni a ridosso della loro presenza nell’isola. In tali aree, come anche per Messina e Palermo, hanno sicuramente fatto ricorso a volumi e testi di carattere più generale che si distinguono per un respiro certamente più ampio oltre che scientifico.
Ci riferiamo al Delle Belle Arti in Sicilia dai Normanni alla fine del secolo XVI del palermitano Gioacchino Di Marzo e alla fondamentale History of Painting in North Italy di Giovan Battista Cavalcaselle e Joseph Archer Crowe.
La prima è un’opera che «apre la porta agli studi organici sull’arte siciliana»,[28] che Di Marzo pubblicò tra il 1858 e il 1862, a cui aggiunse un quarto volume nella ristampa del 1864 (a cui seguì un’ulteriore ristampa nel 1870). Simonetta La Barbera scrive che essa si configura come «la sua prima trattazione di ampio respiro storico-artistico, con la quale, nonostante le inevitabili pecche, egli fa compiere alla storiografia siciliana un balzo in avanti, evidenziandone i momenti salienti».[29] Opera, dunque, crinale e di capitale importanza per gli studi storico-artistici siciliani, che contribuisce a fissare i nomi di molti artisti quattro-cinquecenteschi, autoctoni o attivi nell’isola, seppur non manchino errori, imprecisioni o incertezze, nella definizione del corpus delle loro opere, dovuti certamente all’inesperienza dei suoi anni giovanili (citiamo ad esempio Antonello Crescenzio, Tommaso De Vigilia, Pietro Ruzzolone, Riccardo Quartararo ed altri, molti dei quali saranno oggetto di ricerca e studio da parte di Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni); l’opera inoltre non è esente da una certa volontà campanilistica, tipica della letteratura artistica precedente.[30]
Va ricordato, del resto, che l’opera sarà esplicitamente citata nel manoscritto ambrosiano in relazione al Polittico di San Guglielmo di Castelbuono, a ulteriore conferma del ricorso dei due studiosi al testo citato.
Ancora più stringente è il rapporto con l’History of Painting in North Italy, e in particolare con il 2° capitolo del II volume dell’opera, intitolato “Napolitans, Sicilians, and Antonello da Messina”, pubblicato da Cavalcaselle e Crowe, a Londra nel 1871. Il capitolo suddetto è frutto della rielaborazione degli appunti e schizzi (oggi conservati alla Biblioteca Marciana di Venezia), realizzati dallo studioso di Legnago, durante il suo viaggio in Sicilia tra il dicembre del 1859 e gli inizi di marzo dell’anno successivo, e il cui frutto è «una vera e propria schedatura che abbraccia quasi tre secoli di pittura siciliana».[31]
Nel manoscritto ambrosiano in due occasioni viene direttamente citata l’opinione cavalcaselliana; la prima è quella in relazione alla tavola con i Santi Pietro e Paolo, allora nella chiesa di San Dionigi a Messina e ora nei depositi del Museo Regionale, in cui Morelli e Frizzoni accettano l’opinione del Cavalcaselle di considerare i due Santi realizzati da due diverse mani e, nello specifico, l’attribuzione del San Pietro a Salvo d’Antonio; nel secondo caso invece rigettano l’attribuzione allo stesso Salvo d’Antonio avanzata da Crowe e Cavalcaselle per la tavola con San Francesco che riceve le stigmate nella chiesa intitolata al Santo assisiate a Messina.
A parte questi due casi in cui dichiaratamente si fa riferimento agli studi cavalcaselliani, ve ne sono molti altri in cui emerge con evidenza il fatto che si sia tenuto presente il testo della New History e in alcuni di questi si possono notare riferimenti critici, aggiustamenti e correzioni alle analisi proposte da Crowe e Cavalcaselle (ad esempio la proposta di attribuzione a Pietro da Messina per le due tavolette con la Madonna col Bambino della raccolta di quadri dell’Università di Messina, avanzata nel manoscritto e poi confermata da Morelli nel testo del 1886, citate senza attribuzione nel testo edito a Londra; o il caso opposto, della Madonna col Bambino della chiesa di Santa Lucia della stessa città, in cui l’iscrizione ivi presente “Masi Diabzumano”, viene interpretata dai primi come il nome dell’autore, mentre è identificato col nome del committente dal Cavalcaselle, che propone l’attribuzione ad Antonello da Saliba, attribuzione che verrà ignorata anche nella successiva pubblicazione morelliana), in altri invece si può evidenziare un allineamento alle posizioni ivi espresse: significativo è, ad esempio, il caso della Sacra Famiglia e un guerriero, oggi riconosciuta come opera di Vincenzo Catena, conservata al Museo Regionale di Messina, un tempo invece, nella chiesa del Monastero di Montalto, poiché Morelli e Frizzoni, che, come abbiamo visto, non perdono mai occasione di lanciare i loro strali sulle altisonanti attribuzioni proposte dagli autori locali, in questo caso sembrano ignorare la tradizionale attribuzione a Tiziano, e, probabilmente perché seguono esclusivamente le indicazioni di Cavalcaselle e Crowe, concordano con loro e riconducono l’opera all’ambito belliniano.
È chiaro dunque che, a differenza del caso veneziano, dove «si delinea chiaramente un rapporto estremamente conflittuale con l’opera pubblicata da Crowe e Cavalcaselle»,[32] nel caso siciliano, tale conflittualità sembra ridursi, e questo non può non essere attribuito a una minore consuetudine con il patrimonio storico artistico isolano, rispetto a quello della città lagunare.
Va tuttavia precisato che, poco dopo, le critiche al testo e alle analisi cavalcaselliane saranno manifestate senza alcuna remora da Gustavo Frizzoni, nell’articolo dedicato alla pittura siciliana, pubblicato nel 1884, dove lo studioso bergamasco taccerà di infondatezza storica e soggettivismo le opinioni espresse dal Cavalcaselle, in merito alla tavola dello Sposalizio della Vergine di Vincenzo da Pavia nella chiesa della Gancia di Palermo: vi si legge infatti: «Un simile raffronto, a vero dire, parmi basato esclusivamente sopra un’impressione soggettiva del noto istoriografo, mentre non si saprebbe sostenere con raziocinio fondato sull’organismo storico, pel quale soltanto le influenze del pari che le reminiscenze, ricevono la loro naturale spiegazione»[33] e definirà «per lo meno un poco cervellotica» la nota che il critico veneto fa sull’opera di Girolamo Alibrandi.[34]
È lecito supporre inoltre che i due conoscitori abbiano contattato studiosi locali o che si siano addirittura fatti accompagnare nelle loro ricognizioni; anche in questo caso, però, la mancanza di dati certi e documenti che l’attestino ci costringe a lasciare aperta la questione.
Infine, un’ulteriore annotazione da compiere riguarda la ricchissima fototeca che Gustavo Frizzoni, con lascito testamentario del 1919, lega all’Accademia di Brera, e ancora oggi lì conservata, seppur di difficile accesso e consultazione. Composta da più di 5000 esemplari, la fototeca raccoglie anche materiale fotografico appartenuto a Morelli e poi passato in maniera informale al più giovane allievo. Come scrive Francesca Radaelli, «il materiale si presenta, per quanto riguarda i soggetti, vario ed articolato»,[35] e benché  la maggior parte di esso riguardi la scuola pittorica lombarda e quella veneta, non sono assenti, come mi assicura Alessandro Rovetta, riproduzioni fotografiche di opere siciliane.
L’impossibilità di consultare il materiale non mi ha consentito di valutare il numero e l’entità delle fotografie, privandomi di uno strumento che si sarebbe dimostrato certamente prezioso per la prosecuzione della ricerca, data anche la presenza, come si legge nell’articolo di Radaelli, di ricchissime indicazioni e commenti annotati nel verso delle fotografie; un corredo di annotazioni, dunque, certamente utile per un proficuo confronto con quanto riportato nel manoscritto ambrosiano e con i testi dati successivamente alle stampe dai due studiosi.    

Stime economiche

Un dato interessante ed esemplificativo dello spirito con cui i due affrontarono la ricognizione siciliana ci viene fornita dalle valutazioni finanziarie, che, come abbiamo già detto, accompagnano talvolta la descrizione dell’opera. Va precisato che delle numerosissime opere segnalate in territorio siciliano, solo 13 sono quelle per le quali si presume che si auspica l’acquisizione da parte dello Stato, al fine di incrementare le collezioni dei musei nazionali, scopo che fu la condicio sine qua non del regesto stesso.
Conviene riportare le 13 opere e le rispettive quotazioni, per poi poterne osservare i parametri di determinazione del corrispettivo economico dell’opera:

  • Andrea del Brescianino, Madonna col Bambino, San Giovannino e due Angeli: valore lire 2 mila
  • Terracotta invetriata attribuita a Luca della Robbia [oggi assegnata a “Bottega di Andrea della Robbia”]: valore lire 5 mila;
  • Benvenuto Tisi detto il Garofalo, Madonna col Bambino e San Giovannino: valore lire 6 mila;
  • Ecce Homo nella chiesa di S. Andrea Avellino a Messina, attribuito a Michelangelo da Caravaggio [oggi attribuita a Alonzo Rodriguez]: valore lire 10 mila;
  • Michelangelo da Caravaggio, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco: valore lire 10 mila;
  • Madonna col Bambino, da loro considerata «opera delicata e giovanile» di Van Dyck [oggi considerata copia]: valore lire 10 mila;
  • Santa Rosalia intercede per Palermo nella chiesa dell’Ospedale dei Sacerdoti a Palermo, attribuita a Van Dyck [oggi considerata copia]: valore lire 15 mila;
  • Pietro Novelli, San Benedetto che distribuisce i pani: valore lire 15 mila;
  • Madonna in adorazione del Bambino e San Giovannino, attribuito a Lorenzo di Credi [oggi assegnato all’”Ambito di Lorenzo di Credi”]: valore lire 20 mila;
  • Madonna del Rifugio tra le Sante Barbara e Caterina, attribuito a Polidoro da Caravaggio [oggi assegnata a Stefano Giordano]: valore lire 25 mila;
  • Michelangelo da Caravaggio, Adorazione dei Pastori nella chiesa dei Cappuccini a Messina: valore lire 40 mila;
  • Giudizio Universale, attribuito a Beato Angelico [oggi “sul fare di Beato Angelico”]: valore lire 100 mila;
  • Van Dyck, Madonna del Rosario con i Santi Domenico, Caterina da Siena, Vincenzo Ferreri, Oliva, Agata, Cristina e Rosalia, nell’Oratorio del Rosario a Palermo: valore lire 150 mila.

Il primo dato che emerge è la mancanza di quotazioni per autori siciliani, ad eccezione del San Benedetto a Monreale, opera di Pietro Novelli, di cui peraltro si precisa che la tela è «da noverarsi fra le opere migliori del grande colorista siciliano»; atteggiamento che è da mettere in relazione a quella serie di «pregiudizi “continentali”»,[36] che emergono costantemente nei fogli siciliani.
Grande attenzione è riservata a prodotti di ambito toscano, dal Beato Angelico, a Lorenzo di Credi, ad Andrea del Brescianino, a Benvenuto Tisi, alla terracotta invetriata da loro attribuita a Luca della Robbia. Risulta poi evidente l’interesse nei confronti di Polidoro da Caravaggio, e delle opere caravaggesche (autografe o presunte tali); infine, va valutata la centralità di Van Dyck, di cui vengono prese in considerazione, e stimate economicamente, tutte le opere dai due ritenute autentiche, e la cui Madonna del Rosario, ottenne la valutazione maggiore (ben 150 mila lire).
Escludendo le opere degli artisti toscani e il presunto Polidoro da Caravaggio, Pietro Novelli, Caravaggio e Van Dyck sono autori pienamente seicenteschi; è questo un dato interessante, in quanto, a differenza di quanto accade per altre aree catalogate, qui Morelli e Frizzoni allargano il campo d’interesse anche al XVII secolo, “sforando” il loro ambito di preferenza quattro-cinquecentesco, all’interno del quale comunque, rientrano la maggior parte delle opere segnalate nel manoscritto. Atteggiamento questo dovuto ancora una volta al giudizio totalmente negativo, se non addirittura alla condanna senza appello della produzione pittorica isolana, e soprattutto di quella rinascimentale: «in conclusione bisogna persuadersi che la Sicilia emerge poco nel campo della pittura del Rinascimento, e che perciò non vi è molto da dire su questo argomento» scriverà Frizzoni nel 1884.[37]
Inoltre, sembra di poter affermare che per il caso siciliano, ancora una volta a differenza di quanto accade ad esempio per la ricognizione veneta, il criterio di determinazione economica sia risultanza della fama dell’opera; infatti, se a Venezia le «opere d’arte di chiara fama ottengono a sorpresa una valutazione minore se deturpate da restauro … mentre aumentano di valore opere sì rovinate, ma non toccate da mano di restauratore»,[38] non è così per la Sicilia, dove, a parte il caso della Madonna del Rosario del Van Dyck, che risulta «abbastanza ben conservata», quello della Madonna del Garofalo che è «pittura di discreta conservazione», e il Lorenzo di Credi, ora nella Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, che è «ben conservata», delle altre opere i due conoscitori rilevano uno stato di conservazione in termini negativi, se non pessimi; così la Madonna del Rifugio ora attribuito a Stefano Giordano, ma opera creduta di Polidoro dai due studiosi, gli si manifesta come tavola «assai ritocca ed insudiciata», la Santa Rosalia del Van Dyck nella chiesa dell’Ospedale dei Sacerdoti è «pittura svelata e snaturata in alcune parti dal ristauro», o ancora, l’Adorazione dei pastori del Caravaggio, ora nel Museo messinese, ma da loro segnalata nella chiesa di Santa Maria la Concezione dei Padri Cappuccini, risultava «danneggiata dall’umido e dall’incuria». Certo, le condizioni conservative dell’opera, pur non essendo un parametro determinante per la valutazione, mantengono comunque, una notevole importanza: non si spiegherebbe altrimenti, il motivo per cui, tra le tante opere caravaggesche quotate, manchi una stima per la celebre tela di mano dello stesso Merisi, raffigurante Il seppellimento di Santa Lucia di Siracusa, di cui Morelli e Frizzoni scrivono che è «opera interamente perduta per l’arte, essendo guastata dall’umidità e da barbaro restauro», pur precisando comunque che essa si presenta come «una delle più felici e meno caricate» opere del lombardo.
Data la relativamente recente fortuna critica del Caravaggio, va rilevata la straordinaria attenzione che Morelli e Frizzoni riservano alle sue opere (o presunte tali), che si potrebbe quasi definire avanguardistica, o almeno nettamente in anticipo sui tempi, rispetto alla rivalutazione novecentesca dell’opera e della figura caravaggesca.
Un ulteriore dato su cui vorrei soffermarmi riguarda la stima della Madonna col Bambino di Benvenuto Tisi (£ 6000); la peculiarità di questa valutazione risiede nel fatto che l’opera era, già al tempo della loro ricognizione, conservata ed esposta nelle sale dell’allora Museo Nazionale di Palermo. Sappiamo però, che le valutazioni finanziarie «vanno lette nel senso dell’auspicata acquisizione dei dipinti più significativi da parte del governo per incrementare le collezioni dei musei nazionali, già esistenti (Palermo) o da istituire (Messina, opere segnalate all’università)».[39] Perché dunque quotare un’opera in vista dell’acquisizione della stessa, se già essa fa parte delle collezioni pubbliche?
Forse l’intenzione era quella di spostare l’opera in un museo più “centrale”? Oppure si tratta di una notazione estemporanea dettata dall’apprezzamento della tavola? O, ancora, può trattarsi di un appunto casuale, in vista di un’acquisizione per una collezione privata?
Ma siamo nel campo delle ipotesi, per cui conviene lasciare aperta la questione, data la mancanza di altri casi simili e di dati documentali certi.
È necessaria un’ultima osservazione: accanto alle tredici opere accompagnate dalla stima finanziaria, ve ne sono altre di cui si propone esplicitamente lo spostamento nelle raccolte pubbliche locali e comunali; risulta interessante notare come, in alcuni casi, sia effettivamente seguito uno spostamento dell’opera nelle raccolte pubbliche; è il caso ad esempio, della già citata Madonna del Rifugio di Stefano Giordano, o l’Annunciazione della chiesa dell’Annunziata dei Catalani di Messina trasferita al Museo nel 1902 (oggi attribuita con qualche esitazione a Giovanni D’Anglia), dell’Adorazione dei Pastori di Caravaggio, al Museo dal 1887; della tavola di Lorenzo di Credi, o della Madonna col Bambino della chiesa di Santa Caterina a Palermo.
In altri casi invece la loro indicazione non fu condivisa dai responsabili delle Belle Arti locali, che, probabilmente per lo stretto legame tra opera e contesto ecclesiastico e architettonico, decisero di lasciarle in situ: è il caso dello Sposalizio della Vergine di Vincenzo degli Azani da Pavia nella chiesa di Santa Maria degli Angeli alla Gancia, della Madonna dei Miracoli attribuita a Giovanello da Itala, nella chiesa dello Spirito Santo di Messina, o del San Benedetto che distribuisce i pani del Novelli, a Monreale. Questa scelta si è dimostrata penalizzante per molte opere messinesi; il terremoto del 28 dicembre 1908 ha distrutto case, palazzi e chiese, e molte delle testimonianze artistiche in esse contenute. Forse il trasferimento nelle collezioni pubbliche, come auspicato da Morelli e Frizzoni, di opere quali il San Nicolò in cattedra nella omonima chiesa, o la Madonna di “Masi Diabzumano” nella chiesa di Santa Lucia, o il Transito della Vergine di Salvo d’Antonio (di cui oggi si conserva solo un frammento) avrebbe consentito ancora oggi di valutare e studiare queste testimonianze, ormai irrimediabilmente perdute.

Ruolo di Frizzoni nella stesura del manoscritto ed esiti morelliani

Come abbiamo già evidenziato, il materiale del faldone conservato nella Biblioteca Ambrosiana rappresenta una fase di lavoro già piuttosto avanzata (non si spiegherebbe altrimenti la presenza di fascicoli in bella copia, affidati ad un copista), in vista della stesura di un testo più organico e più strutturato rispetto agli appunti di viaggio, che assuma anche un carattere decisamente più ufficiale.
Non sussiste alcun dubbio sul fatto che sia stato proprio Gustavo Frizzoni a rielaborare tutti i materiali vergati durante le loro ricognizioni e il suo apporto risulta evidente, dal confronto tra i taccuini manoscritti, pubblicati nel 2000,[40] di Giovanni Morelli, connessi al catalogo delle opere d’arte di proprietà ecclesiastica delle Marche e dell’Umbria del 1861, e i fogli conservati in Ambrosiana. Se infatti, nei primi non mancano notazioni soggettive e descrizioni più minute e attente di particolari delle opere, che si configurano come i vari passaggi dell’iter analitico e critico del peculiare metodo morelliano, nel manoscritto questi si riducono quasi completamente e in alcuni casi spariscono del tutto, per assumere un taglio molto più tecnico e un carattere appunto più catalografico.
Ma, se a Frizzoni spetta la rielaborazione di questo materiale, le intuizioni ivi contenute e la paternità delle attribuzioni sono da ascrivere principalmente a Giovanni Morelli, tanto che si deve supporre che anche le correzioni successive aggiunte al testo siano frutto di una riflessione più matura, elaborata in un secondo momento, ma sempre dello stesso Senatore.
Una conferma in tal senso (e proprio per questo motivo il caso siciliano assume un’importanza centrale) è data dallo stesso Frizzoni, nell’articolo del 1909, pubblicato su “Rassegna d’Arte”. Qui, infatti, rievocando la pala di San Nicolò, allora conservata nella omonima chiesa di Messina, non solo viene ricordato il parere del «nostro geniale Morelli», che proponeva l’attribuzione ad Antonello da Messina, e non solo vengono utilizzati simili stilemi nella descrizione della stessa, ma scrive anche: «concluderemmo col sullodato defunto Senatore Giovanni Morelli: - “Andrebbe ripulita e collocata nel Museo”»,[41] che è appunto quanto leggiamo nel foglio del manoscritto, lasciando quasi intendere che tutto il materiale sia frutto delle riflessioni e intuizioni dell’amico, limitando, dunque, notevolmente il suo personale contributo.
Indubbia rimane comunque la centralità che questo catalogo, benché mai pubblicato, ha rivestito nella formazione di conoscitori e studiosi per entrambi i critici. Esso fu un importante strumento per l’approfondimento della conoscenza dell’intero patrimonio artistico e culturale italiano a cui sia Morelli che Frizzoni ricorsero nelle successive pubblicazioni.
Questo è vero anche per la parte relativa alla “scuola” siciliana, benché questa non sia stata al centro degli interessi successivi dei due studiosi; ciò è evidente soprattutto negli studi morelliani, in cui troviamo poche notazioni dedicate all’arte siciliana: nello studio relativo alle Gallerie Borghese e Doria Pamphili si ha solo una veloce citazione del quadro di Lorenzo Di Credi a Palermo;[42] più ricchi invece i rimandi ad essa nella pubblicazione incentrata sulle gallerie tedesche dove, nella trattazione su Giovanni Bellini e Antonello da Messina, l’autore apre una parentesi relativa alla scuola antonelliana, e più in generale agli autori attivi nella Sicilia orientale, dove chiari sono i riferimenti agli appunti di viaggio.[43] Parzialmente diverso è il caso frizzoniano: lo studioso bergamasco infatti, nonostante non ne affronti uno studio sistematico e organico, tornerà più volte a riflettere sull’arte siciliana, sintomo di quella che abbiamo già detto essere la sua maggiore consuetudine con la Sicilia, e alla cui analisi si rimanda nel paragrafo successivo.

Gustavo Frizzoni, la Sicilia e l’arte siciliana

Il rapporto che Gustavo Frizzoni intrattiene con l’isola è certamente più duraturo e più profondo rispetto a quello di Morelli. Un rapporto di cui è possibile ricavare informazioni sia dalle successive pubblicazioni dello studioso bergamasco sia da informazioni di diversa provenienza.
Di «un recente viaggio nell’Isola»,[44] parla lo stesso Frizzoni il 19 ottobre del 1884, giorno in cui fa uscire nelle colonne de “L’Illustrazione Italiana” il suo primo lavoro di tema siciliano successivo alla ricognizione compiuta col maestro. Si tratta dell’articolo Della pittura in Sicilia dal secolo XV al XVI secolo, a cui fa seguire, nel mese successivo, un lavoro parallelo, dedicato alla scultura degli stessi secoli, e anche in questo caso si fa riferimento al «breve viaggio dello scorso inverno».[45]
È da collocare quindi nei mesi a cavallo tra il 1883 e il 1884 il secondo viaggio di Gustavo Frizzoni nell’isola, in cui ha avuto modo di rivedere almeno una parte delle opere già annotate nel manoscritto, traendone l’ispirazione per la stesura delle due dissertazioni sulla produzione siciliana d’età rinascimentale.
Il quadro sulla pittura siciliana che viene tracciato da Frizzoni nelle poche battute del primo articolo è alquanto desolante, di fatto, ricalca le posizioni espresse già nel manoscritto; scrive infatti che «se alcuno … innalzandosi sopra i singoli individui appartenenti al novero dei pittori volesse intraprendere di tracciare i segni peculiari che segnino il distintivo della pittura in Sicilia al tempo del suo fiore nella penisola, credo si troverebbe seriamente imbarazzato».[46] Fra i pittori siciliani dei secoli presi in considerazione non vi ritrova se non una «scarsissima impronta di originalità», e termini fortemente riduttivi saranno utilizzati, non solo in relazione ai pittori di scuola antonelliana, di cui si dice che «non sono artisti di particolare levatura», e di Girolamo Alibrandi, nelle cui opere si dice che «il gusto vi difetta troppo» ma anche in relazione allo stesso Antonello da Messina; vi leggiamo, infatti: «Che codesto pittore del resto sulla costa orientale della Sicilia s’impari a conoscere piuttosto dal suo lato più debole che altrimenti risulta dalla circostanza che a differenza di quanto si è sempre trovato di lui sul continente, salvo poche eccezioni, egli vi apparisce non già come pittori di ritratti, nel qual genere riesce eccellente, ma come pittore di chiesa, dove al contrario porge indizii d’ingegno limitato alquanto».[47] L’unica opera cinquecentesca che salva dall’impietoso giudizio è il Transito della Vergine di Salvo D’Antonio, un tempo nel Duomo messinese, in cui egli vi ravvisa, con termini che sono a ricalco di quelli del catalogo, un concorso di influenze «da un lato provenienti dall’arte veneta contemporanea, dall’altro dal modo di modellare, …, alla leonardesca», tra i pittori invece l’unico siciliano dotato «di tempra decisa e di una fisionomia propria» è Pietro Novelli (come del resto abbiamo visto accadere anche nel manoscritto).
Si può ben dire, dunque, che il suo giudizio sulla pittura rimase ancorato alle opinioni morelliane.
Invece, come abbiamo già evidenziato precedentemente, diverso è il giudizio sulla scultura siciliana d’età rinascimentale, di cui scrive che «occupa un posto onorevole»,[48] tanto che «chi avesse ad intraprendere il lavoro di una nuova Storia della Scultura in Italia dovrebbe studiare più di quello che si sia fatto finora le manifestazioni che a codesta arte si riferiscono nelle città e nei paesi della Sicilia»,[49] nonostante poco dopo precisi che «non si potrebbe dire che la scultura di che parliamo abbia un carattere locale propriamente indigeno, ma chiunque la giudichi spassionatamente dovrà convenire che le sue dirette relazioni con l’arte del continente sono evidenti».[50] In particolare lo studioso sottolinea la preminenza di due filoni che si imprimono con forza nella produzione plastica isolana: la prima è quella proveniente da Venezia (di cui molto spesso troviamo traccia nel manoscritto), che, seguendo i circuiti commerciali, interessa soprattutto l’area orientale; la seconda è invece, quella lombarda, che prende piede in Sicilia per merito della più nota famiglia di scultori, i Gagini. Proprio in relazione alla produzione gaginesca va rilevato come Frizzoni nell’articolo riesca a precisare le attribuzioni di alcuni gruppi marmorei, che nel manoscritto erano rimasti anonimi, grazie al riscorso al testo dello studioso palermitano Gioacchino Di Marzo I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie e documenti, pubblicato nel 1883. Di ognuno dei due filoni elenca un significativo numero di esempi, ancora una volta richiamandosi alle annotazioni contenute nel manoscritto ambrosiano, con cui condivide anche la critica nei confronti dell’uso diffuso in Sicilia di decorare ed ornare le statue, poiché «quando non sia infrenato da una certa parsimonia, aggiunge qualcosa di goffo e contadinesco ai gruppi stessi».[51]

Frizzoni versus Meli e Di Marzo

Tali scritti non passarono inosservati in Sicilia. La brusca condanna dell’arte siciliana e in particolar modo della pittura, non poteva non destare l’attenzione degli studiosi locali e una pronta risposta degli stessi, che non tardò ad arrivare.
Nello stesso anno, infatti, se ne incaricò Giuseppe Meli, allora vice direttore del Museo Nazionale di Palermo, che replicò a Frizzoni dalle colonne dell’“Archivio Storico Siciliano”, con un articolo indirizzato, come quelli del bergamasco, a Theodor Gsell-Fels,[52] archivista e critico d’arte di Monaco, che, secondo quanto dice il lombardo, avrebbe richiesto personalmente al Frizzoni qualche osservazione sull’arte siciliana, in vista della pubblicazione di una guida; richiesta che è presentata come pretesto per la pubblicazione dello stesso articolo.[53]
Meli si lanciò subito in un’appassionata e, in alcune parti, campanilistica apologia dell’arte siciliana, accusando il bergamasco di avere effettuato una ricognizione superficiale e incompleta, e utilizzando la stessa parola “imbarazzo” di cui Frizzoni si serve per riferirsi alla difficoltà, per qualsiasi studioso, di tracciare le linee fondamentali della pittura siciliana, scrive che «imbarazzato certamente dovea essere egli che guardò in fretta, nel brevissimo tempo che stette fra noi, pochi quadri senza quell’attenzione indispensabile a potere bene e maturamente comprenderli».[54] Il pittore e critico d’arte siciliano contesta punto per punto il testo frizzoniano, e partendo dalla conclusione del bergamasco - «In conclusione bisogna persuadersi che la Sicilia emerge poco nel campo della pittura del rinascimento» - scrive: «proverò di dimostrare che questa conclusione è parto di un preconcetto di alcuni continentali che hanno la vanità di credersi superiori agl’isolani, ed anche della pessima abitudine di guardare rapidamente, nata dalla leggerezza di creder facili a capirsi cose molto difficili, e d’illudersi di vedere quando si guarda un istante col cervello distratto».[55]
Qualche anno dopo anche Gioacchino Di Marzo farà riferimento all’articolo frizzoniano; ad apertura de La Pittura in Palermo nel Rinascimento, vi si legge, infatti: «è comune opinione fuor di Sicilia, e fu asserito da scrittore notissimo, che la parte ad essa spettante nella storia della pittura in Italia non è delle più rilevanti, e ciò perché se alcuno volesse tracciare i segni peculiari del carattere distintivo della pittura in Sicilia al tempo del suo fiorire nella penisola, non troverebbe che una scarsissima impronta di originalità da potersi nei Siciliani avvertire»;[56] ovvia, benché espressa in termini più pacati rispetto a quelli di Meli, risulta la vena polemica e l’ironia nei confronti dello “scrittore notissimo”.

Ripensamenti frizzoniani

Dai due articoli del 1884 è facile evincere che molte delle stroncature che Frizzoni rivolge alla pittura siciliana dipendono da quella prima ricognizione e di conseguenza dall’autorevolezza del suo compagno di viaggio, mostrando il profondo rispetto che continuò a nutrire per gli studi e la figura del suo maestro.
Eppure, dopo circa vent’anni Frizzoni torna ad occuparsi di arte siciliana, con un articolo pubblicato su “Rassegna d’arte”, da cui emerge un punto di vista diverso. La Rassegna di alcune notevoli opere di pittura e scultura in Messina si configura, infatti, come una parziale ritrattazione del giudizio fortemente riduttivo sul Rinascimento figurativo siciliano.
I motivi di questo parziale ripensamento vanno individuati non solo nell’emozione dovuta al tragico evento del terremoto che distrusse Messina il 28 dicembre del 1908, ma anche in un’ulteriore permanenza dello studioso nell’isola, da collocare nella primavera dello stesso anno. Fin dall’apertura dell’articolo Frizzoni ricorda con dolore la perdita «di quattro care persone, legate alla sua famiglia non meno per vincoli di reciproco affetto che di consanguineità diretta, perite simultaneamente nel disastro della notte del 28 dicembre».[57]
Da questa breve informazione si è partiti per ricostruire i vincoli familiari che legavano Frizzoni a Messina: il cavaliere Gioacchino Scaglione, Presidente della Deputazione provinciale di Messina, sposò infatti Eugenia Frizzoni, nipote dello studioso. La loro casa, situata nella cosiddetta Palazzata messinese, ospitò Frizzoni, come si evince dall’articolo stesso, durante l’ultimo soggiorno, da collocare appunto nell’aprile del 1908, e fu la base d’appoggio per i vari spostamenti che compì in vista di ulteriori studi e osservazioni sulle opere conservate a Messina e nei suoi dintorni; leggiamo infatti che «mentre quella casa racchiudeva diverse opere d’arte, provenienti dal continente e dall’isola stessa, da essa ci si dipartiva per visitare quelle vieppiù importanti, sparse per la città».[58]
Fu proprio il nipote Gioacchino Scaglione a mettere in contatto il bergamasco con Gaetano La Corte Cailler, uno dei più importanti studiosi di storia patria messinese, e, dal 1904 direttore del Museo Civico Peloritano. Leggiamo infatti nelle pagine del suo diario che il 22 aprile del 1908 lo Scaglione insistette perché si recasse a Messina nella propria abitazione per incontrare «un suo parente, studioso d’arte, che mi conosce e vuole vedermi … Chi sarà mai che mi cerca ed a mezzo di persona ch’io non conosco?».[59] Il giorno seguente, all’appuntamento, «mi si fa incontro un vecchietto simpatico, con bella barba e mi si annunzia Gustavo Frizzoni, mio ammiratore … mi fece molto piacere il conoscerlo di persona e si parlò a lungo di Antonello e della pittura e scultura messinese».[60]
Che i due studiosi si conoscessero già almeno di nome è confermato da una lettera aperta che Frizzoni gli rivolge dal “Marzocco” del 1904, in cui, oltre a ringraziarlo per «la comunicazione fattami della importante monografia concernente il suo celebre concittadino»[61] (si tratta del testo pubblicato nel 1903 col titolo Antonello da Messina: studi e ricerche con documenti inediti, di cui una copia fu in possesso dello studioso e oggi nella biblioteca dell’Accademia di Brera), auspica un pronto intervento per migliorare le condizioni di molte opere antonelliane e dei suoi scolari, un approfondimento degli studi e un conseguente rischiaramento delle numerose incognite che avvolgono il tema. Il giorno dopo il La Corte Cailler annota nel suo diario: «mi giunge copia del Marzocco dove è una lettera aperta di Gustavo Frizzoni a me. È una bella lettera, che mi ha fatto piacere».[62]
L’urgenza di un intervento sulle opere antonelliane e in particolare sulle tavole del Polittico di San Gregorio, fu questione che continuò ad interessare il Frizzoni, il quale proprio in occasione della visita del 1908, sollecitò nuovamente il restauro, coinvolgendo Gioacchino Scaglione e consigliando di rivolgersi a Luigi Cavenaghi, il quale, tuttavia, non accettò di spostarsi a Messina, richiedendo piuttosto il trasferimento delle tavole a Milano.[63] Nei tempi brevi, perciò non si fece nulla; solo tra il 1912 e il 1914 il Cavenaghi intervenne su quattro delle cinque tavole, peraltro ulteriormente danneggiate a seguito del terremoto e delle intemperie a cui furono esposte per giorni.
Tornando all’articolo del 1909 e ai nuovi giudizi che lo studioso bergamasco elabora in relazione alle opere messinesi, va rilevato come il ripensamento più significativo riguarda certamente la Presentazione al tempio di Girolamo Alibrandi, allora nella chiesa di San Nicolò di Messina. La tavola era stata registrata nel manoscritto come «lavoro di un plagiario privo di scienza e di gusto» e del suo autore si era detto che «ha percorso in certo modo di due decenni almeno la generale decadenza dell’arte italiana, né si capisce come un tal uomo abbia potuto meritarsi dai suoi compaesani l’epiteto di Raffaello messinese»; un giudizio questo, che sarà ripetuto in toni ancora più stroncanti sia da Morelli, che giudicherà l’Alibrandi pittore «sguaiato e barocco», oltre che «plagiario della peggior sorta»,[64] sia dallo stesso Frizzoni, il quale dell’opera nota, oltre a un evidente difetto nel gusto, anche «mancanza di proporzioni nelle numerose figure, … squilibrio nelle linee, … deficienza di espressione vera e sentita in quei volti mal creati, … miserabile caricatura».[65] Nonostante ciò, nell’articolo del 1909 della pala non solo si fornirà una riproduzione fotografica, che occupa quasi per intero una pagina, ma si dirà che essa è «opera considerevole non solo per la vastità della composizione ma altresì per gli infiniti graziosissimi motivi d’ogni genere».[66]
Certo, questo atteggiamento più indulgente nei confronti di questa opera, non implica ovviamente una totale rinuncia alle riserve che aveva espresso precedentemente, né tanto meno un’abiura delle sue posizioni maturate nel corso del tempo: ad esempio, della stessa tavola dirà che si può notare «un eccesso di vivacità realistica (drammaticamente meridionale)», che si spinge oltre soprattutto nel gruppo anteriore, fino a renderlo «estraneo alla solennità del rito»;[67] inoltre ancora una volta la parte preponderante delle opere qui ricordate si devono ad artisti non autoctoni, ma “continentali” (Polidoro, Caravaggio, Vincenzo Catena, artisti fiamminghi, per la pittura; Francesco Laurana, che per la prima volta trova spazio, non essendo citato né nel manoscritto né nell’articolo del 1884, i Gagini e il tondo dellarobbiano, per la scultura).
Quello che va indubbiamente ricordato è che, nonostante il continuo riferimento alla ricognizione compiuta col suo maestro, non manca, a distanza di venticinque anni un aggiornamento critico delle sue informazioni e opinioni: questo risulta visibile non solo dalla citazione del Laurana, ma anche dall’attribuzione, seppur ancora cauta, a Vincenzo Catena, per la tavola proveniente dalla chiesa del Monastero di Montalto, che nel manoscritto era, più genericamente, avvicinata alla scuola belliniana; al passaggio di attribuzione da Luca ad Andrea della Robbia per il noto tondo in terracotta di Santa Maria della Scala; alla correzione del suo giudizio sulla tavola centrale del Polittico di San Gregorio, la quale, a differenza di quanto si sottolineava nei fogli dell’Ambrosiana, in cui venivano messi in risalto sia le influenze fiamminghe che quelle venete, ora gli appare priva di influssi veneti, quindi del tutto debitrice dell’arte fiamminga, cosa che lo spinge a collocare la realizzazione del complesso negli anni giovanili di Antonello, prima di qualsiasi rapporto con l’arte della città lagunare, allineandosi in questo al recente studio di Lionello Venturi, da lui stesso puntualmente citato.[68]

Il Rinascimento figurativo siciliani secondo Morelli e Frizzoni

«Quale è la sensazione che saprebbero produrre invece i pittori palermitani dei secoli anteriori? Non è fra essi assolutamente che noi dobbiamo cercare le glorie del bel paese: a ben altre attrattive ci richiama quel cielo incantatore!».[69]
È con questa frase tratta dall’articolo frizzoniano del 1884 che si può partire per tentare una ricostruzione il più possibile unitaria del quadro del Rinascimento siciliano, così come emerge nel manoscritto ambrosiano.
Nei paragrafi precedenti sono state già delineate alcune delle caratteristiche peculiari che, fin da una prima lettura del materiale, si configurano come nodi essenziali per comprendere gli intenti e le modalità con cui si è compilato il catalogo delle opere siciliane. Tra queste abbiamo indicato l’attenzione riservata ad opere e autori già pienamente seicenteschi e la centralità di artisti non autoctoni, ma di autori o che lavorarono nell’isola per un breve periodo della loro attività (Polidoro, Caravaggio, Van Dyck), o le cui opere giunsero nell’isola attraverso una peculiare storia collezionistica (della Robbia, Bartolomeo da Camogli, Palma il Giovane, Venusti). Abbiamo anche già messo in risalto la visione decisamente negativa che in generale emerge dalla lettura delle opere, e di come, in molti casi, questa sia da attribuire a una serie di “pregiudizi continentali”, che inevitabilmente condizionano i due critici nel corso della loro ricognizione siciliana.
Occorre, adesso, prima di passare all’analisi dettagliata del manoscritto, cercare di valutare correttamente il peso di questi “pregiudizi” e quanto la visione delle opere sia distorta o travisata da questi.
Effettivamente un dato che subito si evidenzia è il tentativo di ritrovare tracce di “continentalità” nel patrimonio artistico siciliano, e questo non solo si nota dal gran numero di artisti non isolani, ma anche nella costante sottolineatura di influenze, per l’appunto, continentali, nella maggior parte delle opere catalogate. L’influenza veneta che, come abbiamo visto, viene sottolineata in relazione alla produzione plastica della Sicilia orientale, risulta più volte rimarcata anche in relazione alla produzione pittorica della stessa area; non solo, questa è, a volte, come nel caso della già citata tavola con la Transizione della Vergine di Salvo D’Antonio, accompagnata dall’indicazione di influenze anche di scuola leonardesca - milanese.
Ed è proprio questa sottolineatura a destare l’irritata risposta di Giuseppe Meli, che, nel ribattere all’articolo frizzioniano del 1884, in cui riporta le annotazioni morelliane, scrive che «il signor Frizzoni lombardo vede per tutto influenza lombarda nell’arte nostra, come coloro che portando occhiali verdi vedono tutto verdastro».[70]
Ed effettivamente, laddove non sono riusciti a individuare legami con la pittura coeva dell’Italia settentrionale o fiamminga, i giudizi sono stroncanti: Alfonso Franco è «pittore triviale e rozzo», Tommaso de Vigilia è «fiacco ed insignificante pittore», Simpliciano da Palermo «appare seguace del de Vigilia, ma ancora più rozzo e goffo di lui», la Madonna della Catena di Gabriele de Volpe è detta «opera di meschinissima fattura», infine di Antonello Crescenzio si sottolinea come «assai meschinamente» segue le orme di Polidoro da Caravaggio.
Una condanna senza appello dunque, che sembra stemperarsi in relazione alle opere di Antonello da Messina o della sua scuola. Queste, se non vengono del tutto stroncate, non sono neanche oggetto di elogi sperticati; delle opere di Antonello, autografe o presunte tali, vi troviamo semplicemente, oltre ad una descrizione molto più particolareggiata rispetto a quanto accade per altre, segno di un maggior indugio su di esse, anche un’annotazione circa il cattivo stato di conservazione e la conseguente necessità di procedere a un intervento di restauro, quanto più possibile, tempestivo e giudizioso. La fisionomia della scuola antonelliana, invece, non era ancora del tutto ben delineata al tempo della loro ricognizione, questo spiega il motivo per cui manca l’indicazione del nome dell’autore (Jacobello d’Antonio, Giovanello da Itala, Marco Costanzo, Giovanni Maria Trevisano), limitandosi a indicare una dipendenza dal maestro o, laddove la qualità appare più scadente, da Pietro da Messina, con cui, si può dire, che abbiano avuto una maggiore confidenza, avendo avuto modo di studiare, già prima del loro viaggio in Sicilia, due tavole, e cioè, la Madonna col Bambino in Santa Maria Formosa a Venezia e la Madonna col Bambino e un adorante, allora nella collezione Arconati Visconti di Abbiategrasso, e ora probabilmente da identificare con quella venduta a Firenze nel 1975 in un’asta Sotheby’s.
Giustificabile risulta poi l’assenza di indicazioni relativa ad autori la cui fisionomia è stata disegnata più di recente, quale quella di Stefano Giordano o Mario di Laurito, per i quali si trova rispettivamente l’attribuzione al maestro Polidoro e ad autore ignoto.
Una precisazione va fatta anche in relazione alle opere di scultura registrate nel catalogo, di cui abbiamo già ricordato la maggiore presenza rispetto a quanto accade per gli altri centri indagati; nei fogli siciliani viene spesso rifiutata, a torto, la tradizionale attribuzione ad Antonello Gagini, indicando le opere semplicemente come appartenenti alla prima metà o metà del secolo XVI, o ricordandole solo attraverso una breve descrizione. Che sia anche questo frutto di un pregiudizio, per cui si voleva evitare di formulare un’attribuzione che gli appariva altisonante? Forse, ma è anche vero che bisognerà aspettare ancora qualche anno per avere un puntuale studio sulla scultura siciliana e sui Gagini in particolare: i già citati volumi de I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie e documenti pubblicati da Gioacchino Di Marzo dal 1880 al 1883, costituiscono sicuramente una svolta nell’ambito degli studi di scultura siciliana, a cui, come abbiamo ricordato, anche Frizzoni ricorrerà nell’articolo del 1884.
In conclusione, benché non si possa liquidare la ricognizione di Morelli e Frizzoni come un «parto di un preconcetto di alcuni continentali che hanno la vanità di credersi superiori agl’isolani, ed anche della pessima abitudine di guardare rapidamente, nata dalla leggerezza di credere facile a capirsi cose molto difficili, e d’illudersi di vedere quando si guarda un istante col cervello distratto»,[71] considerando anche che sono più di cinquanta i luoghi dell’isola da loro perlustrati, e che le loro indicazioni attributive non si discostano molto da quanto poi verrà accolto dalla critica più recente, non si può non riconoscere l’emergere di un atteggiamento se non proprio pregiudiziale, almeno prevenuto nei confronti dei prodotti artistici isolani.

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1 M.C. Bennici, La ricognizione siciliana di Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni , tesi di laurea magistrale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, relatore prof. A. Rovetta, anno accademico 2012-2013, in corso di pubblicazione.

2 Roma, Archivio centrale dello Stato, I Versamento, Busta 386, f. 24, sf. 15, pubblicato in M. Dalai Emiliani, Giovanni Morelli e la questione del catalogo nazionale, in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori, Atti del convegno internazionale, Bergamo 4-7 giugno 1987, a cura di G. Agosti, M.E. Manca, M. Panzeri, Lubrina editore, Bergamo 1993, vol. I, p. 123 e sgg., in part. 130-131; C. Lacchia, Gustavo Frizzoni (1840-1919): la ricognizione del patrimonio artistico vercellese nel secondo ottocento, in “Bollettino storico vercellese”, 60, 2003, pp. 29-98; A. Rovetta, Tracce del “doppio catalogo” di Giovanni Morelli nei manoscritti di Gustavo Frizzoni all’Ambrosiana: le collezioni milanesi, in “Arte Lombarda”, 146-148, 2006 (1-3), pp. 220-225, in part. p. 222, nota n. 4); A. Rovetta, La storia dell’arte siciliana a Milano tra Otto e Novecento: la vetrina di “Rassegna d’arte” e i ripensamenti di Gustavo Frizzoni, in Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento: un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale, Atti del convegno internazionale di studi in onore di Maria Accascina, a cura di M.C. Di Natale, Salvatore Sciascia editore, Caltanisetta 2007, pp. 86-107.

3 G.B. Cavalcaselle, G. Morelli, Catalogo delle opere d’arte nelle Marche e nell’Umbria di G. B. Cavalcaselle e di Gio. Morelli (1861-1862), in Le Gallerie Nazionali Italiane. Notizie e documenti, anno II, a cura del Ministero della Pubblica Istruzione, 1896, pp. 191-348.

4 Cfr. J. Anderson, Dietro lo pseudonimo, in G. Morelli, Della Pittura Italiana. Studi Storico-Critici. Le Gallerie Borghese e Doria-Pamphili in Roma, a cura di J. Anderson, Milano 1991, p. 541 e sgg.; per il viaggio con Cavalcaselle cfr. J. Anderson, I taccuini manoscritti di Giovanni Morelli, Federico Motta Editore, Milano 2000; D. Levi, Il viaggio di Morelli e Cavalcaselle nelle Marche e nell’Umbria, in Giovanni Morelli…, a cura diG. Agosti, M. E. Manca, M. Panzeri, 1993, vol. I, pp. 133-148; D. Levi, Cavalcaselle. Il pioniere della conservazione dell’arte italiana, Einaudi, Torino 1988, cap. III, pp. 151-158.

5 Lettera del 14 settembre 1874 spedita da Bergamo a Roma, Roma, Archivio Centrale dello Stato, I Versamento, Busta 386, f. 24, sf. 15, in M. Dalai Emiliani, Giovanni Morelli e la questione..., 1993, p. 131.

6 Lettera del 16 giugno 1861 di Giovanni Morelli a Niccolò Antinori, pubblicata da J. Anderson, Dietro lo…, 1991, p. 545.

7 Per Gustavo Frizzoni si vedano A. Samek Ludovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative d’Italia dal 1800 al 1940, ad vocem, Tosi editore, Roma 1940, pp. 159-161; G. Agosti, Materiali su Gustavo Frizzoni e prime riflessioni sui suoi ambienti di lavoro, in Giovanni Morelli. Collezionista di disegni, catalogo della mostra (Milano, 9-11-1994/8-1-1995) a cura di G. Bora, Silvana Editoriale, Milano 1994; Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 50, Roma 1998, ad vocem a cura di G. Kannes, pp. 581-583 con la relativa bibliografia; F. Radaelli, Gustavo Frizzoni e l’arte italiana del rinascimento, tra nuovi musei e moderni strumenti di lavoro in Tracce di letteratura artistica in Lombardia, a cura di A. Rovetta, Edizioni di Pagina, Bari 2004, pp. 235-264; R. Avallone, L’incidenza di Gustavo Frizzoni nella cultura artistica meridionale e napoletana, in Per la conoscenza dei Beni culturali, 2, a cura del Dipartimento di Studio delle componenti culturali del territorio della Seconda Università degli Studi di Napoli, ed. Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2009, pp. 233-242; P. Aiello, Gustavo Frizzoni e Bernard Berenson, in “Concorso, arti e lettere”, a. V, 2011, Milano, pp. 7-30, DOI: http://dx.doi.org/10.13130/2421-5376/5063, novembre 2016; L. Binda, A. Rovetta, I primi vent’anni de “L’Arte” (1898-1918), in La consistenza dell’effimero. Riviste d’arte tra Ottocento e Novecento, a cura di N. Barella, R. Cioffi, ed. Luciano, Napoli 2013, pp. 35-76.

8 Cfr. A. Locatelli-Milesi, Gustavo Frizzoni.Curriculum Scriptoris, in “Bollettino della Civica Biblioteca di Bergamo”, 1924, fascicolo IV, pp. 134-145.

9 Cfr. A. Venturi, Memorie Autobiografiche, Milano 1927, pp. 40 e 140.

10 M. Dalai Emiliani, Giovanni Morelli e la questione..., 1993, p. 119.

11 Cfr. A. Rovetta, Tracce del doppio catalogo..., 2006, p. 220.

12 Cfr. G. Agosti, Materiali su Gustavo Frizzoni..., 1994, p. 43 e F. Radaelli, Gustavo Frizzoni e l’arte italiana..., 2004, p. 239.

13 Cfr. G. Agosti, Giovanni Morelli corrispondente di Niccolò Antinori, in Studi e ricerche di collezionismo e museografia. Firenze 1820-1920, Scuola Normale Superiore, Pisa 1985, pp. 1-83, in part. p. 67.

14 Cfr. F. Pecchenini, La ricognizione veneziana...., 2006-07.

15 Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. S. 161 inf. L’ordine dei fascicoli è il seguente: 1. Arezzo; 2. Bergamo; 3. Bologna; 4. Brescia; 5. Cremona; 6. Ferrara; 7. Forlì; 8. Liguria; 9. Lucca; 10. Mantova; 11. Messina; 12. Milano; 13. Modena; 14. Napoletano; 15. Novara; 16. Palermo; 17. Parma; 18. Perugia; 19. Pesaro; 20. Pisa; 21. Pistoia; 22. Ravenna; 23. Rovigo; 24. Siena; 25. Siracusa e Catania; 26. Torino; 27. Venezia; 28. Verona. Seguono i fascicoli: 29. Bembo Bonifacio; 30. Lomazzo Giovanni Paolo; 31. Leonardo da Vinci; 32. Zanetto; 33. Zenone Costantino.

16 Cfr. A. Rovetta, Tracce del doppio catalogo..., 2006, p. 220; A. Rovetta, La storia dell’arte siciliana a Milano..., 2007, p. 87

17 Cfr. A. Rovetta, Tracce del doppio catalogo..., 2006, p. 220 e p. 222, nota 4.

18 Cfr. A. Rovetta, La storia dell’arte siciliana a Milano..., 2007, p. 88

19 Cfr. G. Frizzoni, Della scultura in Sicilia dal XV al XVI secolo, in “L’Illustrazione Italiana”, XI, 48, novembre 1884, pp. 343-347.

20 Cfr. I. La Lumia, Palermo. Il suo passato, il suo presente, i suoi monumenti, Palermo 1875, p. 127.

21 Cfr. A. Mogavero Fina, La matrice vecchia di Castelbuono, Edizioni Le Madonie, Castelbuono 1956, p. 25; M. Andaloro, Riccardo Quartararo dalla Sicilia a Napoli, in “Annuario dell’Istituto di Storia dell’Arte”, Facoltà di Lettere, Università degli Studi di Roma, Roma 1977, pp. 81-124, in part. p. 101.

22 Cfr. G. Di Marzo, Delle Belle Arti in Sicilia dai Normanni alla fine del sec. XVI, Palermo 1858-1862, vol. III (1862), pp. 151-152; G.B. Cavalcaselle, J. A. Crowe, History of Painting in North Italy (Londra 1871), ed. J. Murray, Londra 1912, p. 114 e nota.

23 È in corso di pubblicazione un mio saggio in cui la questione è affrontata con affondo critico più vasto.

24 Cfr. G. Morelli, Die Werke Italienischer Meister in den Galerien von Muenchen, Dresden und Berlin: ein kritischer Versuch von Ivan Lermolieff ; aus dem Russischen uebersetzt von Johannes Schwarze, Lipsia 1880; consultato da chi scrive nella traduzione italiana del 1886 (G. Morelli, Le Opere dei maestri italiani nelle gallerie di Monaco, Dresda e Berlino. Saggio critico di Ivan Lermolieff tradotto dal russo in tedesco per cura del dott. Giovanni Schwarze e dal tedesco in italiano dalla baronessa di K…A…, N. Zanichelli, Bologna 1886).

25 Per il lascito morelliano cfr. G. Agosti, M. L. Negri, C. Solza, Il fondo Morelli nella Biblioteca dell’Accademia di Brera, in H. Ebert, D. Levi, G. Agosti (a cura di), La figura e l’opera di Giovanni Morelli. Materiali di Ricerca, Biblioteca Civica Angelo Mai, Bergamo 1987, pp. 115-204.

26 Cfr. G. Frizzoni, Rassegna di alcune notevoli opere di pittura e di scultura in Messina, in “Rassegna d’Arte”, 1909, pp. 25- 30.

27 Vedi infra.

28 Cfr. S. La Barbera, Gioacchino Di Marzo e la nascita della critica dell’arte siciliana, in La critica d’arte in Sicilia nell’Ottocento, a cura di S. La Barbera, Flaccovio, Palermo 2003, pp. 31-82, in part. p. 34, nota 14.

29 Ibidem.

30 Cfr. S. La Barbera, La pittura palermitana del Cinquecento nella letteratura artistica dei secolo XVII-XIX, in Vincenzo degli Azani da Pavia e la cultura figurativa in Sicilia nell’età di Carlo V, catalogo della mostra (Palermo, 21 settembre – 8 dicembre 1999) a cura di T. Viscuso, Ediprint, Siracusa 1999, pp. 87-97, in part. p. 91.

31 Cfr. R. De Gennaro, Cavalcaselle in Sicilia: alla ricerca di Antonello da Messina, in “Prospettiva”, 1992, 68, pp. 73-86, in part. p.77. Per il viaggio di Cavalcaselle nell’isola si cfr. anche R. De Gennaro, Cavalcaselle in Sicilia: oltre Antonello da Messina. Viaggio attraverso il patrimonio artistico siciliano alla vigilia dell’Unità d’Italia, in “Prospettiva”, 1996, pp.82-105; D. Malignaggi, L’arte del Medioevo e del Rinascimento studiata in Sicilia da Giovan Battista Cavalcaselle, in Gioacchino di Marzo e la Critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, atti del convegno, Palermo 15-17 aprile 2003, a cura di S. La Barbera, Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria 2004, pp. 205-216; D. Malignaggi, Giovan Battista Cavalcaselle e il Rinascimento in Sicilia, in Vincenzo degli Azani da Pavia…, 1999, pp. 99-113. Va ricordato inoltre che nell’unica traduzione italiana completa degli argomenti trattati nella History of Painting in Italy (1864-1866) e nella New History, riunite insieme e pubblicate in 11 volumi da Le Monnier tra il 1875 e il 1908, la parte relativa alla ricognizione siciliana fu tagliata e rimaneggiata.

32 Cfr. F. Pecchenini, La ricognizione veneziana..., 2006-2007, p. 25

33 Cfr. G. Frizzoni, Della pittura in Sicilia dal XV al XVI secolo. Lettera aperta al Signor Dottor T. Gsell-Fels in Monaco di Baviera, in “Illustrazione Italiana”, IX, 42, 19 ottobre 1884, pp. 246-247, in part. p. 246, nota n. 4.

34 Ibidem.

35 Cfr. F. Radaelli, Gustavo Frizzoni e l’arte italiana..., 2004, p. 255.

36 Cfr. A. Rovetta, La storia dell’arte siciliana..., 2007, p. 89

37 Cfr. G. Frizzoni, Della Pittura..., 1884, p. 247.

38 Cfr. F. Pecchenini, La ricognizione veneziana..., 2006-2007, p. 23.

39 Cfr. A. Rovetta, La storia dell’arte siciliana..., 2007, p. 89

40 Cfr. J. Anderson, I taccuini manoscritti..., Milano 2000.

41 Cfr. G. Frizzoni, Rassegna di Alcune notevoli opere di pittura e di scultura in Messina, in “Rassegna d’Arte”, 1909, pp. 25-30, in part. p. 26.

42 Cfr. G. Morelli, Della Pittura italiana. La Galleria Borghese e Doria Pamphili in Roma, Milano 1897, p. 87.

43 Cfr. G. Morelli, Le opere dei maestri italiani…, Bologna 1886, pp. 185-197.

44 Cfr. G. Frizzoni, Della pittura..., 1884, p. 246.

45 Cfr. G. Frizzoni, Della scultura..., 1884, p. 346.

46 Ibidem.

47 Ibidem.

48 Ivi, p. 343.

49 Ivi, p. 347.

50 Ivi, p. 343

51 Ivi, p. 346.

52 Cfr. G. Meli, La pittura in Sicilia dal XV al XVI secolo. Lettera al Signor Dottor T. Gsell-Fels in Monaco di Baviera, in “Archivio Storico Siciliano”, IX, 1884, pp. 465-496.

53 Cfr. G. Frizzoni, Della pittura..., 1884, p. 246.

54 Cfr. G. Meli, La pittura in Sicilia..., 1884, p. 471.

55 Cfr. Ivi, pp. 492-493; per la vicenda si cfr. anche S. La Barbera, La critica d’arte a Palermo nell’Ottocento. Alcuni aspetti del dibattito sulle Belle Arti, in La critica d’Arte..., Palermo 2003, pp. 9-29, in part. p. 13; A. Rovetta, La storia dell’arte siciliana..., 2007; R. Cinà, Giuseppe Meli e la cultura dei conoscitori nell’Ottocento, in “TeCLa”, Palermo, Università degli Studi di Palermo, 2010, DOI: 10.4412/978-88-904738-0-7, http://www1.unipa.it/tecla/collana_noreg/monografia_cina1_noreg.php, febbraio 2010, pp. 72-75.

56 Cfr. G. Di Marzo, La Pittura in Palermo nel Rinascimento, A. Reber, Palermo 1899, p. 1.

57 Cfr. G. Frizzoni, Rassegna..., 1909, p. 25.

58 Cfr. Ibidem.

59 Cfr. G. La Corte Cailler, Il mio diario. 1907-1918, ed. a cura di G. Molonia, GBM, Messina 2003, p. 1032.

60 Cfr. Ibidem.

61 Cfr. G. Frizzoni, Intorno ad Antonello da Messina. Lettera aperta al cav. Gaetano La Corte Cailler, in il “Marzocco”, 31 luglio 1904.

62 Cfr. G. La Corte Cailler, Il mio diario. 1903-1906, ed. a cura di G. Molonia, GBM, Messina 2002, p. 499, 1 agosto 1904.

63 Cfr. G. La Corte Cailler, Il mio diario…, 2003, pp. 1032, 1045; cfr. anche A. Rovetta, La storia dell’arte siciliana..., 2007, p. 106, nota n. 37 e G. Barbera, E. Geraci, G. Molonia, Il Polittico di San Gregorio del Museo Regionale di Messina: vicende conservative e interventi di restauro, in G. Poldi e G. C. F. Villa, Antonello da Messina. Analisi scientifiche, restauri e prevenzione sulle opere di Antonello da Messina in occasione della mostra alle Scuderie al Quirinale, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2006, pp. 35-49.

64 Cfr. G. Morelli, Le Opere dei maestri italiani...,1886, p. 397.

65 Cfr. G. Frizzoni, Della pittura..., 1884, pp. 246-247.

66 Cfr. G. Frizzoni, Rassegna...,1909, p. 27.

67 Cfr. Ibidem.

68 Cfr. Ivi, pp. 25-26, e L. Venturi, Le origini delle Pittura Veneziana (1300-1500), Istituto veneto di arti grafiche, Venezia 1907, p. 224.

69 Cfr. G. Frizzoni, Della pittura..., 1884, p. 246.

70 Cfr. G. Meli, La pittura in Sicilia..., 1884, p. 491.

71 Cfr. Ivi, pp. 492-493.

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Temi di Critica - numero 14

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