teCLa :: Rivista

in questo numero contributi di Stefano Colonna, Antonio Cuccia, Francesco Paolo Campione, Maria Chiara Bennici, Elvira D'Amico.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

Erasmo, la polemica sull’Antico e l’Italia di Stefano Colonna

A partire dall’ultimo decennio del XV secolo viene attuato per la prima volta in modo sistematico il progetto di creazione a tavolino dell’Italia grazie alla politica del pontificato borgiano che, sotto la guida di Alessandro VI e di suo figlio Cesare, il cosiddetto “Duca Valentino”, con l’aiuto delle armi e dell’inganno e secondo la celebre definizione di Machiavelli del “fine che giustifica i mezzi” diede inizio all’unione forzata di alcuni importanti signorie italiane. Famoso il caso della Romagna, meno universalmente noto quello di Palestrina tolta al barone Francesco Colonna suo signore che riuscì a ritornarne in possesso solo dopo la morte del papa Borgia, grazie ad un atto notarile redatto in segreto per certificare che la cessione del feudo prenestino era avvenuta con la forza.[1] A prescindere dal metodo utilizzato, al papa Borgia va riconosciuta la paternità di un progetto politico unitario importantissimo la cui portata storica è stata solo recentemente scandagliata in modo scientifico. Elena Valeri ha molto opportunamente riportato l’attenzione (2007) sul precedentemente poco noto libro Historiae de bellis italicis di Girolamo Borgia dove si trova menzionata appunto la teoria della costituenda Italia.[2]
Ai giorni nostri gli storici e i politici hanno una visione della moderna Unità d’Italia molto curiosa, tanto che la sua data d’inizio viene ancora oggi festeggiata a partire dal 1861 invece che, più realisticamente, dal 1870 anno in cui avvenne la presa di Roma. Il piano del papa borgiano aveva invece posto Roma, già nel Quattrocento, come centro politico della costituenda Italia.
Giulio II Della Rovere, pur ponendosi in linea generale in contrapposizione netta col predecessore, come avveniva di regola nei pontificati in base ad una legge naturale di alternanze, nondimeno ne conservò la politica filo-italica conquistando Bologna e cacciandone i Bentivoglio nel 1506 (e 1507) tanto che la sorte della illustre casata bolognese verrà paragonata dal poeta latino Evangelista Maddaleni Capodiferro al Laocoonte rinvenuto a Roma nello stesso anno ed avvolto insieme ai figli dalle spire dei serpenti marini.[3]
Anche se Giulio II non aveva una vera e propria mania antiquariale come quella di Alessandro VI che faceva derivare la sua insegna araldica del toro dal bue api egizio ed era arrivato a far rappresentare questo tema negli affreschi di Pinturicchio della Sala dei Santi in Vaticano, anche il papa Della Rovere aveva dedicato grande attenzione alla cultura antiquariale e quindi posto la città di Roma al centro della sua politica, proprio come tutti i suoi predecessori a partire da Martino V Colonna. E anche se nel corso del Quattrocento i centri di gravità del potere politico oscillarono paurosamente a seconda dei teatri di guerra che si avvicendavano con un’attività convulsa di alleanze, aperte e disfatte a seconda delle convenienze, tanto che le famiglie nobili romane si articolarono in partiti “guelfi” e “ghibellini” per poter attuare le politiche del doppio e triplo gioco quando necessario. Una cosa, ripeto, fu pacifica per tutti, sia per la classe senatoriale romana che per tutta la curia romana e tutti i pontefici, e cioè che la città di Roma doveva essere sempre il punto ideale a cui fare riferimento.
Ebbene, riflettendo sui momenti luttuosi della città di Roma nella storia troviamo in età post antica il primo sacco di Roma di Alarico del 410 d.C. e poi, molti secoli dopo, il Sacco di Roma dei Lanzichenecchi del 1527 motivato, si badi bene, anche da un’istanza religiosa, vale a dire la missione vendicatoria dei luterani contro la presunta immoralità della città eterna cristiana corrotta e paganeggiante.[4]
È cosa nota solo agli storici più informati che il Sacco di Roma del 1527 fu preceduto dal cosiddetto “pre-sacco” dei Colonna del 1526 capeggiato dal cardinale Pompeo Colonna che era diventato, come noto, il punto di riferimento dell’imperatore. Giova ricordare che Pompeo, dopo la morte di Francesco Colonna romano (ante 1517?) e di suo cugino il cardinale Giovanni (1508), era diventato il rappresentante della nuova cultura antiquariale romana ispirata all’Hypnerotomachia (1499) in quanto committente sia del Ninfeo di Bramante di Genazzano (1508-1511 sicuramente completato nel 1518)[5] sia delle splendide illustrazioni egizie presenti nel suo celebre messale miniato (dipinto a partire dal 1517), tra cui una statuetta appunto egizia ritrovata a Tivoli ed oggi conservata nel Museo di Berlino. Statuetta già presente nel Cinquecento nel Museo di Francesco Colonna Jr. e molto probabilmente, anzi quasi certamente, proveniente dalla collezione di Francesco Colonna Sr., signore di Palestrina ed autore dell’Hypnerotomachia, che nel Quattrocento fu appunto governatore di Tivoli.[6] Il cardinale Pompeo Colonna, protagonista della storia che si svolse intorno agli anni del Sacco di Roma, fu uno strenuo fautore della cultura antiquariale da lui interpretata anche in chiave politica.
Nel Sacco vero e proprio del 1527 Stefano Colonna, figlio di Francesco signore di Palestrina, fu valido difensore delle mura vaticane tanto che il nobile romano si vide riconosciuto successivamente da papa Clemente VII il feudo del castello di Stroncone in Umbria a ragione del suo impegno personale nella difesa della città.[7] Quindi la politica dei Colonna si alternava, a seconda delle necessità contingenti, senza avere un carattere univoco.[8]
A cavallo di questi episodi storici stanno due opere letterarie molto importanti per la letteratura artistica e per la cultura antiquariale romana e “italiana”, quasi del tutto sottaciute dagli storici molto probabilmente anche per motivi ideologici. La prima di queste fonti è un testo, caduto nel dimenticatoio fino a qualche anno fa e riportato brillantemente alla luce da Fabio Forner che nel 2002 ha pubblicato una dotta edizione critica, completa di traduzione italiana, della Ad Erasmi Roterodami expostulationem responsio accurata et paraenetica (1526) del principe Alberto III Pio da Carpi, primo finanziatore del suo maestro Aldo Manuzio il Vecchio, che così si esprime nei confronti di Erasmo da Rotterdam da lui accusato di essere troppo filo-luterano:

Non per questo sembra opportuno che tutti i passi della Scrittura siano resi accessibili al popolo senza criterio, né le perle si devono dare ai porci, né ciò che è santo si deve dare ai cani. Se i primi interpreti della natura e i fondatori della sapienza umana per non profanare quest’ultima ed i segreti della natura, la trasmisero nascosta sotto forma di racconti o di calcoli o di metafore ed enigmi o in espressioni difficilissime, perché fosse lecito occuparsi di quella solo alle persone di grande ingegno, mentre i più deboli d’intelletto ne fossero tenuti lontani, se presso i romani i Libri Sibillini non erano letti dal popolo, ma solo da alcuni uomini più saggi, scelti per quell’ufficio, ai quali veniva dato il permesso di guardarli, quanto più conviene che la Sacra Scrittura, dove è contenuta la sapienza divina, sia accessibile solo a coloro che hanno la possibilità di comprenderla? Poiché è palese che il volgo ignorante non è adatto a questo compito, nessuno deve farsi venire il dubbio se la Sacra Scrittura debba essere data da leggere al popolo. Se si facesse il contrario, fra i tanti svantaggi che seguirebbero ad un comportamento del genere, si avrebbe questo gravissimo inconveniente, e cioè che morirebbe ogni forma di rispetto per la Sacra Scrittura. Se essa venisse divulgata entrando in ogni casa come oggetto d’uso quotidiano, il suo contenuto verrebbe disprezzato dal popolo, e ciascuno oserebbe dire la sua seguendo il proprio giudizio. Molti di giudizio sono soliti attribuirsene in abbondanza, più di quanto sia giusto. La temerarietà del popolo è grandissima, ingente l’arroganza degli ignoranti. Per questo motivo riterranno di poter discutere e trarre le conclusioni in materia di dottrina divina anche il contadino e il cuoco allo stesso modo del dottissimo teologo, purché abbiano leggiucchiato le scritture. Allo stesso modo si comporteranno anche la vecchia stolta e l’artigiano. Per tacere poi del fatto, che nessun onore verrebbe più riservato all’erudizione e gli uomini più illustri non avrebbero più alcuna autorevolezza. Se qualcuno esaminerà seriamente queste motivazioni, riterrà che si debbano proteggere ed occultare molte cose agli occhi di coloro che ne sono indegni, piuttosto che dare tutto a tutti. Non è infatti casuale che i sacri profeti abbiano pronunciato i loro oracoli in un linguaggio tanto difficile ed oscuro e non è senza motivo che gli antenati abbiano chiamato misteri i riti sacri. Già la parola stessa doveva chiarire che ciò che è sacro non va profanato.[9]

Seguì una polemica tra Erasmo e Alberto III Pio da Carpi che ebbe anche dei difensori dell’italiano. L’anno dopo il Sacco di Roma, vale a dire nel 1528, Erasmo da Rotterdam scrisse infatti il Ciceronianus[10] dove viene affrontata, in apparenza, solo la questione linguistica del ciceronianesimo ma è invece coinvolta pesantemente sia la storia dell’arte, sia la cultura antiquaria, sia la storia della costituenda Italia tout court. Anche questo testo non era ignoto alla critica ma è stato poco letto e ancora meno discusso e quindi vale la pena di commentarne alcuni passi salienti.
Erasmo adotta la formula del dialogo al quale partecipano tre “esseri pensanti”: Buleforo, Ipologo e Nosopono che sostengono varie teorie relative alla lingua ma qualche volta toccano anche temi delicati della Storia dell’Arte. Per esempio in un passo significativo del Ciceronianus Buleforo si interroga sulla questione della bellezza ideale nella pittura antica:

«Che giudizio fai di Zeusi da Eraclea?» e Nosopono risponde: «Che altro se non un giudizio degno di chi fu il più insigne artista nella pittura?» E Buleforo: «Credi che fosse grande per genio e discernimento?» Nosopono risponde a sua volta: «Come mai ad arte così eccelsa sarebbe potuto mancare il discernimento?». Buleforo chiarisce bene: «Adeguata la tua risposta. Che dunque gli veniva in mente quando, dovendo fare per i cittadini di Crotone il ritratto di Elena, deciso a dispiegarvi tutta la possanza della sua arte e a produrre della figura di donna (e in questa materia si legge che superasse gli altri) un tipo perfetto somigliantissimo alla figura viva, nel quale non mancasse nessun elemento di bellezza, non si valse di una qualche modella più avvenente di tutte, bensì fra tutte quelle presentate ne scelse alcune più belle delle altre, in modo da prendere da esse quanto v’era di più leggiadro in ciascuna, e così finalmente compì quel meraviglioso capolavoro dell’arte sua?».[11]

Da questo ragionamento risulta evidente che Erasmo possedeva la consapevolezza che la messa a fuoco del procedimento di creazione della bellezza ideale avvenisse tramite un criterio di cernita delle fattezze fisiche delle donne, avendo ben chiaro il concetto che la bellezza è un criterio ideale e non la mera riproduzione di un attributo della natura.
Sembra una folgorante anticipazione della teoria estetica che verrà completamente codificata solo molti decenni più tardi nell’Idea di Federico Zuccari e poi nelle Vite di Giovan Pietro Bellori del 1672[12] all’interno delle quali viene pubblicato il Discorso pronunciato nell’Accademia romana di San Luca nel 1664 dove Bellori affermava a sua volta il concetto di Idea del pittore, dello scultore e dell’architetto scelta dalle bellezze naturali superiore alla natura.[13]

Questa idea, overo dea della pittura e della scoltura, aperte le sacre cortine de gl’alti ingegni de i Dedali e de gli Apelli, si svela a noi e discende sopra i marmi e sopra le tele; originata dalla natura supera l’origine e fassi originale dell’arte, misurata dal compasso dell’intelletto, diviene misura della mano, ed animata dall’immaginativa dà vita all’immagine [...] Idea del pittore e dello scultore è quel perfetto ed eccellente esempio della mente, alla cui immaginata forma imitando, si rassomigliano le cose che cadono sotto la vista: tale è la finizione di Cicerone nel libro dell’Oratore a Bruto: ‘Ut igitur in formis et figuris est aliquid perfectum et excellens, cuius ad excogitatam speciem imitando, referuntur ea quae sub oculis ipsa cadunt, sic perfectae eloquentiae speciem animo videmus, effigiem auribus quaerimus’. Così l’idea costituisce il perfetto della bellezza naturale, ed unisce il vero al verisimile delle cose sottoposte all’occhio, sempre aspirando all’ottimo ed al maraviglioso, onde non solo emula, ma superiore fassi alla natura, palesandoci l’opere sue eleganti e compite, quali essa non è solita dimostrarci perfetti in ogni sua parte.

È significativo che, più di un secolo dopo Erasmo, Bellori citi proprio Cicerone per dimostrare la superiorità dei Carracci che fondavano la propria arte sull’idea piuttosto che sulla mera copia della realtà come faceva Caravaggio, alla cui vita il Bellori aveva aggiunto l’icona della “praxis” con intento volutamente dispregiativo.
Erasmo dunque, nel Ciceronianus del 1528, all’interno del passo relativo al ritratto di Elena dipinto da Zeusi, sembrerebbe avere un alto apprezzamento delle radici “antiche” ovvero “archeologiche” dell’ideal-classicismo a lui contemporaneo, vale a dire di quello raffaellesco. Ma nel volgere del discorso l’apprezzamento dell’antico lascia il posto a considerazioni critiche sempre più radicali e così continua il dialogo con la netta affermazione di Nosopono:

«Assolse il dovere di pittore accuratissimo». E Buleforo: «Vedi dunque se noi siamo guidati da sano criterio, quando stimiamo che nel solo Cicerone, per eccellente che sia, si debba ricercare il ritratto dell’eloquenza». Nosopono: «Se Zeusi avesse incontrato una giovane di tale bellezza, quale è nell’eloquenza Marco Tullio, forse si sarebbe contentato di una persona sola come modello». Buleforo: «Ma come avrebbe potuto giudicare questa stessa persona, se non esaminandone attentamente molte ?» Nosopono: «Immagina che io ne sono convinto». Buleforo: «Tu dunque sei del parere che non v’è in altri oratori alcun pregio degno d’imitazione, il quale non sia sommo in Marco Tullio ?» Nosopono: «Così ritengo». Buleforo: «E che in lui non si trova neo che non sia maggiore in tutti gli altri ?» Nosopono: «Così credo per fermo». Buleforo: «Non citerò a questo proposito Marco Bruto, il quale disapprovò tutto quel genere oratorio che a Cicerone pareva il migliore [...]».[14]

Da queste parole appare chiaro che Cicerone assurge a modello di perfezione ideale e da ciò nascono dei “doveri” nei confronti dei cosiddetti “ciceroniani”, cioè di tutti coloro che, avendo capito la grandezza del maestro, si devono poi adeguare al suo perfetto modo di scrivere nella pratica letteraria di ogni giorno. Ogni pratica linguistica difforme dal modello ideale diverrà, agli occhi severi di Erasmo, un trasgredire la lezione di Cicerone, maestro indiscusso della lingua latina. Anche qui Erasmo sembra collocarsi nella lezione umanistica italiana che di Cicerone aveva fatto a sua volta un punto di riferimento ideale come, per esempio: a cavallo tra Medioevo e proto-Rinascimento il Petrarca, scopritore di orazioni e lettere di Cicerone; in pieno Umanesimo Coluccio Salutati, Gasperino Barzizza e Angelo Poliziano e, in pieno Rinascimento, Pietro Bembo e Iacopo Sadoleto. Meno noto, ma sempre indispensabile per i nostri studî, il fondamentale contributo di Martino Filetico che, allo studio della perfetta lingua latina di Cicerone aggiunge quello, altrettanto importante, della lingua greca. Nelle Iocundissimae Disputationes (1462-63), manoscritto pubblicato da Guido Arbizzoni in un’eccellente edizione critica,[15] Martino Filetico rievoca le vivaci discussioni avvenute tra i suoi due giovani allievi Battista e suo fratello Costanzo Sforza. Battista, per dimostrare la superiorità della lingua greca su quella latina, ricorda a Costanzo che nel greco ci sono parole intraducibili in latino se non con una perifrasi e tra queste cita: «πολυφιλία, πολυτροπία, πολυσαρκία et multa alia quae propriis vocibus et absque periphrasi nullo modo interpretari possunt latine».[16]
Il filo-ellenismo di Filetico ben si sposerà con il filo-ciceronianesimo, in un connubio originalissimo che darà origine alla cosiddetta “cultura antiquariale” dell’Hypnerotomachia Poliphili (1499) di Francesco Colonna romano signore di Palestrina, come per la prima volta acutamente e scientificamente dimostrato da Maurizio Calvesi in numerosi articoli e monografie (1980 e 1996) a partire dal primo saggio del 1965. Il Filetico, infatti, come ho proposto in un mio articolo del 2002, fu molto probabilmente maestro anche di Francesco Colonna, essendo stato nel biennio 1470-1471 certamente maestro di suo cugino Giovanni, futuro cardinale.[17] L’ammirazione per Cicerone degli italiani non era dunque minore di quella di Erasmo.
Ma nel Ciceronianus di Erasmo, ad un certo punto del dialogo, l’amore per Cicerone, lungi dal continuare la “cultura antiquariale” tanto amata dagli umanisti italiani, cede il passo ad un’invettiva proprio in direzione opposta.
Sempre nel solco del binomio ut pictura poësis Buleforo tira in causa ancora una volta la pittura dicendo che:

[...] è in giuoco la causa di Cicerone e la causa nostra: di Cicerone, perché riproducendolo fuor di proposito rischiamo per avventura di oscurarne la gloria, alla stessa guisa che i pittori inesperti sogliono rappresentare coloro di cui hanno ritratto la figura diversamente da quel che si dovrebbe; nostra, perché v’è il pericolo che collochiamo male i nostri amori e che ci copriamo di ridicolo finendo infelicemente come Issione, del quale si dice che invece dell’amatissima Giunone abbracciò una vana immagine di nube, o come Paride che per la rapita Elena combatté una guerra di dieci anni, mentre frattanto gli toccava di abbracciare un’ingannevole immagine di Elena appunto perché ella, con un’espediente degli dèi, era stata condotta via lontano in Egitto. Quale epilogo infatti sarebbe per noi più disgraziato e più ridicolo, se in capo a tante fatiche ci capitasse di non raggiungere nient’altro che l’inconsistente e fallace ombra di Cicerone?.[18]

In questo confronto tra pittura e poesia sembra evidente l’emergere di un atteggiamento latamente iconofobico, della stessa matrice culturale che alimenterà una certa avversione iconoclasta del movimento religioso luterano. Ma certamente è molto interessante notare quanto era profonda l’analisi di Erasmo che aveva perfettamente capito che la moda e l’estetica antiquariale del Rinascimento italiano non era nata casualmente nelle corti ma era stata proprio voluta come uno dei più raffinati esperimenti culturali dei letterati umanisti che avevano offerto agli artisti una formula inedita di fare pittura unendo la sperimentazione linguistica alle nuova pratiche archeologiche.
Buleforo continua paragonando Cicerone ad Apelle:

«E che? Non giudichi Cicerone il più insigne degli oratori?» e Nosopono: «Sì, e di gran lunga il più insigne»; Buleforo: «E Apelle non lo ritieni il più eccellente dei pittori?»; Nosopono: «Lo dicono e lo credo»; Buleforo: «Chiameresti allora Apelléo chi riuscisse a ritrarre non le immagini di qualsiasi cosa, ma solo quelle già rappresentate da Apelle? E financo chi non avesse visto tutte le pitture dovute alla mano di Apelle?». Ipologo: «Lo potrebbe dire solo quegli a cui piace il famoso pittore messo in burla da Orazio il quale, incaricato dietro compenso di dipingere un naufragio, rappresentò un cipresso e, irritatosi il committente, gli domandò che altro voleva che fosse raffigurato sporgente dal cipresso». E Buleforo continua il paragone con Apelle e Lisippo cercando di far capire che l’imitatore di questi due grandi artisti non sarebbe mai all’altezza dei maestri qualora nel restaurare una copia degli stessi si ispirasse ad un altro maestro invece che ritornare alla fonte principale. Allo stesso modo si dovrebbe fare con Cicerone. E continua dicendo che il Cicerone «da noi posseduto è non solo mutilo e lacerato, ma anche talmente guasto che, s’egli tornasse in vita, a mio giudizio non riconoscerebbe né potrebbe restituire alla forma originale i suoi scritti, rovinati dalla temerarietà, dalla trascuraggine e dall’ignoranza di copisti e di semidotti, torto che Poliziano attribuisce principalmente ai tedeschi quantunque, senza volere qui scagionare costoro, io ritengo che mende non meno numerose siano state introdotte dall’audacia e dalla saccenteria di certi italiani».[19]

Ecco che la discussione dotta entra nel vivo della polemica ma soprattutto acquista un valore “territoriale” e religio-geo-cultural-politico. Tralascio ora una larga porzione di testo dedicata all’analisi dell’eloquenza di Cicerone e della sua lingua corredata di numerose citazioni di formule linguistiche opportunamente commentate per mettere in risalto la differenza tra la formula originale e le citazioni corrotte.
In un altro passo Buleforo manifesta il suo scetticismo nei confronti delle capacità della pittura quando afferma che:

[...] le doti essenziali dell’uomo sono inimitabili per il pittore [...] Sennonché dal pittore non si esige nient’altro, una volta che abbia dato quello solo che l’arte professa: da noi invece, se vogliamo ritrarre tutt’intero Cicerone, si richiede ben altro. Se il ritratto, nel quale intendiamo rappresentare Marco Tullio, manca di vita, di attività, di sentimento, di nervi, di ossa, che vi sarà di più freddo della nostra imitazione? Ma sarà molto più ridicolo, se con aggiungervi bitorzoli, nei, cicatrici, o insomma altre bruttezze di membra, riusciamo a dare al lettore l’impressione che noi abbiamo letto Cicerone.[20]

E Ipologo:

«Un pittore di tal genere è stato poc’anzi oggetto di riso per noi. Aveva assunto l’incarico di ritrarre al vivo il nostro compagno Murio; e non potendo rendere la genuina figura di lui, lo squadrava intorno per cogliervi o nel corpo o nel vestito un qualche segno caratteristico. In estate aveva cominciato e già in parte finito il quadro, aveva dipinto l’anello, ch’egli portava, il borsellino, il cinturone, poi rappresentò esattamente anche il berretto. Avendogli notato nell’indice della mano sinistra una cicatrice, riprodusse bene pure quella. Poi avvertì nella destra, al punto in cui il pugno si salda al braccio, un grosso bitorzolo: non volle omettere nemmeno questo. Ancora nel sopracciglio destro ritrasse alcuni peli piegati in direzione diversa. Parimenti raffigurò sulla bocca a sinistra una cicatrice, segno di una ferita. Dopo che al ritorno, poiché andava spesso dal proprio modello, ebbe visto la barba rasa di lui, rappresentò un nuovo mento: quando poi scorse che la barba era cresciuta alquanto, siccome questa gli piaceva di più, gli mutò il mento. Frattanto Murio fu colpito da una febbriciattola, ed essa gli produsse, come suole ritirandosi, un’eruzione sul labbro: il pittore ritrasse la pustula. Finalmente giunse l’inverno; fu preso un berretto diverso: ed egli mutò la pittura; fu indossato un vestito invernale a pelliccia: ed egli dipinse il nuovo vestito. Il rigore del freddo aveva mutato colore e, come si suole, contratto la pelle, ed egli cambiò tutta la pelle; era sopraggiunto un raffreddore, che aveva alterato l’occhio sinistro e che provocando frequenti soffiate di naso, aveva reso questo alquanto più grosso e molto più rosso, e il pittore gli fece un nuovo occhio e un naso nuovo. Se a volte lo vedeva spettinato, lo raffigurava con i capelli arruffati; se pettinato, lo ritraeva con i capelli ben composti: per caso dormicchiava Murio nel posare davanti al pittore, e questi lo rappresentò sonnecchiante; aveva preso per esortazione del medico una medicina, che gli diede un’aria di vecchio, e l’altro gli cambiò la faccia. Se avesse potuto rendere la vera e genuina forma di uomo, non sarebbe ricorso a queste cose secondarie» e conclude dicendo che, se noi volessimo imitare Cicerone allo stesso modo, incorreremmo nel monito di Orazio: «O imitatori, gregge di servi, come sovente i vostri schiamazzi han suscitato in me riso e scherno».[21]

E ad un certo punto Erasmo arriva al centro della sua invettiva riprendendo ancora una volta l’esempio di Apelle pittore celebre dell’antichità facendo dire a Buleforo:

Prendi ora di grazia tra i pittori Apelle, ch’era solito a rappresentare perfettamente dèi e uomini del suo tempo, se per un qualche destino ritornasse ai nostri giorni e si mettesse a dipingere i Germani come già rappresentò i Greci, e i monarchi come una volta ritrasse Alessandro, mentre oggi non sono più così, non si direbbe che egli ha dipinto male?»; e Nosopono: «Male, perché in maniera non conveniente»; e Bulefono incalza: «Se si rappresentasse Dio padre con lo stesso abito col quale egli dipinse un tempo Giove, e Cristo con lo stesso aspetto col quale allora dipingeva Apollo, ti piacerebbe il quadro?»; Nosopono: «Per nulla»; e Buleforo: «E che? Se uno oggi effigiasse la Vergine madre così come Apelle una volta dipingeva Diana, o rappresentasse la vergine Agnese in quella forma in cui egli dipinse la dea celebrata da tutti gli scrittori come la dea che sorge dal mare, o santa Tecla con quella sembianza con la quale ritrasse Laide, diresti forse costui simile ad Apelle?»; Nosopono: «Non credo»; Buleforo: «E se uno adornasse le nostre chiese di statue del genere di quelle onde un tempo Lisippo abbellì i templi degli dei, lo diresti forse simile a Lisippo?»; Nosopono: «Non lo direi»; Buleforo: «Perché mai?»; Nosopono: «Perché quei simulacri non corrisponderebbero alla realtà. Direi lo stesso, se uno dipingesse un asino in sembianza bovina o un avvoltoio in forma di cuculo, anche se per quel bel quadro adoperasse d’altronde la massima cura e il meglio della sua arte»; Ipologo: «Io non qualificherei buon pittore neppure quello che rendesse bello nel quadro un uomo brutto»; Buleforo: «E perché, se per altro desse prova di arte sopraffina?»; Ipologo: «Io non direi privo di arte il quadro, ma menzognero. Poichè avrebbe potuto dipingere in altro modo, se avesse voluto [...]»; e Nosopono conclude: «[...] il principio fondamentale dell’arte è rappresentare agli occhi la realtà com’è».[22] Infine Buleforo arriva alla presa di posizione religiosa: «[...] Io cristiano devo parlare a cristiani della religione cristiana: forse che, per parlare acconciamente, immaginerò di vivere ai tempi di Cicerone e di parlare nel senato affollato ai padri coscritti sulla rupe Tarpea, e accatterò parolette, figure e ritmi dalle orazioni che Cicerone tenne in senato? [...]» e continua citando il discorso di un oratore della Roma di Giulio II di cui non vuole rivelare il nome: «[...] l’esordio e la perorazione, più lunghi di quasi tutto il discorso, furono spesi nel tessere le lodi di Giulio II, che chiamava Giove ottimo massimo, che, tenendo nella destra onnipotente e vibrando il trisulco e inevitabile fulmine, otteneva col solo cenno quel che voleva.[23]

Quindi in questo passo del Ciceronianus del 1528 la questione antiquariale si sposa con quella religiosa in un binomio esplosivo.
Giova citare quanto dirà nel 1566 un anno dopo l’intervento censorio di Daniele da Volterra sul Giudizio Universale di Michelangelo, e in seguito alla condanna del nudo nell’arte religiosa da parte del Concilio di Trento, il celebre antiquario Antonio Agustín arcivescovo di Tarragona, riferendosi al rinvenimento di statuette antiche di carattere erotico in un’epistola all’amico Fulvio Orsini:

Al Granvelano senatore[24] (come dice il Salvago, dil quale non credo che si trovi altro che il naso in questo Pontificato) basiate la mano in nome mio: et domandateli se sa cosa alcuna del mio Giovan Metello. Bisogna che il vostro patron ad ogni modo agiuti M. Pirro[25] per poter mandar fuori tanto belle fatiche delle antiquità purché lasci da canto la sua Faustina, se qualcuna habbia, che ora mai è tempo. Io dubito che bisogni sotterrare tutte le statue ignude, perché non venga fuori qualche riformatione di esse. et certo parevano male quelli termini maschij della vigna di Cesis et di Carpi et quel hermafrodito col satyretto nella cappella, et altre pitture in casa d’un altro senatore patrone del famoso Mario. et la vigna di papa Giulio terzo con tante Veneri et altre lascivie che se bene alli studiosi giovano, et alli artefici, li oltramontani si scandalizano bestialmente, et fama malum virum acquirit eundo. Così va perdendo provincie la nostra urbs alma Regina provinciarum Moribus antiquis res stat Romana, virisq. disse Ennio, oraculo che dura tuttavia. Santagostino de civitate dei a 56 carte e meza della stampa vecchia vecchia assai.
Haec hactenus. La mano al patron, la bocca alli amici.
Vale a XII di Novembre del LXVI
di V.S. sing.ma
A.A. Ilerd.[26]
[sul verso] Al molto mag.co e Rev.do signor mio
M. Fulvio Ursino a Roma.[27]

Agustin si interroga sulla necessità di sotterrare le statue antiche di soggetto erotico perché non vengano “riformate” cioè “moralizzate” con interventi censori e dice che queste immagini erotiche agli artisti giovano ma che gli “oltremontani” si scandalizzano bestialmente e costoro sono i luterani. È interessante notare come Agustin avesse perfettamente capito in che misura la polemica sul nudo e quindi sulla questione antiquariale fosse utilizzata in maniera strumentale per la lotta politico-religiosa: Agustin ricorda quanto la fama acquisti forza propagandosi, e in questa epistola la fama deve essere identificata appunto con la pericolosa propaganda religiosa dei luterani contro i cattolici.
Erasmo dunque, nel Ciceronianus del 1528 non certo decreta ma sicuramente registra la fine della cultura antiquariale del Rinascimento propriamente intesa. Se è vero come è vero che le grottesche della Domus Aurea scoperte nel XV secolo da Raffaello e dalla sua scuola continueranno ad essere raffigurate fino ai giorni nostri senza alcuna interruzione, è anche evidente che dal Ciceronianus in poi inizierà quel processo irreversibile di scissione tra i contenuti religiosi e abito antiquariale che verrà poi sancito in maniera formale dal Concilio di Trento per difendere la cultura cattolica dalle accuse dei luterani.
L’epistola dell’arcivescovo spagnolo Agustín è illuminante per capire come il centro della polemica sull’Antico rimanesse sempre Roma, centro ideale dell’Antico e, al tempo stesso, centro della cristianità proprio come ai tempi di Erasmo nel 1528, un anno dopo quel Sacco di Roma, che, lo ripetiamo, era stato considerato come una punizione nei confronti della presunta corruzione morale della città eterna. Ovviamente la Roma della Renovatio Urbis era a sua volta il centro della costituenda Italia e per questo motivo Erasmo accusa gli italiani delle “infrazioni ciceroniane” discolpando i tedeschi e creando quindi una difesa culturale degli eventi politico-religiosi del Sacco. La polemica sull’Antico di Erasmo dunque non è una questione esclusivamente culturale ma assurge a metafora religiosa e politica del Rinascimento europeo.
La proto-archeologia di Pomponio Leto cederà il passo all’archeologia propriamente detta di Antonio Agustín e Fulvio Orsini in quella che sarà la terza Accademia Romana, anche se all’epoca del Giudizio Universale papa Paolo III, committente degli affreschi michelangioleschi, fu al secolo quell’Alessandro Farnese cugino di Francesco Colonna romano signore di Palestrina giustamente considerato autore dell’Hypnerotomachia Poliphili da Maurizio Calvesi.[28] I nudi del Giudizio rappresentano l’emergere della cultura “laica” di Michelangelo voluta e sostenuta dai circoli, appunto, della terza Accademia Romana che cercherà di difendere la parabola evolutiva della cultura antiquariale nonostante le paure e i sospetti che dopo l’anatema del Ciceronianus di Erasmo erano stati diffusi nell’ambiente culturale romano ed italiano. La Galleria Farnese rappresenterà l’ultimo ed estremo contributo dell’Accademia Romana alla questione antiquariale propriamente intesa. La cosiddetta “Teoria degli affetti” del filosofo controriformato Pomponio Torelli conte di Montechiarugolo (Parma)[29] cercherà di conciliare intorno all’anno 1600 l’erotismo sensualissimo dei Carracci con il moralismo repressivo della Controriforma elaborando il felice ossimoro, con funzione paradossale, dell’”erotismo catechistico o didattico” elaborato per cercare di superare l’anatema del Ciceronianus. La Galleria Farnese rappresenta al tempo stesso il canto del cigno della cultura antiquariale romana, ormai giunta al suo epilogo storico, ma anche come tutti sanno l’inizio di una nuova èra della Storia dell’Arte perché risulta essere il geniale incubatore del protobarocco europeo grazie alla sinestesia artistico-musicale con il nascente melodramma di Claudio Monteverdi. Ma questa è un’altra storia.
Per concludere possiamo affermare, con sicurezza, che il Ciceronianus di Erasmo del 1528 rappresenta un testo fondamentale per la periodizzazione storica della cultura antiquariale stabilendo in modo preciso un discrimen che permette di datare con chiarezza la fine o, ancora meglio, l’inizio della fine del Rinascimento italiano propriamente inteso.

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Il presente intervento su Erasmo, la polemica sull’Antico e l’Italia, in origine destinato a La Fucina di Vulcano. Studi sull’arte per Sergio Rossi a cura di Stefano Valeri, Roma, Lithos, 2016 ma non consegnato per personali contemporanei impegni editoriali pregressi, viene ora cortesemente pubblicato da “TeCLa” in questa prestigiosa sede accademica unitamente ad un ricordo personale che spiega e ricorda del mio legame con Sergio Rossi, intellettuale “della vecchia scuola romana” che, quando ero studente alla Sapienza, maggiormente mi ha seguito in quella didattica quotidiana che all’estero era ed è praticata normalmente, per esempio nei campus americani, mentre in Italia, e specialmente nella Sapienza, era generalmente sottintesa a vantaggio dei corsi monografici. Sergio Rossi ha avuto il merito di perseguire la buona prassi di quelle lezioni di didattica di base che oggi viene erogata sotto il nome di “Fondamenti di Storia dell’Arte”: negli anni ‘80 Rossi impartiva infatti memorabili, utili e divertenti lezioni di carattere generale all’IDISU (Istituto per il Diritto allo Studio) nell’ampia sala conferenze di Via de Lollis e partecipare a questi appuntamenti “extra moenia”, al di fuori della cinta delle mura universitarie, stimolava la fantasia di noi studenti e ci rendeva più attenti.Sergio Rossi teneva anche un interessantissimo Seminario sulla cosiddetta “Scuola Romana di Storia dell’Arte” che eccitava in me, ancora giovane, quei sentimenti di appartenenza ad una scuola di studio che sono poi diventati una sorta di codice genetico di riconoscimento. In queste “occasioni didattiche”, concepite ad hoc per attenuare il disagio della talvolta traumatica transizione dalle rassicuranti quotidiane lezioni frontali del Liceo verso la metodologia didattica universitaria, Sergio Rossi trasmetteva una speciale carica emotiva aiutandoci a ricreare sia l’immagine storica della Roma rinascimentale sia quella critica della Roma moderna degli studî scientifici facendoci affezionare alla Sapienza in un modo completamente naturale. Ricordo anche con piacere un viaggio a Parma e Fontanellato, alla scoperta di Correggio e Parmigianino, che si concluse con una memorabile visita guidata ai frigoriferi della mensa universitaria all’insegna del prosciutto e del parmigiano. Sergio Rossi, correlatore della mia Tesi di Laurea con Maurizio Calvesi, ha saputo dunque conciliare l’esigenza di una vita universitaria ricca di stimoli ricercati sul territorio, nel diretto confronto con le opere d’arte, con la didattica più severa dell’insegnamento frontale, secondo i dettami della vecchia e nuova critica d’arte. Il mio ricordo di Sergio Rossi è dunque carico di riconoscenza e, dopo il suo pensionamento, non privo anche di una certa sana nostalgia.

1 Cfr. M. Calvesi, Identificato l’autore del Polifilo, in “L’Europa artistica letteraria e cinematografica”, 6, 1965, pp. 9-20, ripubblicato in Id., Il sogno di Polifilo prenestino, Officina, Roma 1980, pp. 301-313 e Id., La pugna d’amore in sogno di Francesco Colonna romano, Lithos, Roma 1996.

2 E. Valeri, Italia dilacerata. Girolamo Borgia nella cultura storica del Rinascimento, Milano, F. Angeli, 2007.

3 Cfr. i versi intitolati Laocoon loquitur, in Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3351, foll. 107v. - 108r. Cfr. anche Vat. Lat. 10377, fol. 75-76. Versi pubblicati in Laocoonte. Alle origini dei Musei Vaticani, catalogo della mostra (Città del Vaticano, 2006-2007), a cura di F. Buranelli, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2006, pp. 141-142.

4 A proposito si veda ancora oggi il celebre e ottimo libro di A. Chastel, Il sacco di Roma: 1527, Einaudi, Torino 1983.

5 Sul Messale miniato del card. Pompeo Colonna (ms. latino 32 della John Rylands University Library, Manchester, Londra), oltre i numerosi interventi di Maurizio Calvesi si veda lo studio analitico di C. Mochi, Il messale di Pompeo Colonna: antichità ed egizianismi a Roma, in Roma nella svolta tra Quattro e Cinquecento. La rivisitazione pagana di artisti e umanisti. Cultura antiquaria tra filologia e simbolo. Il problema del Polifilo, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Roma, 28-31 ottobre 1996), a cura di S. Colonna, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2004, pp. 439-452. Ringrazio Cristina Mochi per avermi dato notizia della sua datazione del Messale agli anni a partire dal 1517. Sul Ninfeo di Genazzano è ora in corso di pubblicazione nel “BTA – Bollettino Telematico dell’Arte” un importante saggio di Giacinta Battaglini, estratto della Sua Tesi di Laurea Magistrale con me discussa alla Sapienza. Ringrazio Giacinta Battaglini per avermi anche lei comunicato l’ultima sua datazione del Ninfeo in base ai suoi più recenti studî.

6 A. Kircher, Oedipus Aegyptiacus, Romae 1654, t. 3, p. 488: «[...] quae in Museo Illustrissimi Equitis Francisci Serrae [scil.: Sciarra Colonna] Romani, Viri, & nobilitate, omniumque bonarum artium cultura eximij, spectanda exhibetur [...] e p. 500: [xilografia che raffigura una statuetta egizia che rappresenta uan figura umana inginocchiata recante in mano una lastra incisa. La figurina è a ridosso di un pilastro con geroglifici. Si legge la seguente dicitura] Ex Museo Francisci Serrae».

7 Si vedano i documenti conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio Barberini Colonna di Sciarra.

8 Per uno studio aggiornato sulla famiglia Colonna tra Quattro e Cinquecento si veda la molto documentata monografia di A. Serio, Una gloriosa sconfitta. I Colonna tra papato e impero nella prima Età moderna (1431-1530), Viella (I libri di Viella, 74), Roma 2008

9 Alberto III Pio da Carpi, Ad Erasmi Roterodami expostulationem responsio accurata et paraenetica, a cura di Fabio Forner, Leo S. Olschki, Firenze 2002, vol. I, pp. 112-115. Per questo stesso passo citato si veda anche l’analisi contenuta nella mia monografia in corso di pubblicazione presso l’editore Bulzoni di Roma e intitolata DE NAEVIA ET AMORE. Nevia polisemantica e il mito di Bruto nella cerchia del Polifilo.

10 Desiderio Erasmo da Rotterdam, Il Ciceroniano o dello stile migliore, a cura di A. Gambaro, La Scuola Editrice, Brescia 1965 (titolo originale: Dialogus cui titulus Ciceronianus sive de optimo dicendi genere). Si veda anche T. Payr, Dialogus cui titulus ciceronianus sive de optimo dicendi genere. Der Ciceronianer oder der beste Stil., ein Dialog, WBG, Darmstadt 2016.

11 Ivi, p. 53.

12 Giovan Pietro Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, a cura di E. Borea, Einaudi, Torino 1976, pp. 14-15.

13 Ivi, p. 13.

14 Ciceronianus…, p. 55.

15 M. Filetico, Iocundissimae Disputationes, Panini, Modena 1992. Presentazione di Scevola Mariotti. Introduzione, traduzione e testo critico di Guido Arbizzoni. Edizione critica dell’Urb. Lat. 1200 con testo bilingue latino e italiano; si veda anche C. Bianca, Martino Filetico, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLVII, Roma 1997, pp. 636-640. Emy dell’Oro è la studiosa che maggiormente ha approfondito lo studio del Filetico individuando i punti salienti della sua ricerca letteraria. Si veda l’eccellente studio di E. Dell’Oro, Uno scritto di Martino Filetico sugli inventori dell’alfabeto, in “Res publica litterarum. Studies in the Classical tradition”, a. XXI, I della nuova serie, 1998, pp. 121-133. La Dell’Oro analizza e propone una nuova edizione del testo di Martino Filetico, De primis inventoris litterarum, Biblioteca Nazionale Marciana, Lat. XIV, 239 (4500), ff. 44r. 47r., testo per la prima volta edito da U. Caperna, Un inedito di Martino Filetico, in “Teretum. Bollettino della Libera Associazione Ciociara”, IV, 2, 1993, pp. 51-63. Per gli studi linguistici filo-ellenici di Filetico si consulti anche E. Dell’Oro, Termini greci nei Dialoghi di Martino Filetico con Battista e Costanzo Sforza, in Volgarizzare e tradurre dall’Umanesimo all’Età contemporanea (Atti della Giornata di Studi, 7 dicembre 2011, Università di Roma Sapienza), a cura di M. Accame, Tored, Tivoli 2013, pp. 31-45.

16 Martino Filetico, Iocundissime Disputationes…, p. 100.

17 S. Colonna, Per Martino Filetico maestro di Francesco Colonna di Palestrina. La πολυφιλία e il gruppo marmoreo delle Tre Grazie, in “Storia dell’Arte”, 2002, N.S. n. 2, n. 102, pp. 23-29. Poi ripubblicato in Id., Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Roma, Gangemi Editore, 2012. Con CDROM allegato contenente le Statistiche delle Ricorrenze in ordine alfabetico e di frequenza relative all’editio princeps (1499) dell’Hypnerotomachia ottenute tramite trattamento informatico del testo elettronico appositamente modificato da Stefano Colonna.

18 Ciceronianus…, pp. 61-63.

19 Ivi, p. 71.

20 Ivi, pp. 103-105.

21 Ivi, pp. 105-107.

22 Ivi, pp. 123-125.

23 Ivi, pp. 127-129.

24 scil. Antoine Perrenot Cardinale di Granvelle.

25 scil. Pirro Ligorio.

26 Ilerdensis. L’Agustin divenne Vescovo di Lerida il 13 ottobre del 1561. Così in F. Latassa y Ortiz, Biblioteca nueva de los Escritores Aragonenses..., t. 1, 1798, riprodotto in Saur, microfiches.

27 A. Agustìn, [Epistola a Fulvio Orsini sull’utilità delle statue antiche a soggetto erotico per gli studi antiquariali], Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 4105, fol. 245 v. Già pubblicata in S. Colonna, La Galleria dei Carracci in Palazzo Farnese a Roma. Eros, Anteros, Età dell’Oro, Gangemi, Roma 2007, Repertorio delle fonti a stampa.

28 M. Calvesi, La «Pugna d’amore in sogno» di Francesco Colonna romano, Roma, Lithos, 1996, Biografia di Francesco Colonna, p. 271, nota 3: «Francesco Colonna [romano signore di Palestrina 1453- ante 1517] fu cugino di Alessandro Farnese, il futuro Paolo III (figlio di Pier Luigi, fratello di Eugenia Farnese madre di Francesco) e del cardinale Giovanni Colonna (figlio di Imperiale Colonna, sorella del padre di Francesco). La zia Imperiale aveva per altro sposato Antonio Colonna, fratello del cardinale Prospero. La stessa era poi madre anche del condottiero Prospero Colonna (altro cugino quindi del Nostro, e zio del cardinale Pompeo Colonna)».

29 Cfr. S. Colonna, Pomponio Torelli Conte di Montechiarugolo. Tragedia e teoria degli affetti, in Id., La Galleria dei Carracci..., pp. 61-68 e S. Colonna, Annibale e Agostino Carracci e la teoria degli affetti nella Galleria Farnese. Il rapporto tra le corti farnesiane di Parma e Roma, in Il debito delle lettere: Pomponio Torelli e la cultura farnesiana di fine Cinquecento, a cura di A. Bianchi, N. Catelli, A. Torre, Unicopli (Parole allo Specchio / Studi e Testi, 26) Parma 2012, pp. 131-152.

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Temi di Critica - numero 14

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