teCLa :: Rivista

in questo numero contributi di Giuseppe Scuderi, Gabriele Lo Nostro, Eleonora Tardia, Gaetano Palazzolo, Irene Tedesco.

codice DOI:10.4413/RIVISTA - codice ISSN: 2038-6133
numero di ruolo generale di iscrizione al Registro Stampa: 2583/2010 del 27/07/2010

La chiesa del Collegio Massimo dei Gesuiti di Palermo: la lunga storia di una dismissione di Giuseppe Scuderi

La storia dell’insediamento della Compagnia di Gesù a Palermo[1] è probabilmente l’indicatore più significativo per valutare l’ascesa nelle gerarchie religiose di questo ordine, proprio nel momento in cui la necessità di riorganizzare le strutture della Chiesa cattolica portava il papato a indire il Concilio tridentino. Giunti nella Capitale del viceregno nel 1547, i Loyoliti s’insediarono dapprima in una modesta casa nei pressi della non più esistente chiesa di S. Pietro la Bagnara, poi in altre abitazioni private (i palazzi degli Xirotta e dei Platamone). Solo nel 1553 ottennero l’antica abbazia di “Santa Maria della Grotta”, nella zona dell’Albergheria, sulla quale avrebbero di lì a pochi decenni impiantato la Casa Professa, il loro più importante convento nell’Isola.

Le vicende del titolo di Santa Maria della Grotta vanno, seppur brevemente, descritte. «Restituito alla città di Palermo dai Normanni il libero esercizio della religione cattolica», testimonia scrive Gaspare Palermo,«il Duca Roberto Guiscardo conquistatore fondò in questo luogo la Badia di Santa Maria della Grotta nel 1072 dell’ordine di San Basilio con annesso un convento e la dotò con fondi posti vicino a Marsala». Il luogo è l’ambito urbano in cui si svilupperà il complesso della Casa Professa, e la Badia entrerà nelle proprietà palermitane della Compagnia di Gesù quando «il successo riscontrato dall’insegnamento, il gran parlare delle opere di bene […] indussero l’imperatore Carlo V a concedere ai Padri l’antichissima abbazia avendo questa una chiesa ed una casa a Palermo»[2].

Due documenti della fine del XII ci soccorrono in questa ricostruzione: il primo del 13 aprile 1196, nel quale si attesta che l’imperatrice Costanza,«venuto meno il numero dei monaci», congiunge l’abbazia marsalese all’omonima palermitana; e il secondo del 24 aprile 1197, che trasferisce «a questa [di Palermo] tutti i diritti e i possedimenti di quella». Tra le proprietà dell’abbazia lilibetana figura la Chiesa di S. Pantaleone nella prospiciente omonima isoletta, la fenicia Mothya: «L’atto di Re Ruggero che decretava la donazione [dell’isola] al Monastero Basiliano di Marsala, emesso nel 1130, menziona non soltanto l’isola di San Pantaleo, ma anche il suo methocum o grangia e la sua salina». Sappiamo ancheche «assieme a Santa Maria della Grotta di Marsala, l’abbazia di Palermo annetteva i territori che essa possedeva con lechiese di San Giovanni Battista sul promontorio di Lilibeo, di San Michele nel feudo di Rinazzoe quella di San Pantaleone eretta nell’isola omonima»[3]. Se fosse possibile rintracciare una connessione, seppur solamente cultuale, tra le chiese dedicate al Santo medico, forse si troverebbe anche un collegamento tra la Santa Maria palermitana e la chiesa di San Pantaleone del Cassaro, che sarà sostituita con la nuova Santa Maria della Grotta: negli atti fondativi del Collegio, come vedremo, è chiaramente detto che i Padri chiesero all’arcivescovo di «poter demolire» la chiesa, ma non v’è indicazione di come l’avessero acquisita.

Antefatto dell’assegnazione erano state le richieste all’Imperatore da parte del Viceré e del Senato palermitano perché si concedesse al Collegio la prima abbazia di patronato regio[4] resasi vacante; circostanza che si verificò con Santa Maria della Grotta alla morte dell’Abate Commendatario Giovanni Platamone[5] e del Cappellano Sacerdote Domenico Mustaya[6]. La determinazione del sovrano fu comunicata da Innsbruck il 30 gennaio 1552, e il 27 aprile a Roma il Loyola davanti a Biagio de Casarruois, notaio dell’archivio della Romana Curia conferma, ratifica ed omologa l’erezione del Collegio[7].Il 2 maggio del ’54 l’abbazia fu consegnata ai Padri Girolamo Domenech Provinciale dei Collegi della Compagnia e Paolo Achille Rettore del Collegio della medesima in Palermo.

Non va tralasciato che con il titolo abbaziale ai Gesuiti veniva riconosciuto anche il diritto a far parte (al ventunesimo posto) del braccio ecclesiastico del Parlamento del Regno[8], anche se «gli antichi rettori si astennero dal partecipare in persona ai comizi del regno, costumarono di mandarvi un procuratore»[9].

Dieci anni dopo (1564) si avviò la costruzione della nuova chiesa, ed i lavori durarono sino al 1577; nel contempo (fra il novembre 1571 e il gennaio ’72) si ha notizia dell’incarico dato dai gesuiti a Giuseppe Giacalone[10] per il tracciamento del nuovo edificio per il Collegio fabricaturum in magno novo vico nuncupato lo Cassaro: in assenza di più precise notizie, non abbiamo elementi né per ritenere con certezza né per dubitare oltremodo che l’area interessata alle operazioni metriche del Giacalone sia quella in cui sorgerà, nel 1586, il Collegio Massimo.

Avviene in questa circostanza il primo trasferimento dell’antica immagine della Madonna della Grotta, che conosciamo per la descrizione nell’opera Raguagli delli ritratti della Santissima Vergine di Sicilia del gesuita Ottavio Gaetani: «Ella è opera antichissima, e la dipintura è alla greca. Sta collocata nell’altar maggiore della Chiesa di detto Colleggio co’ ricchi guarnimenti di varietà di pietre mischie, e di marmi assai leggiadramente ornata. Ogni sabato le cantano con isquisita musica le litanie, che cantar si sogliono nella Santa Casa di Loreto, alle quali concorrono i giovani, che in molta frequenza attendono alle lettere in quel Colleggio. La Santa Immagine è da tutti con divotione riverita, massimamente nella sua festa, che si celebra a gli otto di settembre»[11].

Il Collegio al Cassaro

Da due decenni il Cassaro era oggetto della prima riforma urbanistica della città[12] e lo spazio intorno alla Cattedrale era particolarmente coinvolto; al suo fianco nel 1512 era stato fondato il Monastero di Monte Oliveto detto della Badia Nuova; nel 1560 era sorta la Chiesa di Sant’Agata alla Guilla, a fianco dell’attuale “Convitto Nazionale”; proprio dietro le absidi avrebbe dovuto edificarsi il Seminario dei Chierici, e il Monastero dei Sett’Angeli era un cantiere continuo; altre costruzioni, non soltanto ecclesiastiche, venivano modificate o sorgevano ex novo.È in questo contesto che il rettore del Collegio procede all’acquisto nel 1586 di molte case in capo al Cassero, nel tratto che pochi metri più in là sboccava nel piano della Cattedrale. Di lì a poco ebbero inizio i lavori, con la posa della prima pietra il 27 novembre 1586, alla presenza del Viceré Diego Enriquez de Guzman, e la benedizione impartita da Don Luigi Amato Vicario Generale. In meno di due anni i lavori (almeno una parte) furono ultimati e il portone del Collegio si aprì il 15 agosto 1588, per la Festa dell’Assunzione. Il 18 ottobre, Festa di S. Luca, s’inaugurò solennemente l’anno scolastico, con la rappresentazione di Salomone e la felicità del suo regno.

Gli edifici preesistenti erano i palazzi di Don Pietro Ventimiglia, quello di Don Antonio Montalto, e quello di Donna Anna Ventimiglia, consorte del Montalto, il che fa supporre che le due costruzioni fossero congiunte. Le case erano in vico seu angiportu Gambini[13], locus longe nobilior secus viam maximam, quam Cassarum ex Arabae incolae appellant in altiore celeberrima que civitatis regione, inter Regium Palatium et Curiam Praetoriam.

Si ha anche notizia, come già accennato, della piccola chiesa dedicata a S. Pantaleone templum celebre quidemac nobile, una delle chiese di rito greco nel Cassaro[14] (insieme a S. Giorgio lo Xhueri[15] poi detta dei Tre Re in via di Montevergine, e S. Cristoforo, due secoli dopo anch’essa inglobata nelle proprietà della Compagnia, nella omonima via, poi del Giusino).

Sorse così di lì a breve una seconda Santa Maria della Grotta, poiché, essendo il titolo di Abbate appannaggio del Rettore del Collegio, a questa vennero trasferiti titoli, rendite e arredi della prima; ebbe però vita breve, se mai fu ultimata (e probabilmente non lo fu), poiché prestigio e ricchezza consentirono alla Compagnia nel giro di due decenni di mettere mano ad ulteriori lavori, «talché detta Chiesa si rifece nel 1615 in più magnifica forma, e solennemente si consacrò da Monsignor D. Antonino Marulloa 12 marzo 1646»[16], come ci conferma la lapide di consacrazione fortunosamente ritrovata[17].

La canonizzazione dei Santi Ignazio e Francesco Saverio.

Il 1622 è l’anno della canonizzazione dei Santi Ignazio e Francesco Saverio, e i testi di Tommaso D’Afflitto e di Giovanni Domenico Onofrio[18], ci consentono anche di conoscere lo stato delle fabbriche a quella data. Qui ci interessa la descrizione della chiesa

riccamente pure, e pulitamente acconcia […] il Cappellone, oltre i mischi di cui pur’era prima assai ricco, fu lavorato in molte parti d’oro, e con due belle, e grandi pitture de’ Santi Pietro e Paolo[19] da due lati adornato. Le Cappelle di finissimi drappi vestite. L’atrio di sete, quadri e verdure con ordine, e vaghezza grandissima. La nave altro ornamento non hebbe che quello che col tempo haverà. Imperochè vollero i Padri con artificiosa pittura di mischio far l’esperienza ne’ nostri tempi di ciò, che altra età haverà a godere nel vero. Fu la pittura ripartita per tutto ne’ due ordini di pilastri, e cornicione, con che ella va’ architettata, similissima nella varietà dei colori e figure, a quelle poche pietre che infatti vi erano, lasciando il resto della fabbrica in bianco, per dare l’uno all’altro con la distinzione bellezza. La volta era dorata da fogliami et arabeschi abbellita […] la facciata fu fabbricata tutta di pittura in rilievo con bellissima simmetria: dove e statue e geroglifici, et emblemi faceano a gara per abbellirla […] sopra vi si pose un Gesù di trentadue palmi di diametro pieno di lumi che sembrava un sole.

Nella raccolta di piante degli edifici della Compagnia oggi conservate dalla Biblioteca Nazionale di Parigi, figurano, com’è noto, più rappresentazioni del Collegio; qui ci è utile un disegno, di questi primi decenni del XVII secolo, definito Prima pianta del disegno del Collegio di Palermo. La chiesa è indicata con le sue tre porte, le otto cappelle ed il cappellone, rettangolare invece che semicircolare; alle spalle del cappellone è la sacrestia, e quindi un cortiletto per dar luce; interessanti due nicchie nel retroprospetto. Ma si tratta di una ipotesi o di una rappresentazione in corso d’opera: il fronte della Chiesa è infatti arretrato dal filo del paramento murario sul Cassaro di almeno sette/otto metri e lo spazio antistante è indicato proprio come piazza davanti la Chiesa: in perfetta consonanza con tante altre edificazioni della Compagnia di quegli anni, in cui era previsto proprio «l’arretramento della facciata in modo da creare una piazzetta antistante»[20]. Tra chiesa e Collegio è indicato lo spazio scoperto per luce (l’intercapedine ancor oggi visibile), ed il collegamento tra i due edifici avviene attraverso il passaggio dal cortile delle scuole alla chiesa.

Il 1671 è l’anno della canonizzazione di Francesco Borgia[21], e l’apparato realizzato nel Collegio è descritto dal gesuita Giuseppe Maria Polizzi[22]; il testo è più rivolto agli aspetti apologetici e lirici, ma non manca qualche spunto utile ai nostri fini[23].

Inizia in questi anni una nuova fase di lavori: è il periodo in cui è a Palermo il fratello Angelo Italia[24], intento a «decorare con marmi l’interno dell’istituto» e a costruire la scala nuova nel portico del Collegio. Il 24 settembre 1672 il marmoraro Marcantonio Muccio fornisce materiali per la Cappella di S. Luigi[25], tra il ’79 e l’87 i mastri Pampillonia e Marino lavorano alla base dell’altare nellecappelle di S. Luigi e di S. Ignazio[26]. A questi lavori si dichiara interessato pure Lorenzo Ciprì[27], nel contempo operante alla Concezione e nella limitrofa nuova chiesa del Monastero di Montevergini[28].

Nel cantiere sono impegnati anche Paolo Amato e Pietro Marabitti: il primo per realizzare (1682) la facciata dell’organo, l’altare e la macchina di Santa Rosalia[29] ed il secondo per coretti, inginocchiatoi, macchina lignea dell’organo e il casciarizzo della sacrestia; nel 1684 viene registrato il pagamento per il disegno eseguito dall’Amato per la macchina di Santa Rosalia, poi realizzata da Geronimo Monte “architetto e pittore”, e ulteriori pagamenti per monumenti funebri eseguiti in chiesa, sempre su progetto dell’Amato, sono documentati al 1698[30], anno in cui lavorerà per il Collegio anche Andrea Palma che il 31 marzo riceve quattro onze a «pagamento di modello di sepolcro e di pitture di quadroni»[31].

L’affresco della volta della Chiesa

L’inizio del XVIII secolo è segnato dalla commissione a Filippo Tancredi[32] della decorazione della volta con un immenso affresco raffigurante il Trionfo della SS. Trinità, Storie della Redenzione, Profeti, Patriarchi, Santi gesuitici. Era certamente questa una delle più cospicue decorazioni nei soffitti delle chiese di Palermo; per la descrizione dell’opera rimane fondamentale quanto ne scrive Susinno[33], che riporta l’ampia descrizione data alle stampe nel 1704, all’atto del suo scoprimento, assieme a due sonetti encomiastici sulla stessa:«in quei freschi della Chiesa del Gesù nuovo, all’entrare della porta maggiore, leggesi nell’ampia volta: Tancredi p. 1704. Nelle lunette laterali erano rappresentate l’Annunciazione e la Concezione di Maria Vergine, nella volta la Redenzione di Cristo, mentre nell’arco, che divideva la navata dal cappellone, una folta schiera di patriarchi e profeti del vecchio testamento, i Dottori della Chiesa greca e latina, i Santi della Compagnia di Gesù, i santi Martiri. Nelle vele della volta, infine erano rappresentati il Sacrificio di Noè, di Abele, di Abramo, di Giosuè e di Elia, sulla sinistra il Sacrificio di Caino, di Melchisedec, di Giacobbe, di Daniele. Chiudevano l’affresco, negli archi, le figure simboliche dell’Africa, dell’Europa e dell’Asia».

Può datarsi entro la terza decade del XVIII secolo la descrizione del Mongitore:

La chiesa ha il frontespizio sul Cassaro, altare maggiore verso il settentrione, ha tre porte, quella grande sul fronte, una sulla via di Gambino, e l’altra che dà nel cortile, sulla facciata ci sono le statue di stucco dei SS. Apostoli Pietro e Paolo […] sull’altare maggiore è anche la nicchia con l’immagine antichissima di Santa Maria della Grotta il cui maggiore ornamento sono i voti d’argento che da essa pendono in memoria dei miracoli operati dalla SS.ma immagine»; la dedicazione delle otto cappelle è la seguente: «a sinistra entrando la prima è dei SS. Ignazio e Francesco Saverio incrostata tutta di marmi, quindi i Sett’Angeli, il SS. Crocifisso, e la quarta è dedicata ai SS. *** [Quaranta Martiri del Brasile], a destra San Luigi Gonzaga, tutta ornata di marmi mischi, abbellita nel 1682, quindi Santa Rosalia, la Beata Vergine, attribuita al Novelli, e infine San Pantaleone.

La soppressione della Compagnia, nel 1767, ovviamente coinvolse anche Santa Maria della Grotta, per la quale fu disposto «che resti per uso delle Scuole, sotto la cura del Prefetto del Baglio, senza nuovo salario»; il culto, con sacerdoti secolari, riprese la domenica 7 febbraio 1768. Quando nel 1805 la Compagnia fu “ristabilita” si avviò una campagna di lavori per «riattare e pulire la chiesa»[34],ma nello stesso anno l’antichissima tavola con l’immagine della Madonna della Grotta«per somma sciagura fu distrutta da fortuito incendio, insieme a tanti nobili arredi che l’adornavano, ed all’altare maggiore ricco di preziosi marmi e metalli. Si fe’ tosto una copia fedele all’originale perduto, e restò sul medesimo luogo sino al 1860. Dopo alcuni anni, chiuso il tempio, il quadro fu trasportato nella Cappella del Convitto Nazionale, stabilito nel Collegio, dove sin oggi si ritrova»[35].

Il 1816 è l’anno della Guida istruttiva di Gaspare Palermo, da cui riportiamo parte della descrizione secondo l’edizione del 1858fatta da Girolamo Di Marzo-Ferro[36]:

Il frontespizio rivolto a mezzogiorno è formato di pietre intagliate, con a’ lati due statue di stucco dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e sul comignolo della facciata il nome di Gesù […] e colla porta maggiore, oltre ad altre due che sono una ad occidente, che da l’uscita nella strada di Gambino, e l’altra ad oriente che dà l’ingresso nel cortile, ove sono le scuole. La pianta interna è della figura di un parallelogrammo rettangolo con otto cappelle con isfondo; all’entrare sovrasta un coro mezzanile sostenuto da due colonne doriche con tre archi. L’architettura è di ordine dorico romano. Il cappellone fu perfezionato a 8 dicembre 1701. È in esso l’altar maggiore, ed il quadro antico della Madonna della Grotta. Vi ha la sua sepoltura la famiglia del Bosco, di cui se ne vedono le armi in iscudi di rame dorato attaccati ai pilastri dell’arco di detto cappellone. L’altar maggiore fu la prima volta consacrato da Monsignor D. Pietro Galletti Vescovo di Patti a 30 settembre 1725. Fra le otto cappelle merita osservarsi la prima del fianco sinistro dedicata a San Luigi Consaga [sic], in cui vi è il quadrone di marmo, nel quale è espresso in tutto rilievo il Santo con diversi angeli, scultura di D. Ignazio Marabitti palermitano. Le colonne, architrave, fregio, cornice, e frontespizio superiore parimente di marmo bianco, lavorati ad arabesco, sono opera di Antonino Gagini, levati via nel 1782 dalla Chiesa di S. Spirito fuori la porta […] tutti gli altri adornamenti di marmo bianco, che imitano quelli del Gagini, sono opera di Giosuè Durante scultore di adorni in marmo. Alle mura laterali si vedono due quadri in pittura, rappresentanti alcune virtuose geste del Santo. Non è da trascurarsi la sagrestia per gli armadii di noce con intagli a mezzo bassorilievo, nella quale si entra dalla porta che sta nel cappellone dalla parte del Vangelo. Nel 1704 tutta questa chiesa fu notabilmente abbellita, e messa ad oro con pitture e stucco, essendo Rettore il P. Giuseppe Maria Polizzi palermitano […].È nel centro del pavimento la sepoltura dei Padri fatta nel 1674, essendo Rettore il P. Giuseppe La via.

Dal 1840 ancora lavori: «la Chiesa subì un abbellimento per l’elegante e ricco altare maggiore, costruito di pietre forti ed ornato di bellissime doratureconsacrato il sei dicembre […] L’anno successivo si posero le nuove invetriate, composte non più da pezzetti di cristallo insieme commessi, come le antiche, ma di grandi lastre che di nuova luce esilaravano il tempio […] altresì l’esteriore facciata venne vagamente ristaurata; né quella solo della Chiesa, ma l’estesissimo frontespizio di tutto il collegio ricevette una magnifica pulitura»[37]. Nel 1855 «l’altare dedicato ai Santi Quaranta Martiri del Brasile fu rabbellito di marmi e dorature»[38], quindi si rinnovò il pavimento del presbiterio «costrutto di eletti marmi di vari colori secondo il disegno fattone dal P. Romano […] Nel 1858 venne costruito di eletti marmi l’altare di San Pantaleo, per conformarlo a quello dirimpetto [i Santi Quaranta Martiri]».

Siamo ormai agli ultimi giorni del Regno delle Due Sicilie, e con esso del Collegio Massimo. «Il turbine del 1860 si rovesciò sulla Sicilia, Gesuiti e Redentoristi furono cacciati, annientando, con essi, quindici tra case e collegi, ed aggregando al demanio tutti i loro beni. Il 31 maggio il Collegio rimase deserto: la gloria più grande e più vera della provincia sicula fu perduta per sempre»[39]. Il destino di Santa Maria della Grotta cominciava a delinearsi: «essendosi chiuso all’esercizio del culto l’antico tempio dei gesuiti, si pensò di metter questo in comunicazione con la biblioteca per mezzo di una scala interna, con lo scopo di stabilirvi un deposito di libri e qualche ufficio»[40].

Nel 1866, in concomitanza all’emanazione delle “Leggi eversive”, si ha notizia del trasferimento al Museo dei quadri già in chiesa, citati anche in un articolo del “Corriere Siciliano” del 24 febbraio: «Nella chiesa degli ex gesuitisi trovano due bei dipinti del Velasquez che hanno bisogno di pronti restauri. La commissione di antichità e belle arti, chiese quei dipinti alla direzione del demanio per collocarli nel Museo. Sappiamo che la direzione del demanio ha aderito alla domanda […] in cambio però onde non lasciare sguarniti gli altari della chiesa, ha domandato a sua volta alla commissione succennata due altri dipinti in surrogato».

Del 1874 è inoltre la descrizione, negli inventari del Museo Nazionale, del dipinto raffigurante S. Pantaleone, oggi irreperibile[41].

La demolizione di Santa Maria della Grotta

Il 20 gennaio 1884 moriva Antonino Orlando, ultimo rettore dell’Abbazia di Santa Maria della Grotta: la scomparsa del sacerdote preludeva alla “rovina” dell’edificio al quale furono poco dopo apposti i sigilli[42].Dieci mesi dopo, il 6 ottobre, l’Intendenza di Finanza scrive al Presidente della Commissione di antichità chiedendo se nella chiesa vi siano «pregevoli opere di pittura o altro che possa interessare le belle arti», ela risposta è che la chiesa «per la sua struttura, la sua ornamentazione e gli affreschipuò considerarsi monumento nazionale». Ma pochi giorni dopo (23 novembre) la stessa Intendenza comunica al Commissario l’interesse delle Regie Poste alla chiesa per «allogarvi il servizio dei pacchi». A stretto giro di posta il Commissario esprime la sua perplessità poiché «pella completezza delle sue decorazioni abbia a stimarsi pregevole, pertanto questo ufficio vedrebbe molto volentieri che fosse conservata alla naturale funzione religiosa».

Gli interessi sulla chiesa erano molteplici. Il 6 febbraio 1885 il Ministero segnala al Commissario che «si sta ventilando la proposta di chiudere al culto la chiesa», e lo invita a disporre quanto necessario per «assicurare la buona conservazione», il 3 aprile il Commissario auspica che la chiesa «continuasse a servire alla naturale destinazione religiosa», convincendo così lo stesso Ministero ad affermare (14 luglio) «che la chiesa deve reputarsi monumento nazionale. Quindi non può convertirsi ad altro uso, ma deve essere officiata e tutelata». Ma appena due settimane dopo il Commissario scrive al Ministro che «giacché non vi è stato modo di tenere aperta al culto la chiesa», ritiene utile la cessione al Convitto «che meglio potrebbe curarne la conservazione». Interviene nella vicenda il Cardinale che fa «istanza perché gli venga ceduto l’uso della chiesa, obbligandosi a tenerla aperta al culto a proprie spese» e il Commissario chiede quindi al Ministero se sia il caso di accettare la proposta anziché cedere la chiesa al Convitto. Invano, e infatti agli inizi del 1886 (5 gennaio) il Ministero di Grazia e Giustizia cede la chiesa al Ministero della Pubblica Istruzione per la successione al Convitto, e decreta il trasferimento dei beni artistici al Museo Nazionale. Anche il Comune di Palermo manifesta interesse sulla chiesa (27 gennaio 1886) «almeno per l’anno corrente, per aprirvi una scuola pubblica». Il 9 febbraio il Commissario scrive alla Direzione Generale auspicando la riapertura della chiesa «previo trasporto al museo dell’altare dello Spasimo».

Un anno dopo (4 febbraio 1887) nella sagrestia viene redatto il verbale per l’inventario di quanto ancora rinvenuto, alla presenza del Rettore del Convitto, del direttore del Museo Nazionale Antonio Salinas, del Ricevitore dell’Ufficio Demaniale e del Subeconomo dei benefici vacanti. Un mese dopo (25 marzo) il Ministero comunica che «Il Rettore del Convitto lo ha informato che si vuole rimuovere l’altare dello Spasimo, e che ciò arrecherebbe danno alla cappella oltre che molto malumore nel clero e nei devoti», nonostante il prospettato cambio con il «quadro di Giuseppe Velasquez rappresentante la Comunione di San Luigi, segnato al n. 386 del catalogo del Museo». L’8 aprile il Commissario scrive alla Direzione Generale sulla demolizione degli altari, che «essendo di avorio e tutti di uno stile» debbono «restare sul posto». Il successivo 20 settembre il Ministro dell’Istruzione ratifica l’accordo «tra questo Ministero e quello di Grazia e Giustizia e dei Culti con cui è stato disposto che la chiesa già del Collegio Massimo sia ceduta al Convitto», e gli oggetti assegnati al Museo Nazionale.

Oltre un anno dopo (settembre 1889) il Ministro scrive al Regio Commissariato dei musei e degli scavi in Sicilia sugli oggetti che con verbale del 23 novembre 1888, «nel consegnarsi alla Biblioteca Nazionale la Chiesa», erano indicati come di proprietà del Convitto e a cui quindi andavano riconsegnati: l’altare maggiore, un organo, parte di balaustre non utilizzabili per la biblioteca, gli altari del Crocifisso e di San Benedetto [?], il marmo di San Luigi del Marabitti, le due pile di acquasanta, un paravento, due confessionali, e ancora «il primo altare della chiesa, due porte intarsiate che trovansi una nella sacrestia e una nella sala».

Qualche mese prima (maggio 1889) il Genio Civile propone la demolizione delle statue sul prospetto «per la necessità di alleggerire il carico dell’angolo sinistro della chiesa» anche per il «poco o nessun pregio artistico di quelle statue», e due anni dopo (aprile 1891) il Direttore della Biblioteca conferma che «le due statue di stucco sono assai mal ridotte. La demolizione della statua di San Pietro alleggerirebbe da un enorme peso l’angolo sinistro, la statua di San Paolo dovrebbe demolirsi per ragioni di simmetria. Anch’io sono dell’avviso che la demolizione delle due statue, opere di semplice decorazione e di stile barocco che non hanno un gran pregio, non toglierebbe granché alla decorazione artistica del prospetto della chiesa». Il 16 ottobre nella nota del Regio Commissario alla Direzione Generale a Roma si citano per la prima volta «gli affreschi della volta dipinti dal messinese Filippo Tancredi”, si indica la necessità che «qualora l’edificio mutasse nella sua forma […] dovrebbe provvedersi a trasportare al Museo nazionale i due organi riccamente intagliati», e la presenza «in una cappella a dritta di due quadri depositati dal Museo Nazionale nel giugno del 1866 (un Santo Vescovo di scuola del Paladino e una Natività della Vergine di scuola di Pietro Novelli)» e delle «grandi balaustre davanti l’altare maggiore».

Il 7 luglio 1893 il Ministero comunica al Direttore dell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti della Sicilia che «i confrati della chiesa di Sant’Alberto in Piazza Carmine hanno chiesto uno degli organi, e si chiedono notizie delle altre opere di pregio già nella chiesa». La risposta dell’Ufficio è dell’11 settembre: «Sarei di avviso […] di potergli dare il solo strumento. In quanto poi alla facciata e al lettorino, ove mai questi pezzi si dovessero rimuovere dal posto, sarebbe veramente il caso di trasportarli senz’altro al Museo in uno all’altro lettorino ed alla facciata dell’organo finto che stanno di fronte, trattandosi di intagli e dorature di qualche valore artistico che molto interessano la storia delle arti industriali siciliane nei secoli XVII e XVIII. Finalmente in quanto al parere chiestomi sulla convenienza o meno di demolire le due statue che si scorgono sulla facciata della chiesa, non potrei dire diversamente che solo si potrebbe permettere, quando si venisse nella determinazione di rifare per intero la facciata della chiesa. Relativamente poi al merito artistico delle due statue dico che esse ne hanno pochissimo, tuttavia servono a completare l’insieme di quella facciata barocca che senza di esse diventerebbe veramente mostruosa».

Ancora una richiesta di cessione giunge il 9 ottobre 1894, con la nota del Ministro della Istruzione pubblica che scrive al Direttore dell’Ufficio regionale: «A favore della Chiesa del Carmine mi viene chiesta la cessione d’una campana appartenente alla Chiesa […] la quale è ora del tutto inutile. Il Parroco dell’Albergheria […] garentirebbe la conservazione della campana e la restituirebbe quando gli fosse richiesta». Pochi giorni dopo (20 ottobre) l’Ufficio risponde con una dettagliata relazione firmata da Francesco Valenti sulla «Campana del secolo XVII appartenente alla Chiesa del Collegio Massimo […] La campana a margine cennata si trova sin oggi in una nicchia moderna che si prospetta nella scala degli uffici della Biblioteca Nazionale, a nord est del prospetto della Chiesa del Collegio Massimo. È un’opera di mediocre valore artistico dell’anno 1685, il suo stato di sonorità si considera perfetto. Nella 1a striscia superiore ho potuto leggere, perché la nicchia impedisce la lettura AUGUSTISSIMO IESU NOMINE DEIPARA SEMPER VIRGINI COLL.PAN.IN OBS.MON Nella seconda striscia POS.ANNO.DNI.MDCLXXXV. Al sotto di questo scritto trovasi una zona più ampia, ove si rilevano alla estremità di due diametri, quattro corone di forma ovale che circuiscono la mezza figura della Madonna col Bambino (e lo opposto forse un ritratto) e le altre due circuiscono il segno del Iesus. Nell’intervallo di queste quattro corone si legge FRANCISCUS MORO FECIT. Queste decorazioni ritoccate grossolanamente col bulino sono di mediocre importanza». Ricevuta la relazione, il 30 ottobre 1894 il Ministero scrive «credo che nulla si opponga per la consegna a titolo di depositoal parroco dell’Albergheria». Ma la sorte della campana sarà altra, come vedremo.

L’8 gennaio 1916 viene redatto un verbale «per la tutela e la conservazione delle opere di antichità e di arte esistenti» nella Chiesa: sono presenti l’Ispettore del Fondo Culto, il Soprintendente ai Monumenti, il Soprintendente alle Gallerie, l’economo del Convitto nazionale, un ingegnere del Genio Militare. La chiesa «da tempo occupata dall’autorità militare unitamente ai locali della sagrestia ed a buona parte di quelli del Collegio Convitto Vittorio Emanuele, deve ora adibirsi a palestra ginnastica per uso del liceo Ginnasio Vittorio Emanuele in sostituzione della palestra esistente nei locali occupati dal Collegio Convitto per le facoltà concesse all’Autorità Militare».

Il verbale evidenzia le gravi condizioni della chiesa: «pavimento, affreschi, intonaco, decorazioni deteriorate, imposte delle finestre in parte mancanti, la prima e l’ultima [quarta] cappella a destra di chi entra mancano completamente degli altari e delle balaustre (gli altari sarebbero stati consegnati a titolo di deposito uno all’Istituto dei Ciechi ed uno al Museo Nazionale); tutti gli altri altari mancano delle pietre sacre e di alcune parti del rivestimento in pietre dure e delle decorazioni a rilievo; il centro dell’abside manca del dipinto, in prima esistente, e della relativa cornice che si troverebbero presso il Museo Nazionale; il ciborio dell’altare maggiore manca dallo sportello e delle due statuine monumentali; sotto la mensa mancano pure le statuine e i vasetti monumentali; le due artistiche cantorie di legno riccamente intagliato e dorato mancano delle grate, l’organo manca delle canne. Nei pilastri dell’arco di ingresso al cappellone, all’altezza di circa quattro metri, vi sono due stemmi nobiliari in bronzo dorato, il coro soprastante all’ingresso centrale della chiesa è occupato dalla Biblioteca Nazionale». I verbalizzanti stabiliscono «il trasporto e il deposito provvisorio al Museo Nazionale dei seguenti oggetti: dipinto ad olio su tela (scuola del Novelli) rappresentante la Vergine in gloria, esistente nella seconda cappella a destra di chi entra; dipinto ad olio su tela rappresentante Santa Rosalia, esistente nella terza cappella a destra di chi entra; quattro colonnine ornamentali del ciborio dell’altare maggiore con i relativi capitelli e basi; quattro custodie di reliquie con cornice in legno dorato esistenti nell’altare del Crocifisso e del quale formano la parte ornamentale mobile; proteggere e isolare le cappelle ed il cappellone dalla platea della chiesa con la costruzione di un muro dell’altezza di metri 3; riunire e depositare nella Cappella del Crocefisso (la seconda a sinistra di chi entra) gli altri oggetti mobili esistenti nella chiesa e cioè: i due dipinti ad olio su tela dei muri laterali della seconda cappella a destra di chi entra, il dipinto ad olio su tela rappresentante S. Ignazio che dà la regola dell’Ordine della Compagnia di Gesù, esistente nella prima cappella a sinistra; il dipinto ad olio su tela rappresentante San Michele Arcangelo, esistente nella terza cappella a sinistra; il dipinto ad olio su tela rappresentante Sant’Ignazio che riceve lo stendardo dalla Vergine esistente nella quarta cappella a sinistra; ed un dipinto ad olio su tela rappresentante un Santo Gesuitico in gloria esistente nel vano di accesso alla chiesa dalla porta di Via delle Scuole».

Nel contempo Il corriere del mattino del 17 marzo 1918 pubblica un articolo firmato G.P.Z. dal titolo «Profanazioni: ai cultori dell’arte: a Palermo esiste una chiesa, bella nella armonica sua fattura ora invasa da una turba di muratori. Si tratta di uno dei più bei e luminosi monumenti di Palermo […] si pensi una buona volta ad impedire una profanazione che segna la rovina non solo di una chiesa, ma anche di un gioiello dell’arte cristiana».

Il 27 giugno la Soprintendenza produce una Relazione sullo stato della chiesa: «Essendosi constate delle lesioni e dei cedimenti, tanto nella volta sottostante alla cantoria delle chiesa […] quanto nei muri della medesima […] anche nella volta della chiesa furono osservate fenditure di non poca importanza. E poiché la chiesa è un pregevole edificio del sec. XVII ed è decorato da pregevoli affreschi di Filippo Tancredi […] la chiesa non ha alcuna importanza all’esterno, ma all’interno è decorata egregiamente […] È da rilevare che la sala maggiormente caricata è quella soprastante alla navata, dove fin dal 1867 fu trasportata la grandiosa biblioteca dell’ex monastero di San Martino delle Scale. La rottura nella volta è stata evidentemente causata dall’enorme peso della Biblioteca di San Martino.»Due giorni dopo il Soprintendente scrive alla Direzione generale per le antichità e belle arti, informando che il Genio Civile «considerando che la chiesa del Collegio Massimo […] è edificio monumentale […] ha dichiarato di non essere di sua competenza lo studio dei provvedimenti per togliere le cause che hanno deteriorato il monumento»; il 6 luglio la Soprintendenza trasmetterà alla Direzione un «progetto, con proposta di riapertura al culto della chiesa», e il 9 luglio la Biblioteca comunicherà alla Soprintendenza che «le condizioni delle strutture sono tali da richiedere con la massima urgenza, non solo il consolidamento, ma che siano sgomberati i libri che vi gravitano».

Con il 1923 si comincia a delineare il destino dell’edificio: il Genio Civile (15 febbraio) chiede alla Soprintendenza di conoscere il progetto «per dare alla nostra R. Biblioteca un ingresso separato da quello in atto e che resta a disposizione del R. Liceo Ginnasio Vittorio Emanuele».Due anni dopo (5 marzo 1925) il Soprintendente Valenti scrive alla Direzione generale Antichità e Belle Arti in ordine al parere per «alcuni consolidamenti occorrenti nella chiesa»: si tratterebbe di «creare un accesso indipendente alla Biblioteca per lasciar libero l’ingresso principale che immetterebbe nella grande corte, ad esclusivo uso del Liceo […] Data la modesta importanza architettonica dell’edificio e considerato il grande vantaggio per gli studi, questo Ufficio esprime parere favorevole per l’esecuzione dei lavori progettati».

È da connettere alla propedeuticità al progetto quanto scritto il 2 giugno 1927 dall’Intendenza di Finanza al Soprintendente, in ordine alla «cessione del fabbricato della chiesa Santa Maria della Grotta alla Biblioteca e del materiale sacro all’arcivescovo». Si ricorda che il Provveditorato Generale dello Stato e l’amministrazione del Fondo per il Culto hanno già riconosciuto «l’opportunità della retrocessione dal Convitto della chiesa, dei locali annessi ad uso di sacrestia ed altro, e degli oggetti mobili ed arredi sacri e di cedere al ministero della pubblica istruzione per uso della Biblioteca il fabbricato della chiesa e i locali annessi, ed all’arcivescovo tutti i mobili ed arredi sacri, per essere destinati ad uso di altre chiese»[43].

Il 21 giugno 1928 l’anonimo estensore dell’articolo del “Giornale di Sicilia”, che pubblica anche la fotografia dell’organo, così si rammarica: «Sono stati smantellati e scomposti i ricchi marmi mischi della Chiesa Gesuitica di Santa Maria della Grotta e trasportati altrove. Al vandalico e sacrilego svaligiamento di tutto quello che esisteva in questa nobilissima chiesa, rimangono ancora superstiti due superbe cantorie in legno scolpito e dorato con particolari delicatissimi di ferro battuto […] Non è da descrivere il valore artistico di queste opere d’arte di meravigliosa bellezza poiché il grafico, che riproduce quella del lato dell’epistola, basta a darne una idea più concreta. […] Secondo il progetto di adattamento della chiesa a locali ad uso della Biblioteca Nazionale, queste testimonianze sicure del grado di perfezione raggiunto dall’arte della scultura decorativa in Palermo alla fine del XVI secolo dovrebbero essere rimosseper ricomporle a Siracusa[44] […] Smantellare queste sculture corrose dal tempo, svellerle dal luogo in cui vennero infisse e scolpite, trasportale altrove, equivale distruggerle […] Siamo fermamente convinti che se il governo nazionale fosse stato illuminato convenientemente dagli organi preposti alla tutela dei monumenti non avrebbe permesso il saccheggio vandalico di una nobilissima chiesa gesuitica, ricca di marmi mischi, adorna di sculture del Marabitti ed affrescata da luminose pitture del messinese Tancredi».

Altra notizia importante il 6 novembre 1930, da un Memorandum manoscritto su carta della Regia Soprintendenza: «Dismessi gli altari ad intarsi delle Cappelle S.E. il defunto Cardinale Lualdi, delegando il R. Padre Pernice. E dentro: 1° n. tre altari a Palermo e destinato il Sig. Paolo Alicati di collocarli nella chiesa dell’Istituto di San Luigi Gonzaga al Giardino Inglese. 2° a Bagheria una cappella nel Palazzo San Cataldo nella cappella privata dei PP. Gesuiti. 3° a Siracusa nella chiesa del Collegio n. 7 cappelle (col materiale di sette cappelle collocate formando tre cappelle). N.B. Al Gonzaga al Giardino Inglese resta un pennacchio di una cappella. 4° L’altare maggiore fu destinato a Messina nella chiesa Gesuitica e trovasi depositato e i bassorilievi si trovano nella cappella principale con S. Ignazio e S. Saverio».

Nel giugno 1931 il Direttore della Biblioteca scrive che si «è in prossimità dell’ultimo stadio dei lavori preparatori per la costruzione del nuovo scalone. Nella chiesauna profonda cripta contiene in loculi aperti o chiusi i resti di forse duecento cadaveri di gesuiti. Per ottenere la rimozione di questi resti scrissi all’Ufficio di Igiene Municipale, che mi esortò a rivolgermi alla Prefettura, che mi esortò a rivolgermi all’Ufficio Patrimonio, che mi esortò a rivolgermi all’Ufficio di Igiene Municipale che non ha più risposto!».

Il 27 febbraio 1933 la Commissione diocesana pro arte sacra (Presidente Mons. Filippo Pottino), decide che «le due cantorie esistenti nella chiesa del Collegio Massimo possono trovare posto sulle due porte laterali del prospetto principale della chiesa di San Giuseppe dei Teatini»,il 24 novembre il Cardinale Lavitrano autorizza l’assegnazione e il 16 dicembre viene stipulato il contratto per lo spostamento, verbalizzato il 18 gennaio del successivo 1934. Il 28 agosto la Soprintendenza trasmette alla Biblioteca il nulla osta per la cessione anche della campana, avvenuta il 3 settembre: «Rimetto alla S.V. un originale del verbale di consegna della Campana dell’ex chiesa gesuitica […] per essere consegnata al Cardinale per la nuova chiesa di Santa Rosalia[…] Campana di bronzo portante fuso l’anno 1685 e delle dimensioni di cent. 90 di altezza per cm. 90 di diametro di apertura».

Il 2 dicembre 1937 è il giorno della “condanna” per gli affreschi del Tancredi: il Soprintendente scrive alla Biblioteca che «in seguito al sopraluogo da me fatto oggi, le comunico che nulla osta perché si proceda alla demolizione della pericolantissima volta dell’ex chiesa». Ma la demolizione, a quella data, non avverrà:tre anni dopo siamo in piena guerra.

Il carteggio riprende nel febbraio 1944, quando il Provveditorato alle OO.PP. Ufficio del Genio Civile informa la Soprintendenza dei monumenti che per «pubblica incolumità questo ufficio ha disposto, a mezzo dell’impresa Calabrò Domenico, la rimozione delle lastre con figure del prospetto della Biblioteca poste sul prospetto di Corso V.E.». Il 2 marzo il soprintendente Mario Guiotto scrive al Genio Civile per informare che la Soprintendenza sta provvedendo «al fissaggio delle lastre con figure ad altorilievo» ma un anno dopo (17 marzo 1945) doveva ancora avvenire un «sopraluogo che verrà eseguito alle ore 10 per verificare la stabilità del prospetto ex chiesa Santa Maria della Grotta».

Quando s’iniziarono i lavori di ricostruzione della Biblioteca Nazionale fu necessario «nello spazio dell’ex chiesa, alle spalle dello scalone, procedere alla escavazione del pavimento di Santa Maria della Grotta per le fondamenta in cemento armato della nuova scaffalatura per iniziarsi a montare la grande castellatura metallica progettata e prodotta dalla Lips Vago, ben dodici piani, il più alto esemplare d’Italia, alta 26 metri con oltre 11 chilometri di palchetti, costata quasi 100 milioni di Lire», completata nel 1955.I lavori sul prospetto dureranno ancora anni: il 14 agosto 1948 lo prova la «Relazione sui lavori di restauro e consolidamento eseguiti nel prospetto monumentale Santa Maria della Grotta […]È rimasta incompiuta la ricollocazione del timpano triangolare», come nel 1952 confermano le fotografie pubblicate dal gesuita Fagone nel suo Vicende storiche del Collegio Massimo di Palermo, che mostrano ancora in situ le statue dei SS. Pietro e Paolo, il puntellamento del timpano e l’assenza di ponteggi nella facciata del Collegio.

Alcune considerazioni

Per la chiesa, come detto, il primo problema è il posizionamento del fronte; il sicuro arretramento nella prima costruzione è il segno della progettazione di una ragionata piazza davanti la chiesa, come negli auspici del consiliarius, o è l’ultima traccia di un preesistente slargo, il cosiddetto Casserello, un punto di raccolta o di snodo sull’antica Simat?

Brevemente: demolita S. Pantaleone nel 1586 si realizzò la prima chiesetta, una stasi economica al cantiere fu imposta tra il 1600 e il 1610, e due anni dopo si avviò il “rinnovamento” della chiesa, benedetta nel 1615 ma consacrata addirittura dopo altri trent’anni: indubbiamente va approfondito quanto accaduto in questo lungo intervallo, esattamente sessant’anni, tra posa della prima pietra e la consacrazione. Intervallo che conforta la nostra convinzione che Santa Maria della Grotta sia stata un cantiere continuo per oltre due secoli; la copertura fu realizzata nel 1616, i lavori di decoro erano in corso nel ’22, e non si conclusero prima degli anni ’40, il grande affresco della volta fu completato nel 1704, e ancora la collocazione e il rinnovamento, sino alla prima metà del XIX secolo, di pavimenti e altari. Vi fu tutto il tempo, quindi, di vivere e assimilare il passaggio dal tardo manierismo al barocco, dai teoremi del consiliarusaedilicius a quella interpretazione prettamente siciliana della ricerca espressiva barocca, sino ai più eclettici gusti del XIX secolo.

Lo schema planimetrico della chiesa (navata unica con cappelle sufficientemente profonde, come nelle chiese dei collegi di Mineo, Bivona, Termini e altre ancora) dipese dallo spazio disponibile tra il quadrilatero del primo impianto e la obliqua via di Gambino, come manifesta il variare dello spessore murario lungo tale strada. Siamo negli anni in cui l’incarico di Architetto della Provincia era affidato a Natale Masuccio, sino al 1615 – data dell’arrivo di Tommaso Blandino – unico progettista della Compagnia: e quindi la paternità del progetto può essere attribuita al Masuccio, il cantiere al Blandino (che muore nel 1629), per giungere ai diversi completamenti, esterni ed interni, “in autonomia” nei decenni successivi.

Pochi gli studi su Santa Maria della Grotta. Il primo accenno (che erroneamente la indica come S. Luigi) è di Luigi Epifanio del 1950. L’autore evidenzia lo schema costruttivo «[volte e contrafforti visibili all’esterno] discendente dalla basilica romana, poi adottato in proporzioni ridotte per la Chiesa del Noviziato»: dobbiamo ricordare che alla data dell’autore il fianco dell’edificio su via delle Scuole non è ancora occultato dalla costruzione del muro e dei finestroni che celano la nuova “scala per gli uffici”. Non sono presenti riferimenti alla genesi della costruzione, né alcuna considerazione è fatta su pronao e coro, ma riportiamo, per assoluta comparabilità, le considerazioni sui cori della Concezione e della Badia Nuova: «uscendo da esso (coro) nell’unica e alta navata [si ha] un effetto simile a quello che nelle chiese a cupola produce lo slancio di questa oltre la quota delle volte». Relativamente al prospetto, se lo schema compositivo può per Epifanio ancora riferirsi a canoni rinascimentali (l’uso delle paraste che marcano sul prospetto la partizione longitudinale della pianta, l’ordine superiore la cui larghezza si limita a quella della navata, raccordandosi con l’inferiore mediante raccordi curvilinei), il linguaggio «è già ampiamente barocco, nella scelta degli elementi di raccordo e delle decorazioni, pur nella scarsa articolazione in profondità».

Nel 1994 Vincenzo Scuderi scriverà che «lo schema generale del prospetto si deve leggere come invenzione probabilmente del Masuccio (anche se successivamente realizzata), pur con l’assunzione parziale dei modi in uso nei prospetti palermitani antecedenti alla cosiddetta corrente gaginesca (S. Giorgio dei Genovesi ad esempio); specie per la scansione delle superfici mediante paraste poco aggettanti dal fondo. E ciò osservando, in particolare, la divisione tra i due ordini, che avviene mediante una doppia fascia, trabeazione ed attico, in totale difformità dalle facciate del tardo cinquecento locale (tutte ad elemento unico), e in piena consonanza con il prospetto della Chiesa del Collegio di Trapani, anche se in quest’ultima di ben maggiore rilievo plastico. O la forte plasticità di tutto il coronamento, dalla coppia di mensoloni al timpano curvilineo spezzato, con totale difformità dai chiusi e quasi piatti coronamenti delle chiese palermitane, e forte analogia col coronamento trapanese; la tipologia e morfologia delle volute di raccordo tra i due ordini, anch’esse simili al modello trapanese; il motivo dei mascheroni nel fregio, in corrispondenza dei capitelli delle paraste, che si possono apparentare, pur se di assai minore rilievo, a quelli del modello citato. Infine l’accentuata scanalatura interna ai bordi delle paraste, mai riscontrabile con tale accento in quelle delle chiese palermitane, spesso anzi piatte e con cornicetta aggettante».

Il tutto si condensa nella recente analisi di Emanuele Palazzotto: «La facciata rispecchia una propensione all’esuberanza plastica delle aggettivazioni decorative che potrebbe definirsi già di gusto barocco. Il piano murario rigidamente bidimensionale e ordinato secondo lo schema compositivo a due ordini raccordati da volute rimane tuttavia saldamente ancorato alla tradizione classicista. È soprattutto nel secondo ordine che si concentrano le componenti del nuovo linguaggio. Qui le paraste vengono sostituite da un composito sistema decorativo concluso da rigonfie mensole capovolte, la cui forma è ripetuta alla sommità delle volute di raccordo tra i due ordini»[45].

E giustamente Palazzotto asserisce che «lo slancio ascensionale era completato dalle due grandi statue di San Pietro e Paolo»[46]: ricordando le definizioni di orrenda, mostruosa, di alcun valore […] ricorrenti nei carteggi istituzionali nei primi decenni del XX secolo, l’attenzione verso lo “slancio ascensionale” ci sembra restituisca alla facciata di Santa Maria della Grotta, monca dei due apostoli, il suo pieno valore. Non molti gli altri esempi di prospetti chiesastici corredati da statue (a Casa Professa pure isolate, mentre a S. Matteo, alla Pietà o a S. Anna sono contenute in nicchie), e generalmente di più tarda realizzazione rispetto a Santa Maria della Grotta. Quanto alle possibili paternità di queste opere sicuramente in stucco (quindi “plasticate” e non scolpite), nessun nome è mai stato fatto nelle fonti e nelle descrizioni: gli anni di costruzione del prospetto di Santa Maria della Grotta sono quelli di attività, ad esempio, del toscano Gregorio Tedeschi e dei palermitani Giovan Battista D’Aprile, Nunzio La Mattina, Giovan Giacomo Cirasolo, quest’ultimo impegnato all’interno della nostra chiesa per la posa del pavimento in marmo. Spostando la collocazione delle statue alla data della consacrazione (1646) è un altro Tedeschi, Vincenzo, fratello di Gregorio, ad operare a Palermo: e non è possibile non riscontrare una forte somiglianza stilistica delle nostre con il S. Bartolomeo o il S. Simone già nell’Apostolato del Duomo di Messina, opere distrutte dopo il 1943[47].

Gli altari di Santa Maria della Grotta.

Abbiamo ampiamente descritto le vicende di queste pregevoli opere. E possiamo dedicare loro specifiche attenzioni, riferendoci ai tre altari oggi nella Cappella di S. Giuseppe dell’ex Collegio Gonzaga, consacrata nel 1923, e che circa un decennio dopo li ricevette. In alcune fotografie di cerimonie è visibile anche una balaustra di marmo rosso, oggi in pezzi nei magazzini dell’istituto, probabilmente anch’essa proveniente da Santa Maria della Grotta. I tre altari rimontati sono di due tipi, i due laterali praticamente gemelli. Cominciamo da questi, legati devozionalmente ai Sett’Angeli.

Dobbiamo premettere che il legame tra i Sett’Angeli e il Collegio è plurimo, come culto, opere e luoghi. Fu «Tommaso Bellorusso vicario dell’arcivescovo [che] in seguito all’apertura di una scuola di canto per i chierici nel 1516 all’interno di una chiesetta abbandonata rinvenne l’affresco con la raffigurazione dei Sett’Angeli […] Tra la fine del XVI e gli inizi del XVIII secolo, il gesuita Ottavio Caetani venne in possesso degli autografi del Bellorusso […] Fu dunque in questo momento che i manoscritti di cui ci occupiamo entrarono a far parte dei libri del Collegio»: dove ancora oggi si trovano, nel patrimonio di codici della Biblioteca. E sul legame tra culto e produzione artistica scrive Vincenzo Abbate: «È noto come il culto dei Sette Angeli (Michele, Gabriele, Raffaele, Tobiolo, Barachiele, Ieuridiele, Uriele e Salitiele) sorto a Palermo e diffuso a Roma dalla perseveranza e dalla devozione del prete cefaludese Antonio Lo Duca, fosse favorito sin dall’inizio dalla Compagnia di Gesù».

Ed eccoci ai nostri altari, dunque. I due laterali sono sovrastati da un ben lavorato scudo di marmo bianco, con corona a sette punte, con al centro le iscrizioni dorate su fondo nero riferite ai Sett’Angeli e tratte dal Libro dell’Apocalisse: in uno sette occhi, e la scritta: SUNT SEPTEM SPIRITUS DEI. APOC C.5.6 e nell’altro sette stelle e la scritta ANGELI SUNT STANTES IN CONSPECTU DEI APOC. C.1.20 ET C. 8.2: e infatti nel 1726 Mongitore scriveva che «Nella Chiesa del Collegio v’ha cappella a loro dedicata, nobilmente incrostata di marmi». Pregevole in entrambi (ma mortificata dalle statue antepostevi) la decorazione floreale del fondo, realizzata a mischio policromo (ocra, rosso, azzurro, bianco sul nero di paragone) e che sgorga da un vasone sorretto da due idre; evidente l’adattamento “costrittivo” allo spazio qui a disposizione. La mensa è di semplice geometria, una lastra sostenuta da volute ortogonali al fondo e poggianti su un festone di pomi e con l’apposizione, sul fronte, di una testina angelica; un paliotto centrale policromo (bianco, rosso, ocra, nero) a disegni geometrici reca, alle due estremità, testine soffianti. La parte subito sopra la mensa è formata da tre fasce intarsiate policrome, e quindi da due paraste, divise nell’altezza in una parte inferiore, con intarsi floreali, e una superiore dove sono apposte forse più tarde sculture di angioletti che sostengono il finto capitello e l’imposta della trabeazione.

L’altare centrale è più fastoso, e ben probabilmente riferibile ai noti lavori di “abbellimento” diretti da Angelo Italia sul finire del XVII secolo: potrebbe quindi trattarsi di quello dei SS. Ignazio e Francesco Saverio, per la probabile similitudine decorativa con quello di S. Luigi oggi allo Spasimo. La mensa poggia su una mossa struttura formata agli angoli da sguinciate volute che ampliano la sensazione di profondità, un fondo in marmo screziato verde chiaro con al centro un cartiglio con scudo blu su fondo rosso ed eleganti perfili (ocra sul fondo verde e blu sul fondo rosso) nel perimetro; il tutto è legato da una ricca lavorazione del marmo bianco a elementi vegetali. L’alzato è costituito da una coppia di colonne in marmo verde scuro, con capitelli sormontati da una rigorosa trabeazione con volute in marmo bianco, al cui centro è una “nuvola” scolpita con tre volti di angioletti alati; il fondo è realizzato sempre in marmo verde scuro, con elegante decorazione a mischio, di genere floreale, e di colore rosso-aranciato, nella parte alta della sono intarsiati due volti di putti che, dalla bocca, sostengono drappi. Tutte le parti mostrano evidenti segni di adattamento allo spazio a disposizione, per cui talune decorazioni appaiono resecate, altre di alterate proporzioni.

L’altare“dello Spasimo”

Con la locuzione altare dello Spasimo è ormai indicato l’altare marmoreo commissionato nel 1516 ad Antonello Gagini dal giureconsulto Giacomo Basilicò per la chiesa poi detta dello Spasimo: l’altare fu ultimato prima del 1519, e vi fu collocata la tela di Raffaello, detta Andata al Calvario o Spasimo di Sicilia. Le vicende delle parti gaginesche dell’altare si incrociano con Santa Maria della Grotta nel 1782 (assenti quindi i gesuiti) quando fu trasportato nella cappella di S. Luigi, e al posto del dipinto di Raffaello fu collocata l’icona marmorea del santo.Della sorte abbiamo detto, aggiungiamo qui che nel 1951 dal Museo Archeologico le parti dell’altare furono portate nella sede gesuitica di villa San Cataldo a Bagheria, nel 1986 si completò è il censimento dei frammenti, nel 1997 le parti tornarono allo Spasimo, per essere rimontato nella collocazione originaria, nel 2004 fu redatto il progetto per la struttura di supporto, nel marzo 2007 il Comune annunziò il “Via libera ai lavori di restauro del celebre altare attualmente scomposto in circa cinquanta pezzi e conservato nel complesso monumentale di Santa Maria dello Spasimo”. Via libera, ma ancora ferma!

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1 Per le vicende legate all’infiltrazione nel territorio dell’Ordine di Sant’Ignazio di Loyola, cfr. A.I. Lima, Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia. Fonti e documenti inediti, secoli XVI-XVIII, Novecento, Palermo 2001.

2 Guida istruttiva per Palermo e suoi dintorni, riprodotta su quella del Cav. D. Gaspare Palermo dal beneficiale Girolamo Di Marzo-Ferro, Tip. Pensante, Palermo 1858, pp. 439 e ss.

3 Per questa e le citazioni precedenti, cfr. G. L.Barberi, Vescovadi e Abbazie, a cura di I. Peri,Manfredi,Palermo 1962, pp. 139 e ss.

4 G. Mancuso, Chiesa di Santa Maria della Grotta: dal tabulario della Abbazia esistente presso l’Archivio di Stato di Palermo, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere, a.a. 1948/49, p. 13.

5 La vacanza dell’abbazia era attestata già nel 1515 (G.L. Barberi, Vescovadi...): cum in presentiarum vacet abbatia sancte Marie de cripta vulgo dicta de la grutta felicis urbis nostre Panormi morte eius ultimi possessoris. Il titolo di Commendatario (l’abate non eletto dalla Comunità dei monaci ma nominato dal Pontefice o dal Sovrano) era stato concesso nel 1444 da papa Eugenio ad Ambrogio, monaco benedettino abate di San Martino delle Scale, perché «il monastero era ridotto a mal partito per la negligenza di chi l’avesse retto» (G. Mancuso, Chiesa di Santa Maria della Grotta…, p. 37). L’ultimo abate era del casato dei Platamone, famiglia che aveva dato ospitalità ai primi padri giunti in città e che sarà benefattrice della Compagnia.

6 A. Mongitore, Palermo divoto di Maria Vergine e Maria Vergine protettrice di Palermo, vol. II, Bayona, Palermo 1719, p. 262.

7 G. Mancuso, Chiesa di Santa Maria della Grotta…, p. 105.

8 «A costituire [il Parlamento] concorrono tre classi di persone, chiamate i tre bracci del regno. Ed esattamente: tutti i prelati, di grande e di piccola entrata, la cui assemblea prende il nome di braccio ecclesiastico; tutti i baroni, che danno luogo al braccio militare; tutte le città regie, che compongono il braccio demaniale […] Questo braccio [ecclesiastico] è potente di per sé: per la consistenza numerica, per la ricchezza, per la reputazione di bontà e per il rispetto dovuto ai prelati». Cfr. S. Di Castro, Avvertimenti di Don Scipio Di Castro a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia (1577), Sellerio, Palermo 1992.

9 A. Narbone, Annali siculi della Compagnia di Gesù,Bondi, Palermo 1906, I, p. 165.

10 Archivio di Stato, Palermo, OCCH. 3731, p. 16v/25. Il capomastro Giuseppe Giacalone, nativo del quartiere del Capo, apparteneva a una famiglia di edificatori. Dal 1569 partecipa alla realizzazione di Porta Nuova, di Santa Maria la Nova e di S. Cita; dal 1576 è impegnato nella Chiesa di S. Sebastiano, nel 1583 inizia la Chiesa di S. Eulalia dei Catalani e tre anni dopo il Palazzo Castrone-Santa Ninfa, proprio di fronte all’erigendo Collegio Massimo.

11 O. Gaetani, Raguaglidelli ritratti della Santissima Vergine Nostra Signora più celebri, che si riveriscono in varie chiese nell’Isola di Sicilia. Aggiuntavi una breve relatione dell’origine e miracoli di quelli, Colicchia, Palermo 1654, ed. a cura della Facoltà Teologica di Sicilia, Oftes, Palermo 1991, p. 54.

12 L’intera città dalla fine del XVI fino alla metà del XVII secolo fu «un unico, grande, cantiere per l’edilizia religiosa, a detrimento dell’edilizia civile» (G. Bonanno, Il Barocco e Palermo. Creatività e memoria, Giada, Palermo 1985); dal 1566 al ’96 durò la costruzione d Santa Caterina, nel Piano Pretorio, dal 1593 al 1630 si lavorò alla distrutta chiesa di S. Demetrio (di cui sopravvive solo la Cappella de la Soledad) nel piano del Palazzo, dal 1598 al 1622 si costruisce Sant’Ignazio dei Filippini all’Olivella; dal 1601 al ’60 nella nuova via Maqueda sorgono S. Ninfa dei Crociferi e S. Nicolò da Tolentino degli Agostiniani; dal 1612 al ’45 nel Theatro del Sole si edifica l’imponente S. Giuseppe per i Padri Teatini. E ancora la filo-gesuitica Concezione al Capo (1604-12) e l’interno di S. Matteo sul Cassaro, (la cui innovativa facciata è del 1662).

13 Ruga Gambini de Thoris è un toponimo citato già nel 1441, quando “la maramma della Cattedrale entrò in possesso di un complesso di case nella strada del defunto messer Gambino”. L’odierna via delle Scuole assunse i nomi prima di vicolo della Neve, poi di Strada del ColleggioNuovo degli espulsi Gesuiti nel 1787, e nuovamente di vicolo della Neve nel 1889 (UnterItalien und Sizilien, Lipsia), 1892 (Handbook for travellers in Southern Italy, Londra) e 1914 (C. Piola, Dizionario delle strade di Palermo Amenta, Palermo, p. 173). L’intitolazione alla Neve rimanda alla presenza di una delle botteghe stabilite dal Senato per il bevere arrifriscato con la neve. Devo queste notizie al compianto Cesare Barbera, prodigo di amicizia e consigli.

14 Le chiese di rito greco «si svilupparono in quella zona della città dove il gruppo etnico era numeroso: la Galca, la zona compresa tra Sant’Andrea e San Nicolò in Kemonia fino a Santa Maria della Grotta e i SS. Quaranta Martiri, confinando con il quartiere degli ebrei […] e basiliano era il Monastero di San Cristoforo». Cfr. G. Mancuso, Chiesa di Santa Maria della Grotta..., p. 13.

15 Per la chiesa di S. Giorgio si veda M. Re, Il copista Matteo Sacerdote e la Chiesa di San Giorgio de Balatis (Palermo, 1260/1261), con una nota sulla presenza greca nella Palermo del Duecento, in “Rivista di studi bizantini e neoellenici”, n.s. 42 (2005), 2006.

16 V. Auria, Diario delle cose occorse nella Città di Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto dell’anno 1631 al 16 dicembre 1652 e Diario delle cose occorse nella Città di Palermo e nel regno di Sicilia dal di’ 8 gennaio dell’anno 1653 al 1674,ms. in Biblioteca comunale di Palermo ai segni Qq C64a e Qq A6 e 7, pubblicato in G. Di Marzo, Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia, vol. III, Pedone e Lauriel, Palermo 1869, p. 33.

17 La lapide (marmo, base cm. 136, altezza cm. 70,5) è stata ritrovata nel 2001 in un magazzino della Biblioteca, ed è stata ricollocata nel 2006 quasi nel suo posto originario (il retroprospetto “sopra la detta porta nel di dietro”, come testimonia O. Manganante, De parochiis panormitanis notitiae ac scripturae variae, ms. sec. XVII).

18 G.D. Onofrio, Scenographia de li apparati del Collegio di Palermo che si fecero per la canonizzazione di santo Ignazio di Lodola e santo Francesco Xaverio,Cirillo, Palermo 1622.

19 Ritroveremo, alla metà del secolo, i due apostoli anche come sculture sul prospetto della chiesa. «L’associazione dei gesuiti con questi due Santi risale al fondatore, sempre devoto di San Pietro e che all’intercessione dei due Santi faceva risalire la sua miracolosa guarigione, avvenuta alla vigilia della loro festività». Il Nadal nei suoi diari annota che «Pietro significa la fermezza e la direzione della nostra Compagnia e Paolo significa per noi i suoi ministeri». Quanto agli esempi, i due santi si ritrovano in Sicilia nella facciata della chiesa del Collegio di Caltagirone e a Napoli all’interno della chiesa del Gesù Nuovo.

20 C. Coscarella, Gli edifici sacri della Compagnia di Gesù, in I Gesuiti e l’architettura. La produzione in Italia dal XVI al XVIII secolo, San Fedele edizioni, Milano 1997, p. 25.

21 S. Francesco Borgia sarà “eletto Patrono della Città all’occasione dei violenti terremoti del 1693”, titolo poi attribuito anche ai gesuiti S. Stanislao (1699) e S. Luigi (1704).

22 G.M. Polizzi, Divus Franciscus Borgia Caeliferatlas a Collegio panormitano, Camagna, Palermo, 1672. Alcune fonti citano a questa data (1671) una «poco nota macchina eretta da Paolo Amato nel Cortile del Collegio Massimo», che potrebbe quindi collocarsi nel contesto di questi festeggiamenti.

23 Il passo in questione recita: «templum non humile, porticus Gymnadis fastigiatus parietes atrij impluvij arduos, aulam desuper peramplam literarj puelueris palaestram, ipsam quoque extimam execelsi aedificij molem ad coronatum usque superbae frontis supercilium […] Et templum quidem murales pilas assabrè elaboratas, principis altaris intercapedinem, & quidquid capax peristromatum nativo decori supererat».

24 Angelo Italia, dal 1673 indicato quale architetto della provincia, nel 1678 è a Palermo, dove progetta la Chiesa di S. Francesco Saverio, operando nel contempo anche a Messina (anche qui per la chiesa dedicata al santo gesuita), a Mazara per la fabbrica del Collegio, e poi a Polizzi e ancora a Palermo, a Monreale per la Cappella Roano nel Duomo, e a Mazzarino.

25 È doveroso citare l’unico studio dedicato al Collegio Massimo (studio, che, però, tace assolutamente su Santa Maria della Grotta) precedente i miei, e cioè la tesi di laurea di Maria Luisa Piccione del 1945, relatore Prof. Filippo Di Pietro, oggi presso la Biblioteca La Duca: e doveroso è anche il ricordo appunto del professore Rosario La Duca, alla cui affettuosa disponibilità devo i fondamenti bibliografici delle mie ricerche.

26 Cfr. tesi di laurea di Maria Luisa Piccione e L. Sarullo, Dizionario degli Artisti siciliani, vol. III - Scultura, a cura di B. Patera, Novecento, Palermo 1994, p. 254. Altre fonti indicano il coinvolgimento della famiglia Castelli «stuccatori palermitani allievi e collaboratori di Giacomo Serpotta. Domenico […] fu presente nella decorazione della Chiesa del Collegio Nuovo dei Gesuiti».

27 Per la chiesa di Santa Maria di Montevergine (a cui Ciprì lavora dal 1687 al 1702) è stata osservata la caratterizzazione impressa dal coro posto sull’ingresso principale nella pianta a nave unica con cappelle ricavate nello spessore murario: un’ulteriore variazione sul tema già della Badia Nuova (1620) e della Concezione (dal 1612), e, aggiungiamo noi, nella rinnovata Santa Maria della Grotta.

28 R. Ledda, Il teatro-giardino di marmo: la Chiesa dell’Immacolata Concezione di Palermo, Tesi di Laurea, Facoltà di Architettura, 1991p. 32, da Archivio di Stato, Palermo (poi ASPa), fondo Monastero della Concezione, vol. 87, p. 115; e S. Piazza, I marmi mischi nelle chiese di Palermo, Sellerio, Palermo, 1992, p. 24: «Lo stesso architetto [Angelo Italia] nel 1687 aveva preparato i disegni per la Cappella di San Luigi Gonzaga nella Chiesa del Collegio», traendo la notizia da ASPa, fondo Monastero della Concezione, vol. 87, pp. 94 e 95.

29 F. Meli, Degli architetti del Senato di Palermo nei secoli XVII e XVI, “Archivio Storico Siciliano”, IV/V, 1939, p. 56:«31 ottobre, si esegue facciata dell’organo ed altare di Santa Rosalia nella Chiesa del Collegio Nuovo dei PP. Gesuiti (ASPa, Giornale di Cassa del Collegio Nuovo)».

30 M. A. Riccobono, Il refettorio del Collegio Massimo dei Gesuiti a Palermo, in Le arti in Sicilia nel Settecento. Studi in memoria di Maria Accascina, Palermo, 1985, citando Meli e ASPa, Case ex gesuitiche, H 38, p. 216: «si pagano all’Amato cinque onze in contanti più cinquanta rotoli di cascavalli e due barili di vino come ingignero per ragione dei soi travagli».

31 F. Meli, Degli architetti del Senato…, p. 58.

32 Meli cita due documenti dell’Archivio di Stato di Palermo (vol. Collegio Massimo, p. 297), che testimoniano nel 1702 l’affidamento dei lavori al pittore, e nel 1703 la «vendita di vino per ricompensa delle opere di pittura».

33 F. Susinno, Le vite de’ pittori messinesi, a cura di V. Martinelli, Le Monnier, Firenze 1960, trascrivendo il testo del La Farina in “Lo Spettatore Zancleo” (1834).

34 A. Narbone, Annali siculi della Compagnia di Gesù...,I, p. 54.

35 Ormai “si trovava”, essendo scomparsa da decenni.

36 Guida istruttiva..., pp. 606-607.

37 A. Narbone, Annali siculi della Compagnia di Gesù…, IV, p. 13.

38 A. Narbone, Annali siculi della Compagnia di Gesù…, p. 7 e ss.

39 A. Leanza, Gli ultimi giorni dei Gesuiti in Sicilia nel 1860, Collegio Pennisi, Acireale 1924, p. 110.

40 G. Sala Contarini, Notizie intorno all’istituto, in Annuario del R. Liceo Ginnasio Vittorio Emanuele, anno scolastico 1922-23, Palermo 1924, p. 133.

41 Questo il testo riportato nel registro «Scuola Siciliana principio del Secolo XV. Dall’ex Collegio Gesuitico. Valore £. 15. Collocazione Magazzino n. 2. Descrizione: S. Pantaleo in piedi, fondo dorato con aureola, accanto alla testa dall’una e dall’altra parte, vi sta scritto in caratteri del sec. XV S. Pantaleon. Osservazioni: A dritta nella parte di sotto si ha la seguente iscrizione: S. PANTALEONIS MART: IMAGO SANTITATE ET ANTIQUITATE VENERABILIS INAE DE IPSI SACRA ET POSTEA AD AEDIFICATIONEM HUIUS COLLEGII SOC: IESU DIRUTA P. MULTOS ANNOS PIE CULTA AD PIETATIS MEMORIAM RECOLENDAM REFORMATA PICTORIS MANU HIC POSITA EST». La dedica è la stessa trascritta dal Mongitore nel 1726. Una traccia dell’opera è stata rinvenuta da Vincenzo Scuderi nel “Verbale di consegna da parte del Museo Nazionale in deposito temporaneo all’Arcivescovado” del 18 agosto 1947 tra la Direttrice del Museo di Palermo, Jole Bovio Marconi, e il Cardinale, Ernesto Ruffini: tra i diciotto “oggetti” si consegna anche «S. Pantaleone medico Nicomedio; ml. 2,70 x 1,40, oltre la cornice lasciata in deposito al Museo da una chiesa della Diocesi».

42 Tutte le notizie documentarie di questo paragrafo derivano dal contenuto di una carpetta fortunatamente individuata nell’Archivio della Soprintendenza per i beni culturali ed ambientali di Palermo, per la cui segnalazione ringrazio l’architetto Salvo Greco.

43 Quanto sopra viene verbalizzato il 6 giugno: «sono oggi convenuti i Signori Boselli Prof. Antonio quale direttore della Biblioteca, Calì Cav. Francesco direttore di Ricevitoria, Capo dell’Ufficio del Demanio assistito dal Sig. Previti Leonardo ingegnere, Comm. Valenti Francesco Sopraintendente all’Arte medievale e moderna, il Rev. Gulielmo Pennisi delegato da S.E. il Cardinale Arcivescovo Alessandro Lualdi, allo scopo di procedere alla consegna delle suppellettili immobiliari esistenti salvo a consegnare in altro tempo e a chi sarà le balaustre e le parti accessorie ornamentali in legno intagliato e dorato dell’organo e delle cantorie esistenti nel Cappellone della Chiesa e la campana di bronzo che si conserva nella Biblioteca Nazionale e con riserva di procedere alla consegna degli arredi sacri ed altro che trovansi in consegna al rettore del Convitto Nazionale ed al Direttore del Museo Nazionale in altro tempo. Si consegnano pertanto: l’altare maggiore costituito da marmi colorati ed in gran parte pietre dure, privo di importanza architettonica, decorato solamente nel basamento con bassorilievi di figura di legno dorato di poco pregio (sec. XIX). Sei altari di cui cinque con l’aggiuntamento completo delle tre parti costituite da colonne in marmo colorato rosso e verde, da cariatide mensole e fondi ad intarsio policromo a superficie piana e decorata con ornamenti a rilievo e inoltre la decorazione parietale di una cappella con colonne di marmo colorato e trabeazione a frontone di marmo bianco priva di altari. Cinque delle dette cappelle sono chiuse da balaustrate aventi balaustre di marmo a colore e il cappellone è chiuso pure da balaustrate marmoree ad intarsi le quali balaustre pure si consegnano. Una delle cinque cappelle cioè quella del Crocifisso contiene un fondale a griglia di legno dipinto di proporzioni due terzi del vero e la cui croce presenta nei fondali dei vetri colorati ad imitazione di agata. Nelle pareti della stessa cappella si trovano due reliquari chiusi da griglia pure di legno dorato».

44 Gli altari furono rimontati nella Chiesa del Collegio di Siracusa probabilmente ben dopo il 1930: infatti nei suoi testi Architettura Gesuitica. La Chiesa del Collegio di Siracusa (1928) e Arte Gesuitica (1930) Giuseppe Agnello nel descrivere le opere contenute in tale chiesa non li menziona.

45 E. Palazzotto, Chiesa del Collegio Gesuitico (S. Maria della Grotta), in E. Di Gristina, E. Palazzotto, S. Piazza, Le chiese di Palermo. Itinerario architettonico per il centro storico fra Seicento e Settecento, Sellerio, Palermo 1998,  pp. 117-121, a p. 117.

46 Ibidem.

47 Vedile pubblicate in S. Mazza, Gregorio e Vincenzo Tedeschi nel Seicento siciliano, in “Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti”, LXXVIII, Classe IV (2002), pp. 77 e segg.

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Temi di Critica - numero 9
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